Archive pour octobre, 2014

San Paolo della Croce

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Publié dans:immagini sacre |on 20 octobre, 2014 |Pas de commentaires »

SAN PAOLO DELLA CROCE – 19 OTTOBRE

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SAN PAOLO DELLA CROCE – 19 OTTOBRE

Il motto paolino “noi predichiamo Cristo Crocifisso” fu alla base della spiritualità del nostro Santo e costituisce anche il segreto del suo apostolato, caratterizzato da un ardente desiderio di vedere distrutto il regno di Satana e riconquistare le anime a Dio, anche a costo della vita.
Un giorno rapitolo in estasi, Gesù lo nascose nelle sue piaghe adorabili e dopo averlo investito della Sua luce celeste, gli svelò l’orribile trama dei peccati del genere umano e fu allora che il cuore di S. Paolo si infiammò al punto che quando predicava la passione di Gesù, sembrava che da un momento all’altro la sua anima dovesse staccarsi dal corpo. Nessuno sapeva parlare della Passione di Cristo come il padre Paolo.
Spesso diceva: “Vorrei, se mi fosse possibile, attaccar fuoco di carità per bruciare non solo chi ci passa vicino, ma anche i popoli lontani, perché tutti amino e conoscano il Sommo Bene”. Il suo modo di vivere è già una testimonianza viva del Mistero, ma quando alza il dito in segno di ammirazione e indica il Crocifisso dicendo: “Un Dio morto per me…” si sente il pianto della gente che ascolta commossa. S. Paolo della Croce aveva ricevuto da Dio il dono di sapere entrare in sintonia psicologica e spirituale con chi lo ascoltava e se piangeva lui, non poteva non piangere chi sentiva le sue parole.
S. Paolo della Croce nasce ad Ovada (Alessandria) il 3 gennaio 1694 e si chiama Paolo Francesco Danei. Ricevette i primi insegnamenti della fede dalla mamma Anna Maria che ebbe, su questo bambino, particolari intuizioni spirituali, fin dalla gestazione. Gli insegnò ad amare la Passione di Gesù e ad affezionarsi alla preghiera e alla mortificazione. Sempre i Santi si formano sulle ginocchia della madre. Paolo cresce in santità e, ancora ragazzo, piano piano si alza dal letto, sale in soffitta e davanti ad un altarino, prega, nascosto. Poi dorme su due assi, il capo su mattoni. Là in un angolino c’è una boccettina di fiele. Paolo lo sa e ogni venerdì ne beve un po’, perché anche Gesù lo ha bevuto. Tutte queste cose le sa solo il fratello Giovanni Battista che si unisce con lui in quegli esercizi di mortificazione.
S. Paolo compirà i suoi primi studi dai padri Carmelitani e sarà particolarmente attratto dalla dottrina e dalla spiritualità dal “dottore mistico” S. Giovanni della Croce. Nel 1714 Paolo ha quella che lui chiamerà la “seconda conversione”. Ascoltando l’omelia di un parroco, decide di fare una confessione generale e di arruolarsi nell’esercito per combattere contro il Turco, ma un giorno mentre prega davanti all’Eucaristia riceve l’ispirazione di lasciare l’esercito e di “indossare una povera tonaca nera, andare scalzo e vivere in povertà, radunando compagni per promuovere nelle anime il santo timore di Dio”.
Una sera, in una via solitaria, la Vergine gli appare e gli parla. È vestita di nero: scalzi i piedi, una cinta di cuoio e una corona pendente ai fianchi, un cuore bianco in petto con la scritta “La Passione di Gesù”. Gli disse: “Figlio, tu dovrai fondare una congregazione in cui si faccia memoria della Passione del mio Gesù” e gli mostrò un flagello su cui stava scritto «Amore». Poi scomparve.
Un punto fermo nelle peregrinazioni di Paolo è rappresentato dalla permanenza sul monte Argentario, anche se percorse in lungo e in largo l’Italia Centro-Occidentale per predicare la Parola della Croce, spingendo intere popolazioni ad un serio rinnovamento spirituale.
Nel romitorio del Monte Argentario Paolo condusse vita ascetica col fratello Giovanni Battista. Dormivano quasi quattro ore, di notte, sulle nude assi e la loro mensa era sempre piena di radici di piante condite con aceto. Trascorrevano giornate intere a parlare con Dio e di Dio. Scendeva dal ritiro solo quando doveva andare a predicare o per assistere i malati di lebbra nell’ospedale di Gallicano, dove stava tra le corsie e quando posava la sua mano sui malati, il suo cuore si apriva e il suo pianto si mescolava con quello degli sventurati. Di notte lo si vedeva passare leggero come un angelo. Era dovunque.
Nel suo primo ritiro si aggiunsero otto compagni, ma ressero poco alla vita di penitenze e il Santo rimase ancora solo con il fratello. Col tempo ne vennero altri ardenti d’amore per il Crocifisso, come li voleva lui. Fu stabilita la regolare osservanza: privazioni senza misura, una penitenza straordinaria e preghiera continua. Mangiava pochissimo e mescolava al suo cibo cenere e acqua e questo cibo era senza condimento, persino senza sale. Viene difficile pensare che un uomo possa vivere a lungo in simili condizioni. Eppure S. Paolo della Croce visse 81 anni.
Egli amava quelle penitenze, perché erano il prezzo delle anime che il suo Gesù Crocifisso aveva redento. S. Paolo sapeva che la Maremma era infestata dai briganti e proprio per questo passava per le macchie dove si annidavano.
Un giorno col fratello andava in missione, quand’ecco, ad un tratto alcuni briganti a cavallo passarono accanto a loro. Il padre Paolo li salutò e parlò loro soavemente di Dio. Commossi i briganti invitarono i missionari a salire sui loro cavalli, tanto più che i piedi di quei padri erano insanguinati dagli sterpi che ostacolavano la via. Padre Paolo sorrise, ma non accettò. Fu un lampo: scesi da cavallo, i due banditi stesero a terra i loro mantelli, affinché i servi di Dio vi potessero passare sopra. La sera, in fondo alla Chiesa, padre Paolo, mentre predicava, scorse i due briganti e, dopo la predica, li andò ad abbracciare e li condusse al Crocifisso.
Un giorno, invece, si scatenò un tremendo naufragio che fece temere il popolo per la vita dei pescatori che erano in mare con le loro barche; il padre Paolo uscì dal suo ritiro dell’Argentario e benedisse col Crocifisso il mare. Allora la tempesta cessò immediatamente e il mare tornò calmo.
La prima cosa che S. Paolo della Croce insegna a chi vuole giungere alla perfezione della carità evangelica è il distacco da tutto e da tutti. Bisogna scendere, egli dice, nel fondo dell’anima, dove tutte le energie spirituali sono raccolte e protese alla ricerca e all’esperienza di Dio. Il fondo dell’anima è il punto dove l’Essere creativo di Dio si incontra con l’essere della creatura.
