San Paolo della Croce

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SAN PAOLO DELLA CROCE – 19 OTTOBRE
Il motto paolino “noi predichiamo Cristo Crocifisso” fu alla base della spiritualità del nostro Santo e costituisce anche il segreto del suo apostolato, caratterizzato da un ardente desiderio di vedere distrutto il regno di Satana e riconquistare le anime a Dio, anche a costo della vita.
Un giorno rapitolo in estasi, Gesù lo nascose nelle sue piaghe adorabili e dopo averlo investito della Sua luce celeste, gli svelò l’orribile trama dei peccati del genere umano e fu allora che il cuore di S. Paolo si infiammò al punto che quando predicava la passione di Gesù, sembrava che da un momento all’altro la sua anima dovesse staccarsi dal corpo. Nessuno sapeva parlare della Passione di Cristo come il padre Paolo.
Spesso diceva: “Vorrei, se mi fosse possibile, attaccar fuoco di carità per bruciare non solo chi ci passa vicino, ma anche i popoli lontani, perché tutti amino e conoscano il Sommo Bene”. Il suo modo di vivere è già una testimonianza viva del Mistero, ma quando alza il dito in segno di ammirazione e indica il Crocifisso dicendo: “Un Dio morto per me…” si sente il pianto della gente che ascolta commossa. S. Paolo della Croce aveva ricevuto da Dio il dono di sapere entrare in sintonia psicologica e spirituale con chi lo ascoltava e se piangeva lui, non poteva non piangere chi sentiva le sue parole.
S. Paolo della Croce nasce ad Ovada (Alessandria) il 3 gennaio 1694 e si chiama Paolo Francesco Danei. Ricevette i primi insegnamenti della fede dalla mamma Anna Maria che ebbe, su questo bambino, particolari intuizioni spirituali, fin dalla gestazione. Gli insegnò ad amare la Passione di Gesù e ad affezionarsi alla preghiera e alla mortificazione. Sempre i Santi si formano sulle ginocchia della madre. Paolo cresce in santità e, ancora ragazzo, piano piano si alza dal letto, sale in soffitta e davanti ad un altarino, prega, nascosto. Poi dorme su due assi, il capo su mattoni. Là in un angolino c’è una boccettina di fiele. Paolo lo sa e ogni venerdì ne beve un po’, perché anche Gesù lo ha bevuto. Tutte queste cose le sa solo il fratello Giovanni Battista che si unisce con lui in quegli esercizi di mortificazione.
S. Paolo compirà i suoi primi studi dai padri Carmelitani e sarà particolarmente attratto dalla dottrina e dalla spiritualità dal “dottore mistico” S. Giovanni della Croce. Nel 1714 Paolo ha quella che lui chiamerà la “seconda conversione”. Ascoltando l’omelia di un parroco, decide di fare una confessione generale e di arruolarsi nell’esercito per combattere contro il Turco, ma un giorno mentre prega davanti all’Eucaristia riceve l’ispirazione di lasciare l’esercito e di “indossare una povera tonaca nera, andare scalzo e vivere in povertà, radunando compagni per promuovere nelle anime il santo timore di Dio”.
Una sera, in una via solitaria, la Vergine gli appare e gli parla. È vestita di nero: scalzi i piedi, una cinta di cuoio e una corona pendente ai fianchi, un cuore bianco in petto con la scritta “La Passione di Gesù”. Gli disse: “Figlio, tu dovrai fondare una congregazione in cui si faccia memoria della Passione del mio Gesù” e gli mostrò un flagello su cui stava scritto «Amore». Poi scomparve.
Un punto fermo nelle peregrinazioni di Paolo è rappresentato dalla permanenza sul monte Argentario, anche se percorse in lungo e in largo l’Italia Centro-Occidentale per predicare la Parola della Croce, spingendo intere popolazioni ad un serio rinnovamento spirituale.
Nel romitorio del Monte Argentario Paolo condusse vita ascetica col fratello Giovanni Battista. Dormivano quasi quattro ore, di notte, sulle nude assi e la loro mensa era sempre piena di radici di piante condite con aceto. Trascorrevano giornate intere a parlare con Dio e di Dio. Scendeva dal ritiro solo quando doveva andare a predicare o per assistere i malati di lebbra nell’ospedale di Gallicano, dove stava tra le corsie e quando posava la sua mano sui malati, il suo cuore si apriva e il suo pianto si mescolava con quello degli sventurati. Di notte lo si vedeva passare leggero come un angelo. Era dovunque.
