Archive pour novembre, 2014

XXXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – LETTURE ED OMELIA

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XXXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – LETTURE ED OMELIA

I Lettura (Ez 34,11-12.15-17)

Dal libro del profeta Ezechiele
Così dice il Signore Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna. Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine.
Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia.
A te, mio gregge, così dice il Signore Dio: Ecco, io giudicherò fra pecora e pecora, fra montoni e capri.

Salmo (22)
Rit. Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla.

Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare.
Ad acque tranquille mi conduce. Rit.

Rinfranca l’anima mia,
mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome. Rit.

Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca. Rit.

Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni. Rit.

II Lettura (1Cor 15,20-26.28)
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita.
Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza.
È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte.
E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti.

Rit. Alleluia, alleluia.
Benedetto colui che viene nel nome del Signore!
Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide!
Rit. Alleluia.

Vangelo (Mt 25,31-46)
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
« Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.
Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: ‹Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi›.
Allora i giusti gli risponderanno: ‹Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?›. E il re risponderà loro: ‹In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me›.
Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: ‹Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato›.
Anch’essi allora risponderanno: ‹Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?›. Allora egli risponderà loro: ‹In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me›.
E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna ».

Omelia
L’odierno passo del Vangelo è collocato dopo le parabole delle vergini e dei talenti, nelle quali vi è un riferimento al giudizio finale di Dio. E’ il Cristo Re che esercita il potere di giudicare, dopo essersi fatto conoscere nella sua infinita bontà e aver presentato la legge d’amore del suo regno. E’ il Cristo Re, Buon pastore – Bel Pastore nel senso di modello perfetto a cui guardare -, che ha agito lungo il corso dei secoli per condurre gli uomini al suo dolce impero, e che alla fine del mondo separerà le pecore dai capri, prima di offrire il regno, frutto del suo sacrificio, al Padre (1Cor 15,24). Già gli uomini saranno stati separati dal giudizio particolare, ma la separazione finale riguarderà l’uomo nella sua interezza, non più solo anima, ma tutto l’uomo, e sarà udita dall’uomo nella completezza della sua persona. Il Giudice darà la motivazione della sentenza che farà entrare eternamente nel regno del Padre suo: « Perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero straniero… ». Sono tutte opere di carità verso i poveri, gli emarginati, i sofferenti, ma non sono semplici azioni: sono azioni che partono dal cuore, da un amore vero che nasce dalla stima dell’uomo quale creatura di Dio. I superbi non si piegano verso i bisognosi. Quando lo fanno è perché sono alla ricerca di consensi, ma le azioni per farsi vedere non salvano (Mt 6,1). Molti fanno del bene, ma davanti alle telecamere, e per il solo tempo della registrazione; non stanno accanto alla croce del fratello. Chi fa opere di carità per comparire generoso, grande, ha la sua ricompensa nel nulla della vanità (Mt 6,2). La carità vera si accompagna sempre con l’umiltà, non con il vanto (Mt 6,3): la carità e l’umiltà sono le due ali che fanno volare verso i cieli. L’amore verso il povero, verso colui che non ti può dar niente è un test del vero amore verso Dio.
Colui che superbo consuma il male di non riconoscersi relativo a Dio e bisognoso della sua misericordia non può amare il fratello povero, indigente. Non può riconosce al povero la sua dignità di persona fatta ad immagine e somiglianza con Dio. Chi non ha amore vero semina mali sulla terra, come è ben dimostrato dalla storia, come si vede ogni giorno. L’amore vuole il donarsi, il perdonare, il rinnegarsi, il non fare scandali, il credere in Dio e amarlo. Non si inganna Dio, egli vede le intenzione del cuore e giudicherà.
Le parole del Giudice nell’estremo giorno, che abbiamo ascoltato nel passo di Vangelo odierno, non vanno considerate come una descrizione esauriente del giudizio universale, ci sono altri passi che ne parlano accentuando altre note (Mt 7,21; 12,42; 24,31; Mc 8,38). Il testo che abbiamo ascoltato è focalizzato sugli uomini non venuti ancora a conoscenza di Cristo. Essi hanno seguito la legge dell’amore, sono stati legge a se stessi, e hanno seguito i palpiti che infondeva loro lo Spirito Santo, poiché esso agisce su tutti gli uomini di buona volontà, cioè pronti a cercare il vero, pronti ad amare.
I giusti che non hanno conosciuto Cristo diranno: « Quando mai ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare… ». Certo, fratelli e sorelle, incontrare l’uomo e vederlo in Dio, amato da Dio, e amarlo è un’anticipazione, anche se priva di consapevolezza, del seguire Cristo, il Verbo incarnato.
L’allegorico granello di senapa del regno dei cieli si sviluppa in terra in albero alla cui ombra si posano gli uccelli del cielo, e in cielo l’allegorico albero raggiungerà la sua splendida fioritura, che sarà l’immenso popolo dei risorti nella gloria. Allora il regno sarà consegnato al Padre, come dice il testo di Paolo, e diventerà il regno del Padre: « Venite benedetti del Padre mio ».
Gesù, che si presentava distante da ogni forma di regalità terrena, che parlava di un regno dei cieli in termini di lievito, di granello di senapa, di non apparenza, ribaltando tutte le idee che gli uomini di allora avevano di un regno, avrebbe avuto un’affermazione regale trionfale nell’ultimo giorno e per tutta l’eternità. La missione che il Padre gli aveva affidata si sarebbe conclusa con un atto universale che accomunava tutte le genti nel suo regno celeste, nessun uomo eccettuato.
Il Buon Pastore, che ha cercato le sue pecore, che ha dato la sua vita per le sue pecore per radunarle nell’ovile che è la Chiesa, la quale ha confini che vanno oltre i registri di Battesimo, dando loro i pascoli della verità, alla fine dei secoli giudicherà chi potrà entrare nel suo eterno gaudio. (Mt 25,1): “Bene, servo buono e fedele prendi parte alla gioia del tuo padrone” si sentirà dire colui che ha amato nella verità. “La gioia del tuo padrone”, cioè la gioia di Dio stesso. La gioia che c’è nelle eterne relazioni, senza cominciamento, tra le tre Persone divine, dell’unico Dio, perché rigorosamente una è l’Essenza. Dio è infinitamente beato in se stesso e ha creato l’uomo per renderlo partecipe della beatitudine infinita che ha in se stesso. Dio non è un monolite solitario che ha creato gli uomini e il mondo per fare qualcosa e avere di che superare la sua solitudine, ma è infinitamente felice in se stesso, infinitamente sufficiente in sé, infinitamente non solo in se stesso.
L’abbiamo compreso, Cristo è Re, e non solo riguardo alla Chiesa, ma riguardo a tutta la terra, a tutte le nazioni, a tutti i poteri. Egli è il Re dei re e il Signore dei signori (Ap 19,16) con diritto di abbattere quanti si oppongono alla sua regalità d’amore, ma anche infinitamente misericordioso nell’attendere la conversione di chi lo combatte. Nell’ultimo giorno, nel « giorno del Signore », nel « dies irae » egli ridurrà al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza, non solo della terra, ma anche dell’abisso, che cesserà di vomitare le sue insidie e sarà serrato per sempre in se stesso, nella sua legge, cioè l’odio.
Gesù ora esercita la sua regalità su di noi governandoci quale buon Pastore.
Il salmo ce lo descrive nella sua amabilità. Egli conduce il gregge a pascoli erbosi e ad acque tranquille, e un giorno lo introdurrà « alle fonti delle acque della vita » (Ap 7,17), cioè alla visione di Dio Uno e Trino, le cui tre Persone sono la fonte incessante, eternamente infinitamente ricca, della beatitudine dei beati nel cielo. Fratelli e sorelle, lasciamoci guidare da Gesù, fidiamoci di lui, seguiamo lui. Egli è il Re buon Pastore, che ci guida dove non avremo più fame, più sete, più pianto (Cf. Ap 7,16). I giusti hanno consolato i poveri, gli ammalati hanno visitato gli infermi: hanno amato lui, che si è identificato con loro. Noi li dobbiamo amare in lui con una pienezza d’amore che costituisce per noi gioia, ma anche responsabilità perché a chi più fu dato più sarà chiesto (Lc 12,48).
Amen. Ave Maria. Ave tu che con mano misericordiosa ci aiuti a non perdere mai di vista Gesù, il nostro Re e il nostro eterno Buon Pastore. Amen, Ave Maria. Vieni, Signore Gesù.

