Archive pour le 16 octobre, 2014

Sant’Ignazio di Antiochia – Basilica di San Clemente, Roma;

Sant’Ignazio di Antiochia - Basilica di San Clemente, Roma;  dans immagini sacre

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BENEDETTO XVI – SANT’IGNAZIO D’ANTIOCHIA – 17 OTTOBRE

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2007/documents/hf_ben-xvi_aud_20070314_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 14 marzo 2007

SANT’IGNAZIO D’ANTIOCHIA – 17 OTTOBRE

Cari fratelli e sorelle,

nel nostro nuovo ciclo di catechesi appena iniziato stiamo passando in rassegna le principali personalità della Chiesa nascente. La scorsa settimana abbiamo parlato di Papa Clemente I, terzo Successore di san Pietro. Oggi parliamo di sant’Ignazio, che è stato il terzo Vescovo di Antiochia, dal 70 al 107, data del suo martirio. In quel tempo Roma, Alessandria e Antiochia erano le tre grandi metropoli dell’Impero romano. Il Concilio di Nicea parla di tre «primati»: ovviamente, quello di Roma, ma vi erano poi anche Alessandria e Antiochia che vantavano un loro «primato». Sant’Ignazio, come s’è detto, era Vescovo di Antiochia, che oggi si trova in Turchia. Qui, in Antiochia, come sappiamo dagli Atti degli Apostoli, sorse una comunità cristiana fiorente: primo Vescovo ne fu l’apostolo Pietro – così ci dice la tradizione –, e lì «per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani» (At 11,26). Eusebio di Cesarea, uno storico del IV secolo, dedica un intero capitolo della sua Storia Ecclesiastica alla vita e all’opera letteraria di Ignazio (3,36). «Dalla Siria», egli scrive, «Ignazio fu mandato a Roma per essere gettato in pasto alle belve, a causa della testimonianza da lui resa a Cristo. Compiendo il suo viaggio attraverso l’Asia, sotto la custodia severa delle guardie» [che lui chiama «dieci leopardi» nella sua Lettera ai Romani 5,1], «nelle singole città dove sostava, con prediche e ammonizioni, andava rinsaldando le Chiese; soprattutto esortava, col calore più vivo, di guardarsi dalle eresie, che allora cominciavano a pullulare, e raccomandava di non staccarsi dalla tradizione apostolica» (3,36,3-4). La prima tappa del viaggio di Ignazio verso il martirio fu la città di Smirne, dove era Vescovo san Policarpo, discepolo di san Giovanni. Qui Ignazio scrisse quattro lettere, rispettivamente alle Chiese di Efeso, di Magnesia, di Tralli e di Roma. «Partito da Smirne», prosegue Eusebio, «Ignazio venne a Troade, e di là spedì nuove lettere»: due alle Chiese di Filadelfia e di Smirne, e una al Vescovo Policarpo. Eusebio completa così l’elenco delle lettere, che sono giunte a noi come un prezioso tesoro. Leggendo questi testi si sente la freschezza della fede della generazione che ancora aveva conosciuto gli Apostoli. Si sente anche in queste lettere l’amore ardente di un Santo. Finalmente da Troade il martire giunse a Roma, dove, nell’Anfiteatro Flavio, venne dato in pasto alle bestie feroci.
Nessun Padre della Chiesa ha espresso con l’intensità di Ignazio l’anelito all’unione con Cristo e alla vita in Lui. Perciò abbiamo letto il brano evangelico sulla vigna, che secondo il Vangelo di Giovanni è Gesù. In realtà, confluiscono in Ignazio due «correnti» spirituali: quella di Paolo, tutta tesa all’unione con Cristo, e quella di Giovanni, concentrata sulla vita in Lui. A loro volta, queste due correnti sfociano nell’imitazione di Cristo, più volte proclamato da Ignazio come «il mio» o «il nostro Dio». Così Ignazio supplica i cristiani di Roma di non impedire il suo martirio, perché è impaziente di «congiungersi con Gesù Cristo». E spiega: «E’ bello per me morire andando verso (eis) Gesù Cristo, piuttosto che regnare sino ai confini della terra. Cerco Lui, che è morto per me, voglio Lui, che è risorto per noi … Lasciate che io sia imitatore della Passione del mio Dio!» (Romani 5-6). Si può cogliere in queste espressioni brucianti d’amore lo spiccato «realismo» cristologico tipico della Chiesa di Antiochia, più che mai attento all’incarnazione del Figlio di Dio e alla sua vera e concreta umanità: Gesù Cristo, scrive Ignazio agli Smirnesi, «è realmente dalla stirpe di Davide», «realmente è nato da una vergine», «realmente fu inchiodato per noi» (1,1).