Nel suo primo ritiro si aggiunsero otto compagni, ma ressero poco alla vita di penitenze e il Santo rimase ancora solo con il fratello. Col tempo ne vennero altri ardenti d’amore per il Crocifisso, come li voleva lui. Fu stabilita la regolare osservanza: privazioni senza misura, una penitenza straordinaria e preghiera continua. Mangiava pochissimo e mescolava al suo cibo cenere e acqua e questo cibo era senza condimento, persino senza sale. Viene difficile pensare che un uomo possa vivere a lungo in simili condizioni. Eppure S. Paolo della Croce visse 81 anni.
Egli amava quelle penitenze, perché erano il prezzo delle anime che il suo Gesù Crocifisso aveva redento. S. Paolo sapeva che la Maremma era infestata dai briganti e proprio per questo passava per le macchie dove si annidavano.
Un giorno col fratello andava in missione, quand’ecco, ad un tratto alcuni briganti a cavallo passarono accanto a loro. Il padre Paolo li salutò e parlò loro soavemente di Dio. Commossi i briganti invitarono i missionari a salire sui loro cavalli, tanto più che i piedi di quei padri erano insanguinati dagli sterpi che ostacolavano la via. Padre Paolo sorrise, ma non accettò. Fu un lampo: scesi da cavallo, i due banditi stesero a terra i loro mantelli, affinché i servi di Dio vi potessero passare sopra. La sera, in fondo alla Chiesa, padre Paolo, mentre predicava, scorse i due briganti e, dopo la predica, li andò ad abbracciare e li condusse al Crocifisso.
Un giorno, invece, si scatenò un tremendo naufragio che fece temere il popolo per la vita dei pescatori che erano in mare con le loro barche; il padre Paolo uscì dal suo ritiro dell’Argentario e benedisse col Crocifisso il mare. Allora la tempesta cessò immediatamente e il mare tornò calmo.
La prima cosa che S. Paolo della Croce insegna a chi vuole giungere alla perfezione della carità evangelica è il distacco da tutto e da tutti. Bisogna scendere, egli dice, nel fondo dell’anima, dove tutte le energie spirituali sono raccolte e protese alla ricerca e all’esperienza di Dio. Il fondo dell’anima è il punto dove l’Essere creativo di Dio si incontra con l’essere della creatura.
L’anima percepisce così di essere tempio di Dio. Per giungere a tanto occorre morire a tutto quello che non sia Dio e la sua gloria. Scopo della morte mistica è, quindi, la nascita ad una vita nuova (divina natività). Con una vita completamente divinizzata si compie gioiosamente la divina volontà, si vive nell’eterna comunione trinitaria già su questa terra. Ma per giungere a tanto occorre affidarsi completamente a Gesù Cristo, figlio di Dio fatto uomo, morto in Croce per redimere l’umanità da tutti i peccati e per rivelare l’infinito amore di Dio misericordioso. Nella Passione c’è tutto: «essa è la più grande e stupenda opera del Divino Amore». Nella Passione di Gesù si sono riversati e mescolati per sempre due mari: il mare dell’amore di Dio e quello del dolore dell’uomo. Per questo anche il dolore ha acquisito un valore infinito.
La conformazione e l’imitazione di Gesù Cristo (e questo è un dato caratteristico ed originale di S. Paolo della Croce) è possibile realizzarla in pienezza nella Chiesa, il mistico corpo di Cristo, il cui cuore pulsante è costituito dall’Eucaristia. Si può morire a se stessi e vivere solo conformandosi e ad imitazione di Gesù eucaristico.
«Operare, patire e tacere» era la sua massima continua. Fare tutto per il Signore era il costante desiderio. A tutti consigliava la preghiera. State a casa vostra, diceva e per casa intendeva il santuario dell’anima dove abita Dio. Se ne stava sempre assorto, in contemplazione e quando, camminando, vedeva i fiori dei campi, li percuoteva leggermente col suo bastone e, scoppiando in pianto, diceva: «Tacete, voi mi rimproverate di non amare abbastanza il Signore».