BENEDETTO XVI – COMMENTO AL SALMO 23

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20111005_it.html

BENEDETTO XVI – COMMENTO AL SALMO 23

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 5 ottobre 2011

SALMO 23

Cari fratelli e sorelle,

rivolgersi al Signore nella preghiera implica un radicale atto di fiducia, nella consapevolezza di affidarsi a Dio che è buono, «misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6-7; Sal 86,15; cfr Gl 2,13; Gn 4,2; Sal 103,8; 145,8; Ne 9,17). Per questo oggi vorrei riflettere con voi su un Salmo tutto pervaso di fiducia, in cui il Salmista esprime la sua serena certezza di essere guidato e protetto, messo al sicuro da ogni pericolo, perché il Signore è il suo pastore. Si tratta del Salmo 23 – secondo la datazione greco latina 22 – un testo familiare a tutti e amato da tutti.
«Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla»: così inizia questa bella preghiera, evocando l’ambiente nomade della pastorizia e l’esperienza di conoscenza reciproca che si stabilisce tra il pastore e le pecore che compongono il suo piccolo gregge. L’immagine richiama un’atmosfera di confidenza, intimità, tenerezza: il pastore conosce le sue pecorelle una per una, le chiama per nome ed esse lo seguono perché lo riconoscono e si fidano di lui (cfr Gv 10,2-4). Egli si prende cura di loro, le custodisce come beni preziosi, pronto a difenderle, a garantirne il benessere, a farle vivere in tranquillità. Nulla può mancare se il pastore è con loro. A questa esperienza fa riferimento il Salmista, chiamando Dio suo pastore, e lasciandosi guidare da Lui verso pascoli sicuri:

«Su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.
Rinfranca l’anima mia,
mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome» (vv. 2-3).

La visione che si apre ai nostri occhi è quella di prati verdi e fonti di acqua limpida, oasi di pace verso cui il pastore accompagna il gregge, simboli dei luoghi di vita verso cui il Signore conduce il Salmista, il quale si sente come le pecore sdraiate sull’erba accanto ad una sorgente, in situazione di riposo, non in tensione o in stato di allarme, ma fiduciose e tranquille, perché il posto è sicuro, l’acqua è fresca, e il pastore veglia su di loro. E non dimentichiamo qui che la scena evocata dal Salmo è ambientata in una terra in larga parte desertica, battuta dal sole cocente, dove il pastore seminomade mediorientale vive con il suo gregge nelle steppe riarse che si estendono intorno ai villaggi. Ma il pastore sa dove trovare erba e acqua fresca, essenziali per la vita, sa portare all’oasi in cui l’anima “si rinfranca” ed è possibile riprendere le forze e nuove energie per rimettersi in cammino.
Come dice il Salmista, Dio lo guida verso «pascoli erbosi» e «acque tranquille», dove tutto è sovrabbondante, tutto è donato copiosamente. Se il Signore è il pastore, anche nel deserto, luogo di assenza e di morte, non viene meno la certezza di una radicale presenza di vita, tanto da poter dire: «non manco di nulla». Il pastore, infatti, ha a cuore il bene del suo gregge, adegua i propri ritmi e le proprie esigenze a quelli delle sue pecore, cammina e vive con loro, guidandole per sentieri “giusti”, cioè adatti a loro, con attenzione alle loro necessità e non alle proprie. La sicurezza del suo gregge è la sua priorità e a questa obbedisce nel guidarlo.
Cari fratelli e sorelle, anche noi, come il Salmista, se camminiamo dietro al “Pastore buono”, per quanto difficili, tortuosi o lunghi possano apparire i percorsi della nostra vita, spesso anche in zone desertiche spiritualmente, senza acqua e con un sole di razionalismo cocente, sotto la guida del pastore buono, Cristo, siamo certi di andare sulle strade “giuste” e che il Signore ci guida e ci è sempre vicino e non ci mancherà nulla.
Per questo il Salmista può dichiarare una tranquillità e una sicurezza senza incertezze né timori:

«Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro
mi danno sicurezza» (v. 4).

Chi va col Signore anche nelle vali oscure della sofferenza, dell’incertezza e di tutti i problemi umani, si sente sicuro. Tu sei con me: questa è la nostra certezza, quella che ci sostiene. Il buio della notte fa paura, con le sue ombre mutevoli, la difficoltà a distinguere i pericoli, il suo silenzio riempito di rumori indecifrabili. Se il gregge si muove dopo il calar del sole, quando la visibilità si fa incerta, è normale che le pecore siano inquiete, c’è il rischio di inciampare oppure di allontanarsi e di perdersi, e c’è ancora il timore di possibili aggressori che si nascondano nell’oscurità. Per parlare della valle “oscura”, il Salmista usa un’espressione ebraica che evoca le tenebre della morte, per cui la valle da attraversare è un luogo di angoscia, di minacce terribili, di pericolo di morte. Eppure, l’orante procede sicuro, senza paura, perché sa che il Signore è con lui. Quel «tu sei con me» è una proclamazione di fiducia incrollabile, e sintetizza l’esperienza di fede radicale; la vicinanza di Dio trasforma la realtà, la valle oscura perde ogni pericolosità, si svuota di ogni minaccia. Il gregge ora può camminare tranquillo, accompagnato dal rumore familiare del bastone che batte sul terreno e segnala la presenza rassicurante del pastore.
Questa immagine confortante chiude la prima parte del Salmo, e lascia il posto ad una scena diversa. Siamo ancora nel deserto, dove il pastore vive con il suo gregge, ma adesso siamo trasportati sotto la sua tenda, che si apre per dare ospitalità:

«Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca» (v. 5).

Ora il Signore è presentato come Colui che accoglie l’orante, con i segni di una ospitalità generosa e piena di attenzioni. L’ospite divino prepara il cibo sulla “mensa”, un termine che in ebraico indica, nel suo senso primitivo, la pelle di animale che veniva stesa per terra e su cui si mettevano le vivande per il pasto in comune. È un gesto di condivisione non solo del cibo, ma anche della vita, in un’offerta di comunione e di amicizia che crea legami ed esprime solidarietà. E poi c’è il dono munifico dell’olio profumato sul capo, che dà sollievo dall’arsura del sole del deserto, rinfresca e lenisce la pelle e allieta lo spirito con la sua fragranza. Infine, il calice ricolmo aggiunge una nota di festa, con il suo vino squisito, condiviso con generosità sovrabbondante. Cibo, olio, vino: sono i doni che fanno vivere e danno gioia perché vanno al di là di ciò che è strettamente necessario ed esprimono la gratuità e l’abbondanza dell’amore. Proclama il Salmo 104, celebrando la bontà provvidente del Signore: «Tu fai crescere l’erba per il bestiame e le piante che l’uomo coltiva per trarre cibo dalla terra, vino che allieta il cuore dell’uomo, olio che fa brillare il suo volto e pane che sostiene il suo cuore» (vv. 14-15). Il Salmista è fatto oggetto di tante attenzioni, per cui si vede come un viandante che trova riparo in una tenda ospitale, mentre i suoi nemici devono fermarsi a guardare, senza poter intervenire, perché colui che consideravano loro preda è stato messo al sicuro, è diventato ospite sacro, intoccabile. E il Salmista siamo noi se siamo realmente credenti in comunione con Cristo. Quando Dio apre la sua tenda per accoglierci, nulla può farci del male.
Quando poi il viandante riparte, la protezione divina si prolunga e lo accompagna nel suo viaggio:

«Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni» (v. 6).

La bontà e la fedeltà di Dio sono la scorta che accompagna il Salmista che esce dalla tenda e si rimette in cammino. Ma è un cammino che acquista un nuovo senso, e diventa pellegrinaggio verso il Tempio del Signore, il luogo santo in cui l’orante vuole “abitare” per sempre e a cui anche vuole “ritornare”. Il verbo ebraico qui utilizzato ha il senso di “tornare”, ma, con una piccola modifica vocalica, può essere inteso come “abitare”, e così è reso dalle antiche versioni e dalla maggior parte delle traduzioni moderne. Ambedue i sensi possono essere mantenuti: tornare al Tempio e abitarvi è il desiderio di ogni Israelita, e abitare vicino a Dio nella sua vicinanza e bontà è l’anelito e la nostalgia di ogni credente: poter abitare realmente dove è Dio, vicino a Dio. La sequela del Pastore porta alla sua casa, è quella la meta di ogni cammino, oasi desiderata nel deserto, tenda di rifugio nella fuga dai nemici, luogo di pace dove sperimentare la bontà e l’amore fedele di Dio, giorno dopo giorno, nella gioia serena di un tempo senza fine.
Le immagini di questo Salmo, con la loro ricchezza e profondità, hanno accompagnato tutta la storia e l’esperienza religiosa del popolo di Israele e accompagnano i cristiani. La figura del pastore, in particolare, evoca il tempo originario dell’Esodo, il lungo cammino nel deserto, come un gregge sotto la guida del Pastore divino (cfr Is 63,11-14; Sal 77,20-21; 78,52-54). E nella Terra Promessa era il re ad avere il compito di pascere il gregge del Signore, come Davide, pastore scelto da Dio e figura del Messia (cfr 2Sam 5,1-2; 7,8; Sal 78,70-72). Poi, dopo l’esilio di Babilonia, quasi in un nuovo Esodo (cfr Is 40,3-5.9-11; 43,16-21), Israele è riportato in patria come pecora dispersa e ritrovata, ricondotta da Dio a rigogliosi pascoli e luoghi di riposo (cfr Ez 34,11-16.23-31). Ma è nel Signore Gesù che tutta la forza evocativa del nostro Salmo giunge a completezza, trova la sua pienezza di significato: Gesù è il “Buon Pastore” che va in cerca della pecora smarrita, che conosce le sue pecore e dà la vita per loro (cfr Mt 18,12-14; Lc 15,4-7; Gv 10,2-4.11-18), Egli è la via, il giusto cammino che ci porta alla vita (cfr Gv 14,6), la luce che illumina la valle oscura e vince ogni nostra paura (cfr Gv 1,9; 8,12; 9,5; 12,46). È Lui l’ospite generoso che ci accoglie e ci mette in salvo dai nemici preparandoci la mensa del suo corpo e del suo sangue (cfr Mt 26,26-29; Mc 14,22-25; Lc 22,19-20) e quella definitiva del banchetto messianico nel Cielo (cfr Lc 14,15ss; Ap 3,20; 19,9). È Lui il Pastore regale, re nella mitezza e nel perdono, intronizzato sul legno glorioso della croce (cfr Gv 3,13-15; 12,32; 17,4-5).
Cari fratelli e sorelle, il Salmo 23 ci invita a rinnovare la nostra fiducia in Dio, abbandonandoci totalmente nelle sue mani. Chiediamo dunque con fede che il Signore ci conceda, anche nelle strade difficili del nostro tempo, di camminare sempre sui suoi sentieri come gregge docile e obbediente, ci accolga nella sua casa, alla sua mensa, e ci conduca ad «acque tranquille», perché, nell’accoglienza del dono del suo Spirito, possiamo abbeverarci alle sue sorgenti, fonti di quell’acqua viva «che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14; cfr 7,37-39). Grazie.

