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26 OTTOBRE 2014 | 30A DOMENICA A : CERCATE IL SIGNORE E LA SUA POTENZA

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26 OTTOBRE 2014 | 30A DOMENICA A | T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

CERCATE IL SIGNORE E LA SUA POTENZA

Bisogna allontanarsi dagli uomini per trovare Dio?
E chi ha trovato Dio può ancora ritornare verso gli uomini e vivere con loro, interessarsi di loro e lavorare con loro e per loro? In altre parole, l’amore di Dio e l’amore degli uomini sono compatibili o, al contrario, l’uno esclude l’altro in modo che bisogna assolutamente operare una scelta?
Queste domande ci vengono proposte dalla liturgia di questa XXX Domenica del Tempo Ordinario, l’attenzione a Dio e l’attenzione agli uomini sono due termini di confronto per l’agire di ogni credente. E sono due realtà talmente importanti che tutta la Scrittura ne è pervasa e cerca di darne la giusta risposta in merito.
E’ proprio con la venuta di Gesù, Figlio di Dio che si manifesta agli uomini il non potere pensare che l’entrata di Dio nella storia di una coscienza, di una persona, ne provochi automaticamente l’esclusione all’interesse delle altre creature e persone. Come la settimana scorsa il monito di Cristo era « dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio », in questa settimana l’insegnamento del Maestro è altrettanto chiaro: non si va’ a Dio senza gli uomini, e non ci si può rivolgere in verità agli uomini se non si vive una relazione personale con Dio.
La prima lettura, tratta dal Libro dell’Esodo, è tutta tesa ad indicare quale siano i comportamenti concreti che il buon israelita e, per contro, ogni buon credente deve attuare per essere « gradito agli occhi del Signore ». Ed anzi, è Dio stesso, il Signore che si fa portatore di queste indicazioni. E come possiamo vedere, anche in questo si svolge la logica dell’agire divino, che predilige i poveri, i piccoli, gli ultimi, coloro che agli occhi degli uomini contano poco.
Tutto ciò per far comprendere che questa è la logica con cui il credente deve agire nell’affrontare le scelte della vita che nell’oggi è chiamato a realizzare. L’attenzione a Dio, tanto cara al pio israelita, proprio per volere di Dio si deve mediare attraverso i fratelli; non si può pregare Dio e disinteressarsi dei fratelli che Egli ci mette accanto.
La seconda lettura, tratta dalla lettera di san Paolo ai Tessalonicesi, ancora ci mostra la tesimonianza che Paolo ci trasmette nel vedere che il frutto del suo ministero è stato possibile grazie all’azione dello Spirito. Ed è proprio l’accoglienza dello Spirito fatto dalla cominità che permette a Paolo di rilevare con gioia i progressi della stessa, non soltanto in merito alla loro conversione, ma grazie allo Spirito, anche in merito alla lora azione di evangelizzazione.
In questo modo, da una comunità che vive del Vangelo non c’è bisogno di fare propaganda, dice sempre san Paolo, perché è sufficiente guardare il suo modo proprio di vivere, modo che si articola sulla Parola annunziata, accolta e vissuta. Il modo di vivere da cristiani, della comunità è già il modo più eloquente di testimoniare l’annuncio della Buona Novella che Paolo e i suoi collaboratori stanno spandendo in tutte le parti del mondo a loro conosciuto. Non è forse questo un monito e un augurio per ogni credente a fare della comunità in cui vive, partendo dalla propria vita, un « modello per tutti i credenti »?
Il brano del Vangelo, proposto dall’evangelista Matteo, ci mostra, come la settimana scorsa, un momento di scontro con coloro che erano le guide del popolo; ricordiamo, infatti, la volta scorsa due categorie, gli erodiani e i sadducei, ora altre due, i farisei e dottori della legge. Il motivo di fondo, ci dice l’evangelista, è sempre lo stesso, cercare di prendere in castagna Gesù o nel suo agire o nel suo pensare, per poi riuscire a liberarsene una volta per tutte.
Ancora una volta Gesù non solo si dimostra all’altezza del dibattito, ma svela un insegnamento nuovo che deriva da una signoria tutta sua, che non ha nulla a che vedere con coloro che in quell’epoca erano i Rabbì, i maestri e guide del popolo. Gesù risponde al questito del dottore della legge, non solo in modo formalmente corretto; Gesù conosce bene la Sacra Scrittura, la Torah, ma con questa sua parola insegna a non separare le due dimensioni del comandamento dell’amore, prefigurato proprio nell’Antico Testamento ed ora attuato con la Sua vita per tutti e per sempre.
Infatti, mai la Scrittura e la tradizione cristiana hanno permesso al cristiano di disinteressarsi dell’uomo, sotto il pretesto di interessarsi unicamente di Dio e mai hanno lasciato di indicare nel servizio dell’uomo un modo di servire Dio. Un noto pensatore contemporaneo, P. Ricoeur, esprime bene questa realtà dicendo: « La mia vita interiore è la sorgente delle mie relazioni esteriori. All’opposto delle sapienze meditative e contemplative della fine del paganesimo greco o dell’Oriente al di là dell’Indo, la predicazione cristiana non ha mai opposto l’essere al fare, l’interiore all’esteriore, la teoria alla prassi, la preghiera alla vita, la fede alle opere, Dio al prossimo ».
Benedetto XVI nella sua prima Enciclica, proprio dedicata all’amore di Dio e degli uomini, ci ricorda come « Con la centralità dell’amore, la fede cristiana ha accolto quello che era il nucleo della fede d’Israele e al contempo ha dato a questo nucleo una nuova profondità e ampiezza. Gesù ha unito, facendone un unico precetto, il comandamento dell’amore di Dio con quello dell’amore del prossimo, contenuto nel Libro del Levitico « Amerai il tuo prossimo come te stesso » (19, 18; cfr Mc 12, 29-31). Siccome Dio ci ha amati per primo (cfr 1 Gv 4, 10), l’amore adesso non è più solo un « comandamento », ma è la risposta al dono dell’amore, col quale Dio ci viene incontro. »
La tesi che il papa pone al centro della sua riflessione, partendo dagli scritti giovannei, non è lontana da quella che troviamo descritta anche nel brano dell’Evangelo di Matteo che in questa liturgia è stato proclamato. Amore di Dio e amore dell’uomo, non sono due amori differenti, ma un unico amore complementare, il quale si può sì distingure, certo, per logici motivi di pensiero, ma mai si può separare; una visione della realtà che avvalla ciò, non è la « dottrina » della Chiesa di Gesù Cristo.
Questo Amore non è, però, aleatorio, sulle nuvole, di cui solo i mistici sarebbero toccati nella loro esperienza, ma tale Amore è tangibile ad ogni creatura, poiché tutta la realtà creata ne porta in sè stessa la forma. E tanto più le creature che hanno in sè, grazie al Padre, per mezzo dello Spirito, l’immagine e la somiglianza del Figlio. Ed ancora prendendo spunto dalla Deus caritas est di Benedetto XVI, dove egli identifica questo unico amore nella differenza tra eros e agape, due differenti termini che gli antici usavano per indicare due modi della sfumatura dell’amore stesso, leggiamo: « In realtà eros e agape – amore ascendente e amore discendente – non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro.
Quanto più ambedue, pur in dimensioni diverse, trovano la giusta unità nell’unica realtà dell’amore, tanto più si realizza la vera natura dell’amore in genere. L’uomo non può sempre soltanto donare, deve anche ricevere. Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono. L’eros di Dio per l’uomo – come abbiamo detto – è insieme totalmente agape. Dio ama tanto l’uomo che, facendosi uomo Egli stesso, lo segue fin nella morte e in questo modo riconcilia giustizia e amore. Dio è in assoluto la sorgente originaria di ogni essere; ma questo principio creativo di tutte le cose – il Logos, la ragione primordiale – è al contempo un amante con tutta la passione di un vero amore.
Sì, esiste una unificazione dell’uomo con Dio – il sogno originario dell’uomo -, ma questa unificazione non è un fondersi insieme, un affondare nell’oceano anonimo del Divino; è unità che crea amore, in cui entrambi – Dio e l’uomo – restano se stessi e tuttavia diventano pienamente una cosa sola.
Ma come a noi, concretamente, viene donato di entrare in questo amore divino? Sempre il papa, proseguendo il suo scritto ci dice: « L’agape di Dio viene a noi corporalmente per continuare il suo operare in noi e attraverso di noi. Nel « culto » stesso, nella comunione eucaristica è contenuto l’essere amati e l’amare a propria volta gli altri.
Un’Eucaristia che non si traduca in amore concretamente praticato è in se stessa frammentata. Reciprocamente – come dovremo ancora considerare in modo più dettagliato – il « comandamento » dell’amore diventa possibile solo perché non è soltanto esigenza: l’amore può essere « comandato » perché prima è donato ».
L’amore non è mai « concluso » e completato; si trasforma nel corso della vita, matura e proprio per questo rimane fedele a se stesso. Se il contatto con Dio manca del tutto nella mia vita, posso vedere nell’altro sempre soltanto l’altro (un qualcosa da possedere) e non riesco a riconoscere in lui l’immagine divina (un fratello/sorella da amare). Se però nella mia vita tralascio completamente l’attenzione per l’altro, volendo essere solamente « pio » e compiere i miei « doveri religiosi », allora s’inaridisce anche il rapporto con Dio.
Allora questo rapporto è soltanto « corretto », ma senza amore. Solo la mia disponibilità ad andare incontro al prossimo, a mostrargli amore, con parole e gesti concreti, mi rende sensibile anche di fronte a Dio. Solo l’attenzione amorevole nel servizio al prossimo apre i miei occhi su quello che Dio fa per me e su come Egli mi ama. E dunque vediamo che la trabocchevole domanda dei farisei trova un interlocutore in Gesù che ribalta dal suo interno la deviante interpretazione da loro attuata aprendo una nuova interpretazione, o meglio dando la giusta manifestazione dell’amore del Padre.
Amare Dio e amare il prossimo, allora, non sono due modalità diverse di amare, ma due modalità complementari nell’amare; l’amore di Dio si manifesta in Gesù ed umanamente in quel processo generazionale di cui ognuno di noi fa parte, e molti anche ad esserne co-protagonisti.
Noi credenti siamo chiamati a testimoniare questo Amore in ogni parola e gesto di ogni giorno, sapendo che in questo cammino non manca l’insegnamento e il sostegno del Maestro, ma non manca nemmeno il modello totalmente umano, Maria, a cui dobbiamo con gratitudine volgerci per imparare ad affrontare da testimoni credenti le sfide della vita.