Un giorno, pazzo di gioia, abbracciò un alberello scheletrito, perché vide in quei tronchi l’immagine della sua anima. Tutto lo portava a Dio e ogni cosa gli parlava di Lui. Se vedeva un campanile si commuoveva perché pensava che lì vicino Gesù si celava nel Tabernacolo e, allora, si metteva in ginocchio e pregava.
Quando gli uomini lo accusavano e lo ingiuriavano egli guardava il suo Gesù e pregava per i suoi persecutori. A tutti raccomandava silenzio, disinvoltura e il fare finta di non capire, come unico mezzo per mettere a tacere i maligni.
Tantissime furono le guarigioni e i miracoli che il Signore operò, servendosi di padre Paolo, quando era ancora in vita e la fama di santità del padre Paolo si era talmente diffusa che la gente accorreva da ogni parte per poterlo toccare o per strappargli un lembo della tonaca. Una volta una donna che soffriva di sordità riuscì a strappargli la tunica con i denti, il padre accortosi della cosa le disse, in tono di benevolo rimprovero: “Che denti! E adesso che avete guadagnato?”. «L’udito, padre Paolo» rispose la donna che in quello stesso istante era stata miracolata.
La brevità delle composizioni, quali risultano dal manoscritto, ci confermano che il Santo aveva solo dei pro-memoria, da cui traspare l’ardente amore che sente per Gesù Crocifisso, al punto che ne porta i segni tangibili nel corpo; gli si sollevarono tre costole e un giorno Gesù abbassando le braccia dalla Croce, lo stringe al costato, tenendolo per tre ore immerso in questa sorgente dell’Amore. Il Santo confiderà ad un’anima di essersi sentito in Paradiso.
L’apostolato del Santo fece sbocciare tante conversioni e una incredibile abbondanza di frutti spirituali. La teologia della Passione di S. Paolo si può riassumere nella frase “Nella Passione vi è tutto”.
La salvezza è opera di amore e di dolore: Amore di Dio che perdona l’uomo; amore di Gesù che placa Dio e redime l’uomo; amore dell’uomo che, in Gesù, si riconcilia con Dio.
Dolore voluto dal Padre nel sacrificio del Figlio; dolore del Figlio per l’offesa al Padre e per la miseria dell’uomo; dolore dell’uomo che partecipa alla Passione di Gesù; dolore che purifica e trasforma in Cristo. Amore e dolore che ripara e s’immola, secondo la vocazione di ognuno.
S. Paolo afferma nei suoi scritti la “Grande” e “Segreta Santità della Croce” affermando che “il mezzo più efficace per farci santi è la virtù della Croce e Passione di Gesù”, infatti “se la Croce del nostro dolce Gesù pone profonde radici nel nostro cuore” veniamo trasformati nel “divino beneplacito”. La perdita di sé, il vivere ignorati dal mondo, nascosti in Gesù Cristo, nel tempio interiore dell’anima è la santità più preziosa.
Alle anime Paolo augurava sempre di lasciarsi imprimere nell’anima questo “sigillo d’amore” che stimola ad una continua memoria del Mistero di Cristo.
La vera sapienza si impara solo se illuminati dal Crocifisso, così come hanno fatto i Santi; l’unica via che insegna la strada del Paradiso. Tale speranza si apprende solo “meditando”, immergendosi, cioè, nel cuore della contemplazione della Santissima Passione, dove le anime umili possono pescare i tesori delle sante virtù.
Partecipare alla Passione è mezzo di purificazione e possibilità di fare crescere la grazia battesimale che incorpora al Cristo. In Lui dobbiamo morire e rinascere, per la gloria del Padre e la salvezza del mondo.
Allora si comincia ad essere veri discepoli di Gesù, perciò quanto la vita offre di amaro, bisogna prenderlo “nel calice amoroso di Gesù. Soffrendo tutto per amore di Dio, in unione a quanto patì per noi Gesù Cristo, nostro vero bene”. “Questa è la vita di Cristo, questa è la vita dei servi del Signore. Abbracciamo dunque di buon cuore la Santa Croce” diceva S. Paolo.
La Passione fa scoprire l’amore, nell’umile nascondimento in Gesù, riposando nel suo Divin Cuore, come bambini. Il dolore, provocato e pervaso dall’amore, non è amaro, perché quando si ama non si sente la sofferenza.
