Santi Simone e Giuda

SANTI SIMONE E GIUDA APOSTOLI
28 ottobre – Festa
I secolo dopo Cristo
Il 28 di ottobre la Chiesa commemora la festa liturgica degli Apostoli SIMONE e GIUDA TADDEO
Il primo era soprannominato Cananeo o Zelota, e l’altro, chiamato anche Taddeo, figlio di Giacomo.
Nei vangeli i loro nomi figurano agli ultimi posti degli elenchi degli apostoli e le notizie che ci vengono date su di loro sono molto scarse. Di Simone sappiamo che era nato a Cana ed era soprannominato lo zelota, forse perché aveva militato nel gruppo antiromano degli zeloti. Secondo la tradizione, subì un martirio particolarmente cruento. Il suo corpo fu fatto a pezzi con una sega. Per questo è raffigurato con questo attrezzo ed è patrono dei boscaioli e taglialegna.
L’evangelista Luca presenta l’altro apostolo come Giuda di Giacomo. I biblisti sono oggi divisi sul significato di questa precisazione. Alcuni traducono con fratello, altri con figlio di Giacomo.
Matteo e Marco lo chiamano invece Taddeo, che non designa un personaggio diverso. È, invece, un soprannome che in aramaico significa magnanimo. Secondo san Giovanni, nell’ultima cena proprio Giuda Taddeo chiede a Gesù: «Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?». Gesù non gli risponde direttamente, ma va al cuore della chiamata e della sequela apostolica: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui». L’unica via per la quale Dio giunge all’uomo, anzi prende dimora presso di lui è l’amore. Non è una caso che la domanda venga da Giuda. Il suo cuore magnanimo aveva, probabilmente, intuito la risposta del Maestro. Come Simone, egli è venerato come martire, ma non conosciamo le circostanze della sua morte. Secondo gli Atti degli Apostoli, però, sappiamo che gli apostoli furono testimoni della resurrezione, e questa è la gloria maggiore dell’apostolo e di ogni discepolo di Gesù.
Martirologio Romano: Festa dei santi Simone e Giuda, Apostoli: il primo era soprannominato Cananeo o “Zelota”, e l’altro, chiamato anche Taddeo, figlio di Giacomo, nell’ultima Cena interrogò il Signore sulla sua manifestazione ed egli gli rispose: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui».
San SIMONE
Patronato: Pescatori
Etimologia: Simone = Dio ha esaudito, dall’ebraico
Emblema: Barca
Nonostante sia il più sconosciuto degli Apostoli, nella cui lista è solo nominato all’undicesimo posto, numerosissime opere d’arte lo raffigurano, sparse in tutta Italia ed in Europa, a testimonianza di un culto molto diffuso nella cristianità.
Stranamente a differenza degli altri apostoli, le notizie pervenutaci sulle sue origini, sulla sua presenza in seno al collegio apostolico, sulla sua attività evangelizzatrice, sulla sua morte, sono tutte incerte e sempre state controverse negli studi dei vari esperti lungo tutti i secoli.
Quindi siamo obbligati a considerare le varie ipotesi, mancando la certezza per una sola. Prima di tutto Gesù scelse i suoi apostoli guardando solo al cuore degli uomini e li volle appartenenti alle varie correnti del giudaismo di allora, dai farisei ai discepoli di s. Giovanni Battista, dagli zeloti a personaggi diciamo appartenenti alla gente comune, come pure un pubblicano.
Simone, per distinguerlo da Simon Pietro, gli evangelisti Matteo e Marco gli danno il soprannome di “Zelota” o “Cananeo”, forse l’appellativo può indicare la sua appartenenza al partito degli Zeloti, i ‘conservatori’ delle tradizioni ebraiche e fautori della libertà dallo straniero anche con le armi, oppure dalla città d’origine cioè Cana di Galilea.
Molti identificano Simone con l’omonimo cugino di Gesù, più noto come Simone fratello dell’apostolo Giacomo il Minore, al quale secondo la tradizione riportata da Egesippo del II secolo, sarebbe succeduto come vescovo di Gerusalemme dal 62 al 107, anno in cui subì il martirio sotto Traiano (53-117) a Pella, dove si era rifugiato con la sua comunità, per sfuggire alla seconda guerra giudaica.
I Bizantini lo identificano con Natanaele di Cana e con il direttore di mensa alle nozze di Cana; i Latini e gli Armeni lo fanno operare e morire in Armenia.
Fortunato vescovo di Poitiers, dice che Simone insieme a s. Giuda Taddeo apostolo, furono sepolti in Persia, dove secondo le storie apocrife degli Apostoli, sarebbero stati martirizzati a Suanir.
Un monaco del IX secolo affermava che una tomba di s. Simone esisteva a Nicopsis (Caucaso) dove era anche una chiesa a lui dedicata, fondata dai Greci nel secolo VII.
Altri ancora affermano che Simone visitò l’Egitto e insieme a s. Giuda Taddeo, la Mesopotamia, dove entrambi subirono il martirio, segati in due parti, da qui il loro patrocinio su quanti lavorano al taglio della legna, del marmo e della pietra in genere.
Ma al di là di tutte le incertezze, Simone lo ‘Zelota’ o il ‘Cananeo’, è senz’altro un Apostolo di Cristo e come tutti i discepoli del Signore, prese il suo bastone e percorse a piedi regioni vicine e lontane, per portare la luce della Verità e propagare la nuova religione fra i pagani.
Lo si può paragonare ai tanti discepoli di Cristo, che in ogni tempo hanno lavorato e lavorano nel silenzio e nascondimento per il trionfo del Regno di Dio, senza riconoscimenti eclatanti e ufficiali, in piena umiltà, perseveranza e sacrificio anche cruento della vita.
Simone comunque è sempre rappresentato con gli altri Apostoli, nell’iconografia di Cristo e della Vergine, quindi nelle raffigurazioni del Cenacolo e negli altri momenti comuni degli Apostoli, la Pentecoste e la ‘Dormitio Verginis’.
Nella ‘Leggenda Aurea’ e nel Martirologio Romano egli è accomunato all’altro apostolo s. Giuda Taddeo, con il quale si ritiene predicò il Vangelo in Egitto e Mesopotamia e subendo insieme il martirio secondo alcuni scrittori.
La loro festa ricorre il 28 ottobre, a Venezia è a loro dedicata la chiesa di “S. Simone Piccolo”.
San GIUDA TADDEO
Patronato: Casi disperati
Etimologia: Giuda = zelatore di Dio, lodata, dall’ebraico
Emblema: Barca, Bastone, Lancia
San Giuda non va confuso con l’omonimo Apostolo traditore, Giuda Iscariota, il ” figlio della perdizione “. Quello di oggi è Giuda fratello di Giacomo, detto Taddeo, cioè ” dal petto largo “, che vuol dire poi ” magnanimo “.
Il nome di Giuda, prima che l’infelice traditore lo rendesse odioso, era uno dei più belli nella storia ebrea. Era stato portato da uno dei figli di Giacobbe, o Israele, e a Giuda si intitolò una delle dodici Tribù, quella dalla quale sarebbe fiorito, in Betlemme, terra di Giuda, il virgulto del Messia.
Giuda Maccabeo, eroe della rivolta giudaica contro Antioco IV, e Giuda detto il Santo, maestro per eccellenza, avevano reso onore a quel nome, come gli rese onore l’Apostolo San Giuda, detto Taddeo, che possiamo immaginare alla mensa dei Redentore, proprio accanto al suo omonimo Giuda Iscariota. Egli domanda a Gesù: “Signore, che cosa è avvenuto, che tu debba manifestarti a noi e non al mondo?”. E Gesù gli risponde: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio l’amerà e verremo a lui, e faremo una cosa sola”.
E’ la lezione dell’amore mistico, che Giuda Taddeo provoca con la sua domanda. L’amore di Dio unisce, mentre l’amore di se stessi divide.
Per questo, San Giuda scrisse una breve lettera, nella quale rimprovera i fomentatori di discordie, che chiama “nuvole senza acqua, portate qua e là dai venti; alberi d’autunno, senza frutto, onde furiose del mare, che spumano le proprie turpitudini. astri erranti, ai quali sono serbate in eterno le tenebre più profonde”.