L’anima percepisce così di essere tempio di Dio. Per giungere a tanto occorre morire a tutto quello che non sia Dio e la sua gloria. Scopo della morte mistica è, quindi, la nascita ad una vita nuova (divina natività). Con una vita completamente divinizzata si compie gioiosamente la divina volontà, si vive nell’eterna comunione trinitaria già su questa terra. Ma per giungere a tanto occorre affidarsi completamente a Gesù Cristo, figlio di Dio fatto uomo, morto in Croce per redimere l’umanità da tutti i peccati e per rivelare l’infinito amore di Dio misericordioso. Nella Passione c’è tutto: «essa è la più grande e stupenda opera del Divino Amore». Nella Passione di Gesù si sono riversati e mescolati per sempre due mari: il mare dell’amore di Dio e quello del dolore dell’uomo. Per questo anche il dolore ha acquisito un valore infinito.
La conformazione e l’imitazione di Gesù Cristo (e questo è un dato caratteristico ed originale di S. Paolo della Croce) è possibile realizzarla in pienezza nella Chiesa, il mistico corpo di Cristo, il cui cuore pulsante è costituito dall’Eucaristia. Si può morire a se stessi e vivere solo conformandosi e ad imitazione di Gesù eucaristico.
«Operare, patire e tacere» era la sua massima continua. Fare tutto per il Signore era il costante desiderio. A tutti consigliava la preghiera. State a casa vostra, diceva e per casa intendeva il santuario dell’anima dove abita Dio. Se ne stava sempre assorto, in contemplazione e quando, camminando, vedeva i fiori dei campi, li percuoteva leggermente col suo bastone e, scoppiando in pianto, diceva: «Tacete, voi mi rimproverate di non amare abbastanza il Signore».
Un giorno, pazzo di gioia, abbracciò un alberello scheletrito, perché vide in quei tronchi l’immagine della sua anima. Tutto lo portava a Dio e ogni cosa gli parlava di Lui. Se vedeva un campanile si commuoveva perché pensava che lì vicino Gesù si celava nel Tabernacolo e, allora, si metteva in ginocchio e pregava.
Quando gli uomini lo accusavano e lo ingiuriavano egli guardava il suo Gesù e pregava per i suoi persecutori. A tutti raccomandava silenzio, disinvoltura e il fare finta di non capire, come unico mezzo per mettere a tacere i maligni.
Tantissime furono le guarigioni e i miracoli che il Signore operò, servendosi di padre Paolo, quando era ancora in vita e la fama di santità del padre Paolo si era talmente diffusa che la gente accorreva da ogni parte per poterlo toccare o per strappargli un lembo della tonaca. Una volta una donna che soffriva di sordità riuscì a strappargli la tunica con i denti, il padre accortosi della cosa le disse, in tono di benevolo rimprovero: “Che denti! E adesso che avete guadagnato?”. «L’udito, padre Paolo» rispose la donna che in quello stesso istante era stata miracolata.
La brevità delle composizioni, quali risultano dal manoscritto, ci confermano che il Santo aveva solo dei pro-memoria, da cui traspare l’ardente amore che sente per Gesù Crocifisso, al punto che ne porta i segni tangibili nel corpo; gli si sollevarono tre costole e un giorno Gesù abbassando le braccia dalla Croce, lo stringe al costato, tenendolo per tre ore immerso in questa sorgente dell’Amore. Il Santo confiderà ad un’anima di essersi sentito in Paradiso.
L’apostolato del Santo fece sbocciare tante conversioni e una incredibile abbondanza di frutti spirituali. La teologia della Passione di S. Paolo si può riassumere nella frase “Nella Passione vi è tutto”.
La salvezza è opera di amore e di dolore: Amore di Dio che perdona l’uomo; amore di Gesù che placa Dio e redime l’uomo; amore dell’uomo che, in Gesù, si riconcilia con Dio.
Dolore voluto dal Padre nel sacrificio del Figlio; dolore del Figlio per l’offesa al Padre e per la miseria dell’uomo; dolore dell’uomo che partecipa alla Passione di Gesù; dolore che purifica e trasforma in Cristo. Amore e dolore che ripara e s’immola, secondo la vocazione di ognuno.
S. Paolo afferma nei suoi scritti la “Grande” e “Segreta Santità della Croce” affermando che “il mezzo più efficace per farci santi è la virtù della Croce e Passione di Gesù”, infatti “se la Croce del nostro dolce Gesù pone profonde radici nel nostro cuore” veniamo trasformati nel “divino beneplacito”. La perdita di sé, il vivere ignorati dal mondo, nascosti in Gesù Cristo, nel tempio interiore dell’anima è la santità più preziosa.
Alle anime Paolo augurava sempre di lasciarsi imprimere nell’anima questo “sigillo d’amore” che stimola ad una continua memoria del Mistero di Cristo.
La vera sapienza si impara solo se illuminati dal Crocifisso, così come hanno fatto i Santi; l’unica via che insegna la strada del Paradiso. Tale speranza si apprende solo “meditando”, immergendosi, cioè, nel cuore della contemplazione della Santissima Passione, dove le anime umili possono pescare i tesori delle sante virtù.
Partecipare alla Passione è mezzo di purificazione e possibilità di fare crescere la grazia battesimale che incorpora al Cristo. In Lui dobbiamo morire e rinascere, per la gloria del Padre e la salvezza del mondo.
Allora si comincia ad essere veri discepoli di Gesù, perciò quanto la vita offre di amaro, bisogna prenderlo “nel calice amoroso di Gesù. Soffrendo tutto per amore di Dio, in unione a quanto patì per noi Gesù Cristo, nostro vero bene”. “Questa è la vita di Cristo, questa è la vita dei servi del Signore. Abbracciamo dunque di buon cuore la Santa Croce” diceva S. Paolo.
La Passione fa scoprire l’amore, nell’umile nascondimento in Gesù, riposando nel suo Divin Cuore, come bambini. Il dolore, provocato e pervaso dall’amore, non è amaro, perché quando si ama non si sente la sofferenza.
La prima immagine del Crocifisso fissata dal Santo fu quella offertagli dalla mamma, immagine che ispirò tutta la sua formazione spirituale.
Ad una parete dell’eremo di S. Stefano, tiene appeso il Crocifisso e, nella sua lunga vita di missionario lo porterà sul petto e talvolta lo alzerà con la mano destra per mostrarlo ai fedeli.
L’austerità della sua vita, le numerose malattie, gli abbandoni interni sperimentati, le vessazioni diaboliche cui sempre i Santi sono sottoposti, la fondazione dell’istituto, l’azione missionaria sono il suo “restare ai piedi della Croce”.
Fino alla morte non sarà altra la sua ambizione e sia che predicasse, parlasse o scrivesse sempre eseguiva quel suo gran proponimento: di predicare Gesù Cristo Crocifisso.
La Croce è per Paolo allo sfondo della contemplazione della natura, all’orizzonte dei misteri di Cristo ed è il principio regolatore di un’ascesi.
Paolo dalla Passione intendeva far ricavare alle anime la carica più potente per risorgere dal peccato.
Ancor oggi la dottrina di S. Paolo può essere attuale in un mondo che sembra avere rinunziato alla speranza e ancor oggi il suo messaggio può aprire i cuori e incamminare le anime all’infinito amore di Dio.
Fu un insigne mistico e asceta che si impose le più aspre rinunce e mortificazioni e come S. Paolo poteva dire “Non sono io che vivo, ma Cristo vive in me”.
Paolo della Croce morì il 18 ottobre 1775, tra indicibili sofferenze: le piaghe coprivano tutto il suo corpo.