L’irresistibile tensione di Ignazio verso l’unione con Cristo fonda una vera e propria «mistica dell’unità». Egli stesso si definisce «un uomo al quale è affidato il compito dell’unità» (Filadelfiesi 8,1). Per Ignazio l’unità è anzitutto una prerogativa di Dio che, esistendo in tre Persone, è Uno in assoluta unità. Egli ripete spesso che Dio è unità, e che solo in Dio essa si trova allo stato puro e originario. L’unità da realizzare su questa terra da parte dei cristiani non è altro che un’imitazione, il più possibile conforme all’archétipo divino. In questo modo Ignazio giunge a elaborare una visione della Chiesa, che richiama da vicino alcune espressioni della Lettera ai Corinti di Clemente Romano. «E’ bene per voi», scrive per esempio ai cristiani di Efeso, «procedere insieme d’accordo col pensiero del Vescovo, cosa che già fate. Infatti il vostro collegio dei presbiteri, giustamente famoso, degno di Dio, è così armonicamente unito al Vescovo come le corde alla cetra. Per questo nella vostra concordia e nel vostro amore sinfonico Gesù Cristo è cantato. E così voi, ad uno ad uno, diventate coro, affinché nella sinfonia della concordia, dopo aver preso il tono di Dio nell’unità, cantiate a una sola voce» (4,1-2). E dopo aver raccomandato agli Smirnesi di non «intraprendere nulla di ciò che riguarda la Chiesa senza il Vescovo» (8,1), confida a Policarpo: «Io offro la mia vita per quelli che sono sottomessi al Vescovo, ai presbiteri e ai diaconi. Possa io con loro avere parte con Dio. Lavorate insieme gli uni per gli altri, lottate insieme, correte insieme, soffrite insieme, dormite e vegliate insieme come amministratori di Dio, suoi assessori e servi. Cercate di piacere a Colui per il quale militate e dal quale ricevete la mercede. Nessuno di voi sia trovato disertore. Il vostro Battesimo rimanga come uno scudo, la fede come un elmo, la carità come una lancia, la pazienza come un’armatura» (6,1-2).
Complessivamente si può cogliere nelle Lettere di Ignazio una sorta di dialettica costante e feconda tra due aspetti caratteristici della vita cristiana: da una parte la struttura gerarchica della comunità ecclesiale, e dall’altra l’unità fondamentale che lega fra loro tutti i fedeli in Cristo. Di conseguenza, i ruoli non si possono contrapporre. Al contrario, l’insistenza sulla comunione dei credenti tra loro e con i propri pastori è continuamente riformulata attraverso eloquenti immagini e analogie: la cetra, le corde, l’intonazione, il concerto, la sinfonia. E’ evidente la responsabilità peculiare dei Vescovi, dei presbiteri e dei diaconi nell’edificazione della comunità. Vale anzitutto per loro l’invito all’amore e all’unità. «Siate una cosa sola», scrive Ignazio ai Magnesi, riprendendo la preghiera di Gesù nell’Ultima Cena: «Un’unica supplica, un’unica mente, un’unica speranza nell’amore … Accorrete tutti a Gesù Cristo come all’unico tempio di Dio, come all’unico altare: Egli è uno, e procedendo dall’unico Padre, è rimasto a Lui unito, e a Lui è ritornato nell’unità» (7,1-2). Ignazio, per primo nella letteratura cristiana, attribuisce alla Chiesa l’aggettivo «cattolica», cioè «universale»: «Dove è Gesù Cristo», egli afferma, «lì è la Chiesa cattolica» (Smirnesi 8,2). E proprio nel servizio di unità alla Chiesa cattolica, la comunità cristiana di Roma esercita una sorta di primato nell’amore: «In Roma essa presiede degna di Dio, venerabile, degna di essere chiamata beata … Presiede alla carità, che ha la legge di Cristo e porta il nome del Padre» (Romani, prologo).
Come si vede, Ignazio è veramente il «dottore dell’unità»: unità di Dio e unità di Cristo (a dispetto delle varie eresie che iniziavano a circolare e dividevano l’uomo e Dio in Cristo), unità della Chiesa, unità dei fedeli «nella fede e nella carità, delle quali non vi è nulla di più eccellente» (Smirnesi 6,1). In definitiva, il «realismo» di Ignazio invita i fedeli di ieri e di oggi, invita noi tutti a una sintesi progressiva tra configurazione a Cristo (unione con Lui, vita in Lui) e dedizione alla sua Chiesa (unità con il Vescovo, servizio generoso alla comunità e al mondo). Insomma, occorre pervenire a una sintesi tra comunione della Chiesa all’interno di sé e missione-proclamazione del Vangelo per gli altri, fino a che attraverso una dimensione parli l’altra, e i credenti siano sempre più «nel possesso di quello Spirito indiviso, che è Gesù Cristo stesso» (Magnesi 15).
Implorando dal Signore questa «grazia di unità», e nella convinzione di presiedere alla carità di tutta la Chiesa (cfr Romani, prologo), rivolgo a voi lo stesso augurio che conclude la lettera di Ignazio ai cristiani di Tralli: «Amatevi l’un l’altro con cuore non diviso. Il mio spirito si offre in sacrificio per voi, non solo ora, ma anche quando avrà raggiunto Dio … In Cristo possiate essere trovati senza macchia» (13). E preghiamo affinché il Signore ci aiuti a raggiungere questa unità e ad essere trovati finalmente senza macchia, perché è l’amore che purifica le anime.