“Costoro – egli dice – sono mormoratori queruli che vivono secondo i loro appetiti, e la loro bocca parla di cose superbe, e se lodano qualcuno, lo fanno per fini interessati”.
La breve lettera di Giuda, che fu giudicata “piena della forza e della grazia dei cielo”, ci fa intravedere la figura di San Giuda come maestro fermo e sapiente, che esercitò con zelo e con amore quella missione affidata da Gesù ai suoi Apostoli, prima di lasciare la terra per il cielo.
Infatti, dopo l’Ascensione, anche Giuda Taddeo andò a portare nel mondo la Buona Novella. Secondo qualcuno, egli avrebbe evangelizzato la Mesopotamia; secondo altri la Libia. Si crede che morisse anch’egli Martire, e il suo corpo sarebbe stato sepolto in Persia.
PAPA FRANCESCO
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 22 ottobre 2014
CHIESA, CORPO DI CRISTO
Cari fratelli e sorelle, buongiorno.
Quando si vuole evidenziare come gli elementi che compongono una realtà siano strettamente uniti l’uno all’altro e formino insieme una cosa sola, si usa spesso l’immagine del corpo. A partire dall’apostolo Paolo, questa espressione è stata applicata alla Chiesa ed è stata riconosciuta come il suo tratto distintivo più profondo e più bello. Oggi, allora, vogliamo chiederci: in che senso la Chiesa forma un corpo? E perché viene definita «corpo di Cristo»?
Nel Libro di Ezechiele viene descritta una visione un po’ particolare, impressionante, ma capace di infondere fiducia e speranza nei nostri cuori. Dio mostra al profeta una distesa di ossa, distaccate l’una dall’altra e inaridite. Uno scenario desolante… Immaginatevi tutta una pianura piena di ossa. Dio gli chiede, allora, di invocare su di loro lo Spirito. A quel punto, le ossa si muovono, cominciano ad avvicinarsi e ad unirsi, su di loro crescono prima i nervi e poi la carne e si forma così un corpo, completo e pieno di vita (cfr Ez 37,1-14). Ecco, questa è la Chiesa! Mi raccomando oggi a casa prendete la Bibbia, al capitolo 37 del profeta Ezechiele, non dimenticate, e leggere questo, è bellissimo. Questa è la Chiesa, è un capolavoro, il capolavoro dello Spirito, il quale infonde in ciascuno la vita nuova del Risorto e ci pone l’uno accanto all’altro, l’uno a servizio e a sostegno dell’altro, facendo così di tutti noi un corpo solo, edificato nella comunione e nell’amore.
La Chiesa, però, non è solamente un corpo edificato nello Spirito: la Chiesa è il corpo di Cristo! E non si tratta semplicemente di un modo di dire: ma lo siamo davvero! È il grande dono che riceviamo il giorno del nostro Battesimo! Nel sacramento del Battesimo, infatti, Cristo ci fa suoi, accogliendoci nel cuore del mistero della croce, il mistero supremo del suo amore per noi, per farci poi risorgere con lui, come nuove creature. Ecco: così nasce la Chiesa, e così la Chiesa si riconosce corpo di Cristo! Il Battesimo costituisce una vera rinascita, che ci rigenera in Cristo, ci rende parte di lui, e ci unisce intimamente tra di noi, come membra dello stesso corpo, di cui lui è il capo (cfr Rm 12,5; 1 Cor 12,12-13).
Quella che ne scaturisce, allora, è una profonda comunione d’amore. In questo senso, è illuminante come Paolo, esortando i mariti ad «amare le mogli come il proprio corpo», affermi: «Come anche Cristo fa con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo» (Ef 5,28-30). Che bello se ci ricordassimo più spesso di quello che siamo, di che cosa ha fatto di noi il Signore Gesù: siamo il suo corpo, quel corpo che niente e nessuno può più strappare da lui e che egli ricopre di tutta la sua passione e di tutto il suo amore, proprio come uno sposo con la sua sposa. Questo pensiero, però, deve fare sorgere in noi il desiderio di corrispondere al Signore Gesù e di condividere il suo amore tra di noi, come membra vive del suo stesso corpo. Al tempo di Paolo, la comunità di Corinto trovava molte difficoltà in tal senso, vivendo, come spesso anche noi, l’esperienza delle divisioni, delle invidie, delle incomprensioni e dell’emarginazione. Tutte queste cose non vanno bene, perché, invece che edificare e far crescere la Chiesa come corpo di Cristo, la frantumano in tante parti, la smembrano. E questo succede anche ai nostri giorni. Pensiamo nelle comunità cristiane, in alcune parrocchie, pensiamo nei nostri quartieri quante divisioni, quante invidie, come si sparla, quanta incomprensione ed emarginazione. E questo cosa comporta? Ci smembra fra di noi. E’ l’inizio della guerra. La guerra non incomincia nel campo di battaglia: la guerra, le guerre incominciano nel cuore, con incomprensioni, divisioni, invidie, con questa lotta con gli altri. La comunità di Corinto era così, erano campioni in questo! L’Apostolo Paolo ha dato ai Corinti alcuni consigli concreti che valgono anche per noi: non essere gelosi, ma apprezzare nelle nostre comunità i doni e le qualità dei nostri fratelli. Le gelosie: “Quello ha comprato una macchina”, e io sento qui una gelosia; “Questo ha vinto il lotto”, e un’altra gelosia; “E quest’altro sta andando bene bene in questo”, e un’altra gelosia. Tutto ciò smembra, fa male, non si deve fare! Perché così le gelosie crescono e riempiono il cuore. E un cuore geloso è un cuore acido, un cuore che invece del sangue sembra avere l’aceto; è un cuore che non è mai felice, è un cuore che smembra la comunità. Ma cosa devo fare allora? Apprezzare nelle nostre comunità i doni e le qualità degli altri, dei nostri fratelli. E quando mi viene la gelosia – perché viene a tutti, tutti siamo peccatori -, devo dire al Signore: “Grazie, Signore, perché hai dato questo a quella persona”. Apprezzare le qualità, farsi vicini e partecipare alla sofferenza degli ultimi e dei più bisognosi; esprimere la propria gratitudine a tutti. Il cuore che sa dire grazie è un cuore buono, è un cuore nobile, è un cuore che è contento. Vi domando: tutti noi sappiamo dire grazie, sempre? Non sempre perché l’invidia, la gelosia ci frena un po’. E, in ultimo, il consiglio che l’apostolo Paolo dà ai Corinzi e anche noi dobbiamo darci l’un l’altro: non reputare nessuno superiore agli altri. Quanta gente si sente superiore agli altri! Anche noi, tante volte diciamo come quel fariseo della parabola: “Ti ringrazio Signore perché non sono come quello, sono superiore”. Ma questo è brutto, non bisogna mai farlo! E quando stai per farlo, ricordati dei tuoi peccati, di quelli che nessuno conosce, vergognati davanti a Dio e dì: “Ma tu Signore, tu sai chi è superiore, io chiudo la bocca”. E questo fa bene. E sempre nella carità considerarsi membra gli uni degli altri, che vivono e si donano a beneficio di tutti (cfr 1Cor 12–14).
Cari fratelli e sorelle, come il profeta Ezechiele e come l’apostolo Paolo, invochiamo anche noi lo Spirito Santo, perché la sua grazia e l’abbondanza dei suoi doni ci aiutino a vivere davvero come corpo di Cristo, uniti, come famiglia, ma una famiglia che è il corpo di Cristo, e come segno visibile e bello dell’amore di Cristo.
http://it.mariedenazareth.com/9994.0.html?L=4
IL MESE MARIANO DELLA CHIESA COPTA
La Chiesa copta è l’unica tra le Chiese orientali ad avere un vero mese mariano. Si tratta del mese di Kiahk, il quarto mese del calendario copto.