Per le vie di Roma si sparse la notizia “È morto il Santo” dicevano e un fiume di persone si riversò alla Chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, chiedendo reliquie e toccando quel sacro corpo, da cui esalava un soavissimo profumo. Verrà canonizzato il 29 Giugno del 1867.

Solo persone profondamente imbevute di un concreto ideale di vita possono aspirare ad avere con sé altri compagni di cordata. Fin dall’inizio troviamo attorno a Paolo una eletta schiera di «uomini forti». Divennero passionisti e perseverarono fino alla fine in un genere di vita molto impegnativo, perché la proposta di un ideale si era concretizzata in una autentica compagnia di amici, con i quali vivere e con i quali spendere le migliori energie per annunciare il Vangelo della Passione.

La Congregazione fondata da Paolo della Croce, è sparsa in più di 50 nazioni e conta quasi 3.000 membri del ramo maschile. Vi sono circa 25 monasteri di clausura e vari istituti di vita consacrata che si rifanno al Carisma di S. Paolo della Croce.

Concludiamo la meditazione di questa sera con la lettura di una lettera del Santo in cui si rivela in particolar modo l’ardente amore per il Crocifisso che infiammava la sua anime.

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PAPA FRANCESCO: CONCLUSIONE DEL SINODO STRAORDINARIO SULLA FAMIGLIA E BEATIFICAZIONE DEL SERVO DI DIO PAPA PAOLO VI

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SANTA MESSA PER LA CONCLUSIONE DEL SINODO STRAORDINARIO SULLA FAMIGLIA
E BEATIFICAZIONE DEL SERVO DI DIO PAPA PAOLO VI

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Piazza San Pietro

Domenica, 19 ottobre 2014

Abbiamo appena ascoltato una delle frasi più celebri di tutto il Vangelo: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,21).
Alla provocazione dei farisei che, per così dire, volevano fargli l’esame di religione e condurlo in errore, Gesù risponde con questa frase ironica e geniale. È una risposta ad effetto che il Signore consegna a tutti coloro che si pongono problemi di coscienza, soprattutto quando entrano in gioco le loro convenienze, le loro ricchezze, il loro prestigio, il loro potere e la loro fama. E questo succede in ogni tempo, da sempre.
L’accento di Gesù ricade certamente sulla seconda parte della frase: «E (rendete) a Dio quello che è di Dio». Questo significa riconoscere e professare – di fronte a qualunque tipo di potere – che Dio solo è il Signore dell’uomo, e non c’è alcun altro. Questa è la novità perenne da riscoprire ogni giorno, vincendo il timore che spesso proviamo di fronte alle sorprese di Dio.
Lui non ha paura delle novità! Per questo, continuamente ci sorprende, aprendoci e conducendoci a vie impensate. Lui ci rinnova, cioè ci fa “nuovi” continuamente. Un cristiano che vive il Vangelo è “la novità di Dio” nella Chiesa e nel Mondo.
E Dio ama tanto questa “novità”! «Dare a Dio quello che è di Dio», significa aprirsi alla Sua volontà e dedicare a Lui la nostra vita e cooperare al suo Regno di misericordia, di amore e di pace.Qui sta la nostra vera forza, il fermento che la fa lievitare e il sale che dà sapore ad ogni sforzo umano contro il pessimismo prevalente che ci propone il mondo. Qui sta la nostra speranza perché la speranza in Dio non è quindi una fuga dalla realtà, non è un alibi: è restituire operosamente a Dio quello che Gli appartiene. È per questo che il cristiano guarda alla realtà futura, quella di Dio, per vivere pienamente la vita – con i piedi ben piantati sulla terra – e rispondere, con coraggio, alle innumerevoli sfide nuove.
Lo abbiamo visto in questi giorni durante il Sinodo straordin
ario dei Vescovi – “Sinodo” significa «camminare insieme». E infatti, pastori e laici di ogni parte del mondo hanno portato qui a Roma la voce delle loro Chiese particolari per aiutare le famiglie di oggi a camminare sulla via del Vangelo, con lo sguardo fisso su Gesù. È stata una grande esperienza nella quale abbiamo vissuto la sinodalità e la collegialità, e abbiamo sentito la forza dello Spirito Santo che guida e rinnova sempre la Chiesa chiamata, senza indugio, a prendersi cura delle ferite che sanguinano e a riaccendere la speranza per tanta gente senza speranza.
Per il dono di questo Sinodo e per lo spirito costruttivo offerto da tutti, con l’Apostolo Paolo: «Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere» (1Ts 1,2). E lo Spirito Santo che in questi giorni operosi ci ha donato di lavorare generosamente con vera libertà e umile creatività, accompagni ancora il cammino che, nelle Chiese di tutta la terra, ci prepara al Sinodo Ordinario dei Vescovi del prossimo ottobre 2015. Abbiamo seminato e continueremo a seminare con pazienza e perseveranza, nella certezza che è il Signore a far crescere quanto abbiamo seminato (cfr 1Cor 3,6).
In questo giorno della beatificazione di Papa Paolo VI mi ritornano alla mente le sue parole, con le quali istituiva il Sinodo dei Vescovi: «scrutando attentamente i segni dei tempi, cerchiamo di adattare le vie ed i metodi … alle accresciute necessità dei nostri giorni ed alle mutate condizioni della società» (Lett. ap. Motu proprio Apostolica sollicitudo).
Nei confronti di questo grande Papa, di questo coraggioso cristiano, di questo instancabile apostolo, davanti a Dio oggi non possiamo che dire una parola tanto semplice quanto sincera ed importante: grazie! Grazie nostro caro e amato Papa Paolo VI! Grazie per la tua umile e profetica testimonianza di amore a Cristo e alla sua Chiesa!
Nelle sue annotazioni personali, il grande timoniere del Concilio, all’indomani della chiusura dell’Assise conciliare, scrisse: «Forse il Signore mi ha chiamato e mi tiene a questo servizio non tanto perché io vi abbia qualche attitudine, o affinché io governi e salvi la Chiesa dalle sue presenti difficoltà, ma perché io soffra qualche cosa per la Chiesa, e sia chiaro che Egli, e non altri, la guida e la salva» (P. Macchi, Paolo VI nella sua parola, Brescia 2001, pp. 120-121). In questa umiltà risplende la grandezza del Beato Paolo VI che, mentre si profilava una società secolarizzata e ostile, ha saputo condurre con saggezza lungimirante – e talvolta in solitudine – il timone della barca di Pietro senza perdere mai la gioia e la fiducia nel Signore.
Paolo VI ha saputo davvero dare a Dio quello che è di Dio dedicando tutta la propria vita all’«impegno sacro, solenne e gravissimo: quello di continuare nel tempo e di dilatare sulla terra la missione di Cristo» (Omelia nel Rito di Incoronazione: Insegnamenti I, (1963), 26), amando la Chiesa e guidando la Chiesa perché fosse «nello stesso tempo madre amorevole di tutti gli uomini e dispensatrice di salvezza» (Lett. enc. Ecclesiam Suam, Prologo).

Publié dans:famiglia, PAPA FRANCESCO, Sinodo |on 20 octobre, 2014 |Pas de commentaires »

San Luca Evangelista che dipinge in’icona della Vergine Maria

San Luca Evangelista che dipinge in'icona della Vergine Maria dans immagini sacre
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Publié dans:immagini sacre |on 17 octobre, 2014 |Pas de commentaires »

SAN LUCA EVANGELISTA – 18 OTTOBRE

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SAN LUCA EVANGELISTA

18 OTTOBRE

ANTIOCHIA DI SIRIA – ROMA (?) – PRIMO SECOLO DOPO CRISTO

Figlio di pagani, Luca appartiene alla seconda generazione cristiana. Compagno e collaboratore di san Paolo, che lo chiama «il caro medico», è soprattutto l’autore del terzo Vangelo e degli Atti degli Apostoli. Al suo Vangelo premette due capitoli nei quali racconta la nascita e l’infanzia di Gesù. In essi risalta la figura di Maria, la «serva del Signore, benedetta fra tutte le donne». Il cuore dell’opera, invece, è costituito da una serie di capitoli che riportano la predicazione da Gesù tenuta nel viaggio ideale che lo porta dalla Galilea a Gerusalemme. Anche gli Atti degli Apostoli descrivono un viaggio: la progressione gloriosa del Vangelo da Gerusalemme all’Asia Minore, alla Grecia fino a Roma.
Protagonisti di questa impresa esaltante sono Pietro e Paolo. A un livello superiore il vero protagonista è lo Spirito Santo, che a Pentecoste scende sugli Apostoli e li guida nell’annuncio del Vangelo agli Ebrei e ai pagani. Da osservatore attento, Luca conosce le debolezze della comunità cristiana così come ha preso atto che la venuta del Signore non è imminente. Dischiude dunque l’orizzonte storico della comunità cristiana, destinata a crescere e a moltiplicarsi per la diffusione del Vangelo. Secondo la tradizione, Luca morì martire a Patrasso in Grecia.