 

« …sia fatta la tua volontà, così in cielo come in terra

 

Publié dans:immagini sacre |on 20 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO : IL COGNOME DI DIO

http://m.vatican.va/content/francesco/it/cotidie/2013/documents/papa-francesco-cotidie_20131217_cognome-di-dio.html

PAPA FRANCESCO

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA

DOMUS SANCTAE MARTHAE

IL COGNOME DI DIO

Martedì, 17 dicembre 2013

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIII, n. 290, Merc. 18/12/2013)

L’uomo è il cognome di Dio: il Signore infatti prende il nome da ognuno di noi — sia che siamo santi, sia che siamo peccatori — per farlo diventare il proprio cognome. Perché incarnandosi il Signore ha fatto storia con l’umanità: la sua gioia è stata condividere la sua vita con noi, «e questo fa piangere: tanto amore, tanta tenerezza».
È con il pensiero rivolto al Natale ormai imminente che Papa Francesco ha commentato martedì 17 dicembre le due letture proposte dalla liturgia della parola, tratte rispettivamente dalla Genesi (49, 2.8-10) e dal Vangelo di Matteo (1, 1-17). Nel giorno del suo settantasettesimo compleanno, il Santo Padre ha presieduto come di consueto la messa mattutina nella cappella di Santa Marta. Ha concelebrato tra gli altri il cardinale decano Angelo Sodano, che gli ha espresso gli auguri di tutto il collegio cardinalizio.
All’omelia, incentrata sulla presenza di Dio nella storia dell’umanità, il vescovo di Roma ha individuato in due termini — eredità e genealogia — le chiavi per interpretare rispettivamente la prima lettura (riguardante la profezia di Giacobbe che raduna i propri figli e predice una discendenza gloriosa per Giuda) e il brano evangelico contenente la genealogia di Gesù. Soffermandosi in particolare su quest’ultima, ha sottolineato che non si tratta di «un elenco telefonico», ma di «un argomento importante: è pura storia», perché «Dio ha inviato il suo figlio» in mezzo agli uomini. E, ha aggiunto, «Gesù è consostanziale al padre, Dio; ma anche consostanziale alla madre, una donna. E questa è quella consostanzialità della madre: Dio si è fatto storia, Dio ha voluto farsi storia. È con noi. Ha fatto cammino con noi».
Un cammino — ha proseguito il vescovo di Roma — iniziato da lontano, nel Paradiso, subito dopo il peccato originale. Da quel momento, infatti, il Signore «ha avuto questa idea: fare cammino con noi». Perciò «ha chiamato Abramo, il primo nominato in questa lista, in questo elenco, e lo ha invitato a camminare. E Abramo ha cominciato quel cammino: ha generato Isacco, e Isacco Giacobbe, e Giacobbe Giuda». E così via, avanti nella storia dell’umanità. «Dio cammina con il suo popolo», dunque, perché «non ha voluto venire a salvarci senza storia; lui ha voluto fare storia con noi».
Una storia, ha affermato il Pontefice, fatta di santità e di peccato, perché nell’elenco della genealogia di Gesù ci sono santi e peccatori. Tra i primi il Papa ha ricordato «il nostro padre Abramo» e «Davide, che dopo il peccato si è convertito». Tra i secondi ha individuato «peccatori di alto livello, che hanno fatto peccati grossi», ma con i quali Dio ugualmente «ha fatto storia». Peccatori che non hanno saputo rispondere al progetto che Dio aveva immaginato per loro: come «Salomone, tanto grande e intelligente, finito come un poveraccio che non sapeva nemmeno come si chiamasse». Eppure, ha constatato Papa Francesco, Dio era anche con lui. «E questo è il bello: Dio fa storia con noi. Di più, quando Dio vuol dire chi è, dice: io sono il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe».
Ecco perché alla domanda «qual è il cognome di Dio?» per Papa Francesco è possibile rispondere: «Siamo noi, ognuno di noi. Lui prende da noi il nome per farne il suo cognome». E nell’esempio offerto dal Pontefice non ci sono solo i padri della nostra fede, ma anche gente comune. «Io sono il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Pedro, di Marietta, di Armony, di Marisa, di Simone, di tutti. Da noi prende il cognome. Il cognome di Dio è ognuno di noi», ha spiegato.
Da qui la constatazione che prendendo «il cognome dal nostro nome, Dio ha fatto storia con noi»; anzi, di più: «si è lasciato scrivere la storia da noi». E noi ancora oggi continuiamo a scrivere «questa storia», che è fatta «di grazia e di peccato», mentre il Signore non si stanca di venirci dietro: «questa è l’umiltà di Dio, la pazienza di Dio, l’amore di Dio». Del resto, anche «il libro della Sapienza dice che la gioia del Signore è tra i figli dell’uomo, con noi».
Ecco allora che «avvicinandosi il Natale», a Papa Francesco — com’egli stesso ha confidato concludendo la sua riflessione — è venuto naturale pensare: «Se lui ha fatto la sua storia con noi, se lui ha preso il suo cognome da noi, se lui ha lasciato che noi scrivessimo la sua storia», noi da parte nostra dovremmo lasciare che Dio scriva la nostra. Perché, ha chiarito, «la santità» è proprio «lasciare che il Signore scriva la nostra storia». E questo è l’augurio di Natale che il Pontefice ha voluto fare «per tutti noi». Un augurio che è un invito ad aprire il cuore: «Fa’ che il Signore ti scriva la storia e che tu lasci che te la scriva».

 

IL SILENZIO DI DIO

http://www.orarel.com/pensieri/coccolini/silenzio_dio.htm

IL SILENZIO DI DIO

di Giacomo Coccolini

«Il silenzio, più della parola, rimane
la sostanza e il segno di ciò che fu il
loro universo e, come la parola,
il silenzio s’impone e chiede di essere
trasmesso».