Detto mese, che comincia il 10 dicembre circa, culmina con la festa del Natale, considerata insieme festa di Cristo che nasce e di Maria che lo mette al mondo. I Copti infatti non hanno la cosiddetta « prima festa mariana », che gli altri Orientali pongono il 26 dicembre e che la Chiesa romana pone nell’Ottava del Natale. L’uso copto sembra molto antico, risale cioè ai tempi stessi dell’istituzione della festa del Natale.
Il digiuno del Natale, digiuno della Vergine
Anche il digiuno del Natale, che dura 46 giorni circa, ha preso una forte colorazione mariana. I Copti chiamano infatti tale digiuno « digiuno della Vergine » e affermano che la Vergine stessa l’avrebbe praticato un mese e mezzo prima della nascita del Figlio. Ibn Siba nel secolo XIV descrive così la credenza tradizionale:
« Il digiuno del Natale ebbe origine così: la nostra Signora, Madre della luce, essendo nel settimo mese e mezzo della sua gravidanza, in seguito all’annunciazione piena di salvezza, Giuseppe il Falegname ed altri la rimproveravano continuamente, perché pretendeva di essere vergine, ed invece era stata trovata incinta. Dato che tali rimproveri erano continui, lei digiunò per lo spazio di un mese e mezzo, piangendo e addolorandosi a motivo degli insulti »(cfr Giamberardini II, 220).
I Copti celebrano il mese mariano con una veglia notturna quotidiana che si estende su tutto il mese di Kiahk e che si aggiunge al normale corso dell’ufficio. Durante questa veglia si cantano le cosiddette « Theotokìe » e altri testi affini contenuti nel libro della « Salmodia di Kiahk », come si vedrà (cfr. TM IV, 802-821).
Gabriele GIAMBERARDINI, Il culto mariano in Egitto, Jerusalem 1974, vol 3, p.46-48
http://www.sapere.it/enciclopedia/C%C3%B2pti.html
CÒPTI
Definizione
Denominazione (dall’arabo el qubt, trascrizione del greco Aigýptioi, Egiziani) invalsa in Europa per indicare gli abitanti dell’Egitto rimasti fedeli al cristianesimo dal tempo della dominazione araba del 641 a. C.
Storia
La costituzione della Chiesa copta risale al sec. V, nell’ambito del processo storico che condusse alla separazione di numerose Chiese orientali dalla Chiesa cattolica a seguito della condanna del monofisismo (Concilio di Calcedonia, 451). Causa principale della separazione fu però il conflitto politico e, conseguentemente, ecclesiastico, che vedeva opposta, in Egitto, la popolazione autoctona alla classe dominante bizantina: l’adesione di quest’ultima all’ortodossia (i cui seguaci furono soprannominati melchiti) provocò il passaggio degli autoctoni al monofisismo. I melchiti assoggettarono i Copti a continue persecuzioni, ma dopo la conquista arabo-musulmana dell’Egitto vennero a loro volta sopraffatti, e in modo pressoché definitivo, dai Copti, che si distinsero dai coevi connazionali anche per l’assunzione dell’alfabeto greco, cui si limitarono ad aggiungere sette lettere per rendere altrettanti suoni ignoti alla fonetica greca, abolendo dopo millenni l’uso della grafia egizia. La Chiesa copta egiziana è organizzata in massima parte in Chiesa nazionale dipendente dal patriarca di Alessandria e da 25 tra metropoliti e vescovi; un piccolo numero di Copti è invece unito alla Chiesa cattolica, ma con rito proprio. I preti possono sposarsi, mentre i monaci e gli alti dignitari ecclesiastici devono rispettare il celibato. La Chiesa copta si diffuse anche in Etiopia, dove però nel 1937 si staccò da quella egiziana, or,ganizzandosi anch’essa in Chiesa autocefala, con 12 vescovi e un metropolita facenti capo all’Abouna (patriarca). Nell’età contemporanea i Copti hanno avuto un ruolo importante nella nascita dell’Egitto moderno partecipando alla rivoluzione che nel 1919 condusse all’unificazione del Paese contro l’occupazione britannica. Negli anni Sessanta, tuttavia, la politica del presidente egiziano Nasser non realizzò le legittime aspettative d’integrazione politica e culturale dei Copti, che anzi si videro esclusi dalle maggiori cariche politiche. Ciononostante il termine “minoranza” fu considerato una sorta di tabù sia dalla classe dirigente egiziana sia dagli stessi Copti, desiderosi di minimizzare le discriminazioni di cui pure erano fatti oggetto. Nei decenni successivi la crescente islamizzazione di tutto il Medio Oriente, e in particolare l’affermarsi dell’Islam più conservatore, portò la comunità copta a una progressiva affermazione della propria diversità culturale e religiosa. Alla fine del Novecento la strisciante tensione religiosa, sfociata in alcuni sanguinosi scontri tra cristiani e musulmani egiziani, ha suscitato crescente preoccupazione tra i Copti, che costituiscono la più numerosa minoranza cristiana del Medio Oriente, rappresentando il 55% della popolazione etiopica e circa il 10% di quella dell’Egitto, dove però, pur avendo un’incisiva presenza nell’economia, costituiscono ancora solo l’1,5% della classe dirigente. Piccole comunità di Copti esistino inoltre a Gerusalemme, nel Sudan, negli Stati Uniti, in Canada, in Europa e in Australia. I Copti hanno un calendario che inizia la datazione a partire da Diocleziano (nel 284 d. C.), detto Calendario dei Martiri.
Letteratura
La maggior parte della produzione letteraria copta consiste in traduzioni dal greco, che spesso si riferiscono a opere il cui originale è andato perduto. Della produzione precristiana ben poco si è conservato; di grandissima importanza è stata a questo proposito la scoperta avvenuta a Nag ?Hammâdi nel 1945 di un’intera biblioteca gnostica, contenente 46 opere prima sconosciute, preziosissime per la soluzione di numerosi nodi della storia dell’antica gnosi. Accanto alla vasta attività di traduzione (Antico e Nuovo Testamento, apocrifi giudaici e cristiani), si afferma a partire dal sec. III la produzione delle biografie dei grandi monaci e delle raccolte di apoftegmi (o detti) dei santi Antonio, Macario e Pacomio. Nel periodo bizantino la letteratura copta perde di originalità e diventa pedissequa imitazione di quella bizantina. Con il sec. X il dialetto bohairico ha il sopravvento sugli altri dialetti e dà origine a una produzione assai modesta, che ha avuto il suo centro nel convento di S. Macario a Wadi el-Natrûn. Il sec. XIII segna la fine della letteratura copta; l’arabo ha ormai soppiantato il copto nell’uso comune ed esso non sopravvive che nell’uso liturgico e nei documenti ufficiali del patriarca di Alessandria.
Arte
L’arte copta si svolse entro i limiti approssimativi del sec. III e del sec. VIII. Affermatasi inizialmente nell’ambito di un intenzionale ritorno alla tradizione artistica locale, come resistenza, specie da parte dei centri monastici dell’Alto e Medio Egitto, alla cultura ellenistica dei grandi centri come Alessandria, l’arte copta risente a sua volta di numerose componenti: lo stesso ellenismo, l’arte di Bisanzio, della Siria e anche, in misura diversa, della Persia e della Mesopotamia, nonché, in un secondo tempo, di quella araba . Caratteri tipici sono l’accentuata stilizzazione e il severo rigore compositivo : piante architettoniche di grande semplicità, sovente con triplice abside (Convento Rosso a Deyr el-Ahmar); frontalismo delle sculture , dapprima morbidamente plastiche, poi più rigidamente stilizzate (numerosi esemplari nel Museo Copto del Cairo), e delle pitture decorative delle chiese, nelle quali appare un originale accostamento di colori puri (azzurro, rosso, giallo), riprodotti anche nelle stoffe, uno dei settori più lungamente attivi e documentati dell’arte copta . Importante fu la produzione degli avori, in cui sono frequenti le figurazioni pagane; caratteristici esemplari sono stati ritrovati in Egitto (pettine di Antinoopoli; Il Cairo, Museo Copto). Interessanti rilievi su osso sono nei musei di Alessandria e del Cairo, oltre che al Victoria and Albert Museum di Londra.