Luca Desserafino sdb

Αναστασις (Resurrection)

Αναστασις (Resurrection)  dans immagini sacre Christus_Mandorla

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Publié dans:immagini sacre |on 23 octobre, 2014 |Pas de commentaires »

IL MAGNIFICAT – ORIGENE, OMELIE SU LUCA, VIII, 4-6.

http://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20011216_origene_it.html

IL MAGNIFICAT – ORIGENE, OMELIE SU LUCA, VIII, 4-6.

4. « Orbene dapprima «l’anima» di Maria «magnifica il Signore», e, dopo, «il suo spirito esulta in Dio»; cioè, se non siamo dapprima cresciuti, non possiamo esultare.
Ella dice: «Perché ha guardato l’umiltà della sua ancella» (Lc 1, 48). Su quale umiltà di Maria il Signore ha volto il suo sguardo? Che cosa aveva, la madre del Signore, di umile e di basso, ella che portava nel seno il Figlio di Dio? Dicendo: «Ha guardato l’umiltà della sua ancella», è come se dicesse: ha guardato la giustizia della sua ancella, ha guardato la sua temperanza, ha guardato la sua fortezza e la sua sapienza. È giusto infatti che Dio rivolga il suo sguardo sulle virtù. Qualcuno potrebbe dire: capisco che Dio guardi la giustizia e la sapienza della sua ancella; ma non è troppo chiaro perché volge il suo sguardo sull’umiltà. Chi pone questa domanda si ricordi che proprio nelle Scritture l’umiltà è considerata come una delle virtù.
5. Dice il Salvatore: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete riposo alle anime vostre» (Mt 11, 29). E se vuoi conoscere il nome di questa virtù, cioè come essa è chiamata dai filosofi, sappi che l’umiltà su cui Dio rivolge il suo sguardo è quella stessa virtù che i filosofi chiamano atyphía oppure metriótês. Noi possiamo peraltro definirla con una perifrasi: l’umiltà è lo stato di un uomo che non si gonfia, ma si abbassa. Chi infatti si gonfia, cade, come dice l’Apostolo, «nella condotta del diavolo» – il quale appunto ha cominciato col gonfiarsi di superbia -; l’Apostolo dice: «Per non incappare, gonfiato d’orgoglio, nella condanna del diavolo» (I Tm 3, 6).
«Ha guardato l’umiltà della sua ancella»: Dio mi ha guardato dice Maria – perché sono umile e perché ricerco la virtù della mitezza e del nascondimento.
6. «Ecco che sin d’ora tutte le generazioni mi chiameranno beata» (Lc 1, 48). Se intendo «tutte le generazioni» secondo il più semplice significato, ritengo che si faccia allusione ai credenti. Ma se cerco di vedere il significato più profondo, capirò quanto sia preferibile aggiungere: «Perché fece grandi cose per me colui che è potente» (Lc 1, 49). Proprio perché chiunque si umilia sarà esaltato» (Lc 14, 11), Dio ha guardato l’umiltà» della beata Maria; per questo ha fatto per lei grandi «cose colui che è potente e il cui nome è santo».
E «la sua misericordia si estende di generazione in generazione» (Lc 1, 50). Non è su una generazione, né su due, né su tre, e neppure su cinque che si estende «la misericordia» di Dio; essa si estende eternamente «di generazione in generazione».
«Per coloro che lo temono ha dispiegato la potenza del suo braccio». Anche se sei debole, se tu ti accosti al Signore, se avrai timore di lui, potrai udire la promessa con la quale il Signore risponde al tuo timore. »

ORIGENE, Omelie su Luca, VIII, 4-6.

Preghiera

Beata genitrice di Dio, splendore del genere umano, grazie a te da servi siamo diventati liberi e figli della luce.
Maria, Vergine regale, generata dalla stirpe di Davide, nobile grazie alla dignità non tanto del padre quanto piuttosto del Figlio; tu, dopo aver strappato il vecchio germe, fai di noi piante da un germe nuovo; per mezzo tuo il genere umano diventi un sacerdozio regale.
Con le tue sante preghiere, scioglici dai legami delle colpe; mettendo avanti i tuoi meriti, innalzaci ai premi celesti.
O Vergine nobilissima, sia gloria alla Trinità, che offre te quale magnifico tesoro dei suoi doni.

A cura della Pontificia Facoltà Teologica «Marianum», Roma

PROFEZIA E SAPIENZA. LA TESTIMONIANZA DI DIETRICH BONHOEFFER

http://www.credereoggi.it/upload/1997/articolo102_105.asp

PROFEZIA E SAPIENZA. LA TESTIMONIANZA DI DIETRICH BONHOEFFER

Alberto Gallas

Il primo grande volume dedicato a Bonhoeffer in Italia, firmato da Italo Mancini, apparve nella collana ‘I nuovi padri’ dell’editrice Vallecchi nel 1969, lo stesso anno in cui uscirono – presso un editore ‘laico’ come Bompiani – le traduzioni italiane di Resistenza e resa e dell’Etica. Parlare, a quel tempo, di Bonhoeffer come di un ‘nuovo padre’, poteva essere azzardato. Con questa locuzione si veniva infatti a dire che la sua opera era talmente importante da costituire una ricchezza per la cristianità nel suo complesso, al di là delle divisioni confessionali, e talmente profonda da preparare l’avvenire della chiesa, oltre che delle chiese: un’opera dunque al di sopra delle mode, capace di diventare un ‘classico’.
Oggi quella definizione appare meno azzardata. La fortuna di Bonhoeffer ha conosciuto varie fasi, periodi di una certa popolarità (se di popolarità in questo contesto si può parlare) e altri di una certa dimenticanza. Anche se la sua opera più famosa, Resistenza e resa (dove sono raccolte le lettere scritte dal carcere berlinese di Tegel), è stata pubblicata postuma solo meno di cinquant’anni fa, si possono già contare almeno tre stagioni nella recezione del suo pensiero: la stagione della secolarizzazione e della morte di Dio (con al centro le lettere dal carcere), la stagione della spiritualità (con al centro Sequela e Vita comune); la stagione dell’etica politica (con al centro l’azione e la riflessione sulla pace, la questione ebraica, la resistenza al nazismo). Ma il susseguirsi di stagioni diverse nella fortuna di un’opera e l’emergere di sempre nuovi approcci di lettura – ancorché, talvolta, parziali e selettivi – sono appunto il segno distintivo di un classico. Se Bonhoeffer può esser considerato tale, molto più dunque che un autore semplicemente ‘ancora’ attuale, è perché il suo pensiero non si adegua a schemi, ambiti e definizioni consolidatesi nel tempo, ma li mette in questione e li supera. Non annullandoli, ma semplicemente ponendo i problemi con un nuovo rigore, scavando fino ad arrivare a quella profondità dove si impongono nuovi parametri di giudizio, dove gli spiriti si dividono ma anche emergono radici comuni e punti di convergenza fra tradizioni diverse.
Tutto questo in Bonhoeffer non avviene solo sul piano della teoria e della riflessione teologica. Ogni lettore che si avvicini a lui resta colpito dal legame che collega la sua teologia alla sua biografia e dall’integrazione tra pensiero e vicende personali. Ma, di più, la teologia di Bonhoeffer è legata alla storia, al contesto culturale in cui egli è vissuto, perché è una teologia responsabile e concreta, e non una dottrina astratta costruita su princìpi atemporali. D’altra parte, non si tratta affatto di una teologia estemporanea legata a mode o fenomeni di breve periodo. Bonhoeffer si misura con le emergenze del suo tempo scavando nella tradizione e nel passato, alla ricerca delle radici del credo cristiano da un parte e della cultura occidentale dall’altra. In questo modo la storia stessa acquisisce una rilevanza teologica. Dio è entrato nel mondo con l’incarnazione; ha conferito alla realtà delle strutture profonde con la creazione. Non la superficie dei fenomeni, ma la loro logica profonda rappresenta un dato che il teologo non può ignorare. Bonhoeffer chiama questa logica profonda ‘l’esser reale della realtà’: essa può essere individuata solo dallo sguardo penetrante del sapiente che contempla le opere di Dio in tutta la loro estensione, anziché limitarsi alla relazione individualistica tra Dio e l’anima, cioè a quella che nelle lettere dal carcere viene criticamente definita come dimensione ‘religiosa’ dell’esistenza.
A questa logica l’uomo di fede ubbidisce. Nella sequela, secondo Bonhoeffer, il credente segue Gesù fin sul calvario, e proprio in questo modo conforma la propria vita alla struttura profonda della realtà, per quanto ciò possa apparire paradossale. Di conseguenza, se è possibile usare questa espressione, la profezia di Bonhoeffer è una profezia sapienziale.
Prima di sviluppare più ampiamente questo argomento, conviene però soffermarsi su alcuni temi dove il lascito di Bonhoeffer è particolarmente fecondo.