Wiesel, Al sorgere delle stelle

Da più parti, nel mondo laico come in quello credente, sembra essere sempre più avvertita l’esigenza di ascoltare parole non consunte dal tempo o dalle mode – una sorta di viatico capace in quest’ora di confusione di confortare le coscienze e mostra­re vie alternative a questo disagio che sta squassando ogni cosa. [1] Finita l’epoca delle sintesi falsamente risolutive, in cui le contraddizioni potevano essere consegnate ad un futuro che le avrebbe finalmente redente, l’uomo è rinvia­to al suo cuore – il cen­tro di ogni battaglia – là dove «ognuno con­duce da solo e in prima persona la sua lotta, e con la sua vittoria il mondo cambia» [Jünger]. Questo è il momento in cui bisogna fermarsi a pensare, per cercare di capire la situazione in cui ci muoviamo, dove i sentimenti del mostruoso e del terribile si confondono con l’ango­scia di chi sembra non aver più nulla da sperare.
Ma esiste ancora qualcosa in cui il cuore dell’uomo può restare saldo e, lì, consistere? E’ possibile per l’uomo ascoltare ancora una parola di salvezza? L’uomo è an­cora capace di tanto? Oppure è Dio che tace, Lui, «la sottile voce di silenzio», co­me ha af­fermato il rab­bino Benedetteo Ca­rucci Viterbi riprendendo un significa­tivo midrash [2] sul libro dell’Esodo (cap. 15, 11) – che di fronte ad Auschwitz è sem­brato rin­tanarsi in un mutismo più assordante di tutti i silenzi?
La teologia e la filosofia, così come molta della letteratura contemporanea, si so­no soffermati – quasi piegati davanti a quell’ir­redimibile Golgota che è Auschwitz [3] – a riflettere sullo scandalo pro­veniente dal silenzio di Dio e da quello che, con sguardo tragicamente premonitore, Martin Buber ebbe a chiamare l’eclissi di Dio: «L’ora in cui viviamo è caratterizzata dall’oscuramento della luce celeste, dall’eclissi di Dio» [4] .
Tale senti­mento, anche in riferimento ad avveni­menti della so­ria passata e recente del po­polo ebraico, è stato elevato a condizione normale di un’epoca sprofondata in un’immane crisi di valori che ha cominciato a speri­men­tare su di sè il nichilismo più estremo. Nietzsche, Do­stoe­vskij, Heidegger, Kafka, Celan, Wiesel, insieme a moltissimi altri sismografi dello spirito, si so­no fatti te­sti­moni eloquenti di una condizione di povertà e «spaesamento metafi­sico» che, nell’investire la civiltà dalle fondamenta, ha com­portato, come ef­fetto-boomerang, una sorta di nostalgia del di­vino. [5] Allo stesso tempo, però, ha cominciato ad essere posta la domanda, trasformatasi poi in grido e invocazione [H.M.Woschitz], se questo silenzio di Dio non sia in verità il suo modo particolarissimo di comunicare con l’uomo e se, dal punto di vi­sta biblico, almeno per ciò che riguarda l’Antico Te­stamento, il rapporto tra ‘si­len­zio di Dio’ e ‘parola di Dio’ sia più dialettico di quanto non sembri a prima vi­sta e, quindi, più misterioso, di modo che credente e non credente vengono messi ra­di­calmente in que­stione non solo dalla parola di Dio ma soprattutto dal silenzio di Dio [6] .
E’ stato André Neher ne L’esilio della parola [7] ad affermare che «il silenzio costi­tuisce il paesaggio della Bibbia» dove il Signore non può essere conosciuto faccia a faccia ma solo da die­tro, a terga: «Io farò passare davanti a te tutta la mia bontà [...] ma tu non potrai vede la mia faccia, perchè un uomo non può vedere me e vivere [...] Quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della roccia, ti coprirò con la mia mano. Poi ritirerò la mia mano e mi vedrai da dietro, ma non potrai vedere la mia faccia» (Es. 33, 18-23). « Dio » de­signa quindi «il Luogo dove tutto si spiega – ha affermato Stefano Le­vi Della Torre – e, contemporaneamente, il luogo dell’inesplicabile. Dio diventa in un certo senso un ossimoro: è l’insplicabile dove tutto si spiega»; è una «dimensione paradossale». [8]
Questo modo di interrogare la Bibbia, per cui l’«instabilità dell’immagine di­vi­na» diventa la nota caratteristica di Dio, pur nella molteplicità delle tradizioni culturali a cui ci si può richiamare, evidenzia una gamma particolar­mente ampia di possibilità da parte dell’uomo di parlare di Dio (teo-logein). Paolo De Benedetti, nel suo Intervento alla Cattedra dei non-credenti [9] , così come nel suo testo Ciò che tarda avverrà da poco pubblicato [10] , ha richiamato l’attenzione, a par­tire dal testo biblico, sull’impossibilità di costruire una teolo­gia consolatoria «dopo Au­schwitz». «Il chiedere conto a Dio è come un filo rosso o un filo nero che percorre tutta la tradizione ebraica: da Giobbe a Qohelet fino ai processi a Dio nella tradi­zione e nella leg­genda chassidica». [11] Proprio per questo bisogna, a suo parere, desi­stere dal par­lare con troppa sicurezza di Dio: potremmo mentire su di Lui e, affer­mando cose che fanno parte delle nostre modalità rappre­sentative, farci un Dio a nostra imma­gine e somiglianza (Es. 32). Il mondo biblico scagliandosi contro l’idolatria e contro un sacralismo esasperato, pre­dilige un’immagine simbolica del volto di Dio: «Il Dio della Bibbia si rivela sostan­zialmente come il Simbolo per eccellenza, cioè come colui che unisce in sè i poli estremi, i perfetti contrari e tutta al gamma intermedia delle colorazioni dell’es­sere. Nell’infinito divino avviene una « sim-bo­lica » coincidentia oppositorum». [12] Dio resta più grande dell’orizzonte di questo mondo – ha detto Bruno Forte – «anche quando per un atto gratuito della sua libertà, e dunque per amore, si autocomunica al cuore umano entrando nella storia. [...] Re-velare viene pertanto a dire l’atto del passaggio dal velato allo sco­perto, lo svelamento del precedente­mente nascosto, ma non esclude mai del tutto una reduplicazione, un permanere del velo, anzi un suo in­fittirsi mediante la ripeti­zione, proprio nell’atto in cui sembra che venga tolto (analogamente si potrebbe dire del significato originario di apoka­lúpto, toglimento della copertura, che non esclude un rinfor­zarsi di essa)». [13] Ma questa simbolicità tipicamente biblica del volto di Dio non richiama forse la ne­cessità di una teologia negativa? Non diventa necessaria – come ha mostrato nella sua insonne ricerca Italo Mancini – una «logica dei doppi pensieri», ripren­dendo così quanto Dionigi l’Areopagita nella Teologia mistica (III, 1033 C) aveva ri­co­nosciuto, e cioè che di fronte all’incognito di Dio ogni discorso umano di­venta ??????, muto? [14] Termimi quali dolore messianico e impo­tenza di Dio, così am­piamente ri­presi da larga parte della teologia e della filosofia contemporanea (basti pensare a Dietrich Bonhoeffer e alla sua lettura ‘non religiosa’ della Bibbia e ad Hans Jonas con la sua ricerca di un nuovo « concetto di Dio dopo Auschwitz »), hanno per­messo di ritro­vare nella figura di Dio non tanto una risposta esau­stiva ad ogni domanda umana quanto, piuttosto, un «interlocutore delle domande di senso» e in special modo un interlocutore di tutte quelle domande che vivono lo scandalo della sofferenza inutile. [15] Di fronte a questa che se ne sta con­ficcata nella realtà come una sorta di ‘iattu­ra’ senza redenzione, un autore come Dostoevskij ha potuto affermare che essa, proprio a causa della sua irredimibilità, esprimerebbe il fallimento della creazione, l’assurdità del mondo e, di conse­guenza, la non-accettazione di un Dio simile. E’ nei Fratelli Karamazov, nella figura di Ivan, che erompe tutto lo scandalo di questa sofferenza, sperimentata soprat­tutto dagli idioti e dai bambini. Essa, restando senza senso, risulta incompatibile con l’esistenza stessa di un Dio giusto. Ivan – ha scritto Pareyson – «è disposto ad ammettere il ca­rattere trionfale ed esaltante dell’armonia finale, in cui non rimarrà nulla d’ingiustificato e d’incomprensibile per la mente umana, e ogni contrasto sa­rà elimi­nato fra gli uomini, tutti ugualmente redenti e redenti dal male, riscattati dal dolo­re, liberati dal bisogno e sa­ziati dalla sete di giustizia» [16] ; ma di fronte alla soffe­renza dei bam­bini l’utopia di una riconciliazione finale finisce in pezzi. Non solo Dostoevskij ha riflettuto su tale immane questione ma Albert Camus ne L’uomo in rivolta, Reinhold Schneider in Winter in Wien e Elie Wiesel ne La notte – per non ricordare che tre dei nomi più eminenti – po­trebbero porsi come testimoni privile­giati di queste domande espresse de profundis.