Musica
Il canto liturgico della Chiesa cristiana d’Egitto è di carattere esclusivamente monodico e non ammette accompagnamento vocale o strumentale (tranne in qualche caso l’uso di campanelli, cimbali e altri strumenti affini). Nonostante alcuni antichi tentativi di notazione, sempre ecfonetica, il canto copto è trasmesso oralmente e ciò rende ancor più difficile lo studio del repertorio. Gli studiosi hanno ravvisato in questa tradizione influenze faraoniche, siriaco-ebraiche, bizantine e arabe, senza poterne ancora determinare con sicurezza il peso e la funzione svolta. Il rito copto, di estrema lunghezza (una messa solenne può durare anche 5 o 6 ore), presenta grande varietà di forme, con prevalenza dell’orazione e delle forme litaniche e responsoriali; è inoltre caratterizzato da una larga partecipazione del popolo, pur essendo organizzato secondo rigorose gerarchie e lasciando una funzione importantissima al cantore solista. Le lingue liturgiche sono il copto, il greco e l’arabo, che possono essere usate e alternate con molta libertà.
http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=1558
EDUCARE GLI ADOLESCENTI CON IL DONO DELLA «SAPIENZA»
…aiutiamo gli adolescenti a vivere la vita di fede attraverso il dono della «sapienza», analizzato attraverso la dimensione della crescita umana e il significato trascendente della «sapienza che viene dall’alto»…
Applicando i principi pedagogici precedentemente esposti, aiutiamo gli adolescenti a vivere la vita di fede attraverso il dono della «sapienza», analizzato attraverso la dimensione della crescita umana e il significato trascendente della «sapienza che viene dall’alto».
La vita cristiana è una vita vissuta nella fede, nella speranza e nella carità. Si tratta di imparare a vivere questi doni teologali infusi col Battesimo, e che hanno come riferimento Dio Padre che «crea e dà la vita». Vengono resi dinamici nella esperienza storica dei credenti dai doni dello Spirito Santo, infusi col sacramento della Confermazione. «Virtù teologali» e «doni dello Spirito» hanno una profonda corrispondenza nella vita del credente. La fede viene perfezionata da doni dell’intelletto, della scienza e del consiglio.
La speranza viene corroborata dai doni del timore e della fortezza. La carità viene animata dai doni della pietà e dalla sapienza. La vita del credente perciò è arricchita da tutti questi doni a cui corrispondono anche le «Beatitudini» espresse nel vangelo di Matteo (cc 5-7) e nella lettera ai Galati (2, 25-22). Si tratta di doni oggettivi, veri, perché provenienti da Dio, di cui però l’adolescente va educato a prendere coscienza, per capire ciò di cui può essere capace di fare…
Il bisogno umano del «sàpere»
La parola «sapienza», intesa come dono dello Spirito Santo, deriva il suo significato dal termine latino «sàpere», che vorrebbe dire: «dare sapore» alle diverse realtà della vita in cui siamo immersi e di cui siamo parte. Quindi è il dono che aiuta il credente a dare gusto alla sua vita, a cercare un senso soddisfacente alla sua identità di uomo/donna e di cristiano. È necessario domandarsi però come il dono della sapienza può dare sapore alla vita dell’adolescente, se egli non viene aiutato a scoprire in sé e attorno a sé questo «sapore» nelle cose che fa e in cui crede? Va perciò aiutato a gustare, servendosi della metafora del sapore, le cose «saporite» scoperte, e reagire a quelle «insipide» da evitare.
Dal punto di vista dei dinamismi della crescita psicologica, l’adolescenza è una tappa di progressiva maturazione personale e sociale, in cui il soggetto fa esperienze umane nuove e significative, a cui può dare un vero sapore umano, per diventare persona più riuscita, per portare la propria crescita verso una maturazione più significativa e personalizzante. Per il nostro adolescente, sono certamente positive quelle esperienze di passaggio dell’età segnate da questi traguardi:
– dall’identificazione (nei modelli) all’identità personale (essere se stessi): voler essere veramente se stessi è una caratteristica della persona che diventa più matura, che vuole dare sapore alla propria vita, che incomincia a rispondere personalmente alla vocazione umana da realizzare come un «progetto personale» e non come una brutta fotocopia;
– dalla dipendenza (dagli adulti) all’autonomia (capacità di scelta), per diventare vero protagonista della propria vita a cui offrire il sapore delle proprie scelte e la capacità delle proprie responsabilità;
– dalla vita orientata al presente (come risposta a bisogni immediati) al protendersi verso un futuro sperato-desiderato (un progetto di vita), con la capacità di sapersi distaccare dall’immediato, per guardare avanti e orientare la propria crescita verso un futuro significativo;
– dalle attività (legate all’istinto attuale) al bisogno progettuale di una esistenza (che si apre a sempre nuove motivazioni), per prospettarsi come realizzato in una vocazione e in una professione umanamente riuscita;
– dalle scelte offerte e suggerite dall’esterno (negli ambienti di vita) alle prese di posizioni personali (dettate da una nuova personalità in crescita), significative della propria capacità di assumersi delle responsabilità verso se stessi e verso gli altri.
Nella vita degli adolescenti di oggi, i dinamismi di crescita descritti dalla psicologia dinamica possono diventare segni che incominciano a far intravedere il sapore della vita di cui devono rendersi responsabili. Possono anche evidenziare esperienze limitanti, «poco saporite».
Ci si può chiedere allora: come possono essere superati alcuni atteggiamenti limitanti degli adolescenti di oggi che le ricerche psico-sociali evidenziano, come il conformismo delle mode (che porta a evidenti massificazioni spersonalizzanti), il non voler acquisire una più personale coscienza (che porta ad una scarsa identità e ad un io sfuggente ad ogni proposta di crescita), la stessa volontà di non crescita (perché è più facile adagiarsi nel comodo di una vita resa facile dagli adulti)?
Dal punto di vista della visione socioculturale, poi, il termine «sapienza» è una parola oggi poco usata, perché fa riferimento inconscio ad un qualche cosa che sa di misterioso e di inafferrabile. Eppure la sapienza (il saggio, il sapiente) è una delle parole più usate dagli autori biblici (libri sapienziali), oltre che essere oggetto di un intero libro (il libro della sapienza).
Perciò il dono «sapienziale» dello Spirito, nel processo educativo della fede, parte da queste esperienze psico-umane e culturali e sviluppa in corrispondenza i «sapori» dello Spirito: l’itinerario parte dalla vita e riflette sulla vita alla luce del dono trascendente.
Ciò significa che:
– i fatti umani della crescita (personale e ambientale), su cui gli adolescenti dovrebbero essere esistenzialmente coinvolti, acquistano – alla luce del dono della sapienza – un nuovo e più pieno significato di saggezza, e diventano, nella vita, per se stessi e per gli altri, un evento e un esperienza di crescita cristiana (sapienziale);
– la vita degli adolescenti, con le sue pulsazioni e le sue speranze, viene vista come un «dono» globale di Dio, per valorizzare ciò che essi si portano dentro, come desiderio e ideale, e a cui viene dato un significato più specificamente religioso;
– il vissuto adolescenziale verso l’autonomia e la responsabilità, analizzato e riflesso, provoca domande di senso, a cui essi rispondono innestando una ricerca di nuove risposte più aderenti al proprio progetto di vita cristiano;
– le risposte che essi danno ai loro bisogni di crescita, si rivelano «esperienziali», in quanto possono favorire la scoperta della vera sapienza che spinge a vivere la fede ancorata a questa realtà, giustificata da verità trascendenti;
– la capacità di imparare dalla vita pienamente vissuta sviluppa negli adolescenti le acquisizioni definitive delle verità di fede, capaci di dare significato globale ai fatti importanti, di rilevarne le forze integranti, di percepirne la posta in gioco, di scegliere ispirati dai valori evangelici… anche se apparentemente «perdenti».