1. Pace e guerra
Proprio perché così strettamente legato alla storia il pensiero di Bonhoeffer conosce varie tappe. Esso evolve con l’evolvere delle situazioni, e questo è visibile soprattutto nella sua riflessione su pace e guerra, dove vanno distinte tre fasi principali.
Nella prima – risalente alla fine degli anni Venti – Bonhoeffer affronta la guerra come eventualità teorica e accoglie la soluzione classica: il comandamento di non uccidere e il Discorso della montagna insegnano sì che non si deve resistere al male inflitto alla nostra persona, ma non che non si possa e non si debba resistere al male che viene inflitto al nostro prossimo. La stessa guerra d’aggressione può essere giustificata, se risponde ai bisogni primari di un popolo (teoria dello ‘spazio vitale’).
Nella seconda – intorno alla metà degli anni Trenta – egli affronta il problema quando la minaccia di una guerra europea si profila già all’orizzonte ma appare ancora evitabile: in questa fase formula la soluzione più radicalmente nonviolenta, contrapponendo pace e sicurezza (‘Non c’è modo di giungere alla pace per via della sicurezza… per la pace si deve rischiare, è una grande temerarietà… Pace è il contrario di sicurezza’), e invocando un concilio ecumenico della pace (allocuzione di Fanø, 28 agosto 1934). A questa allocuzione si è richiamato Carl Friedrich von Weizsäcker nel famoso appello per un ‘concilio della pace’ lanciato al ‘Deutscher Evangelischer Kirchentag’ del 1985, che ha contribuito ad accelerare il movimento conciliare sfociato nelle assemblee di Basilea e di Graz.
Nella terza fase – anni Quaranta – Bonhoeffer affronta la guerra come fatto ormai inevitabile, ed ammette la legittimità, a determinate condizioni, di una partecipazione del cristiano alla guerra, nonché del ricorso alla resistenza attiva per abbattere il tiranno. La posizione della seconda fase viene così superata, ma senza per questo tornare alle posizioni iniziali. Allora, infatti, Bonhoeffer aveva giustificato l’uso della forza quando esso avviene in ‘difesa dei miei’ e del ‘mio popolo’. Ciò significa che la parte lesa in soccorso della quale è lecito intervenire è identificabile a priori in base ai vincoli di sangue, alla storia, alla nascita di ciascuno. La situazione concreta in cui secondo Bonhoeffer si deve valutare la legittimità del ricorso alla violenza, per non dare del quinto comandamento un’interpretazione astratta, è dunque solo apparentemente una situazione aperta. Nella terza fase invece il mio prossimo non è identificabile a priori, ma va individuato di volta in volta in base alle condizioni storiche. La giusta causa, per la quale è lecito intervenire con le armi, può essere allora anche quella di coloro che lottano contro il mio popolo; anzi, davanti alla Germania di Hitler, la resistenza armata può essere addirittura doverosa per un cristiano, come Barth aveva scritto al teologo cèco Hromádka, in una lettera aperta (il 18 settembre 1938, alla vigilia della minacciata invasione della Cecoslovacchia) che suscitò grande scandalo nella Chiesa confessante, ma che Bonhoeffer condivise. Bonhoeffer non ha elaborato una teoria della guerra giusta; egli resta persuaso che anche partecipare alla guerra sul fronte della parte offesa comporti una colpa oggettiva. Le sue riflessioni e le sue scelte indicano però una precondizione fondamentale perché il problema della guerra giusta (o meglio: di una guerra cui un cristiano sia tenuto a partecipare) si possa anche semplicemente porre, e cioè la reale apertura a riconoscere che la causa giusta può essere quella del ‘nemico’ anziché quella del mio popolo. Questo significa prendere sul serio l’interrogativo di Gesù: ‘Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?’ (Mt 12,48), che nella fase di Barcellona poteva avere solo un significato retorico. Da queste premesse Bonhoeffer trasse la convinzione che la partecipazione alla resistenza implicava la disponibilità ad eseguire anche personalmente un attentato contro Hitler, e definì ‘lusso morale’ la tesi opposta sostenuta da un altro membro della resistenza, Helmut James von Moltke (anch’egli giustiziato poi dai nazisti).

2. Stile ecumenico
Bonhoeffer ha avuto una straordinaria fortuna sul piano ecumenico. La sua è anzi una figura che viene spesso letta come se fosse sovraconfessionale (con il rischio magari di separare il suo pensiero dalla tradizione in cui è radicato). Il motivo di fondo che spiega questa fortuna è la sua capacità di aprirsi ad influenze, a scambi, a rapporti a vasto raggio. Egli difficilmente appare, a chi gli si avvicina dall’esterno, come un estraneo. Le critiche che egli rivolge ad extra, alle altre confessioni e tradizioni, sono sempre accompagnate da critiche ad intra, alla sua confessione; non ripetono passivamente le accuse tradizionali divenute luoghi comuni, ma nascono da un serio impegno, esistenziale e teorico, di comprensione. Non sono dettate da risentimento, ma da senso di fratellanza e da amore.
Questa fortuna è particolarmente appariscente nel mondo cattolico. Non è un fenomeno del tutto nuovo: già Barth aveva dichiarato di essersi sentito compreso ‘senza paragone più a fondo’ nel volume dedicatogli dal cattolico von Balthasar, che non ‘nella stragrande maggioranza’ delle altre opere sul suo pensiero. Christian Gremmels, che sta attualmente lavorando alla nuova edizione di Resistenza e resa, ha cercato di spiegare la cosa richiamandosi ai contenuti del pensiero bonhoefferiano che sono particolarmente vicini – quanto al tema e quanto allo svolgimento – alla tradizione cattolica, in particolare su tre punti: chiesa, confessione dei peccati, preghiera (cui mi pare si dovrebbe aggiungere almeno sacramento e sacramentalità). Ma anche Gremmels vede giustamente che più dei contenuti determinati contano la Denkform, lo stile di pensiero, l’atteggiamento interiore di Bonhoeffer nel confronto interconfessionale. Questo modo di pensare si manifesta nella convinzione che le contrapposizioni confessionali, pur non essendo superate, abbiano fatto però il loro tempo. In Resistenza e resa si legge che ‘le contrapposizioni tra i luterani e i riformati (e in parte anche con i cattolici) non sono più autenticamente tali. Naturalmente è sempre possibile ripristinarle e conferire loro del pathos, ma non fanno più presa. Non c’è nessuna prova di questo, si deve semplicemente osare di venirne fuori’ (Resistenza e resa, Cinisello Balsamo 1988, p. 463). A questo passo si può affiancarne un altro, dove Bonhoeffer indica precisamente nella ricerca delle radici comuni, cui abbiamo già accennato, la piattaforma per superare le contrapposizioni: ‘Sto leggendo con molto interesse Tertulliano, Cipriano e altri padri della chiesa. In parte sono molto più attuali dei riformatori e forniscono nello stesso tempo una base per il dialogo evangelico-cattolico’ (ivi, p. 201).
Giacché non si tratta di affermazioni isolate, ma di un atteggiamento di fondo, è facile capire perché un cattolico non senta nel ‘diverso’ Bonhoeffer un estraneo. Anzi, a un lettore cattolico può capitare di imparare, proprio leggendo Bonhoeffer, ad amare di più la propria tradizione e di imparare contemporaneamente a criticarla in modo più pertinente; e, viceversa, di imparare ad amare e a criticare in modo più pertinente la tradizione di Bonhoeffer, il protestantesimo. Non sembri un’esagerazione l’uso di un termine tanto impegnativo come ‘amare’. Non c’è dubbio che Bonhoeffer ha saputo amare il cattolicesimo (‘…ho veduto ancora una volta che cos’è il cattolicesimo, ed ho ripreso ad averlo molto caro’), così come ha saputo criticarlo con rigore (per il prevalere dell’istituzione sulla Parola, per la concezione gerarchica dei ministeri, per l’idea di diritto naturale, per la concezione della messa come sacrificio…).
Di questa correlazione critica-amore abbiamo una testimonianza chiara e sintetica nella lettera del 23 novembre 1940 scritta durante un soggiorno presso l’abbazia benedettina di Ettal in Baviera: ‘Torno appena adesso da una messa meravigliosa… anche se il percorso che parte dal nostro sacrificio per Dio ed arriva al sacrificio di Dio per noi… mi sembra un percorso a rovescio. Ma devo ancora capire meglio la cosa’ (GS VI, 489). Qui la capacità di cogliere il positivo nel diverso (fino addirittura ad entusiasmarsene: ‘una messa meravigliosa’) va mano nella mano con la franca indicazione degli aspetti negativi in esso presenti (‘un percorso a rovescio’) e, infine, con la consapevolezza che il processo di comprensione deve faticosamente superare le reazioni immediate e non arrestarsi all’applicazione di giudizi codificati (‘devo capire meglio’).
Il suo lascito maggiore all’ecumenismo consiste proprio in questo: nella correlazione tra critica ed amore verso le altre tradizioni (il cattolicesimo in primo luogo, ma anche l’ortodossia, l’India e Gandhi, la ‘religione’ dell’antica Grecia…). Alla scuola di Bonhoeffer si impara che un ecumenismo che sia meno di questo non è ecumenismo; e che la prima condizione per arrivare a questo alto traguardo è ammettere – l’ammissione (tilstaaelse) kierkegaardiana! – che, se non ne siamo capaci, non siamo capaci di ecumenismo.

3. La questione ebraica. Lo sguardo verso oriente
Bonhoeffer ha vissuto in prima persona, come molti suoi coetanei, la crisi della cultura europea del primo dopoguerra. Questa crisi aveva coinvolto profondamente il cristianesimo, e particolarmente quel mondo ‘cristiano-borghese’, come lo ha chiamato Löwith, di cui già gli spiriti più acuti dell’Ottocento – da Kierkegaard, a Nietzsche, a Dostoevskij – avevano percepito l’imminente dissoluzione. La diagnosi di Bonhoeffer ha talvolta la radicalità e la perentorietà della profezia: in una lettera del febbraio 1932 egli parla della ‘fine’ della cristianità occidentale come di un evento inevitabile. La chiesa e il cristianesimo appaiono a Bonhoeffer coinvolti fino all’intimo nella crisi dell’Occidente perché hanno perso, per il simbiotico legame con questa civiltà, la dimensione innovativa, ‘rivoluzionaria’, che originariamente portavano con sé. Per questo egli ritiene che per cercare una via d’uscita bisogna guardare lontano, verso Oriente. ‘In realtà, il cristianesimo ha origine in Oriente, ma noi lo abbiamo occidentalizzato provocando quella distruzione di cui oggi facciamo esperienza’, scrive alla nonna Julie nel 1934. Resterà solo un progetto quello accarezzato per molti anni di conoscere personalmente Gandhi e di condividere l’esistenza comunitaria dello Ashram (la comunità dove Gandhi conduceva vita comune con i discepoli), ma la consapevolezza delle deformazioni che il cristianesimo subisce identificandosi in modo esclusivo con una civiltà è una delle ragioni che pongono la questione ebraica al centro della sua opera.
La sua prima presa di posizione in proposito risale all’aprile del 1933, cioè a circa due mesi di distanza dall’ascesa di Hitler al potere. In essa egli critica non solo la discriminazione all’interno della chiesa degli ebrei battezzati, ma anche quella del cittadino ebreo da parte dello stato. Bonhoeffer è probabilmente il primo teologo a impostare il problema con questa chiarezza e con tanta ampiezza, e ciò gli procurerà incomprensione ed isolamento anche da parte della stessa Chiesa Confessante (di cui faceva parte), cioè dell’area del protestantesimo tedesco che non aveva aderito alla politica ecclesiastica del regime.
Oltre ad affrontare la dimensione politica della questione ebraica, Bonhoeffer imposta alcune linee di una teologia cristiana dell’ebraismo che anticipano temi affrontati oggi dal dialogo ebraico-cristiano, come ad es. l’idea della irrevocabilità dell’elezione di Israele e il riconoscimento del significato rivelativo dell’esistenza del popolo eletto nella storia (mentre negativa è la sua posizione circa l’idea di uno Stato ebraico). Si ha un crescendo su questa linea, fino a quando nelle lettere dal carcere viene formulata la tesi per cui è necessario imparare a leggere la Bibbia a partire dall’Antico Testamento anziché dal Nuovo. Poiché, d’altra pare, egli non mette in discussione l’impostazione cristocentrica, che condivide con la ‘teologia dialettica’ e anzitutto con Barth – pur con notevoli punti di differenziazione –, viene posto sul tappeto il problema oggi più scottante nel dialogo ebraico-cristiano. L’abbozzo di soluzione che si può trovare nei suoi ultimi scritti consiste nel conferire alla stessa cristologia tratti ‘ebraistici’: un punto su cui finora gli studi su Bonhoeffer non hanno prestato forse la dovuta attenzione. È a questo punto che dobbiamo riprendere il discorso sulla dimensione sapienziale del pensiero di Bonhoeffer cui abbiamo fatto cenno all’inizio.