INTRODUZIONE ALLA BIBBIA / 7 – I GENERI LETTERARI

http://www.sambrogiodimignanego.it/Sito%20Parrocchia/n_rifles/Bib007.htm

INTRODUZIONE ALLA BIBBIA / 7 – I GENERI LETTERARI

[Parrocchia di S. Ambrogio in Mignanego (GE) ]

Oggi non ci si veste come ieri, né domani come oggi; né nella stessa epoca ci si veste allo stesso modo in tutti gli angoli della terra.
Qualcosa del genere accade anche riguardo al nostro modo di parlare e di scrivere: oggi non si scrive come ieri, né l’o­rientale scrive come l’occidentale.
Perfino le stesse parole non hanno sempre lo stesso signifi­cato. La differenza aumenta quanto più gli uomini sono distanti nel tempo e nello spazio. Un orientale di tremila anni fa è diverso in tutto da un occidentale dei nostri giorni. Inoltre c’è diversità nei modi di esprimere il pensiero: esi­stono la poesia, la storia, l’allegoria, il romanzo, ecc. Il poeta non scrive come uno studioso: il primo si permette certe libertà (immagini, paragoni, iperboli), mentre il secondo deve attenersi ai dati precisi, ai termini esatti.
I diversi modi di esprimere per iscritto il pensiero, che si sono usati e si usano in determinate epoche e luoghi, ven­gono chiamati generi letterari. La loro conoscenza è di grande importanza: essi possono aiutarci a chiarire alcune cose fondamentali riguardanti la Bibbia, a leggerla e com­prenderla meglio.
Infatti, come in ogni letteratura di qualsiasi paese o nazione, anche nei Libri Sacri, che sono scritti da uomini per gli uomini, si ha notevole diversità di generi letterari.
Nei 73 libri della Bibbia troviamo, infatti, storie vere, roman­zi storici, allegorie, favole, parabole, poemi, poesie, leggen­de, proverbi, simbolismi, antropomorfismi (cioè attribuzio­ni a Dio di forme umane), ecc. Perfino in uno stesso libro o capitolo a volte coesistono generi letterari diversi.
Molte persone, senza rendersene conto, nel leggere la Bibbia assumono lo stesso atteggiamento che se leggessero un autore moderno. Ma non può essere così! Non si può parla­re, per esempio, del lago di Tiberiade, descrivendolo come se fosse il lago di Garda! Sarebbe un controsenso.
Gli scrittori biblici, infatti, come Isaia, Geremia, Giovanni, ecc., sono molto diversi da noi oggi. Vissero tanti anni fa le stesse verità che viviamo noi, ma le espressero in modo molto differente.
E noi, se li leggiamo come autori moderni, corriamo il rischio di fermarci solo al loro modo di dire le cose e di non arriva­re a capire ciò che vollero dire.
Così finiamo per non comprendere la Bibbia.
È dunque necessario per noi affrontare, sia pure in breve, l’importante problema dei generi letterari.