Il «di più» che viene dal dono della «sapienza»
Il dono totalmente gratuito della «sapienza» si àncora su questa «disponibilità» umana e aiuta a percepire la bontà e la bellezza della vita (propria e altrui) e di ogni realtà creata. La «sapienza» rende capace di gustare questa «creazione», attraverso cui si risale al suo Creatore. È la bellezza della verità, manifestata anche dai gesti, dai comportamenti e dai tipi di esistenza, come delle imprese e delle opere dell’uomo.
Sono questi i percorsi che costituiscono il dono della sapienza: si arriva con lo sguardo là dove le realtà sprigionano il bene; e si impara a radicarsi sempre di più in esso, fosse anche l’umile e il quotidiano, per poter risalire a Dio.
È proprio della sapienza, dunque, aiutare l’uomo a distinguere il bene dal male, per cui è saggezza mettersi sulle strade del senso della vita e avere la chiave della felicità cercata e trovata. Essa illumina e orienta la vita come la bussola orienta la direzione di marcia.
Ma perché la sapienza è tanto importante nella bibbia? La risposta può essere trovata con un procedimento a scalini, basato su questi passaggi: la sapienza di Gesù, la sapienza del cristiano, la sapienza della croce, la sapienza-dono dello Spirito Santo, la «non-sapienza» come stoltezza, insipienza e stupidità.
* Con il discorso della sapienza (Mc 6,2) Gesù Cristo apre alla comprensione del mistero della storia, dichiara il senso nascosto dei secoli nelle pagine dei profeti, rende presente il regno di Dio, ne esprime la connaturalità con il mistero (conoscenza sperimentale della volontà salvifica) proclamato, ne rivela la conoscenza misteriosa radicata nella Trinità, di cui è parte e della quale ne esprime la realtà.
Gesù è sommamente sapiente perché in lui tutto si compie, ogni profezia raggiunge la pienezza, in lui tutto si rende chiaro. Egli è la sapienza di Dio stesso. Perciò la sapienza è al centro del mistero di Dio, origine del mistero della storia in cui è inserito l’uomo, ma si colloca al di sopra di essa.
* Dalla sapienza di Gesù che tutto conosce, nasce quella del cristiano che non è se non la sapienza di Gesù a lui partecipata. È il dono di vedere le cose come le vede Gesù, come le vede Dio, scrutandole dall’alto. È il dono di vedere la relazione di tutte le cose nel mistero della Trinità.
* Ciò distingue la sapienza di Dio da quella del cristiano e da tutte le sapienze di questo mondo, che sono fondate sull’efficienza, sul risultato, sul successo. Quella del cristiano è una sapienza che si ha contemplando la croce. La sapienza di Gesù passa attraverso le cose umili, insignificanti. Scoprire questo è veramente un dono. Senza il dono dello Spirito non è possibile esercitare la sapienza della croce. Capire la croce è capire la vita, e la sapienza del cristiano è accesso alla vita.
* Perciò il dono della sapienza, che viene dato col battesimo e che lo Spirito attualizza continuamente nel credente a partire dalla confermazione, è la capacità di vedere le cose con gli occhi di Dio, di vederle dall’alto come le vede Gesù crocifisso-risorto, di vederle come per una connaturalità o istinto divino. È una conoscenza associata al gusto (sapore), perché esprime qualcosa di sapido che si può gustare: se cioè una cosa è o non è per il regno di Dio, non per ragionamento ma così per istinto. Come si sente che una cosa è dolce o salata non per l’analisi chimica dei componenti del sale o dello zucchero, ma per sintonia tra il dolce e il salato per le papille gustative. Così analogamente il cristiano mosso dallo Spirito sente che qualcosa è secondo il piano di Dio e va bene così. Questo sentire viene più dal cuore che dalla mente, e perciò questo dono è collegato alla carità, all’amore, più che all’intelligenza. È l’intelligenza dell’amore, del cuore; la penetrazione amorosa e saporosa dei misteri di Dio che può essere data anche alle persone più semplici… (Mt 11, 25).
La sapienza è un dono che tocca anche gli aspetti più quotidiani della vita, si esprime anche in linea privilegiata nella «sapienza pubblica», che permette al credente di inquadrare i problemi singoli in un quadro più vasto, quello del bene comune.
* L’ultimo gradino è quello che la bibbia chiama stoltezza, perché opposto alla sapienza. Si tratta essenzialmente di mancanza di sapore per le cose di Dio: la mancanza del senso di Dio, del senso del mistero della vita, del senso della provvidenza.
Una mancanza che rende ciechi e smarriti. All’origine di tante angosce c’è la mancanza di sapienza, che fa stare con la testa nel sacco, guardando solo al presente. Ma c’è un’altra insipienza più profonda che viene rimproverata (stolti e tardi di…), ed è quella di ignorare l’esperienza religiosa della vita.
La mediazione educativa tra i due termini
Il processo di educazione alla fede mette in moto dinamismi che aiutano ad imparare, a svelare, a far apprezzare i rapporti e i gesti che danno felicità, che fanno scoprire la bellezza delle cose, anche ordinarie e nascoste.
La bellezza attira ed entusiasma; non suscita tanto il sentimento dell’obbligo, quanto quello dell’amore e della gratuità; fa percorrere la strada che va dall’esperienza al senso della vita, e dal senso della vita alla fonte che lo ispira; aiuta ad imparare a distinguere il bene dal male con la formazione della coscienza, che costituisce uno dei nodi difficili da risolvere quando si separa morale evangelica delle beatitudini dalla felicità personale istintivamente cercata.
Tale processo si basa sulla ricerca sottesa ad alcune domande da rivolgere ai ragazzi per coinvolgerli nella ricerca sapienziale: che posto ha nella propria vita il piano di Dio rivelato nella creazione e in Cristo? Si hanno visioni larghe della propria vita, oppure si è chiusi nel proprio spazio chiuso? Che posto ha nella propria esperienza umana la sapienza della croce? Si riesce a vedere il lato positivo degli eventi, dei fatti della vita, della storia? Ci si nutre del pane della sapienza offerto dalla Sacra Scrittura e dalla comunità?
Articolo tratto da: NOTE DI PASTORALE GIOVANILE. Proposte per la maturazione umana e cristiana dei ragazzi e dei giovani, a cura del Centro Salesiano Pastorale Giovanile – Roma.
http://www.augustinus.it/italiano/discorsi/discorso_576_testo.htm
DISCORSO DI SANT’AGOSTINO VESCOVO SULL’AMORE DI DIO E DEL PROSSIMO
DISCORSO 90/A
Chiediamo al fine di trovare.
1. Nella lettura del Vangelo che or ora è stata proclamata anche noi abbiamo potuto vedere il Signore, non con gli occhi del corpo ma con quelli della fede, cosa molto più vantaggiosa per la nostra salvezza. Prendiamo dunque l’atteggiamento spirituale di colui che andò a chiedergli quale fosse il più grande comandamento della legge 1. In effetti colui che pose al Signore questa domanda, non avendo per vedere gli occhi della fede ma solo quelli del corpo, più che per chiedere si presentò per mettere alla prova il Maestro; noi invece, che abbiamo la fede, presentiamoci per chiedere e, chiedendo, poter trovare. Diciamo anche noi: Signore, qual è il più grande comandamento della legge? 2 Diciamolo non con la furbizia di chi vuol tentare, ma con il desiderio di chi vuol apprendere. Il Signore risponderà a noi come rispose a quel tale; e, se egli non credette, la sua domanda è stata di grande utilità per noi. Se poi egli credette, chi la ode oggi ne venga ammaestrato più efficacemente di colui che, andato per tentare, poté essere raddrizzato nei suoi sentimenti.
La legge antica semplificata da Gesú Cristo.