4. Una prospettiva sapienziale
Per prospettiva sapienziale intendiamo qui quella prospettiva – testimoniata dalla letteratura sapienziale ebraica e in altre tradizioni antiche – che consiste nel considerare il mondo come un complesso di cose, relazioni ed eventi sorretto da un ordine immanente (riconducibile più o meno direttamente a Dio). Il sapiente si interroga sulle regole che presiedono alla vicenda umana (dal contesto più immediato, quello familiare, a quello più ampio della sorte dei popoli e delle nazioni), cerca di individuare le costanti e le varianti, e fissandole in massime, in proverbi, in racconti, in consigli concorre alla formazione di un sapere che si accresce sulla base dell’esperienza delle generazioni, e nel quale le linee di condotta vengono determinate a partire dalla validità ed efficacia verificate dall’esistenza stessa.
La sapienza è dunque una conoscenza esperienziale che non appartiene al singolo, ma è patrimonio di una entità collettiva o comunitaria. Poiché essa tramanda indicazioni che la ‘lunga osservazione dei processi’ ha dimostrato efficaci per il buon vivere comunitario, le indicazioni sapienziali appaiono come legate alla natura stessa delle cose, alla legge inerente che presiede al loro sviluppo, alla struttura interna che le articola. Il sapiente è colui che possiede uno sguardo capace di percepire questa struttura profonda della realtà; il sapere che egli acquisisce attraverso questa percezione e attraverso la memoria delle esperienze passate lo aiuterà, assieme a coloro che seguono il suo insegnamento, a riuscire bene nella vita. Per questo il sapiente appare contemporaneamente come l’uomo giusto e come il benedetto da Dio.
L’interesse di Bonhoeffer per questa prospettiva dipende dal fatto che egli vede nel concetto di legge intrinseca una categoria che supera da una parte l’estrinsecismo dell’etica astratta delle norme e dei princìpi, e dall’altra l’immanentismo dell’etica secolarizzata, quell’e-tica che – come aveva già osservato nell’inverno 1931/32 – consiste nel semplice servile adattamento dell’agire alle leggi immanenti delle cose. Ma il concetto di legge gli serve anche per collegare la prospettiva sapienziale a quella cristologica.

5. Cristo, ‘la legge del reale’
Il concetto sapienziale di legge non si limita ad indicare il decalogo inteso come codice di norme. La legge – o, più propriamente: la Torà – in molti contesti dell’Antico Testamento non ha un significato nomistico, ma indica l’ordine universale voluto da Dio, fondato sulla creazione. Per questo il comandamento viene presentato come qualcosa che non raggiunge l’uomo proveniendo da lontano, ma che gli è da sempre vicino, vicino al cuore e alla bocca. Questa linea, le cui premesse si ritrovano già nella tradizione deuteronomistica, si sviluppa al punto che in Sir 24 (ma, secondo altri, anche nel salmo 19) la Torà viene identificata con la sapienza creata prima dei secoli, che ha preso dominio su ogni popolo e nazione. Implicitamente in Prov 8, Giobbe 28 e poi esplicitamente nella tradizione extratestamentaria, essa viene identificata con il piano di Dio secondo cui è costruito il mondo. Nel Midrash Rabbah la Torà è paragonata ad un architetto e al progetto di cui questi si serve per erigere un palazzo.
Nel vocabolario di Bonhoeffer il termine ‘legge’, tra i vari significati che riveste, ne ha spesso uno che si avvicina alla concezione sapienziale della Torà. Questo significato acquista un rilievo sempre maggiore nel corso dell’evoluzione del suo pensiero.
In questa accezione, il termine legge serve a render conto in termini teologico-cristologici della struttura della realtà. Come abbiamo visto, Bonhoeffer parla di ‘leggi’ del reale; se ci si ferma però al riconoscimento di queste leggi non si va oltre una fenomenologia sapienziale, che non si occupa del perché la realtà sia così costituita. La cristologia cosmologica giovannea e deuteropaolina da una parte (cf. le citazioni di Gv 1 e Col 1, che Bonhoeffer non considera una ‘speculazione’ come fa Bultmann, citazioni che costituiscono il nucleo di citazioni bibliche in assoluto più frequenti nell’Etica), e l’incarnazione (intesa come ‘entrare di Dio all’interno della realtà’) dall’altra, convergono nell’individuare in Cristo questo perché. Bonhoeffer può affermare così non soltanto che ‘le leggi dell’agire storico derivano dal centro della storia’, cioè da Cristo, ma addirittura che Cristo è la legge del reale, ‘das Gesetz des Wirklichen’. Questa definizione si avvicina fortemente alla concezione sapienziale della Torà, pur con tutte le differenze che derivano dal fatto che Bonhoeffer opera a partire da una prospettiva cristologica. L’idea che Cristo è la legge del reale non è comprensibile se non si assume che Bonhoeffer integra l’identificazione tra Cristo e sapienza, presente nel Nuovo Testamento, con l’identificazione tra sapienza e legge, propria, come abbiamo visto, della tradizione sapienziale veterotestamentaria.
Ma qui si presenta un ostacolo: com’è possibile collegare la prospettiva sapienziale, fondamentalmente ottimistica, che prevede la benedizione di Dio come garanzia di una vita felice per il giusto, con una cristologia che pone al proprio centro la theologia crucis, com’è per molti aspetti quella di Bonhoeffer?
Le sentenze sapienziali, specialmente quelle che prevedono un rapporto adeguato tra azione e risultato, cioè una sorte fausta per il giusto e infausta per gli stolti e gli empi, sono realistiche ‘perché parlano sulla base di esperienze che in una società ben compaginata si sono effettivamente dimostrate valide’. Ma queste sentenze ‘non funzionano più’ in un contesto di ‘instabilità sociale’. Questo fatto delimita il loro ambito di validità. Per questo motivo si è parlato di ‘crisi’ nella fase più tarda della tradizione sapienziale in Israele, in particolare in Giobbe e Qoèlet.
I tempi in cui Bonhoeffer ha vissuto sono stati tutt’altro che tempi di ordinata vita sociale. Egli li ha considerati tempi di totale sovvertimento dei valori, in cui il male non ha semplicemente sopraffatto il bene, ma ne ha usurpato la figura, presentandosi sotto l’apparenza della giustizia. Davanti ad un tale scompaginamento dei concetti etici di riferimento, la disponibilità a rischiare una scelta non sostenuta dalla tradizione diventava una premessa indispensabile dell’agire giusto. Per questo motivo la difesa delle leggi essenziali delle cose, secondo la linea sapienziale, viene integrata nell’Etica con la trattazione del ‘caso limite’, ossia di quella situazione che nasce quando gli ordinamenti della vita sociale vengono ‘sistematicamente’ manipolati e alla quale si può far fronte solo con la ‘libera responsabilità’, cioè con la capacità di individuare linee di comportamento al di fuori di quelle indicate dall’etica valida nei tempi ordinari: una assunzione di responsabilità che Bonhoeffer chiama ‘ultima ratio’.
Nelle lettere dal carcere il problema diventa più radicale perché qui Bonhoeffer non si misura più con un tempo di crisi tragico, ma di breve periodo; proprio perché il suo destino personale è ormai deciso, egli è spinto ad orientare lo sguardo più lontano e a misurarsi con una deriva epocale: quale fondazione teologica è ancora possibile dare alla struttura della realtà, alle leggi ad essa inerenti, quando – nel contesto della disumanità dilagante, del male che sembra non conoscere ostacoli – a Dio non si può più pensare, almeno non in primo luogo, come al creatore, né come all’incarnato, bensì come a ‘colui che si lascia scacciare dal mondo’? Come a colui che, nel mondo, manifesta la propria debolezza e impotenza? Ci può ancora salvare questo Dio?
6. Il Dio che si lascia scacciare dal mondo
A questa domanda Bonhoeffer non è riuscito a dare se non frammenti di risposta, che però possiamo cercare di ricomporre, perché indicano con relativa chiarezza come sarebbe stato compaginato il ‘tutto’, qualora il lavoro avesse potuto trovare compimento e la morte per impiccagione non avesse troncato l’esistenza di Bonhoeffer.
La risposta tuttavia non è difficile da individuare, se ripensiamo a quanto abbiamo detto: lo stesso ‘lasciarsi scacciare di Dio dal mondo’ fornisce alla realtà quella struttura che il sapiente riconosce come ad essa inerente, e la cui origine, nei tempi di stabilità dei valori, è ricondotta dalla riflessione teologica al Dio creatore o all’incarnato. In altre parole, lo spazio evacuato da Dio non è uno spazio amorfo, ma uno spazio in cui restano impressi i segni della storia da cui esso nasce. Nelle lettere da Tegel Cristo è la legge del reale non più in base alla sua partecipazione alla creazione, bensì in quanto è il Dio che si lascia scacciare. Quando, ricercando l’origine della struttura della realtà, l’attenzione è condotta a spostarsi dal creatore e dall’incarnato al Dio che ci abbandona, ha luogo anche una reinterpretazione della struttura stessa del reale. La legge della realtà ha adesso il suo momento saliente nel lasciarsi scacciare e nell’esistere-per-altri di Dio in Cristo. Di conseguenza, la libertà da se stessi fino alla morte non è distacco (stoico, religioso, ascetico) dal mondo, ma è la modalità d’esistenza che aderisce più profondamente alla realtà, è vita conforme alla realtà, cioè è vita sapiente.
Questa esistenza adeguata, conforme, commisurata alla realtà è chiamata da Bonhoeffer ‘partecipazione alla sofferenza – o anche: all’impotenza – di Dio nella vita del mondo’. È questo il modo di esistere attraverso il quale ‘si diventa uomini, si diventa cristiani’. Cristiani, perché questa esistenza è partecipazione alla passione di Dio in Cristo; uomini, perché essa corrisponde alle leggi essenziali della realtà. Perciò questa partecipazione alla sofferenza di Dio, che costituisce il rovesciamento di tutto ciò che ‘l’uomo religioso si attende da Dio’, è ‘qualcosa di integrale, un atto che coinvolge la vita’, al contrario della religione, che è sempre qualcosa di parziale. L’’esistere-per-altri’ è l’opposto della rinuncia alla propria identità; è la via attraverso la quale l’uomo diventa ánthropos téleios, uomo pienamente tale. L’essere pienamente uomini e l’essere pienamente cristiani vengono in questo modo a coincidere. Benedizione e croce non si escludono, ma si implicano a vicenda.