Patronato: Artisti, Pittori, Scultori, Medici, Chirurghi
Etimologia: Luca = nativo della Lucania, dal latino

Emblema: Bue
Martirologio Romano: Festa di san Luca, Evangelista, che, secondo la tradizione, nato ad Antiochia da famiglia pagana e medico di professione, si convertì alla fede in Cristo. Divenuto compagno carissimo di san Paolo Apostolo, sistemò con cura nel Vangelo tutte le opere e gli insegnamenti di Gesù, divenendo scriba della mansuetudine di Cristo, e narrò negli Atti degli Apostoli gli inizi della vita della Chiesa fino al primo soggiorno di Paolo a Roma.
I medici-chirurghi sono cristianamente sotto la protezione dei Santi Cosma e Damiano, i martiri guaritori anargiri vissuti nel III secolo e attivi gratuitamente in Siria. Anche altri santi “minori “ sono invocati, specialmente per alcune branche specialistiche come l’oculistica e l’odontoiatria. Ma il principe patrono della categoria è, senza ombra di dubbio, San Luca evangelista, che una lunga tradizione vuole originario di Antiochia, tanto da essere denominato “il medico antiocheno”.
Come è noto, tale importante città, che corrisponde all’attuale Antakia nella Turchia sudorientale, fu fondata quale capitale del regno di Siria nel 301 a.C.; vi fiorì una numerosa colonia giudaica e fu poi sede di una delle più antiche comunità cristiane. Luca, il cui nome è probabilmente abbreviazione di Lucano, vi nacque come pagano, ma diventò proselita o quanto meno simpatizzante della religione ebraica.
Egli non era discepolo di Gesù di Nazaret; si convertì dopo, pur non figurando nemmeno come uno dei primitivi settantadue discepoli. Diventò membro della comunità cristiana antiochena, probabilmente verso l’anno 40. Fu poi compagno di San Paolo (Tarso, inizio I° secolo/ forse 8 d.C.-Roma, 67 ca.) in alcuni suoi viaggi. Lo si trova con l’apostolo delle genti a Filippi, Gerusalemme e Roma. Sostanzialmente suo discepolo, condivise la visione universale paolina della nuova religione e, allorché decise di scrivere le proprie opere, lo fece soprattutto per le comunità evangelizzate da Paolo, ossia in genere per convertiti dal paganesimo. Si incontrò tuttavia anche con San Giacomo il Minore, capo della Chiesa di Gerusalemme, con San Pietro, più a lungo con San Barnaba e forse con San Marco.
La qualifica di medico attribuita a Luca viene confermata, secondo gli studiosi, dall’esame interno delle sue opere. La sua cultura e la preparazione specifica erano sicuramente note tra le comunità di cui faceva parte; potrebbe addirittura avere curato la Madre del Signore. Certamente la sua cultura generale e la sua esperienza degli uomini erano piuttosto notevoli. Prove ne siano lo stile e l’uso della lingua greca nonché la struttura stessa dei suoi scritti: il terzo Vangelo e gli Atti degli Apostoli. La data di composizione degli Atti viene fatta risalire agli anni 63-64, quella del Vangelo ad un anno o due prima. Luca coltivava anche l’arte e la letteratura. Un’antica tradizione lo vuole addirittura autore di alcune “Madonne” che si venerano ancora ai nostri giorni, come in Santa Maria Maggiore a Roma.
Egli è il solo evangelista a dilungarsi sull’infanzia di Gesù ed a narrare episodi della vita della Madonna che gli altri tre non hanno riferito. Le fonti della sua narrazione furono i racconti dei discepoli e delle donne che vissero al seguito di Gesù; quasi sicuramente i Vangeli di Matteo e di Marco, che lui conosceva. Con la precisione cronologica e spesso geografica con la quale riferì delle vicende del Vangelo, così egli, insieme a tanta passione, raccontò negli Atti i primi passi della comunità cristiana dopo la Pentecoste.
Per alcuni studiosi Luca avrebbe scritto parecchio nella regione della Beozia, regione dell’antica Grecia confinante a sud con il golfo di Corinto e l’Attica. Tale regione fu sede di regni importanti come quello di Tebe. Per i Greci addirittura l’evangelista sarebbe morto in quei luoghi all’età di ottantaquattro anni, senza essersi mai sposato e senza avere avuto figli. Per altri invece egli sarebbe morto in Bitinia, regione nord-occidentale dell’odierna Turchia.
Per la verità nulla di certo si sa della vita di Luca dopo la morte di San Paolo. Addirittura non si conosce sicuramente se egli abbia terminato la propria esistenza terrena con una morte naturale oppure come martire appeso ad un olivo. Ovviamente ignoto è il luogo della prima sepoltura. Vi sono tre città soprattutto che si appellano ad una tradizione di traslazione del corpo dell’evangelista: Costantinopoli, Padova e Venezia. Sono città quindi intorno alle quali e dalle quali si diffuse il suo culto. Recentissimi studi avrebbero dimostrato che sue sono le spoglie mortali, eccezione fatta per il capo, conservate a Padova nella basilica benedettina di Santa Giustina. In tale città veneta sarebbero giunte per sottrarle alla distruzione degli iconoclasti e là già nel XIV secolo fu per loro costruita una cappella ed un’Arca, detta appunto di San Luca.
II simbolo di San Luca evangelista è il vitello, animale sacrificale. II 18 ottobre viene celebrata nella Chiesa universale la sua solennità, la solennità di Colui che Dante ha definito lo “scriba della mansuetudine di Cristo” per il predominio, nel suo Vangelo, di immagini di mitezza, di gioia e di amore.

Autore: Mario Benatti

Publié dans:Santi, Santi Evangelisti |on 17 octobre, 2014 |Pas de commentaires »

OMELIA: 19 OTTOBRE – 29A DOMENICA: TRIBUTO A CESARE – IMMAGINE DI GESÙ

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19 OTTOBRE 2014 | 29A DOMENICA A | T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