2. Prima di tutto consideriamo il fatto che quel tale domandò [al Signore] quale fosse il primo comandamento della legge, desideroso di sapere non se fosse l’unico ma il più grande; il Signore invece nella risposta parlò non di un comandamento ma di due. È probabile che quell’uomo, udito quale fosse il comandamento [più] grande, avrebbe posto domande sui comandamenti successivi; ma il Signore, per impedire che dopo lo si interrogasse su molti comandamenti, ne aggiunse uno solo, il secondo. Si adempiva così quel che era stato profetizzato molto tempo prima: Il Signore pronunzierà sulla terra una parola breve ma esaustiva 3. È quel che si verifica adesso: con questa lezione viene adempiuta. Molti infatti sono i precetti della legge: essa, come un bosco impenetrabile, in ogni pagina pullula di ingiunzioni. E chi potrebbe adempierle se non si è in grado nemmeno di ritenerle a memoria? Ma Cristo Signore, pieno di misericordia, come volle rinchiudere la sua grandezza in un piccolo corpo, così volle racchiudere la legge, così ampia, in un breve precetto. Nella piccolezza di quel corpo noi possediamo tutto intero il Figlio di Dio; nella brevità di questi due precetti è contenuta tutta intera la legge di Dio. La misericordia ha sottratto ogni [scusa alla] nostra pigrizia. Non pensare quindi che ti occorra una lunga fatica per imparare: pensa piuttosto a mettere in pratica ciò che hai rapidamente imparato.
È compito difficile spiegare la parola di Dio.
3. Disse [il Signore]: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il primo e più importante comandamento. E continuò: Il secondo è simile a questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. In questi due comandamenti si compendia tutta la legge e i profeti 4. Perché volevi distenderti lungo l’apertura dei rami? Tieni strette queste radici e tutto l’albero è nelle tue mani. Come si può vedere, il Signore ci ha inculcato la sua dottrina con una breve frase; noi al contrario su questi due comandamenti siamo costretti a spendere molte parole. O forse non è vero che vi siamo costretti, mentre sarebbe sufficiente quel che abbiamo udito dal Signore? Non v’è dubbio che sarebbe sufficiente, non però a tutti. Difatti, quanto più uno è dotato d’ingegno, tanto più breve potrà essere l’esposizione che gli occorre. Gli uomini grandi amano le poche parole; i piccoli invece, essendo meno dotati d’intelligenza, desiderano discorsi più prolungati. Ora noi da un lato temiamo di urtare la suscettibilità degli uni, ma non vogliamo, dall’altro, gravare con pesi esagerati la debolezza degli altri. Dato dunque che, se restassimo in silenzio, si lamenterebbero quelli che comprendono di meno, vogliano quelli che già comprendono essere pazienti con noi, affinché comprendano anche coloro che fino ad ora non avevano compreso.
Il precetto dell’amore nel Vangelo e in Paolo.
4. O uomo, quale cosa più eccellente ti si poteva dire – e in forma così breve – del precetto di amare il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente 5? Mettilo in pratica, e sta’ sicuro della vita eterna e beata. Se infatti ami il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente, non rimane in te nulla con cui tu possa amare te stesso. Ama dunque, ama il tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente! Cosa ti rimarrà con cui possa amare te stesso? Ma se in te non rimane nulla con cui tu possa amare te stesso, in che maniera potrai amare il prossimo come te stesso 6, come prescritto nel secondo precetto? Ecco un primo problema. Ascoltatene un altro. Come abbiamo avvertito durante la proclamazione della lettura, il Signore dice: In questi due comandamenti si compendia tutta la legge e i profeti 7. D’altra parte voi avete certamente notato quel che dice l’apostolo Paolo mentre vi si leggeva una delle sue lettere. Egli afferma che adempie la legge colui che ama il prossimo 8, e non aggiunge alcunché sul primo e principale comandamento, che è quello di amare Dio con tutto il cuore, l’anima e la mente 9. Ecco le sue parole: In effetti il non commettere adulterio, non uccidere, non desiderare malamente e tutti gli altri comandamenti si compendiano in questa prescrizione: Ama il prossimo tuo come te stesso. L’amore del prossimo esclude ogni male: pertanto pieno adempimento della legge è la carità 10. Egli aveva detto: Chi ama il prossimo adempie [tutta] la legge 11. Se avesse menzionato i tre soli comandamenti: Non commettere adulterio, non uccidere, non desiderare, potremmo supporre che nell’amore del prossimo rientrino soltanto questi tre precetti; ma siccome aggiunge: E se c’è ancora qualche altro comandamento 12, ne segue che tutta la legge è inclusa nell’amore del prossimo. Cosa ci rimane per l’amore di Dio? Ascoltando le parole: » [Ama] Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con la tua mente » 13, sembra che non ci resti spazio per l’amore del prossimo; ascoltando viceversa: » Ecco, questo e questo e questo e se c’è ancora qualche altro comandamento, tutto si compendia in questo precetto: Amerai il prossimo tuo come te stesso 14 « , sembra che non rimanga alcuno spazio per l’amore di Dio. Come fa pertanto il Signore ad asserire che non in uno ma in questi due comandamenti si compendia tutta la legge e i profeti 15?
Iniziare dal prossimo per arrivare a Dio.
5. Per quanto ci sarà possibile, con l’aiuto del Signore vogliamo esporre brevemente il problema ora formulato, cominciando dall’amore del prossimo. Noi infatti siamo uomini, e quindi mortali, soggetti all’ignoranza, non ancora divenuti simili agli angeli 16, anzi molto lontano da tutto ciò che è incorruttibile. Per questa dissimilitudine Dio è distante da noi, sebbene ci sia vicino con la sua misericordia. Essendo dunque quelli che siamo, con quali risorse del nostro pensiero oseremo formarci delle immagini nei riguardi del Signore? Il prossimo, invece l’abbiamo vicino: tendi dunque verso chi ti è vicino se vuoi amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente. O uomo, se non ami il tuo fratello che vedi, come potrai amare Dio che non vedi? 17 Voi conoscete bene queste parole prese dalla lettera di Giovanni. Sono una prescrizione data a noi: dobbiamo cominciare dal prossimo per arrivare a Dio.
L’amore naturale e l’amore cristiano.
6. A questo punto mi dirà qualcuno: » Io amo Dio e il prossimo, e li amo non a parole ma con i fatti « . Dimostramelo! Risponde: » Sì, io amo il prossimo « . E con questo, cosa fai di straordinario? Non vedi come l’amore reciproco regni anche fra gli animali irragionevoli? Come gli uccelli cerchino di stare insieme agli uccelli della stessa famiglia e sono tristi se rimangono soli? Non hai notato mai come certi altri animali, dopo aver condiviso la medesima stalla, mettendosi in cammino desiderano stare in fila uno dietro l’altro, e con molta difficoltà si riesce a separarli? Cosa fai dunque di straordinario se tu, uomo, desideri la compagnia di altri uomini? Lo fanno anche le bestie! Né saprei dirti se questo sia un amore che Dio richiede da noi. Ma tu forse continui: » Io amo il prossimo mio – amo, ad esempio, mio figlio – e lo amo come me stesso « . È cosa normale anche questa. Perfino le tigri amano i propri figli! Infatti non si propagherebbe la loro specie se mancasse l’amore scambievole. Suvvia! Trascendi tutti questi esseri che sono stati messi in tuo potere: nessuno di loro è fatto ad immagine di Dio. È l’uomo che Dio ha fatto a propria immagine, perché esercitasse il potere sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su tutti i rettili che strisciano sulla terra 18. Osserva quali siano le creature a te sottoposte; tu invece sei stato formato con fattezze molto diverse: somigli al Creatore nell’amore per la sua immagine. E poi, come fai a dimostrare che ami tuo figlio? Ripeto: proprio tuo figlio, come fai a dimostrare che lo ami? Perché gli conservi l’eredità, che però egli non potrà possedere insieme con te? Non la possiede infatti insieme con te, ma succederà a te quando tu sarai deceduto. Non ricordi come in quella stessa eredità prima di te sia passato tuo padre e – se questa eredità risale a tempi più antichi – lo stesso tuo nonno? Tutti di passaggio, nessuno in maniera permanente. Tu dunque lasci cose mortali a un uomo mortale o, più esattamente, non sai neppure per chi le accumuli 19. E tuttavia osi proclamare che ami tuo figlio!
Il vero amore verso se stesso.