CHE COSA INSEGNA LA CHIESA
Pio XII, affrontando questo tema nell’enciclica che scrisse sullo studio delle Sacre Scritture, la Divino afflante Spiritu, ci ricorda: « Gli antichi orientali non impiegavano sempre le stesse forme e gli stessi modi di dire di noi oggi, ma quelli che erano usati correntemente dagli uomini del loro tempo e dei loro paesi ».
Quindi aggiunge che, per conoscere il vero senso degli scritti sacri, occorre determinare bene il genere let­terario a cui appartengono.
In un’altra enciclica, la Humani generis, lo stesso Pio XII afferma a proposito della Genesi: « È in un certo senso assolutamente necessario che l’interprete retroceda con il pensiero ai lontani e remoti secoli dell’Oriente, in modo che, aiutandosi con le risorse della storia, del­l’archeologia, dell’etnologia e delle altre scienze, possa discernere e riconoscere quali generi letterari hanno voluto impiegare e hanno usato di fatto gli autori di quell’età antica ».
Perciò il cristiano, nel leggere la Bibbia, deve saper riconoscere quale genere letterario ha davanti a sé, cioè deve saper distinguere tra la realtà e la fin­zione, tra il nucleo storico e il rivestimento lettera­rio che lo esprime. Altrimenti finisce per imbatter­si in infiniti controsensi.
Per prevenire il lettore da certe delusioni, nate in massima parte dall’ignoran­za, tutte le Bibbie cattoliche recano note esplicative. Molte di esse contengono un’introduzione per ciascun libro, per far sì che il lettore, prima di accingersi alla lettura, acquisisca una certa ambientazione. Non si assume lo stesso atteg­giamento di fronte a un racconto storico o a una poesia o a un romanzo.
Di conseguenza, dobbiamo fare attenzione a non attribuire al testo ispirato un senso che non ha. Invece di accomodarlo al nostro modo di intendere, dobbia­mo accomodare noi stessi ad esso e attribuirgli il senso che gli ha dato l’autore. Questa osservazione è di capitale importanza se vogliamo, nella lettura della Bibbia, ascoltare la Parola di Dio e non la parola umana.
Una maggiore conoscenza dell’Antico Oriente e l’applicazione dei generi lette­rari permettono di dare interpretazioni più ragionevoli a passi biblici che prima erano interpretati comunemente alla lettera.
Per esempio:
• il frutto dell’albero del paradiso
• la creazione di Eva dalla costola di Adamo
• il potere misterioso dei capelli di Sansone
• il carro di fuoco di Elia ed Enoc
• la balena di Giona, ecc.
Senza dubbio è molto difficile interpretare rettamente molti passi biblici, in particolare dell’Antico Testamento. La loro retta comprensione richiede uno studio serio e impegnativo. E per aver dimenticato questo, molti cristiani cadono in un’interpretazione superficiale e troppo letterale della Sacra Scrittura, disattendendo penosamente ciò che è più impor­tante, cioè il messaggio racchiuso nei fatti fondamentali.

CERCARE I FATTI FONDAMENTALI
Noi occidentali oggi ci esprimiamo in modo realistico e diretto, mentre gli anti­chi popoli orientali erano soliti esprimersi attraverso fantasie, immagini o rap­presentazioni animate.
Ora, leggendo i loro testi, noi dovremo imparare a distinguere e cercare anzi­tutto le idee e i fatti fondamentali.
Un esempio
I primi undici capitoli della Genesi
Essi ci rendono conto, in forma di poema popolare, di alcuni fatti e verità fon­damentali della religione:
• l’esistenza di un Dio personale, superiore al mondo
• la creazione del mondo e dell’uomo da parte di Dio
• la dignità della persona umana
• il matrimonio
• il peccato originale e la promessa di un Redentore.
Per di più ci danno anche la risposta ai problemi umani più vitali:
• chi è Dio?
• chi è l’uomo?
• perché esistono il male, la sofferenza, la morte?
I racconti di questi capitoli sono espressi in forma di scene animate, il loro gene­re letterario ha rapporto con la storia, con la leggenda popolare, con la parabo­la, con l’apocalisse cosmogonica (rivelazione sulla formazione dell’universo), e tuttavia non è né storia in senso stretto, né pura leggenda e tanto meno mito (favole, finzioni astratte).
Così anche i libri di Tobia, Giuditta, Ester, Giona apparten­gono a questo genere letterario, chiamato midrash, che è simile a una parabola o a un racconto storico, ma in realtà si propone di dare un insegnamento morale.