TRIBUTO A CESARE – IMMAGINE DI GESÙ

Abbiamo udito il Vangelo: i Farisei si accordano con gli Erodiani – loro nemici – e architettano una congiura contro Gesù.
Scelgono alcuni « discepoli », cioè degli studenti che frequentano l’Università di Gerusalemme, ove insegnavano Gamaliele e altri celebri dottori ebrei. Nessuna meraviglia che tra questi discepoli ci fosse anche Saulo, il futuro apostolo delle genti.
Pensavano che mandando degli « studenti », Gesù non avrebbe avuto alcuna diffidenza, e quindi sarebbe stato più facile coglierlo in fallo.
Questi discepoli si presentano a Gesù in umile atteggiamento, con segni di rispetto, di grande fiducia nella sua scienza e veracità. Parlano con lui, usando parole melate: « Maestro, noi sappiamo che sei verace ».
Sono veramente sfacciati, menzogneri e scellerati!
Detestiamo anche noi tutte queste arti di sedurre e ingannare i fratelli, degne dei Farisei e degli Erodiani!
Questi perfidi presentano a Gesù un caso di coscienza: « E’ lecito o no pagare il tributo a Cesare? ».
L’insidia non poteva essere né più sottile, né più pericolosa. Da cento anni i Romani dominavano in Giudea. I Giudei – e più ancora i Galilei – fremevano sotto questa dominazione straniera e pagana.
La questione posta davanti a Gesù, nell’atrio del tempio, e circondato da tanta gente, era estremamente grave e delicata: si riferiva al « dominio religioso e politico ».
Gesù doveva rispondere con un « sì », o con un « no ». Se avesse affermato che era lecito pagare il censo, l’avrebbero considerato come nemico dell’indipendenza nazionale e amico degli stranieri.
Se diceva che non era lecito, l’accusavano al governatore romano, come ribelle all’autorità di Cesare.
Ma Gesù con poche parole sfatò l’insidia, e stabilì per la prima volta la più stupenda dottrina sui diritti di Dio e su quelli di Cesare e costrinse i suoi avversari ad ammirare la sapienza della sua risposta.
Conoscendo la loro malvagità, disse: « Perché mi tentate, o ipocriti? ». Gesù risponde ai loro elogi con severi rimproveri, innanzi tutto per insegnarci a detestare l’ipocrisia e ad allontanare la schifosa razza degli adulatori.
Poi li chiama « ipocriti », affinché riconoscendo che Egli aveva letto nei loro cuori, non osassero compiere ciò avevano tramato. Essi cercavano di perderlo: Egli li confonde per salvarli. Gesù cercava di richiamarli a migliori sentimenti. Tutto inutile.
Disse loro: « Fatemi vedere la moneta del tributo ». Essi gliela porsero.
Avutala in mano, si rivolse ai suoi avversari e tenendola – com’è naturale – nel palmo della mano sinistra, e segnandola con l’indice della destra, domandò: « Di chi è questa immagine e l’iscrizione? ».
Gli rispondono: « Di Cesare ». – « Ebbene », replicò Gesù: « Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio ».
Cioè: questa moneta l’avete da Cesare, è dunque giusto che la rendiate a lui stesso per i bisogni comuni e per i servigi che vi presta.
Ma Gesù aggiunge subito: « Rendete a Dio ciò che è di Dio ». Questa dottrina così precisa, così netta, mentre è una grande lezione per gl’individui e per gli Stati, è pure una divina sorgente di pace e di sicurezza. Purtroppo è dimenticata e calpestata.
Rendete a Cesare, cioè al principe terreno, l’imposta, il servizio, l’obbedienza, perché egli vi difende con i suoi eserciti dai nemici esterni e conserva l’armonia e l’ordine interno con le sue leggi.
Ma date anche a Dio il culto che gli è dovuto, cioè un tributo di adorazione, di lodi, di obbedienza, di riconoscenza e di amore.
Dice Tertulliano: « Rendete a Cesare l’immagine di Cesare, che è sulla moneta: e a Dio l’immagine di Dio, che è nell’uomo, in modo da rendere a Cesare la moneta e a Dio, te stesso ».
Rendiamo a Dio intatta e santa la nostra anima, che è stata creata a sua immagine e l’ha riscattata con il suo Sangue prezioso. Diamo a Lui il nostro cuore. Lo domanda accoratamente: « Praebe, fili, cor tuum mihi: Dammi, o figlio, il tuo cuore ».
« Di chi è questa immagine e l’iscrizione? ». Risponde S. Agostino: « Nummus Dei sumus: siamo la moneta di Dio ». Queste belle e consolanti parole ci porgono l’occasione di fare alcune riflessioni:

1. Noi tutti portiamo l’immagine di Dio.
Egli infinitamente buono ci ha creati a sua immagine e somiglianza. Come i sovrani imprimono sulle monete la loro effigie e il loro nome, così Dio ha impresso nella nostra anima la sua immagine in segno di amore, di familiarità e di sovranità, e come pegno di felicità e d’immortalità.
Noi portiamo questa immagine nella nostra anima. Infatti Dio è « spirito »; anche la nostra anima è « spirito », che dà vita al corpo. Dio è « immortale », l’anima nostra è « immortale » e indipendente dal corpo.L’anima nostra è una « trinità creata » ad immagine della « Trinità » increata. Infatti l’anima è una nella sua sostanza, ma con tre facoltà distinte: memoria, intelletto e volontà.
Dio è « libero », l’anima è « libera »… Essa rassomiglia soprattutto a Dio quando partecipa alla sua « santità », alla sua « grazia », alla sua amicizia, alla sua eterna felicità: « divinae effecti consortes naturae »: siamo diventati partecipi della divina natura ».
Portiamo l’immagine di Dio anche nel nostro corpo in modo indiretto, perché Dio, purissimo spirito, non ha corpo; tuttavia il corpo è riverbero di Dio, perché specialmente il volto, in certo modo, è l’immagine dell’anima.
Il nostro corpo poi riproduce la rassomiglianza di Dio, in quanto Dio si è fatto uomo. Secondo alcuni grandi pensatori, quando Dio – nel creare l’uomo – disse: « Faciamus hominem ad imaginem nostram: facciamo l’uomo a nostra immagine », aveva presente il corpo adorabile, di cui un giorno doveva rivestirsi il Verbo Incarnato, e ha plasmato il corpo di Adamo su questo divino modello.

2. « L’iscrizione » che reca ogni anima credente, è il bel nome di « cristiani ».
Dice infatti San Pietro: « Voi siete una stirpe eletta, regale sacerdozio, un popolo santo… ».
I martiri erano ben compresi di questa verità e con santa fierezza rispondevano ai tiranni: « Christiani sumus »: « siamo cristiani ».
Come doveva essere bello Adamo nello stato d’innocenza! Il suo corpo era perfettamente sottomesso allo spirito. Tutte le creature rispettavano in lui l’immagine e il sigillo di Dio.
Il peccato cancellò l’immagine di Dio impressa nell’anima. Fu necessario che Gesù scendesse sulla terra e morisse in croce, per restituire all’anima la rassomiglianza divina.
Quanto rispetto dunque dobbiamo portare a quest’anima, riscattata a così gran prezzo, cioè con il sangue di un Dio fatto uomo.
(Eppure quante volte la macchiamo con i nostri peccati!… Quando pecchiamo, sostituiamo l’immagine del demonio a quella di Dio.
Vedete che stranezza! Noi onoriamo i ritratti dei nostri cari, e disonoriamo l’immagine di Dio nell’anima nostra! Veneriamo le immagini della Madonna, dei Santi e gettiamo nel fango del peccato l’immagine di Dio…
Se abbiamo peccato, abbiamo cancellato dalla nostra anima l’immagine di Dio!
Accostiamoci al tribunale della penitenza: « Sanguis Iesu Christi emundat nos ab omni peccato: il sangue di Gesù ci monda da ogni peccato ». Egli ci restituirà la sua amicizia e farà rivivere in noi la rassomiglianza divina).
Temiamo quindi non solo i peccati gravi, ma anche i peccati veniali, che sono come macchie vergognose su questa immagine. Imitiamo le virtù, gli esempi di Gesù: siamo cristiani, perciò dobbiamo rivestirci del suo Spirito. Lo dice San Paolo: « Induimini Dominum nostrum Iesum Christum: rivestitevi del Signore nostro Gesù Cristo ».
Io immagino che Gesù, come ha guardato la moneta presentatagli, guardi anche la nostra anima, la scruti a fondo, e improvvisamente ci chieda: « Di chi è questa immagine così bene impressa nella tua anima? ». Quale risposta daremo noi al divin Maestro? – « Lo sai, o Gesù, questa immagine sei Tu! ». Diciamoglielo davvero di cuore e gli faremo la cosa più gradita.
NB/ Qui potremmo terminare in questo modo:

1. Conclusione:
Sulle monete le immagini possono variare all’indefinito: può essere rappresentato il re, lo stemma della casa regnante, il principe ereditario, la regina.
Così sulle monete delle nostre anime l’immagine divina può assumere varie forme, a seconda delle nostre particolari devozioni. Può essere rappresentato Gesù Eucaristico, Gesù Crocifisso, Gesù Bambino, Gesù Cristo Re…
Ma non dimentichiamo una cosa importantissima: una faccia della moneta della nostra anima deve recare necessariamente l’immagine della nostra Regina, della Madonna.
Solo così possiamo star sicuri che la nostra moneta non è falsa ed ha corso legale.
Imprimiamo quindi profondamente nel nostro cuore l’immagine della Madonna, e vedremo spiccare inevitabilmente dall’altra parte l’immagine di Gesù, perché il Volto di Gesù è il volto della Madonna: il figlio rassomiglia sempre alla propria mamma (filii matrizzant… »).
E quando al Divin tribunale Gesù ci chiederà: « Di chi è questa immagine? ». Non avremo bisogno di risponderGli: la nostra anima rassomiglierà a Lui, perché somigliante alla Madonna, cioè alla Sua Mamma.
E allora sarà gioia piena, e per sempre.
NB/ Prima della precedente conclusione, si poteva aggiungere ancora quanto segue:

2. Conclusione:
Nei confessionali le anime si fondono come il metallo nel fuoco: si purificano come l’oro nel crogiolo e l’immagine di satana viene sostituita con l’immagine di Gesù crocifisso.
Nella Comunione poi è Gesù stesso, il Sole di giustizia e di santità, che entra nella nostra anima e la riempie del divino splendore della grazia.
Della Madonna la Chiesa esclama: « Un grande prodigio fu visto nel cielo: una Donna vestita di sole ». Ebbene, lo stesso si può dire di chiunque si comunica: « Un grande prodigio fu visto in terra: un uomo rivestito di Gesù ».
Rivestendo di sé un’anima, Gesù vi stampa la sua immagine. (Come Egli lasciò effigiato il suo volto nel lino della Veronica e l’impronta del suo corpo nella S. Sindone, così nella S. Comunione, ma non un’immagine fredda e senza vita, come nella Sindone, bensì viva e palpitante).
S. Margherita Maria Alacoque, ancor novizia, si era presentata a Gesù come una tela bianca da dipingere. Gesù le disse: « Va bene: ogni giorno nella Comunione e nella visita che mi farai, Io darò una pennellata nella tua anima, finché vi sia ultimato il mio ritratto ».
Gesù Sacramentato è l’Artista: la nostra anima è il suo capolavoro. Nel SS.mo Sacramento Egli dà a noi il Suo sangue, la sua vita, tutto se stesso, affinché noi diamo a Lui quest’anima, suo tesoro, sua moneta: « Siamo moneta di Dio… ».
Diamoci dunque a Gesù, e lasciamo che Egli compia in noi il suo capolavoro.
(Frequentiamo la S. Comunione con l’intenzione che Gesù ci renda ogni giorno più buoni, più umili, più caritatevoli, più casti, più mortificati, più conformi alla sua immagine: Il Padre ci ha creati, perché diventiamo « conformi all’immagine della sua bontà » (« conformes fieri bonitatis eius… »).

D. Severino GALLO sdb

Sant’Ignazio di Antiochia – Basilica di San Clemente, Roma;

Sant’Ignazio di Antiochia - Basilica di San Clemente, Roma;  dans immagini sacre

http://www.arautos.org/view/show/46718-testimonianza-sigillata-col-sangue 

Publié dans:immagini sacre |on 16 octobre, 2014 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI – SANT’IGNAZIO D’ANTIOCHIA – 17 OTTOBRE

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2007/documents/hf_ben-xvi_aud_20070314_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 14 marzo 2007

SANT’IGNAZIO D’ANTIOCHIA – 17 OTTOBRE

Cari fratelli e sorelle,

nel nostro nuovo ciclo di catechesi appena iniziato stiamo passando in rassegna le principali personalità della Chiesa nascente. La scorsa settimana abbiamo parlato di Papa Clemente I, terzo Successore di san Pietro. Oggi parliamo di sant’Ignazio, che è stato il terzo Vescovo di Antiochia, dal 70 al 107, data del suo martirio. In quel tempo Roma, Alessandria e Antiochia erano le tre grandi metropoli dell’Impero romano. Il Concilio di Nicea parla di tre «primati»: ovviamente, quello di Roma, ma vi erano poi anche Alessandria e Antiochia che vantavano un loro «primato». Sant’Ignazio, come s’è detto, era Vescovo di Antiochia, che oggi si trova in Turchia. Qui, in Antiochia, come sappiamo dagli Atti degli Apostoli, sorse una comunità cristiana fiorente: primo Vescovo ne fu l’apostolo Pietro – così ci dice la tradizione –, e lì «per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani» (At 11,26). Eusebio di Cesarea, uno storico del IV secolo, dedica un intero capitolo della sua Storia Ecclesiastica alla vita e all’opera letteraria di Ignazio (3,36). «Dalla Siria», egli scrive, «Ignazio fu mandato a Roma per essere gettato in pasto alle belve, a causa della testimonianza da lui resa a Cristo. Compiendo il suo viaggio attraverso l’Asia, sotto la custodia severa delle guardie» [che lui chiama «dieci leopardi» nella sua Lettera ai Romani 5,1], «nelle singole città dove sostava, con prediche e ammonizioni, andava rinsaldando le Chiese; soprattutto esortava, col calore più vivo, di guardarsi dalle eresie, che allora cominciavano a pullulare, e raccomandava di non staccarsi dalla tradizione apostolica» (3,36,3-4). La prima tappa del viaggio di Ignazio verso il martirio fu la città di Smirne, dove era Vescovo san Policarpo, discepolo di san Giovanni. Qui Ignazio scrisse quattro lettere, rispettivamente alle Chiese di Efeso, di Magnesia, di Tralli e di Roma. «Partito da Smirne», prosegue Eusebio, «Ignazio venne a Troade, e di là spedì nuove lettere»: due alle Chiese di Filadelfia e di Smirne, e una al Vescovo Policarpo. Eusebio completa così l’elenco delle lettere, che sono giunte a noi come un prezioso tesoro. Leggendo questi testi si sente la freschezza della fede della generazione che ancora aveva conosciuto gli Apostoli. Si sente anche in queste lettere l’amore ardente di un Santo. Finalmente da Troade il martire giunse a Roma, dove, nell’Anfiteatro Flavio, venne dato in pasto alle bestie feroci.
Nessun Padre della Chiesa ha espresso con l’intensità di Ignazio l’anelito all’unione con Cristo e alla vita in Lui. Perciò abbiamo letto il brano evangelico sulla vigna, che secondo il Vangelo di Giovanni è Gesù. In realtà, confluiscono in Ignazio due «correnti» spirituali: quella di Paolo, tutta tesa all’unione con Cristo, e quella di Giovanni, concentrata sulla vita in Lui. A loro volta, queste due correnti sfociano nell’imitazione di Cristo, più volte proclamato da Ignazio come «il mio» o «il nostro Dio». Così Ignazio supplica i cristiani di Roma di non impedire il suo martirio, perché è impaziente di «congiungersi con Gesù Cristo». E spiega: «E’ bello per me morire andando verso (eis) Gesù Cristo, piuttosto che regnare sino ai confini della terra. Cerco Lui, che è morto per me, voglio Lui, che è risorto per noi … Lasciate che io sia imitatore della Passione del mio Dio!» (Romani 5-6). Si può cogliere in queste espressioni brucianti d’amore lo spiccato «realismo» cristologico tipico della Chiesa di Antiochia, più che mai attento all’incarnazione del Figlio di Dio e alla sua vera e concreta umanità: Gesù Cristo, scrive Ignazio agli Smirnesi, «è realmente dalla stirpe di Davide», «realmente è nato da una vergine», «realmente fu inchiodato per noi» (1,1).
L’irresistibile tensione di Ignazio verso l’unione con Cristo fonda una vera e propria «mistica dell’unità». Egli stesso si definisce «un uomo al quale è affidato il compito dell’unità» (Filadelfiesi 8,1). Per Ignazio l’unità è anzitutto una prerogativa di Dio che, esistendo in tre Persone, è Uno in assoluta unità. Egli ripete spesso che Dio è unità, e che solo in Dio essa si trova allo stato puro e originario. L’unità da realizzare su questa terra da parte dei cristiani non è altro che un’imitazione, il più possibile conforme all’archétipo divino. In questo modo Ignazio giunge a elaborare una visione della Chiesa, che richiama da vicino alcune espressioni della Lettera ai Corinti di Clemente Romano. «E’ bene per voi», scrive per esempio ai cristiani di Efeso, «procedere insieme d’accordo col pensiero del Vescovo, cosa che già fate. Infatti il vostro collegio dei presbiteri, giustamente famoso, degno di Dio, è così armonicamente unito al Vescovo come le corde alla cetra. Per questo nella vostra concordia e nel vostro amore sinfonico Gesù Cristo è cantato. E così voi, ad uno ad uno, diventate coro, affinché nella sinfonia della concordia, dopo aver preso il tono di Dio nell’unità, cantiate a una sola voce» (4,1-2). E dopo aver raccomandato agli Smirnesi di non «intraprendere nulla di ciò che riguarda la Chiesa senza il Vescovo» (8,1), confida a Policarpo: «Io offro la mia vita per quelli che sono sottomessi al Vescovo, ai presbiteri e ai diaconi. Possa io con loro avere parte con Dio. Lavorate insieme gli uni per gli altri, lottate insieme, correte insieme, soffrite insieme, dormite e vegliate insieme come amministratori di Dio, suoi assessori e servi. Cercate di piacere a Colui per il quale militate e dal quale ricevete la mercede. Nessuno di voi sia trovato disertore. Il vostro Battesimo rimanga come uno scudo, la fede come un elmo, la carità come una lancia, la pazienza come un’armatura» (6,1-2).
Complessivamente si può cogliere nelle Lettere di Ignazio una sorta di dialettica costante e feconda tra due aspetti caratteristici della vita cristiana: da una parte la struttura gerarchica della comunità ecclesiale, e dall’altra l’unità fondamentale che lega fra loro tutti i fedeli in Cristo. Di conseguenza, i ruoli non si possono contrapporre. Al contrario, l’insistenza sulla comunione dei credenti tra loro e con i propri pastori è continuamente riformulata attraverso eloquenti immagini e analogie: la cetra, le corde, l’intonazione, il concerto, la sinfonia. E’ evidente la responsabilità peculiare dei Vescovi, dei presbiteri e dei diaconi nell’edificazione della comunità. Vale anzitutto per loro l’invito all’amore e all’unità. «Siate una cosa sola», scrive Ignazio ai Magnesi, riprendendo la preghiera di Gesù nell’Ultima Cena: «Un’unica supplica, un’unica mente, un’unica speranza nell’amore … Accorrete tutti a Gesù Cristo come all’unico tempio di Dio, come all’unico altare: Egli è uno, e procedendo dall’unico Padre, è rimasto a Lui unito, e a Lui è ritornato nell’unità» (7,1-2). Ignazio, per primo nella letteratura cristiana, attribuisce alla Chiesa l’aggettivo «cattolica», cioè «universale»: «Dove è Gesù Cristo», egli afferma, «lì è la Chiesa cattolica» (Smirnesi 8,2). E proprio nel servizio di unità alla Chiesa cattolica, la comunità cristiana di Roma esercita una sorta di primato nell’amore: «In Roma essa presiede degna di Dio, venerabile, degna di essere chiamata beata … Presiede alla carità, che ha la legge di Cristo e porta il nome del Padre» (Romani, prologo).
Come si vede, Ignazio è veramente il «dottore dell’unità»: unità di Dio e unità di Cristo (a dispetto delle varie eresie che iniziavano a circolare e dividevano l’uomo e Dio in Cristo), unità della Chiesa, unità dei fedeli «nella fede e nella carità, delle quali non vi è nulla di più eccellente» (Smirnesi 6,1). In definitiva, il «realismo» di Ignazio invita i fedeli di ieri e di oggi, invita noi tutti a una sintesi progressiva tra configurazione a Cristo (unione con Lui, vita in Lui) e dedizione alla sua Chiesa (unità con il Vescovo, servizio generoso alla comunità e al mondo). Insomma, occorre pervenire a una sintesi tra comunione della Chiesa all’interno di sé e missione-proclamazione del Vangelo per gli altri, fino a che attraverso una dimensione parli l’altra, e i credenti siano sempre più «nel possesso di quello Spirito indiviso, che è Gesù Cristo stesso» (Magnesi 15).
Implorando dal Signore questa «grazia di unità», e nella convinzione di presiedere alla carità di tutta la Chiesa (cfr Romani, prologo), rivolgo a voi lo stesso augurio che conclude la lettera di Ignazio ai cristiani di Tralli: «Amatevi l’un l’altro con cuore non diviso. Il mio spirito si offre in sacrificio per voi, non solo ora, ma anche quando avrà raggiunto Dio … In Cristo possiate essere trovati senza macchia» (13). E preghiamo affinché il Signore ci aiuti a raggiungere questa unità e ad essere trovati finalmente senza macchia, perché è l’amore che purifica le anime.