7. È scritto: Annunzieranno [le opere del Signore] ai propri figli perché ripongano in Dio la loro speranza 20. Se ami in questo modo, il tuo è amore; se ami in modo diverso, allora neppure ami, perché non ami neppure te stesso. Qual è in effetti il senso di ciò che hai udito: Amerai il prossimo tuo come te stesso 21? Ecco la norma che impongo; anzi, non la impongo ma la riconosco. È infatti una norma imposta a tutti noi; e io la medito e la ricordo. Orbene, la norma è questa: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Io non ti dico di amare come te stesso tuo figlio o tua moglie o il vicino che ti è amico o il vicino che ti è familiare, perché forse mi risponderesti: » Li amo « . Voglio prima chiederti se ami te stesso. Sta qui infatti tutta la forza del comandamento, qui verte tutta la questione: non puoi infatti amare il prossimo come te stesso, se non ami nemmeno te stesso. Ribatti: » C’è forse qualcuno che non ama se stesso? « . Eppure, io vorrei trovare uno che ami veramente se stesso. Io non guardo infatti a come può errare la creatura, ma a ciò che insegna il Creatore. Chi ci ha creati ci conosce meglio di ogni altro. Ascoltiamolo quindi. Tu mi dicevi che ami te stesso. Se ti avessi chiesto di dimostrarmelo, mi avresti risposto: » Siccome amo me stesso, quando ho fame nutro il mio corpo; siccome amo me stesso, non voglio stancarmi con il lavoro; siccome amo me stesso, non voglio provare le strettezze della miseria; siccome amo me stesso, cerco di non buscarmi la febbre; siccome amo me stesso, scanso ogni dolore « . Vuoi ora ascoltare cosa ti dice Colui che ti ha creato? Osserva soltanto se ti ami in maniera completamente buona: se cioè non ami l’iniquità. Poiché chi ama l’iniquità odia la propria anima 22. Non ti interrogo io; intèrrogati da te stesso. Se vuoi affermarti a danno degli altri, se desideri che altri stia male perché tu ne abbia un bene, se così agisci, se così pensi, tu ami l’iniquità e pertanto odi la tua anima. Ma se odi la tua anima, non posso certo affidarti il tuo prossimo perché lo ami come te stesso! Posso forse affidarti un altro uomo, per dover poi ricercarne due!? Tu che hai portato te stesso alla rovina, come potrai dare a me la salvezza? Comincia dunque con l’amare te stesso: così saprai amare il prossimo come te stesso.
Amare il vero bene.
8. Aspetti forse da me che ti dica come tu debba amare te stesso? Ascoltiamo piuttosto Colui che ha creato sia te che me. Ecco dunque come devi amare te stesso. Cerca di capire il grande comandamento di amare te stesso. Infatti, a ciò che ami tu cerchi di trascinare anche colui che ami. E se ami l’iniquità, vi ci condurrai anche colui che tu ami come te stesso. Abbiamo tutti davanti agli occhi le moltissime predilezioni dell’uomo, sia in bene che in male. Tu, per esempio, sei appassionato per un auriga; naturalmente ti dài da fare perché quelli che ami partecipino con te agli spettacoli, con te facciano tifo, con te urlino, con te perdano la testa; se non si appassionano, li insulti, li chiami idioti, proprio come sei tu. Ancora. Anche se non te la senti di dividere a metà i tuoi beni 23 con colui che ami come te stesso, desideri comunque che egli ne abbia altrettanti; non vuoi infatti che egli si arricchisca a tuo danno, non vuoi il suo bene con la perdita dei tuoi beni. Perché? Perché tu consideri l’oro un bene e perciò ti consideri grande per il fatto che possiedi oro; e tu vuoi che l’altro cresca senza che tu cali 24. Ma perché ami cose che non puoi distribuire senza tuo danno? In tutti questi casi tu ami malamente: hai in odio la tua anima 25. Se vuoi tranquillamente attrarre il prossimo che ami come te stesso, attrailo a quel bene che non soffre diminuzioni per la moltitudine dei partecipanti: quel bene che – qualunque sia il numero dei possessori – rimane integro per tutti e per ciascuno. Se non ami un simile bene, come potrai amare il prossimo come te stesso?
Amando Dio, tuo vero bene, non perirai.
9. Ma qual è questo bene? Lo trovi nel primo e più grande precetto: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente 26. Quando infatti comincerai ad amare Dio, allora comincerai ad amare te stesso. Non temere: per quanto grande sia il tuo amore per Iddio, non lo amerai mai troppo. La misura di amare Dio è di amarlo senza misura. Amalo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente, perché più di così non puoi. Cosa infatti hai di più, per amare il tuo Dio, che tutto te stesso? Non temere che, non lasciando a te stesso nulla con cui amarti, tu abbia a perderci. Non ci perdi, perché, amando Dio con tutto te stesso, ti vieni a trovare là dove non ci si perde. Piuttosto se volgerai il tuo amore da lui verso di te, non sarai più in lui ma in te; e così perirai, venendo a trovarti in chi è destinato a perire. Se non vuoi perire, rimani in colui che non può perire. Questo raggiunge la forza della carità, questo ottiene il fuoco dell’amore. Lo osserviamo nelle predilezioni luride e sconce di certa gente. I tifosi di un auriga sono totalmente presi dallo spettacolo, vivono solo della persona che stanno guardando. Chi è così appassionato non pensa più a se stesso, non sa più neppure dove si trovi. Tanto che, se gli sta vicino uno un po’ meno tifoso, al vederlo così accalorato dice subito: » Costui non è in sé! « . Anche tu, che sei con Dio, per quanto ti è possibile, non voler essere con te. Se sei con te e ti affidi a te, ti perderai, perché tu non sei in grado di salvare te stesso.
Rientra in te e torna al Padre.
10. Ricordate come abbandonò la casa e finì col rovinarsi quel tale che, rivolto al padre premuroso di salvarlo, gli disse: Dammi la parte dei beni che mi spetta 27. Eccolo là: se ne andò, consumò ogni cosa, si ridusse a pascere i porci, costretto dalla miseria 28. Si allontanò dal padre, perché voleva stare con sé; ma mentre vuole stare con sé, non rimane nemmeno con sé. In effetti, se abbandoni il tuo Dio, immediatamente ti allontani anche da te, esci fuori di te e diventi estraneo anche a te stesso. Pertanto a persone come questa è detto: Tornate al vostro cuore, o prevaricatori 29. Tornate a voi, per poter tornare anche da Colui che vi ha creati. Al riguardo cosa si dice di quel figlio che, abbandonato il padre, si trovò lontano anche da se stesso e nella più nera miseria? Tornato in se stesso disse 30… Tornato in se stesso! Vedi come s’era allontanato anche da se stesso. Buon per te, figlio, che ti sei ravveduto e sei tornato a te! Ma non rimanere in te, se non vuoi perderti di nuovo. In realtà anche di questo si ricordò quel prodigo, tornato, almeno parzialmente, sulla buona strada. Tornato infatti in sé, non volle fermarsi in sé, ma, tornato in se stesso, disse: Mi leverò e andrò da mio padre 31. Debitamente ravveduto, comprese che la sua dimora era là donde era fuggito; si ricordò che era [figlio], anche se ora non meritava più d’essere considerato tale.
Attrai il prossimo a Dio.
11. Tu dunque amerai il sommo Bene e ad esso volgerai l’affetto del tuo cuore. In tal caso posso affidarti il prossimo. Vedo infatti dove tendi e dove vuoi risiedere. Conducilo da lui! E in effetti non potrai condurre da altri colui che ami come te stesso, ora che veramente ami te stesso. Conduci là il tuo prossimo, attrailo, rapiscilo insistendo in ogni maniera accettabile 32. Se si fosse all’alba di un giorno di gare circensi, tu, appassionato d’un concorrente nei giochi venatori, non riusciresti a prender sonno e non ti faresti sfuggire l’ora di correre all’anfiteatro. Giunta l’ora, andresti a svegliare con fastidiosa insistenza il tuo amico, per ipotesi ancora immerso nel sonno e desideroso più di dormire che d’andare ai giochi. Con la tua insistenza faresti pressione su quel pigro: se ti fosse possibile, lo vorresti buttar giù dal letto e piazzarlo nell’anfiteatro. Né, con tutto questo, recheresti a lui fastidio se non finché si sia destato dal sonno, poiché, scomparso il sonno, egli viene subito con te e ti ringrazia per la tua importunità. Ma cosa dire se, condotto quell’uomo all’anfiteatro, dove tutti e due siete andati in gran fretta, l’atleta da voi preferito venisse sconfitto e voi ve ne doveste andare a testa bassa? Ama dunque Dio con tutto il tuo essere: con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente 33. Così e soltanto così ami te stesso; e solo in questa maniera puoi amare il prossimo come te stesso. Lo attiri infatti con entusiasmo da colui del quale mai dovrai arrossire.