Il silenzio di Dio davanti alla sofferenza inutile diventa quindi lo spazio attraverso cui l’uomo viene interrogandosi, la possibilità, sperimen­tata in mezzo alla vita, di­cendole sì ogni momento – per riprendere un’immagine cara a Bonhoef­fer – di chiedere a Dio di rispon­dere finalmente alle nostre domande; e questo per­chè «l’alleanza, come la coscienza ebraica ha sempre creduto con ostinata fede, com­porta ob­blichi bilaterali, da parte cioè dell’uomo e di Dio. [...] L’esistenza del dolo­re ingiusto « salva » Dio solo se c’è un tempo o un luogo (parole estremamente im­proprie per la vita del mondo che verrà) in cui egli si spieghi e ci spieghi. La bontà del mondo è una moneta ormai troppo svalutata; la responsabilità dell’uomo o la finitezza degli es­seri sono semplici rinvii all’interno del triste mistero. Dio, in quanto nostro alleato, ci è debitore di una spiegazione: per questo crediamo in lui e nella vita futura. [...] Non ci sono parole utili, finchè non parlerà lui» [corsivo no­stro]. [17] Il compito dell’uomo resta invece quello di cercare, insonnemente cercare, «nella flebile voce che rimbomba» [B. Carucci Viterbi], il messaggio di Dio che continua a parla­re all’uomo che abita il proprio tempo. Questo Dio non si rivela nel frastuono, nè nel­le voci assor­danti del mondo, così come non si rivela in ciò che molto spesso adoriamo – quegli idoli che «hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono» (Sal. 115, 5). Il si­lenzio di Dio non resta solo un’enigma che lo studio dell’uomo do­vrà prima o poi sciogliere – come afferma la tradizione rabbi­nica – ma ri­manda all’evento del si­lenzio di Dio Padre che sulla croce, abbando­nando il Fi­glio, risuona nel grido: «Dio mio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato?» (Mat. 27, 46). In quell’abbandono – co­me ha detto von Balthasar – è presente l’icona di Dio che sulla croce si infrange in una non-forma, ma «nonostante tutto non è infranta, perchè proprio nell’infrangersi mondano rivela, in modo univocamente non-dialettico, l’infrangi­bilità dell’amore divino». [18] Solo così questo silenzio impo­tente può diventare il luogo della re­denzione – la voce più assordante di tutte le voci – in cui possono risuonare gli alta silentia di Dio e l’umanità presente ritrova, intatta, l’icona di ogni grido e di ogni invo­ca­zione.
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[1] . Basterebbe leggere la sintesi del 26 Rapporto su La situazione sociale del Paese 1992 in Censis. Note e com­menti 10-12 (1992).
[2] . Il termine Midrash deriva dal termine ebraico darash (ricercare, sondare, interpretare) ed è «il tentativo – così ha scritto G. STENBERGER [Il Midrash. Uso rabbinico della Bibbia. Intro­duzione, testi, commenti, Deho­nia­ne, Bologna 1992, p. 8] – di penetrare più profondamente nel linguaggio della rivelazione. (…) Ponen­dosi con cura all’ascolto del testo, prestando at­tenzione anche ai minimi dettagli linguistici, si cerca di sondare le profondità della rive­lazione, di sperimentare la continua presenza di Dio, di convincersi della solidità delle sue promesse». Il testo di BENEDETTO CARUCCI VITERBI, Una sottile voce di silenzio è contenuto nel volume Chi è come te fra i muti? L’uomo di fronte al silenzio di Dio, lezioni promosse e coordinate da Carlo Maria Martini, Garzanti, Milano 1993, pp. 75-84 [VI sessione della Cattedra dei non-credenti]. Il termine «voce di silenzio sottile» per designare l’impercettibilità di Dio è preso da I Re 19, 12.
[3] . E’ stato X.TILLIETTE [La settimana santa dei filosofi, Morcelliana, Brescia 1992, pp. 101-102] a riprendere la questione del rapporto tra la filosofia e la sofferenza assoluta sperimentata ad Auschwitz ri­prendendo la domanda fatta da Adorno ne La dialettica negativa: «Si può filosofare dopo Auschwitz?». Per Tilliette, «tra un Prima colmo di premonizioni e un Dopo tormentato da paure, la filosofia ha vacillato sotto il colpo dell’olocausto, non si è più rimessa dallo shock, il malheur l’ha stregata, è entrata nella sua fase cri­tica, se si mantiene all’espressione la sua ambiguità». Cfr. J. KOHN/J.B.METZ, Auschwitz in Dizionario delle questioni re­ligiose del nostro tempo, Queriniana, Brescia 1992, pp. 42-46 e C.THOMA, Olocausto in Lessico dell’incontro ebraico-cristiano, Queriniana, Brescia 1992, pp. 171-174. Ultimamente E. WIESEL – J.M.LUSTIGER – R. SÜSSMUTH – W. BARTOSZEWSKI, Per non dimenticare Auschwitz, Piemme, Milano 1993.
[4] . M. BUBER, L’eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, Mondadori, Milano 1992.
[5] . Sulla questione ultimamente è intervenuto J. IMBACH, Nostalgia di Dio, Studium, Roma 1992. Bisogna però notare che gli effetti di tale condizione di disincanto si sono fatti sentire nel bene come nel male. Ba­ste­rebbe considerare il fenomeno del fondamentalismo – tema che in questi ultimi anni è diventato centrale per la comprensione dell’orizzonte tardo-modermo – dal punto di vista di un tentativo di compensazione nei confronti di una realtà ‘scarica’ di Assoluto. Per un primo approccio al problema cfr. E. PACE, Il regime della verità. Il fonda­mentalismo religioso contemporaneo, Il Mulino, Bologna 1990 e il n. 4(1991) di Sette e Religioni dedicato a Il fon­damentalismo di matrice cristiana.
[6] . La fenomenologia del typos del credente e del non credente, così come la loro reciproca dialettica, sono stati ri­presi da un punto di vista biblico, pur se con intenzioni diverse, nella relazione di E. BIANCHI, L’incredulità del cre­dente, pp. 95- 104 e nell’intervento di M. CACCIARI, pp. 105-109 in Chi è come te fra i muti? su cui torne­remo. Sul tema del silenzio e della parola si possono vedere utilmente M. BALDINI e S. ZUCAL (a cura di), Le forme del silenzio e della parola, Morcelliana, Brescia 1989 e Il silenzio e la parola da Eckhart a Jabès, Morcelliana, Brescia 1990.
[7] . L’edizione francese originale è del 1970 ma in Italia è stato tradotto dalla Marietti, Casale Monferrato 1983. Il sottotitolo del libro suona: Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz.
[8] . Pp. 21. Il testo di S. LEVI DELLA TORRE, Forse [in Chi è come te fra i muti?, pp. 18-32] si interroga sul ‘luo­go’ occupato dall’uomo che vive «tra» due versanti del divino che gli si manifestano e che, contempora­neamente, possono caratterizzare due modalità di ‘visione’ del divino qualitativamente differenti: l’una, rap­presentata dalla possibilità da parte dell’uomo-Mosè di vedere Dio da dietro; l’altra, rappresentata dall’im­possibilità da parte dell’uomo-Mosè di vedere Dio in faccia: «Dunque un lato visibile, un ditro-verso noi; e una parte invisibile – la faccia: due versanti del divino, verso di noi e verso di Lui: rivelazione e inaccessi­bilità» (p. 22). Un altro filosofo ebraico contemporaneo – E. Levinas – parlerà della possibilità da parte dell’uomo di cogliere solo le tracce di Dio.
[9] . In Chi è come te fra i muti?, pp.33-41.
[10] . Edizioni Qiqajon, Magnano 1992. Per una nota sulla teologia di De Benedetti cfr. I. BERTOLETTI, Tra domande dell’attesa e interpretazione della Legge. Una nota sulla teo-logia di Paolo De Benedetti in Humanitas, 1 (1993) pp. 127-131
[11] . P. DE BENEDETTI, Intervento in Chi è come te fra i muti?, p. 38.
[12] . G. RAVASI, I volti di Dio nella Bibbia in I volti di Dio. Il Rivelato e le sue tradizioni, a cura di E. Guerriero e A. Tarzia, Paoline, Milano 1992, pp. 59-68, cit. p. 65.
[13] . B. FORTE, Gli «alta silentia» e l’autocomunicarsi di Dio: silenzio, parola, incontro. Un dialogo teologico con hegel, Schelling e Barth in L’ombra di Dio. L’ineffabile e i suoi nomi, a cura di E. Guerriro e A. Tarzia, Paoline, Milano 1991, pp. 103-125, cit. p. 119.
[14] . I. MANCINI, Doxa. Debolezza e forza di Dio in L’ombra di Dio, pp. 141-183. Sulla ‘logica dei doppi pen­sieri’ Mancini è intervenuto in Teologia e filosofia. Per una logica della fede in Scritti cristiani, Marietti, Genova 1991, pp. 13-28.
[15] . Sulla questione cf. L. PAREYSON, La sofferenza inutile in Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed espe­rienza reli­giosa, Einaudi, Torino 1993, pp. 170-217.
[16] . Così L. PAREYSON, La sofferenza inutile, p. 185. Scrive Dostoevskij ne I fratelli Karamazov [Vol. I, Mi­la­no, p. 313]: «Non vale, essa [cioè, la suprema armonia] le povere lacrime foss’anche di quel bambino so­lo, che straziato si batteva col minuscolo pugno sul petto, e nel fetido suo canile pregava con le sue lacrime ir­riscattabili il « buon Gesù »! Non vale, perchè queste piccole lacrime rimarranno irriscattate, altrimenti non potrebbe sussitere l’armonia. Ma in che modo, in che modo vorresti mai riscattarle? Ti pare una cosa pos­sibile? Forse col dire che saranno vendicate? »
[17] . P. DE BENEDETTI, Ciò che tarda avverrà, pp. 11-113.
[18] . H. URS VON BALTHASAR, Il Linguaggio di Dio in Homo creatus est, Morcelliana, Brescia 1991, pp. 271-302, cit. p. 295.

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Ministry of the Apostles: Russian icon by Fyodor Zubov, 1660

 Ministry of the Apostles: Russian icon by Fyodor Zubov, 1660 dans immagini sacre 800px-ApostleFedorZubov

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NON PREOCCUPARTI DI NULLA

http://www.rosee.org/page81.html

ARTICOLO MENSILE: NON PREOCCUPARTI DI NULLA

(traduzione Google dal francese)

Rallegratevi in ogni momento qualsiasi cosa il Signore è per voi. Sì, dico, rallegro. Fatti conoscere dalla vostra gentilezza verso tutti gli uomini. Il Signore è vicino. Si fa a mettere in ansia per nulla, ma in ogni cosa, esporre le vostre richieste a Dio. Invia lui le vostre preghiere e richieste, in lui come dicendo il vostro riconoscimento. E la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà il vostro cuore e le vostre menti in Cristo Gesù. Infine, fratelli, nutrono la mente da tutto ciò che è vero, nobile, giusto, puro, degno di amore o di approvazione, tutto ciò che merita rispetto e la lode. Ciò che avete imparato, ricevuto da me, che cosa avete sentito dire e ho visto lui, metterlo in pratica. Poi il Dio che dona la pace sarà con voi . Filippesi 4: 4-9

E ‘facile dire non ti preoccupare di nulla Filippesi 4: 6, ma è la Parola di Dio ci dice. Si tratta di un suggerimento? È un ordine? Ad ogni modo, Dio ci consiglia e abbiamo ordinato, che è alla nostra portata. Il Signore non chiede mai le cose al di là della nostra portata. Egli conosce i nostri limiti, le nostre debolezze, eppure questo è ciò che chiediamo.