7. Benedizione e croce
Nel Nuovo Testamento il giusto per eccellenza non gode nella sua vita terrena dei beni che il sapiente predice a colui che segue il retto cammino indicato dalla legge delle cose, ma va incontro alla maledizione sulla croce e alla espulsione dal mondo. Una soluzione per ristabilire l’armonia tra Nuovo e Antico Testamento potrebbe essere quella di ricercare e sottolineare nell’Antico Testamento le anticipazioni della sofferenza del giusto, come Bonhoeffer aveva già fatto indicando nel cap. 53 di Isaia il luogo dove l’Antico Testamento giunge al suo ‘limite’ e ‘rinvia’ al Nuovo, e come fa anche nella lettera del 28 luglio, sulla scia di alcune riflessioni svolte sul salmo 34 circa un mese prima, ricordando come nell’Antico Testamento il ‘benedetto’ debba molto patire. Ma questa soluzione, da sola, rappresenterebbe ancora una lettura dell’Antico Testamento a partire dal Nuovo. Perciò Bonhoeffer si muove contemporaneamente nella direzione opposta, e oltre a cercare la croce nell’Antico Testamento, cerca anche la benedizione nel Nuovo Testamento; e, a rincaro, non nelle pagine più distese e a prima vista più promettenti per una simile ricerca, come potrebbero essere le lettere pastorali, o Giacomo, testi per altro verso da lui largamente utilizzati, bensì nel cuore stesso dello scandalo del Nuovo Testamento, cioè proprio nella croce: ‘la differenza fra Antico e Nuovo Testamento sta solo nel fatto che nell’Antico la benedizione racchiude in sé anche la croce, nel Nuovo la croce racchiude in sé anche la benedizione’. Il senso di questa frase va individuato proprio sulla base del significato assegnato alla croce nelle lettere immediatamente precedenti, appunto quelle dove la croce è presentata come il luogo in cui Dio si lascia scacciare dal mondo. Ma, se è così, Bonhoeffer sostiene in effetti che proprio questo lasciarsi scacciare contiene in sé la benedizione. La croce è quell’evento in cui viene ‘rovesciato ogni essere umano’, in cui il cor curvum viene ‘convertito’ nell’essere-per-altri. Questo evento conferisce senso all’esistere, è la benedizione di Dio al mondo, in quanto è l’evento che conferisce al mondo quella struttura, quelle leggi che ‘conservano’ e ‘rinnovano’ il mondo. Si tratta di leggi che portano inevitabilmente alla croce coloro che imboccano il lungo itinerario verso la libertà (‘Cristo, l’uomo-per-altri, perciò il crocifisso’); ma esse sono quelle leggi che permettono la vita piena, ‘perfetta’, nel contesto della natura corrupta. Nel mondo decaduto, cioè nel mondo concreto della storia, l’uomo autenticamente mondano è colui che non reprime le proprie passioni e sa trarre godimento dalla vita, ma che a tempo debito dovrà però anche affrontare le sofferenze che nascono dall’esistere-per-altri; è l’uomo la cui ‘profonda’ mondanità è ‘piena di disciplina’ ed è segnata (nel caso del cristiano) dalla ‘conoscenza della morte e della resurrezione’: costui è il benedetto, l’ánthropos téleios al quale Dio riserva i beni del mondo e la pienezza dell’esistenza.
Le due linee (la linea sapienziale e la linea della croce, la centralità e l’impotenza di Dio nel mondo) trovano a questo punto il loro momento di convergenza, e la morte, intesa come negazione della vita, viene ‘inghiottita’ dalla morte intesa come compimento di un’esistenza nella libertà ‘da se stessi’ per gli altri.

8. L’ultima tappa verso la libertà
Bonhoeffer è morto come un martire. Nei mesi immediatamente precedenti allo scoppio della guerra egli si trovava negli Stati Uniti, e avrebbe potuto evitare di ritornare in patria, essendo già chiara la sorte che lo attendeva. La decisione di ritornare fu la scelta consapevole di mettere a repentaglio la propria vita, a motivo, ultimamente, della causa di Cristo. Ma questa disponibilità a morire non è legata al disprezzo e nemmeno al distacco dalla vita. Nel 1942 egli scrive: ‘In questi anni (gli anni della guerra) ci siamo abituati all’idea della morte, ma non per questo moriamo volentieri; al contrario, gradiremmo poter vedere ancora qualcosa del senso di questa nostra esistenza martoriata’. Di conseguenza, gli sembrava inadeguato l’atteggiamento di chi affronta la morte in modo eroico. Era animato dal desiderio di essere colto dalla morte ‘nel pieno della vita e nella pienezza dell’impegno, non casualmente… o lontano dall’essenziale’. Questo desiderio è stato esaudito. C’è anche qui da mettere in evidenza il rapporto con la cristologia: la morte è sequela di Cristo, e il regno di Cristo non è ‘un regno del cuore, ma un regno sopra la terra e su tutto l’universo’. È il regno di colui che è il ‘centro della vita’. Precisamente per questo è un regno ‘per il quale vale la pena di rischiare la vita’, e per questo la morte è ‘l’ultima stazione’ sulla via della libertà:
Libertà, ti cercammo a lungo nella disciplina,
nell’azione, nel dolore.
Morendo, te riconosciamo ora nel volto di Dio.

Alberto Gallas
docente di Storia della teologia all’Università Cattolica di Milano

SOMMARIO
Il pensiero e l’opera di Bonhoeffer hanno goduto di una fortuna alterna. Il fatto però che l’interesse nei suoi confronti resista al mutare delle mode ne fanno ormai un classico del Novecento. Alla fine degli anni Sessanta il dibattito si è concentrato sulla sua critica alla religione, spesso peraltro intepretata in modo improprio. Ma sono numerosi i temi in cui egli ha lasciato un’eredità ancora viva: la questione della pace, l’ecumenismo, la questione ebraica, il recupero della tradizione sapienziale da parte del cristianesimo. 

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San Giovanni Paolo II

San Giovanni Paolo II dans immagini sacre Papa-Wojtyla

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GIOVANNI PAOLO II – OMELIA ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA 2001

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SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DELL’ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA

OMELIA DEL SANTO PADRE

Mercoledì, 15 agosto 2001

1. « L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte » (1 Cor 15,27)

Le parole di Paolo, risuonate poc’anzi nella seconda lettura, ci aiutano a comprendere il significato della solennità che quest’oggi celebriamo. In Maria, assunta in cielo al termine della sua vita terrena, risplende la vittoria definitiva di Cristo sulla morte, entrata nel mondo a causa del peccato di Adamo. È stato Cristo, il « nuovo » Adamo, a sconfiggere la morte, offrendosi in sacrificio sul Calvario, in atteggiamento di amore obbediente al Padre. Egli ci ha così riscattati dalla schiavitù del peccato e del male. Nel trionfo della Vergine, la Chiesa contempla Colei che il Padre ha scelto come vera Madre del suo Figlio unigenito, associandola intimamente al disegno salvifico della Redenzione.
È per questo che Maria, come ben evidenzia la liturgia, è segno consolante della nostra speranza. Guardando a Lei, rapita nell’esultanza delle schiere degli angeli, l’intera vicenda umana, frammista di luci e di ombre, si apre alla prospettiva dell’eterna beatitudine. Se l’esperienza quotidiana ci fa toccare con mano quanto il pellegrinaggio terreno sia sotto il segno della incertezza e della lotta, la Vergine assunta nella gloria del Paradiso ci assicura che mai ci verrà meno il soccorso divino.
2. « Nel cielo apparve per noi un segno grandioso: una donna vestita di sole » (Ap 12,1). Guardiamo a Maria, carissimi Fratelli e Sorelle, qui convenuti in un giorno tanto caro alla devozione del popolo cristiano. Vi saluto con grande affetto. Saluto in modo particolare il Signor Cardinale Angelo Sodano, mio primo collaboratore, e il Vescovo di Albano con il suo Ausiliare, ringraziandoli per la loro cortese presenza. Saluto inoltre il parroco con i sacerdoti che lo coadiuvano, i religiosi e le religiose e tutti i fedeli presenti, in speciale modo i consacrati salesiani, la Comunità di Castel Gandolfo e quella delle Ville Pontificie. Estendo il mio pensiero ai pellegrini di lingue diverse che hanno voluto unirsi alla nostra celebrazione. A ciascuno auguro di vivere con gioia l’odierna solennità, ricca di spunti di meditazione.
Un grande segno appare per noi nel cielo quest’oggi: la Vergine Madre! Ce ne parla con linguaggio profetico l’autore sacro del libro dell’Apocalisse nella prima lettura. Quale straordinario prodigio è dinanzi ai nostri occhi attoniti! Abituati a fissare le realtà della terra, siamo invitati a volgere lo sguardo verso l’Alto: verso il cielo, che è la nostra Patria definitiva, dove la Vergine Santissima ci attende.
L’uomo moderno, forse più che nel passato, è preso da interessi e preoccupazioni materiali. Cerca sicurezza e non di rado sperimenta solitudine e angoscia. E che dire poi dell’enigma della morte? L’Assunzione di Maria è un evento che ci interessa da vicino proprio perché ogni uomo è destinato a morire. Ma la morte non è l’ultima parola. Essa – ci assicura il mistero dell’Assunzione della Vergine – è transito verso la vita incontro all’Amore. È passaggio verso la beatitudine celeste riservata a quanti operano per la verità e la giustizia e si sforzano di seguire Cristo.
3. « D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata » (Lc 1,48). Così esclama la Madre di Cristo nell’incontro con l’anziana parente Elisabetta. Il Vangelo poco fa ci ha riproposto il Magnificat, che la Chiesa canta ogni giorno. È la risposta della Madonna alle parole profetiche di sant’Elisabetta: « Beata Colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore » (Lc 1,45).
In Maria la promessa si fa realtà: Beata è la Madre e beati saremo noi suoi figli se, come Lei, ascolteremo e metteremo in pratica la parola del Signore.
Possa l’odierna solennità aprire il nostro cuore a questa superiore prospettiva dell’esistenza. Possa la Vergine, che oggi contempliamo risplendente alla destra del Figlio, aiutare l’uomo di oggi a vivere, credendo « nel compimento della Parola del Signore ».
4. « Oggi i figli della Chiesa sulla terra celebrano con giubilo il transito della Vergine alla città superna, la Gerusalemme celeste » (Laudes et hymni, VI). Così canta la liturgia armena quest’oggi. Faccio mie queste parole, pensando al pellegrinaggio apostolico in Kazakhstan ed Armenia, che tra poco più di un mese, a Dio piacendo, compirò. Affido a Te, Maria, l’esito di questa nuova tappa del mio servizio alla Chiesa e al mondo. A Te chiedo di aiutare i credenti ad essere sentinelle della speranza che non delude, e a proclamare senza sosta che Cristo è il vincitore del male e della morte. Illumina Tu, Donna fedele, l’umanità del nostro tempo, perché comprenda che la vita di ogni uomo non si estingue in un pugno di polvere, ma è chiamata a un destino di eterna felicità.
Maria, « che sei la gioia del cielo e della terra », vigila e prega per noi e per il mondo intero, ora e sempre. Amen!