Ama se stesso solo colui che ama Dio.
12. Non essendo possibile che chi vuol amare il prossimo lo ami veramente se prima non ama Dio, per questo motivo fu necessario che i due precetti della carità venissero formulati insieme. Chi ama Dio non può amare l’iniquità poiché, amando l’iniquità, odierebbe la sua anima 34. Se non ama l’iniquità, amerà la giustizia, e amando la giustizia amerà Dio. Egli pertanto non cerchi Dio con gli occhi del corpo: lo cerchi con la mente e lo ami in maniera sempre crescente con l’affetto del cuore. Non costruiamoci [con la fantasia] divinità che non sono Dio, se non vogliamo amare anche chi non è Dio, se non vogliamo amare vani fantasmi. Non dobbiamo cadere in errore immaginando cose di questo genere; non dobbiamo formarci un Dio a misura delle nostre voglie naturali né costruircelo a nostro talento. Per distoglierci da queste fantasticherie ci dice la Scrittura: Dio è amore 35. Se dunque ami, ama chi ti dà il potere di amare, e allora ami Dio. Non hai udito che chi ama l’iniquità odia la sua anima 36? Ebbene, se ami, ama colui che ti dona di poter amare, e ami Dio. Il principio per cui ami è infatti la carità. Tu ami in forza della carità: ama dunque la carità e così ami Dio, perché Dio è carità, e chi dimora nella carità dimora in Dio 37. Ecco perché fu necessario che venissero inculcati distintamente i due precetti. Di per sé sarebbe stato sufficiente menzionarne uno: Amerai il prossimo tuo come te stesso 38, ma l’uomo si sarebbe potuto ingannare su questo amore del prossimo non sapendo amare rettamente se stesso. Per questo motivo il Signore, quando volle dare una forma all’amore con cui ami te stesso, la trovò nell’amore che si ha verso Dio. Stabilito questo, ti affidò il prossimo perché tu lo amassi come te stesso.
Unico oggetto del duplice comandamento.
13. A questo punto, se tu sei d’accordo, ti dovrebbe bastare anche l’unico precetto dell’Apostolo. Ora che hai compreso la portata dei due precetti te ne può bastare anche uno solo, mentre prima, quando non li comprendevi, uno non sarebbe bastato. Se infatti poni all’inizio un cattivo amore per te stesso, ami malamente anche colui che ami come te stesso. Anzi, non va detto: » Ami male » ma: » Non ami affatto « . Se dunque ti si dice che non devi commettere adulterio, né uccidere, né desiderare maliziosamente 39, ti si richiama a [rientrare in] te stesso, là cioè dove ha sede la pienezza [dell'uomo]. Infatti tu puoi evitare l’adulterio per timore della punizione, non per amore della giustizia. Così per l’omicidio. Puoi avere la volontà di uccidere ma temi di più il castigo: nel qual caso con la mano non commetti l’omicidio ma nel cuore ne sei colpevole. Ti proponi di uccidere una persona ma temi; comunque vuoi uccidere. È segno che non ami il non uccidere. Il tuo agire all’esterno deve esistere già nel tuo interno, risiedere là dove ti vede Colui che ti darà la corona. Lì devi combattere e vincere, poiché lì risiede Colui che ti osserva. Con ragione quindi è detto: Non commettere adulterio, non uccidere, non desiderare malamente e tutti gli altri comandamenti si riassumono in questa parola: ama il prossimo tuo come te stesso 40. Tu certamente già ami Dio, poiché non potresti amare il prossimo senza amare Dio: il secondo precetto segue il primo. Sia dunque in te il primo, e questo porterà con sé anche il secondo, mentre il secondo non può esistere senza il primo. Se pensavi al perché dei due precetti, adempine pure uno; ma non potrai adempiere quest’uno se non osservandoli tutti e due. Tant’è vero che il secondo si chiama appunto secondo per il fatto che segue [l'altro]. È dunque un precetto conseguente. Ama il prossimo tuo come te stesso: ciò mi basta. Ma se tu a Dio non puoi giungere col pensiero, da dove comincerai per poter amare te stesso? L’amore del prossimo non commette alcun male. Pienezza della legge è dunque la carità 41. E questa carità in che cosa consiste? Nell’amore di Dio e nell’amore del prossimo. Scegli pure l’amore che preferisci! Se scegli l’amore del prossimo, esso non è vero se non ami anche Dio. Se scegli l’amore di Dio, esso non è vero se non v’includi anche il prossimo.
L’amore cristiano è dono di Dio.
14. Se ancora non hai l’amore, gemi e credi; chiedi e otterrai. Ciò che ti viene comandato, ciò che la legge impone, la fede ottiene. Se quanto devi impetrare già lo possiedi, [ricorda le parole]: Che cosa hai tu senza averlo ricevuto? 42 Se non lo possiedi, chiedilo per poterlo ottenere. Quel che noi chiediamo è la carità 43. Se ancora non l’abbiamo, chiediamola per non restarne privi. Come infatti potremmo attingerla in noi stessi se, essendo cattivi, non abbiamo nulla di buono per meritarla? La otterremo piuttosto da Colui al quale dice la nostra anima: Benedici il Signore, anima mia, e non dimenticare i tanti suoi benefici. Egli è misericordioso verso tutte le tue iniquità 44. Ciò avviene nel battesimo. Ma se avvenisse questo soltanto, come rimarremmo in seguito? Continua però [il salmo]: Egli sana tutte le tue malattie 45. Guarite le malattie, non rifiuteremo il nostro pane; e osserva cosa accadrà quando tutte le malattie saranno state guarite: Egli riscatterà la tua vita dalla corruzione 46. È quanto accadrà nella resurrezione dei morti. E dopo che la nostra vita sarà stata liberata dalla corruzione cosa accadrà? Egli ti corona. Forse per i tuoi meriti? Poni attenzione a quel che segue: Egli ti corona nella sua compassione e misericordia 47. Il giudizio infatti sarà senza misericordia per colui che non avrà usato misericordia 48. Ci saranno dunque rimessi i peccati e guarite le malattie; la nostra vita sarà sottratta alla corruzione e per la sua misericordia ci sarà consegnata la corona. Conseguito tutto questo, di che cosa ci occuperemo? Cosa avremo? Egli ti sazia di beni 49, senza alcun male. Eri avaro e l’oro non ti saziava perché, essendo avaro, non puoi trovare la sazietà nell’oro. Sii giusto, e troverai la sazietà in Dio. Non c’è infatti assolutamente nulla che possa saziarti all’infuori di Dio, nulla può bastarti all’infuori di Dio. Mostraci il Padre e questo ci basta! 50 Siamo dunque alacri nel compiere le opere di misericordia mentre veniamo curati dalle nostre malattie, affinché, guariti dalle malattie, acquistino vigore i nostri desideri. Facciamo sì che questi desideri, guariti dal male, crescano in vigore, e, diventati vigorosi, raggiungano la sazietà. Si compia allora il giudizio, ma sia un giudizio di misericordia, poiché sarebbe gravoso un giudizio non accompagnato dalla misericordia, essendo difficile che Dio non trovi in te nulla da punire. Tu forse ti compiacevi di te stesso, ma Lui sa scoprire in te colpe che tu non conosci; trova in te cose che tu volevi nascondere o che magari del tutto ignoravi. Siamo dunque zelanti nel compiere le opere di misericordia: amiamo il prossimo pur nell’attuale scarsità di beni temporali, perché ci sia dato di udire, nel giudizio, una sentenza di misericordia.