INTRODUZIONE ALLA BIBBIA / 7 – I GENERI LETTERARI

http://www.sambrogiodimignanego.it/Sito%20Parrocchia/n_rifles/Bib007.htm

INTRODUZIONE ALLA BIBBIA / 7 – I GENERI LETTERARI

[Parrocchia di S. Ambrogio in Mignanego (GE) ]

Oggi non ci si veste come ieri, né domani come oggi; né nella stessa epoca ci si veste allo stesso modo in tutti gli angoli della terra.
Qualcosa del genere accade anche riguardo al nostro modo di parlare e di scrivere: oggi non si scrive come ieri, né l’o­rientale scrive come l’occidentale.
Perfino le stesse parole non hanno sempre lo stesso signifi­cato. La differenza aumenta quanto più gli uomini sono distanti nel tempo e nello spazio. Un orientale di tremila anni fa è diverso in tutto da un occidentale dei nostri giorni. Inoltre c’è diversità nei modi di esprimere il pensiero: esi­stono la poesia, la storia, l’allegoria, il romanzo, ecc. Il poeta non scrive come uno studioso: il primo si permette certe libertà (immagini, paragoni, iperboli), mentre il secondo deve attenersi ai dati precisi, ai termini esatti.
I diversi modi di esprimere per iscritto il pensiero, che si sono usati e si usano in determinate epoche e luoghi, ven­gono chiamati generi letterari. La loro conoscenza è di grande importanza: essi possono aiutarci a chiarire alcune cose fondamentali riguardanti la Bibbia, a leggerla e com­prenderla meglio.
Infatti, come in ogni letteratura di qualsiasi paese o nazione, anche nei Libri Sacri, che sono scritti da uomini per gli uomini, si ha notevole diversità di generi letterari.
Nei 73 libri della Bibbia troviamo, infatti, storie vere, roman­zi storici, allegorie, favole, parabole, poemi, poesie, leggen­de, proverbi, simbolismi, antropomorfismi (cioè attribuzio­ni a Dio di forme umane), ecc. Perfino in uno stesso libro o capitolo a volte coesistono generi letterari diversi.
Molte persone, senza rendersene conto, nel leggere la Bibbia assumono lo stesso atteggiamento che se leggessero un autore moderno. Ma non può essere così! Non si può parla­re, per esempio, del lago di Tiberiade, descrivendolo come se fosse il lago di Garda! Sarebbe un controsenso.
Gli scrittori biblici, infatti, come Isaia, Geremia, Giovanni, ecc., sono molto diversi da noi oggi. Vissero tanti anni fa le stesse verità che viviamo noi, ma le espressero in modo molto differente.
E noi, se li leggiamo come autori moderni, corriamo il rischio di fermarci solo al loro modo di dire le cose e di non arriva­re a capire ciò che vollero dire.
Così finiamo per non comprendere la Bibbia.
È dunque necessario per noi affrontare, sia pure in breve, l’importante problema dei generi letterari.