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SAN GIOVANNI PAOLO II – 22 OTTOBRE

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SAN GIOVANNI PAOLO II (KAROL WOJTYLA) PAPA

22 OTTOBRE – MEMORIA FACOLTATIVA

Wadowice, Cracovia, 18 maggio 1920 – Vaticano, 2 aprile 2005

(Papa dal 22/10/1978 al 02/04/2005 ).
Nato a Wadovice, in Polonia, è il primo papa slavo e il primo Papa non italiano dai tempi di Adriano VI. Nel suo discorso di apertura del pontificato ha ribadito di voler portare avanti l’eredità del Concilio Vaticano II. Il 13 maggio 1981, in Piazza San Pietro, anniversario della prima apparizione della Madonna di Fatima, fu ferito gravemente con un colpo di pistola dal turco Alì Agca. Al centro del suo annuncio il Vangelo, senza sconti. Molto importanti sono le sue encicliche, tra le quali sono da ricordare la « Redemptor hominis », la « Dives in misericordia », la « Laborem exercens », la « Veritatis splendor » e l’ »Evangelium vitae ». Dialogo interreligioso ed ecumenico, difesa della pace, e della dignità dell’uomo sono impegni quotidiani del suo ministero apostolico e pastorale. Dai suoi numerosi viaggi nei cinque continenti emerge la sua passione per il Vangelo e per la libertà dei popoli. Ovunque messaggi, liturgie imponenti, gesti indimenticabili: dall’incontro di Assisi con i leader religiosi di tutto il mondo alla preghiere al Muro del pianto di Gerusalemme. Così Karol Wojtyla traghetta l’umanità nel terzo millennio. La sua beatificazione ha luogo a Roma il 1° maggio 2011.
Karol Józef Wojtyla, eletto Papa il 16 ottobre 1978, nacque a Wadowice, città a 50 km da Cracovia, il 18 maggio 1920.
Era il secondo dei due figli di Karol Wojtyla e di Emilia Kaczorowska, che morì nel 1929. Suo fratello maggiore Edmund, medico, morì nel 1932 e suo padre, sottufficiale dell’esercito, nel 1941.
A nove anni ricevette la Prima Comunione e a diciotto anni il sacramento della Cresima. Terminati gli studi nella scuola superiore Marcin Wadowita di Wadowice, nel 1938 si iscrisse all’Università Jagellónica di Cracovia.
Quando le forze di occupazione naziste chiusero l’Università nel 1939, il giovane Karol lavorò (1940-1944) in una cava ed, in seguito, nella fabbrica chimica Solvay per potersi guadagnare da vivere ed evitare la deportazione in Germania.
A partire dal 1942, sentendosi chiamato al sacerdozio, frequentò i corsi di formazione del seminario maggiore clandestino di Cracovia, diretto dall’Arcivescovo di Cracovia, il Cardinale Adam Stefan Sapieha. Nel contempo, fu uno dei promotori del « Teatro Rapsodico », anch’esso clandestino.
Dopo la guerra, continuò i suoi studi nel seminario maggiore di Cracovia, nuovamente aperto, e nella Facoltà di Teologia dell’Università Jagellónica, fino alla sua ordinazione sacerdotale a Cracovia il 1 novembre 1946. Successivamente, fu inviato dal Cardinale Sapieha a Roma, dove conseguì il dottorato in teologia (1948), con una tesi sul tema della fede nelle opere di San Giovanni della Croce. In quel periodo, durante le sue vacanze, esercitò il ministero pastorale tra gli emigranti polacchi in Francia, Belgio e Olanda.
Nel 1948 ritornò in Polonia e fu coadiutore dapprima nella parrocchia di Niegowic, vicino a Cracovia, e poi in quella di San Floriano, in città. Fu cappellano degli universitari fino al 1951, quando riprese i suoi studi filosofici e teologici. Nel 1953 presentò all’Università cattolica di Lublino una tesi sulla possibilità di fondare un’etica cristiana a partire dal sistema etico di Max Scheler. Più tardi, divenne professore di Teologia Morale ed Etica nel seminario maggiore di Cracovia e nella Facoltà di Teologia di Lublino.
Il 4 luglio 1958, il Papa Pio XII lo nominò Vescovo titolare di Ombi e Ausiliare di Cracovia. Ricevette l’ordinazione episcopale il 28 settembre 1958 nella cattedrale del Wawel (Cracovia), dalle mani dell’Arcivescovo Eugeniusz Baziak.
Il 13 gennaio 1964 fu nominato Arcivescovo di Cracovia da Paolo VI che lo creò Cardinale il 26 giugno 1967.
Partecipò al Concilio Vaticano II (1962-65) con un contributo importante nell’elaborazione della costituzione Gaudium et spes. Il Cardinale Wojtyla prese parte anche alle 5 assemblee del Sinodo dei Vescovi anteriori al suo Pontificato.
Viene eletto Papa il 16 ottobre 1978 e il 22 ottobre segue l’inizio solenne del Suo ministero di Pastore Universaledella Chiesa.
Dall’inizio del suo Pontificato, Papa Giovanni Paolo II ha compiuto 146 visite pastorali in Italia e, come Vescovo di Roma, ha visitato 317 delle attuali 332 parrocchie romane. I viaggi apostolici nel mondo – espressione della costante sollecitudine pastorale del Successore di Pietro per tutte le Chiese – sono stati 104.
Tra i suoi documenti principali si annoverano 14 Encicliche, 15 Esorta-zioni apostoliche, 11 Costituzioni apostoliche e 45 Lettere apostoliche. A Papa Giovanni Paolo II si ascrivono anche 5 libri: « Varcare la soglia della speranza » (ottobre 1994); « Dono e mistero: nel cinquantesimo anniversario del mio sacerdozio » (novembre 1996); « Trittico romano », meditazioni in forma di poesia (marzo 2003); « Alzatevi, andiamo! » (maggio 2004) e « Memoria e Identità » (febbraio 2005).
Papa Giovanni Paolo II ha celebrato 147 cerimonie di beatificazione – nelle quali ha proclamato 1338 beati – e 51 canonizzazioni, per un totale di 482 santi. Ha tenuto 9 concistori, in cui ha creato 231 (+ 1 in pectore) Cardinali. Ha presieduto anche 6 riunioni plenarie del Collegio Cardinalizio.
Dal 1978 ha convocato 15 assemblee del Sinodo dei Vescovi: 6 generali ordinarie (1980, 1983, 1987, 1990; 1994 e 2001), 1 assemblea generale straordinaria (1985) e 8 assemblee speciali (1980, 1991, 1994, 1995, 1997, 1998 [2] e 1999).
Nessun Papa ha incontrato tante persone come Giovanni Paolo II: alle Udienze Generali del mercoledì (oltre 1160) hanno partecipato più di 17 milioni e 600mila pellegrini, senza contare tutte le altre udienze speciali e le cerimonie religiose (più di 8 milioni di pellegrini solo nel corso del Grande Giubileo dell’anno 2000), nonché i milioni di fedeli incontrati nel corso delle visite pastorali in Italia e nel mondo; numerose anche le personalità governative ricevute in udienza: basti ricordare le 38 visite ufficiali e le altre 738 udienze o incontri con Capi di Stato, come pure le 246 udienze e incontri con Primi Ministri.
Muore a Roma, nel suo alloggio nella Città del Vaticano, alle ore 21.37 di sabato 2 aprile 2005. I solenni funerali in Piazza San Pietro e la sepoltura nelle Grotte Vaticane seguono l’8 aprile.
La festa liturgica è iscritta nel Calendario Romano generale al 22 ottobre, con il grado di memoria facoltativa.

Fonte:
www.karol-wojtyla.org

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Mass-revelation at the Mount Horeb in an illustration from a Bible card published by the Providence Lithograph Company, 1907

Mass-revelation at the Mount Horeb in an illustration from a Bible card published by the Providence Lithograph Company, 1907 dans immagini sacre The_Ten_Commandments_%28Bible_Card%29
http://en.wikipedia.org/wiki/Biblical_Mount_Sinai

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L’AMICIZIA (articolo Don Boscoland)

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=124469

L’AMICIZIA

L’amicizia è spesso considerata una forma limitata di amore, un sentimento molto più debole, meno impegnativo. È certamente meno celebrata e cantata rispetto all’amore, ma nella vita di ogni persona si rivela come una dimensione indispensabile. Forse proprio nei momenti di crisi si riflette sul suo valore, quando ci si chiede: quale senso avrebbe la mia vita senza i miei amici?
L’amicizia è spesso considerata una forma limitata di amore, un sentimento molto più debole, meno impegnativo. È certamente meno celebrata e cantata rispetto all’amore, ma nella vita di ogni persona si rivela come una dimensione indispensabile. Forse proprio nei momenti di crisi si riflette sul suo valore, quando ci si chiede: quale senso avrebbe la mia vita senza i miei amici? A partire dal volume L’avventura dell’amicizia (1), ci soffermeremo a riflettere sull’amicizia intesa come «avventura esistenziale», per considerare le molte dimensioni «di luce e di sapore» che questa virtù occupa nella vita di ogni persona.