MA PERCHÉ DIO NON HA PARLATO IN MODO PIÙ CHIARO?
Viene da obiettare: se la Bibbia dice cose tanto importanti, se ci comunica il pensiero di Dio, la sua parola, perché Dio non ci ha parlato più chiaramente? Così potremmo capirlo tutti senza tanti sforzi.
Invece dobbiamo costatare che la Bibbia riflette una menta­lità, una cultura e un linguaggio molto diversi dai nostri. Ad esempio, per l’uomo biblico « i cedri del Libano » simbo­leggiano un qualcosa d’imponente, che mette soggezione per la sua bellezza e superiorità; « mangiare carni grasse » o vedere come « l’olio profumato discende dalla barba di Aronne » era una squisitezza sopraffina.
E come è difficile interpretare il senso di peccato di cui parla Genesi (il « frutto proibito »), o ricevere come Parola di Dio il comando di sterminare i nemici!
Nonostante ciò, esistono testi fonda­mentali, che contengono verità irri­nunciabili, abbastanza comprensibili da un lettore senza troppi pregiudizi. Per esempio dal racconto della crea­zione (Gn 1), senza entrare in una spiegazione dettagliata sui diversi modi di raccontare lì presenti, emer­ge con facilità la verità di fede: Dio ha creato tutto l’esistente con la potenza della sua parola (« Disse… e così fu fatto ») e quanto è stato da lui creato è buono (« E vide Dio che tutto era buono »).
I progenitori sono stati collocati nel centro stesso della creazione.
In linguaggio dotto diciamo che la Bibbia è la Parola di Dio inculturata, cioè che ha trovato la sua espressione in una cultura, una lin­gua, una mentalità determinate, quelle del popolo ebraico.
(Cultura = forma basilare di pensare, sentire e vivere la real­tà, propria di un gruppo di persone, in un luogo e in un tempo determinati).

LA BIBBIA PARLA DI DIO CON LINGUAGGIO UMANO
Chi ha scritto la Bibbia aveva come evidente obiettivo di raccontare come Dio si è fatto compagno di viaggio d’un intero popolo.
O se si vuole, dal punto di vista umano, come un popolo, di generazione in generazione, ha sperimentato, creduto, amato, servito e disobbedito questo Essere trascendente chiamato DIO, con la convinzione che tra lui e Dio esisteva una relazione indelebile, a volte difficile, però sempre bella: la relazione dell’Alleanza.
Si può comprendere così come, a causa di questa motiva­zione religiosa, la Bibbia sia piena di indicazioni religiose, e che di conseguenza impieghi con tanta abbondanza un lin­guaggio simbolico, costellato di immagini.
Si comprenderà, quindi, come Dio invada la storia, grande e piccola, degli uomini:
• entri nella tenda di Abramo
• abiti in un tempio
• susciti profeti
• compia miracoli
• ascolti il grido di dolore del popolo
• abbia compassione dei suoi peccati, ecc.
Persino il Figlio di Dio si fa uomo ed abita tra gli uomini, è persona dentro la storia e portatore di un mistero sovruma­no. Come parlare di tutto questo senza rompere qualsiasi schema troppo rigido?
La Bibbia è una testimonianza di fede impressionante. Impressionante perché, dentro fatti concreti, lo scrittore biblico legge il mistero, un progetto di salvezza, la presenza di un TU incomprensibile, ma personale, vivo e reale.

Publié dans:BIBBIA: TEMI VARI, biblica |on 16 octobre, 2014 |Pas de commentaires »

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