La preoccupazione è negativo: si toglie la nostra pace, che ci impedisce di dormire, può anche causare malattie di degradazione fisica o mentale. La preoccupazione è un peso che toglie la nostra pace. Naturalmente vogliamo sbarazzarci delle nostre preoccupazioni, ma come?

Paolo scrive ai Filippesi, mentre era in prigione. Ha vissuto queste cose è per questo che consiglia e perché vogliamo ricevere e vivere.

Rallegratevi nel Signore, sempre, di nuovo gioire Filippesi 4: 3

Paolo chiarisce che è nel Signore. Guardate al Signore. Abbiamo fiducia in lui e Pietro ci dice che la nostra fede è molto più preziosa dell’oro. Abbiamo preoccupazioni materiali, perdita di nostra proprietà, anche la nostra salute, ma abbiamo ancora la fede in Cristo, più prezioso che i tesori della terra.
Gesù nei suoi momenti difficili ha mantenuto la gioia; Come? I nostri occhi su Gesù, il quale per la gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia, e si è assiso alla destra di Dio. Ebrei 12: 2 Qual è stata la gioia di Gesù era se avrebbe tornare alla destra di Dio e con la sua morte, moltitudini sarebbero stati con lui in eterno.

La nostra gioia deriva dai nostri occhi incentrata su Gesù. Il salmista dice: Quando volgiamo lo sguardo verso di lui, non vi è raggiante di gioia . Cercare il volto di Dio, la comunione con Gesù ha vinto e si sedette alla destra di Dio.
Se vogliamo vivere nella gioia, dobbiamo sbarazzarci delle nostre preoccupazioni. Come?

La preghiera di rendimento di grazie
, ma in tutte le cose possiamo pregare per ogni cosa. Alcuni non hanno il coraggio di pregare per problemi al giorno per i loro piccoli problemi. Egli ritiene che il grande Dio dell’universo non è interessato nel nostro piccolo fastidio. Ricordate che Dio è nostro padre e tutta la nostra vita interessi. Dio non ha creato anche piccoli insetti e lui non ci avrebbe aiutato nei nostri piccoli problemi. E condividere con lui è quello di avere più comunione con Lui.

Fare le vostre richieste a Dio Una buona domanda da porsi: è che si tratta di una necessità o è un capriccio? Dio parla bene alle nostre esigenze. A volte siamo preoccupati per cose inutili, quindi lascia perdere. Ma se si tratta di un bisogno, farlo conoscere a Dio. Alcuni non chiedono Dio e il loro ragionamento umano, si dice che Dio conosce tutti i nostri bisogni, in modo che non si aspettano di ricevere. Dio vuole che noi abbiamo contatti con lui, stavamo parlando di lui. Parliamo delle nostre esigenze con estranei, perché non parlare con il vostro Padre celeste. Non si riceve, perché non si chiede Jacques ha detto nella sua lettera.

Attraverso la preghiera e la supplica Sai cosa disse Gesù in preghiera. Quando preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo che è nel segreto; e il Padre tuo che vede nel segreto, ti ricompenserà. Matteo 6: 6 Il Padre celeste è nel segreto, e Lui vi aspetta quando vede sei arrivato, vede il suo bambino che viene a lui a parlare. Questo è ciò che il Padre ama, la presenza e la fiducia di suo figlio. Si capisce perché la preoccupazione va? Questa è la presenza del Padre ci rassicura. Suppliche, preghiere vengono ripetute. Non abbiate paura di ritornare a Dio con la stessa preghiera fino a che non si sente.

Con ringraziamento. Dio si aspetta il riconoscimento del suo bambino. I genitori si applicano a dire grazie al loro bambino. Dio si aspetta il nostro ringraziamento e non è vietato dire grazie in anticipo per quello che ci darà. La pace di Dio mantiene i nostri cuori e le menti Se siamo attenti a ciò che dice la Parola, ecco come sarà la pace su di noi per tenerci al posto di preoccupazione, ma in modo da pregare, rendere grazie a Dio. Il risultato: la pace di Dio verrà a voi per tenervi. Sarà una barriera tra voi e preoccupazione.

Sarà come un guardiano al tuo cuore così cattivi pensieri e sentimenti negativi non entrano in te. Non si capisce perché i problemi prima che si sarà in pace. Questa pace sovrasta i nostri pensieri. Fidati la pace di Dio, piuttosto che la vostra intelligenza. Ci vuole umiltà per arrivare e deve avere l’atteggiamento di un bambino che non si preoccupa se sa che il suo papà e la sua mamma si prende cura di tutto. I vostri pensieri e cuori saranno conservati in Gesù Cristo, in comunione con lui. Le preoccupazioni degli Stati Uniti dalla presenza di Cristo, la pace ci riporta a Lui.

Non credere nel male, ma quello che è
i fratelli resto, tutto ciò che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, degno approvazione, virtuoso e lodevole, è l’oggetto dei nostri pensieri. I pensieri sono il cuore del nostro cibo e la nostra vita spirituale. Non deve dominare i nostri pensieri noi, ma la Parola di Dio ci dice di orientare i nostri pensieri, per dar loro da mangiare ciò che è buono. Se ho passato un’ora a guardare un film violento o impuro, è sicuro che i pensieri malvagi venire a vivere nel mio cuore e anche i miei sogni. Parlando di Gesù, il profeta Isaia poteva dire: Chi è cieco, è sordo come il mio servo! Ci sono alcune cose che Gesù non voleva sentire o vedere. Che sono poco puliti. Ci sono alcune cose che un cristiano non deve guardare, non ascoltare. Nell’Antico Testamento, la legge richiedeva di non mangiare certe carni perché erano impuri. Ma egli dirà che non è il cibo che ci contaminano, ma i pensieri che vengono dal cuore. Noi non accetteremmo mangiare mangiare in un piatto sporco, cibo sporco. . Non accettare nutrire i nostri pensieri con la corruzione del nostro mondo

La pratica della Parola di Dio Paolo cita quattro modi per arricchire la loro vita spirituale: Ciò che avete imparato: Apriamo la Parola, si sente un predicatore di imparare cose sul nostro cammino con Dio. Un figlio di Dio è chiamato a imparare sempre da Dio.

Che cosa si riceve: Quando ascoltiamo il messaggio della Parola di Dio, possiamo rifiutare pensando che non è per noi. Dobbiamo accogliere con tutto il cuore che ci dice la Parola, dobbiamo fare un messaggio di benvenuto dalla Parola di Dio, anche quando ci prende nel nostro modo di agire.
Ciò che avete sentito: « Ci peggior sordo di chi non vuol sentire « , dice un proverbio. Ascoltiamo senza sentire. Quando impariamo, dobbiamo tenere in memoria, nel cuore. Deve salire a bordo della Parola nel suo cuore.

E quello che hai visto in me: Ci sono alcuni messaggi che passano più forte perché sono visti. L’esempio vivente di Paolo, le sue lotte, il suo amore per i credenti, sincero affetto per il popolo di Dio fosse visibile. La pratica e la vita vissuta, la sua testimonianza sono stati messaggi per i figli di Dio.

Praticate. Questa non è una novità, ci sono bambini che amano leggere la Parola di Dio, sono felici quando leggono un buon libro cristiano, sentito un buon predicatore. Hanno solo piace, ma sono sorpreso dal fatto che le preoccupazioni e le preoccupazioni sono ancora lì e che ricevono nessun aiuto da parte di Dio. Paolo insiste sul fatto che l’esortazione e finisce per dare un ordine: Practise. Il medico scrive una prescrizione per curare la sua malattia, si acquista il farmaco. Questo è un bene, ma se non si prendono regolarmente come è scritto sulla prescrizione, che cosa serve? E ‘lo stesso con la guida della Parola. Jacques combattere questo atteggiamento nella Chiesa primitiva: facitori della Parola di Dio, e non si limita ad ascoltare. Perché se uno ascolta la parola di Dio e non pratica, è come un uomo che guarda in uno specchio la sua faccia naturale, e, dopo aver guardato, se ne va, e dimenticare come esso è. Jacques 1: 22 a 24. Immaginate la mattina si accede al bagno, si guarda allo specchio e si va senza lavarsi, senza pettinatura … Vuoi osare, e si va al lavoro o uscire città?