L’amicizia come virtù
Alcuni filosofi contemporanei si sono chiesti se l’ideale di amicizia descritto dai classici come splendido, carico di affetto e di altruismo, sia ancora valido oggi come nel passato. Sappiamo che il mondo greco riteneva la philia l’elemento che consentiva qualsiasi relazione sociale, chiamata da Aristotele koinonia, intesa come comunione e condivisione. Ma quando questo «mettere in comune» si fonda su un calcolo utilitario, possiamo parlare di amicizia? Aristotele, Cicerone e altri scrittori dell’antichità sostengono che il vero amico non desidera mai fare qualche cosa che non sia in sé morale, nobile e virtuosa. L’antica idea aristotelica dell’amicizia è che gli amici facciano emergere l’uno il meglio dell’altro.
In tale prospettiva l’amicizia non può essere questione di calcolo né si limita ad essere solamente una forma di affetto o di passione, «ma è una virtù, cioè una disposizione stabile, dunque legata alla durata e alla fedeltà» (p. 7). Per questo, con ragione, l’amicizia va intesa come un’avventura; si tratta di un cammino, di una storia di incontri, in cui l’esperienza sempre nuova ci fa scoprire la gioia di ritrovarsi, il piacere di stare insieme gratuitamente, la facilità di comunicare reciprocamente in piena libertà, in un’atmosfera di essenzialità che alla presenza dell’altro ci fa dire «stiamo bene insieme».
Gli amici possono avere la stessa formazione o gli stessi interessi, ma, al più alto livello, l’amicizia riguarda la formazione e l’elevazione di un buon carattere: un’amicizia che porti corruzione o altre intenzioni malvagie non è, ipso facto, vera amicizia (2). I fini non buoni sono un impedimento alla costruzione di una vera amicizia. Gli amici, nel senso aristotelico, si offrono reciproci benefici; per dirlo con le parole di Aristotele: «È proprio dell’amico piuttosto fare il bene che riceverlo, [...] è proprio dell’uomo buono e della virtù il beneficare». Infatti, una delle ragioni per avere amici, secondo Aristotele, era avere persone a cui fare del bene. Per questa ragione persino gli uomini perfettamente felici hanno bisogno di amici, poiché senza di loro sono incompleti. Per questo egli definisce l’amicizia come «cosa necessarissima per la vita. Infatti nessuno sceglierebbe di vivere senza amici, anche se avesse tutti gli altri beni» (Etica Nicomachea, libro VIII, cap. I).
In una vera amicizia, dunque, la questione di vivere egoisticamente o altruisticamente non entra in gioco, ma si dissolve nel volere il bene dell’altro, nella capacità di realizzare quel «prodigio di camminare ciascuno al proprio passo pur andando allo stesso ritmo». Non ci si schiaccia e non ci si riduce a stare uno davanti all’altro ma, come sottolinea X. Lacroix, «lo sguardo si volge a un orizzonte che è insieme comune e liberamente visitato da ognuno».
Anche la cultura mediorientale ha descritto questa realtà negli stessi termini. Kahlil Gibran descrive l’amico con queste parole: «Il vostro amico è la vostra esigenza soddisfatta […], è lui che ricercate per la vostra pace […]. Quando egli tace, il vostro cuore non smetta di ascoltare il suo cuore. Poiché nell’amicizia, pensieri, desideri, attese, tutto nasce ed è condiviso senza parole, con una gioia priva di plauso. Se vi separate dall’amico non rattristatevi; poiché ciò che maggiormente amate in lui può meglio risplendere nell’assenza […]. E sia per l’amico la parte migliore di voi […]. Poiché nella rugiada delle piccole cose il cuore scopre il suo mattino e ne è ristorato» (3).
È infatti dalle piccole cose che l’amicizia si mostra senza bisogno di dimostrarsi. L’amico, scrive Alberoni, «è colui che ci rende giustizia» (p. 10), senza essere però tribunale e giudice delle nostre azioni. Due amici possono avere cammini molto diversi fino a evolvere in direzioni religiose o politiche diverse, ma la forza sta nell’«accogliere tali cambiamenti come un’occasione […]. L’amico non è soltanto colui che mi arricchisce, può essere anche colui che mi interroga, mi critica, mi rende più povero. Potrà essere che viene a ricordarmi che il mio itinerario non è l’unico possibile e che, proprio a partire da ciò che ci unisce, sono possibili altre scelte spirituali, intellettuali o esistenziali» (p. 17). Ciò che trasforma sono esattamente le caratteristiche intrinseche dell’amicizia: la fedeltà, l’accoglienza, la parità, la benevolenza e la gratuità (4). Ne esiste un’altra: l’amicizia ha bisogno della presenza che va al di là di qualsiasi parola.

La differenza tra amore e amicizia
Una prima differenza tra amore e amicizia risiede nella genesi dell’incontro: «Nell’amore c’è il colpo di fulmine, che nell’amicizia è assente» (p. 20). I gesti dell’amicizia, come un sorriso, una mano sulla spalla, un bacio, da una parte dicono l’incarnazione di una realtà che si vive, dall’altra acquistano significato soltanto se c’è la volontà di non possedere l’altro. Infatti «l’amicizia si accontenta, anzi si rallegra, dell’apparire dell’amico; l’amore invece aspira ad assaporarne la sostanza, il palpito sensibile della sua vita […]. [Se] l’altro è nel contempo altro da me stesso, e mio simile, anche se differente da me, l’amicizia sarà esperienza di similitudine nell’alterità, mentre l’amore sarà avventura della differenza in tensione verso l’unità» (p. 22). Ecco la differenza tra vivere in comunione con l’amico e l’unione con un partner. Nell’amicizia, afferma A. Cugno, «vi è un funzionamento della sessualità del tutto specifico, che si può chiamare molto semplicemente castità» (cfr p. 24). Le amicizie dunque non si possiedono; quando tendono a diventare esclusive potrebbero essere l’anticamera dell’amore, che come caratteristica propria ha quella dell’esclusività. Invece l’amicizia, per quanto profonda, lascia sempre spazio ad altre amicizie, dalle quali può anche trarne arricchimento.
X. Lacroix, distingue tre diverse forme di amicizia: per simpatia, per angoscia e amicizia fraterna. La prima si fonda su un dono autentico dato da una «disposizione spirituale di uno verso l’altro» che fa esclamare: «Perché era lui, perché ero io» (p. 132). L’amicizia per angoscia coinvolge coloro che hanno condiviso una forma di solidarietà forte, come, ad esempio, i compagni di prigionia. L’amicizia fraterna si caratterizza per essere cresciuti insieme all’amico o quando un fratello sia anche un amico.
Anche le dimensioni spazio-temporali sono quasi opposte tra l’amicizia e l’amore. F. Alberoni definisce l’amicizia un «aggregato di frammenti». Quando, ad esempio, si incontra un amico che è stato un compagno di scuola, l’esclamazione «da quanto tempo non ci si vede» assume un significato particolare che vince il tempo: «Tra amici è espressione di gioia, serena e gratificante, mentre tra amanti rappresenta piuttosto una lamentela, l’espressione di una fatica, quando non è un rimprovero» (p. 31); anche per questa sua caratteristica l’amicizia, alla fine, si mostra «più stabile di tanti amori».
L’amicizia fa soffrire meno dell’amore. Nella sua analisi X. Lacroix pone l’accento su un elemento antropologico che può confondere: «A volte si confonde l’amicizia con l’amore (amicizia erotizzata), dall’altro si tende a concepire l’amore sul modello dell’amicizia», e aggiunge: «Il termine “compagno” che attualmente ricorre spesso al posto di sposo o di coniuge non conviene forse all’amico?» (p. 36). Per uscire dall’ambiguità, X. Lacroix ricorda che è proprio degli amori stabili la capacità di permettere di vivere amicizie limpide, come del resto è proprio delle vere e profonde amicizie aiutare le storie d’amore ad aprirsi e a dare respiro. Ma l’amicizia permette anche all’amore di purificarsi: «Quel fuoco oscuro delle passioni viene in un certo senso purificato dall’amicizia, che lo sublima e lo spiritualizza» (p. 117). Le domande che l’amicizia fa sorgere con forza, sono domande ultime, sono domande morali: per chi viviamo? Per chi siamo al mondo: per noi o per gli altri?
Per vivere serenamente l’avventura dell’amicizia bisogna avere fiducia in se stessi; questo non significa amarsi per volere solamente il bene dell’altro, ma, come direbbe Nicolas Malebranche, chiede di «smetterla di amarsi male» (cfr p. 114). Nel suo articolo, Jean Lacroix parla dell’amicizia come «ricerca in comune della verità» (p. 110), che è scoperta dell’altro in quanto altro, e aiuto reciproco a comprendere la propria vocazione nella vita, perché «il tu che l’amicizia scopre non può essere raggiunto che nella sua relazione con il tu assoluto, cioè con Dio» (p. 112). L’amicizia è dunque un appello all’altro, perché diventi nella verità colui che è chiamato ad essere. Nella sua analisi, Péguy ricorda che, malgrado il male, l’odio, le menzogne e le infedeltà, «l’esperienza dell’amicizia non è soltanto ciò che mi permette di evitare la disperazione, ma [ciò] che mi permette di avere una fiducia invincibile nell’uomo» (p. 116).