La prima immagine del Crocifisso fissata dal Santo fu quella offertagli dalla mamma, immagine che ispirò tutta la sua formazione spirituale.
Ad una parete dell’eremo di S. Stefano, tiene appeso il Crocifisso e, nella sua lunga vita di missionario lo porterà sul petto e talvolta lo alzerà con la mano destra per mostrarlo ai fedeli.
L’austerità della sua vita, le numerose malattie, gli abbandoni interni sperimentati, le vessazioni diaboliche cui sempre i Santi sono sottoposti, la fondazione dell’istituto, l’azione missionaria sono il suo “restare ai piedi della Croce”.
Fino alla morte non sarà altra la sua ambizione e sia che predicasse, parlasse o scrivesse sempre eseguiva quel suo gran proponimento: di predicare Gesù Cristo Crocifisso.
La Croce è per Paolo allo sfondo della contemplazione della natura, all’orizzonte dei misteri di Cristo ed è il principio regolatore di un’ascesi.
Paolo dalla Passione intendeva far ricavare alle anime la carica più potente per risorgere dal peccato.
Ancor oggi la dottrina di S. Paolo può essere attuale in un mondo che sembra avere rinunziato alla speranza e ancor oggi il suo messaggio può aprire i cuori e incamminare le anime all’infinito amore di Dio.
Fu un insigne mistico e asceta che si impose le più aspre rinunce e mortificazioni e come S. Paolo poteva dire “Non sono io che vivo, ma Cristo vive in me”.
Paolo della Croce morì il 18 ottobre 1775, tra indicibili sofferenze: le piaghe coprivano tutto il suo corpo.
Per le vie di Roma si sparse la notizia “È morto il Santo” dicevano e un fiume di persone si riversò alla Chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, chiedendo reliquie e toccando quel sacro corpo, da cui esalava un soavissimo profumo. Verrà canonizzato il 29 Giugno del 1867.
Solo persone profondamente imbevute di un concreto ideale di vita possono aspirare ad avere con sé altri compagni di cordata. Fin dall’inizio troviamo attorno a Paolo una eletta schiera di «uomini forti». Divennero passionisti e perseverarono fino alla fine in un genere di vita molto impegnativo, perché la proposta di un ideale si era concretizzata in una autentica compagnia di amici, con i quali vivere e con i quali spendere le migliori energie per annunciare il Vangelo della Passione.
La Congregazione fondata da Paolo della Croce, è sparsa in più di 50 nazioni e conta quasi 3.000 membri del ramo maschile. Vi sono circa 25 monasteri di clausura e vari istituti di vita consacrata che si rifanno al Carisma di S. Paolo della Croce.
Concludiamo la meditazione di questa sera con la lettura di una lettera del Santo in cui si rivela in particolar modo l’ardente amore per il Crocifisso che infiammava la sua anime.
SANTA MESSA PER LA CONCLUSIONE DEL SINODO STRAORDINARIO SULLA FAMIGLIA
E BEATIFICAZIONE DEL SERVO DI DIO PAPA PAOLO VI
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Piazza San Pietro
Domenica, 19 ottobre 2014
Abbiamo appena ascoltato una delle frasi più celebri di tutto il Vangelo: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,21).
Alla provocazione dei farisei che, per così dire, volevano fargli l’esame di religione e condurlo in errore, Gesù risponde con questa frase ironica e geniale. È una risposta ad effetto che il Signore consegna a tutti coloro che si pongono problemi di coscienza, soprattutto quando entrano in gioco le loro convenienze, le loro ricchezze, il loro prestigio, il loro potere e la loro fama. E questo succede in ogni tempo, da sempre.
L’accento di Gesù ricade certamente sulla seconda parte della frase: «E (rendete) a Dio quello che è di Dio». Questo significa riconoscere e professare – di fronte a qualunque tipo di potere – che Dio solo è il Signore dell’uomo, e non c’è alcun altro. Questa è la novità perenne da riscoprire ogni giorno, vincendo il timore che spesso proviamo di fronte alle sorprese di Dio.
Lui non ha paura delle novità! Per questo, continuamente ci sorprende, aprendoci e conducendoci a vie impensate. Lui ci rinnova, cioè ci fa “nuovi” continuamente. Un cristiano che vive il Vangelo è “la novità di Dio” nella Chiesa e nel Mondo.