Il Dio della pace, che cammina con noi
E Dio sia con voi PACE. Quale migliore protezione contro le nostre preoccupazioni. Quando Dio vede che abbiamo tutte queste cose, il Dio che ci ha riconciliati con Cristo, Colui che ha fatto la pace con noi attraverso il sacrificio di Gesù, ci accompagnano. Che amiamo Dio, che è nostro Padre è sempre in pace. Se mi rivolgo il mio sguardo al mio Padre celeste, al Dio della Pace, vedo che il mio Dio che conosce la mia situazione meglio di me, riposa in pace, allora perché sono io che vado a preoccuparsi. . Io lo scarico delle mie preoccupazioni, so che veglia su di me, per cui condivido la pace di Dio
Lasciamo che la Parola di Gesù conclude: Chi di voi da preoccuparsi, può aggiungere un’ora sola di la sua vita? Quindi non preoccupatevi per il domani. Ogni giorno come viene. Cercate prima il regno e la giustizia; e saranno date tutte queste cose vi. Matteo 6: 25-34. di Edward Kowalski  

IN UN VOLTO IL SEGRETO DELLA GIOIA CRISTIANA

http://www.parrocchiadirovellasca.it/leggendo/articolibollettino/appunti_gioiainunvolto.asp

IN UN VOLTO IL SEGRETO DELLA GIOIA CRISTIANA

don Ivano in Bollettino Parrocchiale, aprile 2009

Credente nell’evangelo, nella buona notizia, il cristiano risponde con la gioia all’evento della salvezza portata da Gesù Cristo. La gioia è dunque coestensiva alla fede cristiana; non è una possibilità, ma una responsabilità del credente. Responsabilità che discende dall’evento pasquale con cui Dio ha resuscitato Gesù Cristo e dischiuso agli uomini la speranza della resurrezione. Tutto l’evangelo è racchiuso fra l’annuncio della grande gioia della nascita del Salvatore a Betlemme (Lc 2,10) e la gioia esplosa all’alba del primo giorno dopo il sabato, il giorno della resurrezione (Mt 28,8). Ma per comprendere cosa significhi che la vita cristiana è segnata dalla gioia occorre interrogarsi sull’esperienza umana della gioia. Se anche non riusciamo a definirla in modo esauriente, pure della gioia noi tutti abbiamo un’esperienza. È come un vertice dell’esistenza, una sensazione di pienezza in cui la vita appare nella sua positività, come piena di senso e meritevole di essere vissuta.
Con Hans Georg Gadamer potremmo cogliere la gioia come rivelazione: « La gioia non è semplicemente una condizione o un sentimento, ma una specie di manifestazione del mondo. La gioia è determinata dalla scoperta di essere soddisfatti ». Nell’esperienza della gioia la nostra quotidianità conosce una sorta di trasfigurazione: il mondo si dona a noi e noi entriamo nella gioiosa gratitudine: « Il solo rapporto della coscienza alla felicità è la gratitudine » (Th. W. Adorno). Si è grati di essere nella gioia. La gioia è esperienza di pienezza di senso che apre il futuro dell’uomo consentendo la speranza. Essa connota un determinato rapporto con il tempo: vi può infatti essere una gioia dell’attesa (l’attesa dell’arrivo di una persona cara, l’attesa di una nascita, ecc), una gioia per una presenza, e una gioia del ricordo (o, se si vuole, il ricordo della gioia: la gioia vissuta nel passato viene riesperita nel ricordo e grazie ad esso).
Questo è particolarmente evidente nella festa, che è la gioia di essere insieme: quando inizia e quando finisce la festa? Non è facile rispondere perché la festa esiste già nella gioia di chi l’attende e la prepara, ed esiste ancora nella gioia di chi la ricorda. Ma poi la gioia è connessa all’esperienza positiva dell’altro e dell’incontro con l’altro. È significativa la formula di saluto di molte culture: il greco chaire (lett. « rallegrati ») è augurio di gioia nel momento dell’incontro con l’altro; ma anche lo shalom ebraico (e termini affini in altre lingue semitiche) augura all’altro una situazione in cui possa sperimentare la gioia. Insomma, possiamo dire che la gioia è esperienza che coinvolge la totalità dell’esistenza umana e che emerge con forza nei momenti dell’amore (le gioie dell’amicizia e dell’amore) e della convi-vialità (dove il mangiare insieme è celebrazione per eccellenza della gioia di vivere e di vivere insieme).
Credo non sfugga a nessuno come queste dimensioni siano assunte e innestate in Cristo nell’Eucaristia: è « con gioia » che il cristiano rende grazie (‘Ringraziate con gioia il Padre »: Col 1,12) e l’Eucaristia è gioia nella memoria dell’evento pasquale rivissuto nell’oggi e atteso nel suo compimento escatologico quando verrà il Signore nella gloria. Ed è gioia, espressa particolarmente dal « bacio santo », per la comunione che la presenza del Cristo crea fra i credenti: « Vedersi insieme gli uni gli altri all’Eucaristia è sorgente di una gioia traboccante » (san Gerolamo). Questa gioia « in Cristo », è dunque una gioia umanissima, non dimentica delle dimensioni corporee e relazionali della stessa, e così essa culmina nel pasto eucaristico, dove il simbolo conviviale si carica, in Cristo, della dimensione di profezia del banchetto escatologico. Vi è infatti una dimensione escatologica della gioia cristiana, che si evidenzia soprattutto come « gioia anche nelle tribolazioni » (2Cor 7,4; Col 1,24), cioè come gioia che non viene meno pur nelle situazioni di sofferenza e di contraddizione.
Questo non significa certo dire che il cristiano non conosca più tristezze o dolori che escludono assolutamente la compresenza della gioia. Ma significa che la gioia cristiana abita nel profondo del credente e consiste nella sua vita nascosta con Dio. È la gioia indicibile e gloriosa (IPt 1,8-9) di chi ama Cristo e già vive con lui nel segreto della fede. È la gioia che nessuno può estirpare perché nessuno può impedire al cristiano di amare il Signore e i fratelli anche in situazioni estreme: i martiri sono lì a ricordarcelo. È la gioia a caro prezzo di chi assume la condizione di temporalità e mortalità e fa del suo ineluttabile scendere verso la morte una salita al Padre, un cammino pieno di speranza verso il Signore, verso l’incontro con Colui il cui volto tanto ha cercato nei giorni della sua esistenza.
Per questo la gioia nel Nuovo Testamento è un comando apostolico: « Rallegratevi senza posa nel Signore, lo ripeto, rallegratevi » (Fil 4,4); essa infatti è una dimensione di cui già si può fare esperienza, ma è anche gioia veniente alla quale acconsentire, gioia piena nell’incontro definitivo, faccia a faccia con il Signore. Essendo una sua responsabilità, il cristiano deve esercitarsi alla gioia, da un lato per sconfiggere lo spiritus tristitiae che sempre lo minaccia, dall’altro perché non può privare il mondo della testimonianza della gioia sgorgata dalla fede. È la gioia dei credenti, infatti, che narra al mondo la gloria di Dio! Questo, infatti, chiedono gli uomini: « Mostri il Signore la sua gloria: e voi credenti fateci vedere la vostra gioia! » (Is 66,5).

 

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The oldest known icon of Christ Pantocrator, encaustic on panel (Saint Catherine’s Monastery)

The oldest known icon of Christ Pantocrator, encaustic on panel (Saint Catherine's Monastery) dans immagini sacre 640px-Spas_vsederzhitel_sinay

http://en.wikipedia.org/wiki/Christ_Pantocrator

Publié dans:immagini sacre |on 18 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