L’amicizia nella Bibbia e la teologia
Nella Bibbia si raccontano storie di amicizia, come quella tra Gionata e David o tra Rut e Noemi. Quest’ultima ci ha regalato versetti di straordinaria commozione: «Perché dove andrai tu andrò anch’io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu, morirò anch’io e vi sarò sepolta. Il Signore mi punisca come vuole, se altra cosa che la morte mi separerà da te» (Rt 1,16-18). Grazie a tale insistenza Noemi comprese quale dono fosse Rut per la sua vita, così partirono insieme per il loro viaggio. Più in generale, queste parole pronunciate da un’amica per un’amica sono oggi una provocazione per quanti vogliono misurare il loro grado di fedeltà verso i propri amici.
Ma l’Antico Testamento invita anche a stare in guardia per discernere se davvero il vero amico è colui che «ama in ogni circostanza; [ed] è un fratello nell’avversità» (Prv 17,17). Il libro del Siracide dedica all’amicizia una sua parte, il cap. 6, e afferma: «Prima di farti un amico, mettilo alla prova, non confidarti subito con lui. C’è chi è amico quando gli è comodo, ma non resiste nel giorno della tua sventura. C’è anche l’amico che si cambia in nemico e scoprirà a tuo disonore i vostri litigi. C’è l’amico compagno a tavola, ma non resiste nel giorno della tua sventura. Nella tua fortuna sarà come un altro te stesso […] ma se sarai umiliato, si ergerà contro di te e dalla tua presenza si nasconderà» (Sir 6, 7-12). La parte sull’amicizia si conclude con parole di alto valore sapienziale: «Un amico fedele è una protezione potente, chi lo trova, trova un tesoro. Per un amico fedele non c’è prezzo, non c’è peso per il suo valore» (Sir 6,14-15).
C’è chi sostiene che il Nuovo Testamento non dia spazio a storie di amicizie. Invece nel Vangelo di Giovanni troviamo le parole con cui Gesù definisce, in termini di amicizia, il suo rapporto con i discepoli: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto quello ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere anche a voi» (Gv 15,15). Dio chiama l’uomo: amico. Secondo il testo, si tratta di un’amicizia offerta come dono al discepolo, che, nella sua libertà, è chiamato ad accettarla e a viverla. L’icona di Giovanni che durante l’Ultima Cena appoggia il volto sul cuore di Gesù è un singolare momento di amicizia rimasto a lungo nella memoria della Chiesa primitiva. In proposito Jean Galot ha affermato che «l’amicizia per Giovanni appare profondamente incarnata. […]. Stringendo un’amicizia con il discepolo, [il Signore] mostra che né per l’uno né per l’altro vi è infrazione al dono totale di sé. Non solo quell’amicizia non può nuocere alla consacrazione, ma è in armonia con essa» (5). Così Cristo è stato amico di Marta e Maria e del loro fratello Lazzaro a tal punto che davanti alla sua morte, dirà sant’Ireneo, Gesù pianse come uomo e amico e lo resuscitò come Dio. Davanti a queste scene evangeliche, «il sacro deve d’ora in poi liberarsi da una corteccia troppo fredda e troppo ieratica per entrare nel calore dell’amicizia, perché la comunicazione con la vita divina ha come sorgente l’Amico» (6). Comprendere la dimensione sacra del rapporto con Dio, che nel volume in esame è spiegata dai domenicani Jean-Marie Gueullette e da Luc Devillers, non può che includere il senso della consacrazione vissuta come un’amicizia che unisce a Cristo e che da lui si irradia agli altri.

L’amicizia spirituale
«L’amicizia con l’altro è un’epifania dell’amicizia con Dio», ha scritto Thomas Merton. A questo riguardo, la parte finale del volume riporta il pensiero di Aelredo di Rievaulx, monaco cistercense del XIII secolo, che nel suo testo L’amicizia spirituale afferma: «Un amico che prega Cristo per conto dell’amico, e desidera essere esaudito da Cristo per amore dell’amico, finisce per dirigere su Cristo il suo amore e il suo desiderio […]. In questo modo da quell’amore santo con cui si abbraccia il proprio amico, si sale a quello con cui si abbraccia Cristo: si afferma così, nella letizia spirituale, nell’attesa di una pienezza che si realizzerà nel tempo a venire» (p. 137). La stessa idea è stata ripresa alcuni secoli più tardi da Francesco di Sales: «Parlo dell’amicizia spirituale per cui due o tre anime si comunicano la loro devozione e i loro affetti spirituali, fino a formare un solo corpo» (p. 159 s). In Cristo i conflitti e le ferite, le contraddizioni e le crisi che nel tempo un’amicizia può subire, non la distruggeranno in forza dell’aver sperimentato il dono che noi chiamiamo perdono.
Il volume si chiude con l’articolo di Roger Schutz, fondatore della comunità di Taizé. Egli ritiene che «bisogna conoscere la solitudine con se stessi per cogliere i valori di certi incontri», che di per sé possono anche essere limitati nel tempo, ma «segnare tutta un’esistenza» (p. 167). Nel suo diario, dichiarava: «Un fratello mi scrive: In questi tempi in cui Dio ci mette alla prova per osservare il nostro grado di amicizia con lui, le amicizie che viviamo con gli uomini e con i nostri fratelli assumono una dimensione di eternità» (p. 168). Perciò una delle grandi sfide è saper guardare le amicizie con gli occhi della fede, che disvelano un senso profondo su di sé e la realtà storica che si vive. In fondo tutto è da ricondurre alla sete di relazioni che gli uomini hanno: R. Schutz si chiede se alla radice di questa intuizione esistenziale non vi sia «una comunione altra, più essenziale, da raggiungere con Cristo» (p. 169).

* * *
Al di là di molte variazioni sul tema che vanno dall’idealizzazione all’elogio enfatico dell’amicizia, abbiamo voluto, attraverso l’analisi di questo volume divulgativo del tema, che si presenta come un utile strumento pastorale, e delle fonti citate in nota, ribadire che l’amicizia, intesa come valore morale, è quel cammino che vuol condurre a dire all’amico: «In me tu non morirai!».

(1)Cfr R. Comte – J. Lacroix – R. Schutz et Al., L’avventura dell’amicizia, Magnano (Bi), Qiqajon, 2007, 184, € 12,50.
(2) Cfr J. Epstein, Amicizia, Bologna, il Mulino, 2008, 102.
(3) K. Gibran, Il profeta, Roma, Newton, 1993, 78.
(4) Cfr S. De Guidi, «Amicizia», in Nuovo Dizionario di teologia morale, Cinisello Balsamo (Mi), Ed. Paoline, 1990, 17-35.
(5) J. Galot, «L’amicizia, valore evangelico», in Civ. Catt. 1977 III 120 s.
(6) Ivi, 121.

La Civiltà Cattolica 2009

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RIFLESSIONI DI MONS. G.B. MONTINI SU MARIA ASSUNTA AL CIELO

http://www.istitutopaolovi.it/notizia-istituto-paolo-vi.asp?idi=10

RIFLESSIONI DI MONS. G.B. MONTINI SU MARIA ASSUNTA AL CIELO

05/08/2010

[…] L’Assunzione […], quasi a nostra insaputa, fissa ed esalta l’antropologia cristiana, cioè la scienza dell’uomo, nei termini più chiari e più consolanti. […] Noi ricapitoliamo, nel glorioso epilogo della vita di Maria, tutta la dottrina su la vita umana. Noi celebriamo una festa che si riferisce allo stato della vita oltre il tempo, alla vita futura; affermiamo con ciò stesso l’esistenza di questa vita futura; l’ultimo articolo del credo trova qui una sua gloriosa affermazione; […].
[…] la Madonna […] ci appare oggi viva e vera, nella integrità del suo essere stupendo e innocente, nella bellezza spirituale e corporea di tutta la sua immacolata umanità; nel trionfo vitale ed estetico proprio della risurrezione della più pura, della più gentile, della più ideale e più reale donna, che la terra abbia mai generata e che il cielo per sempre custodirà. […]
[…] ben diversa la nostra dalla sua sorte, non è diverso il finale destino, che in Lei è stato subito compiuto e anticipato sul giorno del finale giudizio, nel quale la morte sarà vinta, e la carne umana risorgerà. Risorgerà simile a quella della Madre celeste, se la purità, che durante la vita terrena fu sua per grazia, sarà nostra per virtù, che vuol dire per laboriosa difesa, per difficile conquista, per perseverante orazione. […]
Da « L’umanità in Maria ». Omelia durante il Pontificale nel duomo di Mìlano nella solennità di Maria Assunta, 15 agosto 1956, in G.B. Montini (Arcivescovo di Milano), Discorsi e scritti milanesi (1954-1963), vol. I, Brescia-Roma, Istituto Paolo VI-Edizioni Studium, 1997, n. [413], pp. 918-924.

* * *
[…] Noi viviamo in un periodo in cui l’attrattiva delle cose naturali si è fatta assai suggestiva; natura, scienza, tecnica, economia e godimento impegnano potentemente la nostra attenzione, il nostro lavoro, la nostra speranza; e la fecondità meravigliosa, che l’ingegno e la mano dell’uomo hanno saputo trarre dal seno della terra, ci ha procurati beni, ricchezze, cultura, piaceri, che sembrano saziare ogni nostra aspirazione, e che sembrano corrispondere perfettamente alle nostre facoltà di ricerca e di possesso. Le parole del Vangelo […] dicono il rimprovero di Gesù a Marta troppo sollecita delle cose materiali. Qui è la vita, dice la nostra faticosa, ma vittoriosa conquista del mondo circostante; e qui si dirigono, si legano e si arrestano i nostri desideri; qui arriva la nostra speranza, qui si ferma il nostro amore. E quando è così – e come spesso lo è –, non siamo più capaci di pregare, di aspirare alle cose trascendenti e supreme, di porre la nostra speranza al di là del quadro della nostra immediata esperienza. […]
In altri termini: siamo gente tutta occupata dai desideri e dagli affari di questo mondo, come se altro noi non dovessimo cercare ed amare. Così non siamo più spiriti veramente religiosi, che conoscono la contingenza radicale delle cose presenti; e non siamo più allenati a estrarre i valori superiori, che sono quelli morali, connessi col nostro eterno destino, dal rapporto, che pur dobbiamo cercare e perfezionare, con le cose presenti; le quali sono solo a noi prodighe di valori utili, ma non definitivi.
Ecco allora che la festa dell’Assunzione di Maria fa risuonare alle nostre anime, quasi uno squillo di trombe celesti, una chiamata che parte di là, dall’altra riva della vita, quella oltre il tempo e oltre questo quadro del nostro mondo naturale, quella dell’eternità e della vita soprannaturale nella sua dispiegata pienezza.
Così l’Assunzione della Madonna ci obbliga, con suadente invito, a verificare se la via, che ciascuno di noi percorre, è rivolta verso il sommo traguardo, e a rettificarla decisamente verso di esso. […]
Maria ci chiami. Maria ci dia la fede nel Paradiso e la speranza di raggiungerlo. Maria ci aiuti a camminare per la via di quell’amore che a quel beato termine conduce. Maria ci insegni ad operare con bravura e con dedizione, sì, nella cura delle cose di questo mondo, che ci danno il programma dei nostri immediati doveri; ma Maria ci dia insieme la sapienza e la povertà di spirito, che tengano liberi i nostri cuori e agili i nostri animi per la ricerca dei beni eterni. […]

Da « Leviamo in alto le nostre teste ». Omelia durante il Pontificale nel Duomo di Milano nella solennità di Maria Assunta, 15 agosto 1961 in G.B. Montini (Arcivescovo di Milano), Discorsi e scritti milanesi (1954-1963), vol. III, Brescia-Roma , Istituto Paolo VI-Edizioni Studium, 1997, n. [1831], pp. 4545-4552.

Publié dans:Maria Vergine, Papa Paolo VI |on 21 octobre, 2014 |Pas de commentaires »
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