E Dio ama tanto questa “novità”! «Dare a Dio quello che è di Dio», significa aprirsi alla Sua volontà e dedicare a Lui la nostra vita e cooperare al suo Regno di misericordia, di amore e di pace.Qui sta la nostra vera forza, il fermento che la fa lievitare e il sale che dà sapore ad ogni sforzo umano contro il pessimismo prevalente che ci propone il mondo. Qui sta la nostra speranza perché la speranza in Dio non è quindi una fuga dalla realtà, non è un alibi: è restituire operosamente a Dio quello che Gli appartiene. È per questo che il cristiano guarda alla realtà futura, quella di Dio, per vivere pienamente la vita – con i piedi ben piantati sulla terra – e rispondere, con coraggio, alle innumerevoli sfide nuove.
Lo abbiamo visto in questi giorni durante il Sinodo straordin
ario dei Vescovi – “Sinodo” significa «camminare insieme». E infatti, pastori e laici di ogni parte del mondo hanno portato qui a Roma la voce delle loro Chiese particolari per aiutare le famiglie di oggi a camminare sulla via del Vangelo, con lo sguardo fisso su Gesù. È stata una grande esperienza nella quale abbiamo vissuto la sinodalità e la collegialità, e abbiamo sentito la forza dello Spirito Santo che guida e rinnova sempre la Chiesa chiamata, senza indugio, a prendersi cura delle ferite che sanguinano e a riaccendere la speranza per tanta gente senza speranza.
Per il dono di questo Sinodo e per lo spirito costruttivo offerto da tutti, con l’Apostolo Paolo: «Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere» (1Ts 1,2). E lo Spirito Santo che in questi giorni operosi ci ha donato di lavorare generosamente con vera libertà e umile creatività, accompagni ancora il cammino che, nelle Chiese di tutta la terra, ci prepara al Sinodo Ordinario dei Vescovi del prossimo ottobre 2015. Abbiamo seminato e continueremo a seminare con pazienza e perseveranza, nella certezza che è il Signore a far crescere quanto abbiamo seminato (cfr 1Cor 3,6).
In questo giorno della beatificazione di Papa Paolo VI mi ritornano alla mente le sue parole, con le quali istituiva il Sinodo dei Vescovi: «scrutando attentamente i segni dei tempi, cerchiamo di adattare le vie ed i metodi … alle accresciute necessità dei nostri giorni ed alle mutate condizioni della società» (Lett. ap. Motu proprio Apostolica sollicitudo).
Nei confronti di questo grande Papa, di questo coraggioso cristiano, di questo instancabile apostolo, davanti a Dio oggi non possiamo che dire una parola tanto semplice quanto sincera ed importante: grazie! Grazie nostro caro e amato Papa Paolo VI! Grazie per la tua umile e profetica testimonianza di amore a Cristo e alla sua Chiesa!
Nelle sue annotazioni personali, il grande timoniere del Concilio, all’indomani della chiusura dell’Assise conciliare, scrisse: «Forse il Signore mi ha chiamato e mi tiene a questo servizio non tanto perché io vi abbia qualche attitudine, o affinché io governi e salvi la Chiesa dalle sue presenti difficoltà, ma perché io soffra qualche cosa per la Chiesa, e sia chiaro che Egli, e non altri, la guida e la salva» (P. Macchi, Paolo VI nella sua parola, Brescia 2001, pp. 120-121). In questa umiltà risplende la grandezza del Beato Paolo VI che, mentre si profilava una società secolarizzata e ostile, ha saputo condurre con saggezza lungimirante – e talvolta in solitudine – il timone della barca di Pietro senza perdere mai la gioia e la fiducia nel Signore.
Paolo VI ha saputo davvero dare a Dio quello che è di Dio dedicando tutta la propria vita all’«impegno sacro, solenne e gravissimo: quello di continuare nel tempo e di dilatare sulla terra la missione di Cristo» (Omelia nel Rito di Incoronazione: Insegnamenti I, (1963), 26), amando la Chiesa e guidando la Chiesa perché fosse «nello stesso tempo madre amorevole di tutti gli uomini e dispensatrice di salvezza» (Lett. enc. Ecclesiam Suam, Prologo).