GESÙ MAESTRO DI SAPIENZA

http://www.donatocalabrese.it/jesus/sapienza.htm

GESÙ MAESTRO DI SAPIENZA

Nei libri del Nuovo Testamento sono presenti dei testi che parlano della sapienza di Dio o che, a proposito di Gesù, ricorrono ad espressioni che l’Antico Testamento utilizza per parlare della Sapienza…
Non si può negare che molti discorsi di Gesù sono simili a quelli dei saggi. Gli abitanti di Nazaret se ne sono resi conto considerando Gesù superiore agli scribi (G. Ravasi, Sapienza, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, ed. Paoline, pag. 1432). Infatti nel Vangelo secondo Matteo leggiamo:
« Quando Gesù ebbe finito questi discorsi, le folle restarono stupite del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi »(Mt 7,28-29).
Lo stesso insegnamento di Gesù espresso in parabole è a carattere sapienziale, tanto è vero che anche i rabbi d’Israele, chiamati saggi, utilizzano la parabola per spiegare ai discepoli il senso di un testo della Scrittura (cfr. G. Ravasi, Sapienza, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, ed. Paoline, pag. 1432).
Quindi la predicazione del Maestro si caratterizza per molti discorsi a carattere sapienziale. E’ il caso del celebre discorso della montagna o delle beatitudini (Mt 5,7), oppure quello tenuto nella sinagoga di Cafarnao e relativo al Pane di vita (Gv 6).
Accanto a questi discorsi ad ampio respiro ci sono anche delle massime a carattere sapienziale, come questa: « Tutti quelli che mettono mano alla spada, di spada periranno » (Mt 26,52), « Chi vuol salvare la propria vita, la perderà (M6 16,25), oppure « Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio » (Mt 22,21), e tantissime altre.
Quindi nella predicazione del Nazareno capita spesso di esprimersi come i saggi di Israele. Ma alcuni testi del Nuovo Testamento, a cominciare dai Vangeli Sinottici, vanno oltre, attribuendo a Gesù ciò che l’Antico Testamento attribuisce alla Sapienza personificata, come leggiamo in questo brano del Vangelo secondo Matteo:
« Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero » (Mt 11,28-30).
Gesù parla come il saggio del libro del Siracide: « Avvicinatevi a me o ignoranti, fermatevi nella mia casa per istruirvi…., sottomettete il collo al suo giogo [della Sapienza]« (51,23-26); ma nello stesso testo, al capitolo 6, la medesima immagine del giogo è più esplicitamente applicata all’insegnamento della Sapienza stessa: « Introduci i piedi nei suoi ceppi ed il collo nei suoi lacci. Abbassa le tue spalle per caricartela, non infastidirti per i suoi legami…Alla fine otterrai il tuo riposo, si muterà per te in godimento »(Sir 6,24-25).
Nel Vangelo secondo Matteo Gesù dice: « La regina del sud si leverà a giudicare questa generazione e la condannerà, perché essa venne dall’estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone; ecco, ora qui c’è più di Salomone! »(Mt 12,42; anche Luca 11,31).
Salomone esprimeva una Sapienza ricevuta da Dio; possiamo dunque pensare che in Gesù si esprime una Sapienza più grande, la Sapienza stessa di Dio (G. Ravasi, Sapienza, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, ed. Paoline, pag. 1440s.).
In un altro passo del Vangelo redatto da Matteo, Gesù dice: « Perciò ecco, io vi mando profeti, sapienti e scribi; di questi alcuni ne ucciderete e crocifiggerete, altri ne flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città » (Mt 23,34). Il brano parallelo di Luca è presentato, invece, in maniera diversa: « Per questo la sapienza di Dio ha detto: Manderò a loro profeti e apostoli ed essi li uccideranno e perseguiteranno »(Lc 11,49).
Quindi, Luca evidenzia come la Sapienza di Dio sembra essere Gesù stesso che, in conclusione, fa proprie le parole della stessa Sapienza di Dio: « Si, ve lo ripeto… »(Lc 11,51).
In Matteo leggiamo: « Alla Sapienza è stata resa giustizia dalle sue opere » (Mt 11,19). Si comprende chiaramente che queste opere che rendono giustizia alla Sapienza sono le « opere di Cristo ».
Questi testi che dipendono probabilmente dalla stessa fonte comune a Matteo e Luca, la fonte Quelle, che significa Detti, i Detti di Gesù, sono molto discussi. Non affermano in modo esplicito che Gesù è la Sapienza, lo suggeriscono solamente (per tutto questo: G. Ravasi, Sapienza, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, ed. Paoline, pag. 1440s.).
Tutto quanto è stato detto in riguardo a Gesù Maestro di sapienza è riportato nei Vangeli. Ma a questo punto a noi interessa il Gesù storico, che è al centro della nostra ricerca. Siamo sicuri, cioè che il Gesù Maestro di sapienza, anzi il Gesù che s’identifica con la stessa Sapienza di Dio, come descritto in filigrana nei Vangeli, sia un attributo del Gesù terreno, quello veramente esistito duemila anni fa? La risposta non può essere che affermativa, ed ora vediamo perché.
Alle origini della predicazione cristiana, troviamo l’attività missionaria dei predicatori itineranti della Galilea (Cfr. Pius-Ramon Tragan, La preistoria dei Vangeli, Ed. Servitium, pag. 108). Un movimento nato con la stessa predicazione di Gesù. Pietro e i primi discepoli hanno seguito il Maestro in Galilea e l’hanno accompagnato a Gerusalemme (Mc 14,32-42.66-72) ; poi, dopo la cattura del Maestro, sono tornati in Galilea, dove Gesù è apparso loro (Mc 14,28; 16,7), continuando a tenere rapporti con gli altri gruppi di discepoli rimasti a Gerusalemme (Gal 1,19; Atti 12,17) (Pius-Ramon Tragan, La preistoria dei Vangeli, Ed. Servitium, pag. 136).
Questo movimento giudeo-cristiano di predicatori itineranti non è durato molto, ma da esso è scaturito un messaggio assimilato da altre correnti del Cristianesimo primitivo. Dall’humus di questo movimento derivano: la fonte Quelle, che come abbiamo detto, raccoglie i Detti di Gesù, ed il Vangelo di Tommaso, che è apocrifo.
La fonte Q si caratterizza per un contenuto a carattere sapienziale ed è nata, come fonte scritta antecedente ai Vangeli, dall’ambiente degli ascoltatori diretti di Gesù. Ricevendo la sua predicazione l’hanno compresa e sviluppata secondo gli schemi della sapienza popolare (Cfr. Pius-Ramon Tragan, La preistoria dei Vangeli, Ed. Servitium, pag. 137).
Tutti gli insegnamenti sapienziali di Gesù, i suoi Detti, le parabole, raccolti nella fonte Q, Quelle, sono stati quindi elaborati, dapprima oralmente, poi in diverse redazioni, dai predicatori itineranti di Galilea e successivamente da altri discepoli Galilei non itineranti.
La fonte Q è presente, a parere unanime degli studiosi, nei Vangeli di Matteo e di Luca, e comprende aspetti importantissimi dell’insegnamento del Maestro come le Beatitudini e la preghiera del Padre nostro. Quindi, questa caratterizzazione sapienziale di Gesù, così come ci viene presentata dai Vangeli, è tipica di questa fonte Q che, a parere della stragrande maggioranza di studiosi, è antecedente alla stessa redazione dei Vangeli, quindi molto vicina al Gesù storico.
Andare all’origine della fonte Q per ricostruirne la preistoria, quella che ci presenta il Gesù terreno e non filtrato attraverso i vari stadi redazionali, conduce ad un’altra interessante scoperta avallata da Kloppenborg (The Formation of Q: Trajectories in Ancient Wisdom Collections, (Studies in Antiquity and Christianity), Philadelphia 1987, 1-40, in Pius-Ramon Tragan, La preistoria dei Vangeli, Ed. Servitium, pag. 162) che porta ad una conclusione: l’idea di Gesù Maestro di sapienza è ampiamente fedele al Gesù storico.
J.S. Kloppenborg individua uno strato più originario che raccoglieva unicamente materiale etico-sapienziale, ripartito in sei unità (I: Lc 6,20b-49; II: 9,57-62; 10,2-11.16; III: 11,2-4.9-13; IV: 12,2-7.11-12; V: 12, 22b-31.33-34; VI: 13,24; 14,26-27; 17,33; 14,34-35), raccolto insieme secondo il modello tradizionale delle « istruzioni dei saggi »(Pius-Ramon Tragan, La preistoria dei Vangeli, Ed. Servitium, pag. 162).
Secondo gli studiosi l’ordine originario si ricostruisce meglio da Luca, rispetto a Matteo.
Come abbiamo detto prima, parallelamente ai lógia della fonte Quelle, c’è un’altra collezione di massime che va sotto il nome di Vangelo diTommaso. La scoperta di Nag Hammadi, nell’Alto Egitto, ha portato, nel 1948, all’individuazione di una redazione copta di questo testo. Anche qui, gli studiosi hanno rilevato che una prima versione di tipo sapienziale di questa fonte è stata messa in circolazione probabilmente verso gli anni 50 d.C. E, come per la fonte Quelle, che origina da una tradizione sapienziale, così il Vangelo di Tommaso, che nonostante il nome non è canonico, quindi non è riconosciuto dalla Chiesa primitiva, contiene un insegnamento sapienziale originario. Infatti un carattere proprio del Vangelo di Tommaso è di essere il primo scritto della tradizione non canonica che contiene parabole di Gesù. Ora, poiché l’insegnamento delle parabole è una delle caratteristiche del Gesù terreno, le parabole del Vangelo di Tommaso potrebbero appartenere a una fase molto primitiva della tradizione gesuanica, cioè risalente direttamente a Gesù.
Pur essendo di uno stile minore rispetto alle parabole dei Vangeli sinottici, queste contenute nel Vangelo di Tommaso in alcuni casi potrebbero essere più originali (la perla, la pecorella smarrita, la luce sul lampadario, il seminatore, la zizzania, il banchetto) e più primitive (la giara e la farina, la spada dell’assassino) (Pius-Ramon Tragan, La preistoria dei Vangeli, Ed. Servitium, pag. 174s.).
Tutto questo ci induce a pensare che tra le immagini che i discepoli e gli ascoltatori si sono fatti del Gesù terreno, questa del Maestro di Sapienza è una delle più fedeli all’originale storico.
Come detto in precedenza, il Nuovo Testamento non identifica mai esplicitamente Gesù con la Sapienza, pur attribuendogli molto di quello che i testi dell’Antico Testamento attribuivano alla sapienza. Questo succede perché Gesù supera infinitamente la Sapienza quale potevano conoscerla i saggi dell’Antico Testamento; la Rivelazione del Nuovo Testamento è allo stesso tempo in continuità e in rottura con quella dell’Antico Testamento.
E’ solo in epoca successiva che Gesù sarà esplicitamente detto Sapienza di Dio. Questo titolo cristologico è rimasto lungo tutto il corso della storia cristiana. Tra i testimoni più significativi ricordiamo Origene (III secolo), il beato Enrico Suso (1335), San Luigi Maria Grignion de Montfort. E se da una parte il giudaismo riconosce nella tôrah la Sapienza di Dio, il cristiano, per parte sua, proclama nella fede, che Dio si è rivelato pienamente in Gesù, presenza di Dio tra gli uomini, Emmanuele, ed è per questo che Gesù è detto Sapienza di Dio (per tutto questo: G. Ravasi, Sapienza, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, ed. Paoline, pag. 1441s.).

Publié dans:biblica, GESÙ: MAESTRO |on 18 novembre, 2014 |Pas de commentaires »
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