CHE COSA INSEGNA LA CHIESA
Pio XII, affrontando questo tema nell’enciclica che scrisse sullo studio delle Sacre Scritture, la Divino afflante Spiritu, ci ricorda: « Gli antichi orientali non impiegavano sempre le stesse forme e gli stessi modi di dire di noi oggi, ma quelli che erano usati correntemente dagli uomini del loro tempo e dei loro paesi ».
Quindi aggiunge che, per conoscere il vero senso degli scritti sacri, occorre determinare bene il genere let­terario a cui appartengono.
In un’altra enciclica, la Humani generis, lo stesso Pio XII afferma a proposito della Genesi: « È in un certo senso assolutamente necessario che l’interprete retroceda con il pensiero ai lontani e remoti secoli dell’Oriente, in modo che, aiutandosi con le risorse della storia, del­l’archeologia, dell’etnologia e delle altre scienze, possa discernere e riconoscere quali generi letterari hanno voluto impiegare e hanno usato di fatto gli autori di quell’età antica ».
Perciò il cristiano, nel leggere la Bibbia, deve saper riconoscere quale genere letterario ha davanti a sé, cioè deve saper distinguere tra la realtà e la fin­zione, tra il nucleo storico e il rivestimento lettera­rio che lo esprime. Altrimenti finisce per imbatter­si in infiniti controsensi.
Per prevenire il lettore da certe delusioni, nate in massima parte dall’ignoran­za, tutte le Bibbie cattoliche recano note esplicative. Molte di esse contengono un’introduzione per ciascun libro, per far sì che il lettore, prima di accingersi alla lettura, acquisisca una certa ambientazione. Non si assume lo stesso atteg­giamento di fronte a un racconto storico o a una poesia o a un romanzo.
Di conseguenza, dobbiamo fare attenzione a non attribuire al testo ispirato un senso che non ha. Invece di accomodarlo al nostro modo di intendere, dobbia­mo accomodare noi stessi ad esso e attribuirgli il senso che gli ha dato l’autore. Questa osservazione è di capitale importanza se vogliamo, nella lettura della Bibbia, ascoltare la Parola di Dio e non la parola umana.
Una maggiore conoscenza dell’Antico Oriente e l’applicazione dei generi lette­rari permettono di dare interpretazioni più ragionevoli a passi biblici che prima erano interpretati comunemente alla lettera.
Per esempio:
• il frutto dell’albero del paradiso
• la creazione di Eva dalla costola di Adamo
• il potere misterioso dei capelli di Sansone
• il carro di fuoco di Elia ed Enoc
• la balena di Giona, ecc.
Senza dubbio è molto difficile interpretare rettamente molti passi biblici, in particolare dell’Antico Testamento. La loro retta comprensione richiede uno studio serio e impegnativo. E per aver dimenticato questo, molti cristiani cadono in un’interpretazione superficiale e troppo letterale della Sacra Scrittura, disattendendo penosamente ciò che è più impor­tante, cioè il messaggio racchiuso nei fatti fondamentali.

CERCARE I FATTI FONDAMENTALI
Noi occidentali oggi ci esprimiamo in modo realistico e diretto, mentre gli anti­chi popoli orientali erano soliti esprimersi attraverso fantasie, immagini o rap­presentazioni animate.
Ora, leggendo i loro testi, noi dovremo imparare a distinguere e cercare anzi­tutto le idee e i fatti fondamentali.
Un esempio
I primi undici capitoli della Genesi
Essi ci rendono conto, in forma di poema popolare, di alcuni fatti e verità fon­damentali della religione:
• l’esistenza di un Dio personale, superiore al mondo
• la creazione del mondo e dell’uomo da parte di Dio
• la dignità della persona umana
• il matrimonio
• il peccato originale e la promessa di un Redentore.
Per di più ci danno anche la risposta ai problemi umani più vitali:
• chi è Dio?
• chi è l’uomo?
• perché esistono il male, la sofferenza, la morte?
I racconti di questi capitoli sono espressi in forma di scene animate, il loro gene­re letterario ha rapporto con la storia, con la leggenda popolare, con la parabo­la, con l’apocalisse cosmogonica (rivelazione sulla formazione dell’universo), e tuttavia non è né storia in senso stretto, né pura leggenda e tanto meno mito (favole, finzioni astratte).
Così anche i libri di Tobia, Giuditta, Ester, Giona apparten­gono a questo genere letterario, chiamato midrash, che è simile a una parabola o a un racconto storico, ma in realtà si propone di dare un insegnamento morale.

MA PERCHÉ DIO NON HA PARLATO IN MODO PIÙ CHIARO?
Viene da obiettare: se la Bibbia dice cose tanto importanti, se ci comunica il pensiero di Dio, la sua parola, perché Dio non ci ha parlato più chiaramente? Così potremmo capirlo tutti senza tanti sforzi.
Invece dobbiamo costatare che la Bibbia riflette una menta­lità, una cultura e un linguaggio molto diversi dai nostri. Ad esempio, per l’uomo biblico « i cedri del Libano » simbo­leggiano un qualcosa d’imponente, che mette soggezione per la sua bellezza e superiorità; « mangiare carni grasse » o vedere come « l’olio profumato discende dalla barba di Aronne » era una squisitezza sopraffina.
E come è difficile interpretare il senso di peccato di cui parla Genesi (il « frutto proibito »), o ricevere come Parola di Dio il comando di sterminare i nemici!
Nonostante ciò, esistono testi fonda­mentali, che contengono verità irri­nunciabili, abbastanza comprensibili da un lettore senza troppi pregiudizi. Per esempio dal racconto della crea­zione (Gn 1), senza entrare in una spiegazione dettagliata sui diversi modi di raccontare lì presenti, emer­ge con facilità la verità di fede: Dio ha creato tutto l’esistente con la potenza della sua parola (« Disse… e così fu fatto ») e quanto è stato da lui creato è buono (« E vide Dio che tutto era buono »).
I progenitori sono stati collocati nel centro stesso della creazione.
In linguaggio dotto diciamo che la Bibbia è la Parola di Dio inculturata, cioè che ha trovato la sua espressione in una cultura, una lin­gua, una mentalità determinate, quelle del popolo ebraico.
(Cultura = forma basilare di pensare, sentire e vivere la real­tà, propria di un gruppo di persone, in un luogo e in un tempo determinati).

LA BIBBIA PARLA DI DIO CON LINGUAGGIO UMANO
Chi ha scritto la Bibbia aveva come evidente obiettivo di raccontare come Dio si è fatto compagno di viaggio d’un intero popolo.
O se si vuole, dal punto di vista umano, come un popolo, di generazione in generazione, ha sperimentato, creduto, amato, servito e disobbedito questo Essere trascendente chiamato DIO, con la convinzione che tra lui e Dio esisteva una relazione indelebile, a volte difficile, però sempre bella: la relazione dell’Alleanza.
Si può comprendere così come, a causa di questa motiva­zione religiosa, la Bibbia sia piena di indicazioni religiose, e che di conseguenza impieghi con tanta abbondanza un lin­guaggio simbolico, costellato di immagini.
Si comprenderà, quindi, come Dio invada la storia, grande e piccola, degli uomini:
• entri nella tenda di Abramo
• abiti in un tempio
• susciti profeti
• compia miracoli
• ascolti il grido di dolore del popolo
• abbia compassione dei suoi peccati, ecc.
Persino il Figlio di Dio si fa uomo ed abita tra gli uomini, è persona dentro la storia e portatore di un mistero sovruma­no. Come parlare di tutto questo senza rompere qualsiasi schema troppo rigido?
La Bibbia è una testimonianza di fede impressionante. Impressionante perché, dentro fatti concreti, lo scrittore biblico legge il mistero, un progetto di salvezza, la presenza di un TU incomprensibile, ma personale, vivo e reale.

Publié dans:BIBBIA: TEMI VARI, biblica |on 16 octobre, 2014 |Pas de commentaires »

Lergo 16 ottobre 1943, Roma

Lergo 16 ottobre 1943, Roma dans immagini ladeportazionedegliebreidiRoma-vi

http://fotoalbum.virgilio.it/atti47/roma2011/roma298largo16ottob.html

Publié dans:immagini |on 15 octobre, 2014 |Pas de commentaires »
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