Archive pour le 9 octobre, 2014

Entourage d’Antoine Le Moiturier : saint Denis, 1460/1470

Entourage d'Antoine Le Moiturier : saint Denis, 1460/1470 dans immagini sacre
http://fr.wikipedia.org/wiki/Denis_de_Paris

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SAN DIONIGI VESCOVO E MARTIRE III SEC. – 9 OTTOBRE

http://www.lacabalesta.it/testi/santi/dionigi.html

SAN DIONIGI VESCOVO E MARTIRE III SEC. – MEMORIA: 9 OTTOBRE

Primo Vescovo di Parigi, III secolo

Di questo Santo, spesso confuso con Dionigi l’Areopagina, che fu convertito da San Paolo, sappiamo poco di certo. Inviato da papa Fabiano ad evangelizzare la Gallia, fu decapitato a Parigi poco dopo la metà del III secolo insieme ai compagni Rustico ed Eleuterio.
Varie leggende sorsero intorno alla sua morte. Secondo alcuni fu flagellato e arrostito; mentre era incarcerato, venne Cristo stesso a porgergli l’ostia. Infine fu decapitato sulla collina di Mont Martre; dopo la decapitazione prese la sua testa e si avviò verso il luogo della sepoltura.

San Dionigi
Miniatura francese del 1250: San Dionigi in carcere riceve la Comunione da Gesù
I due compagni, di cui non parlano le fonti più antiche, sono visti oggi come personificazioni legate al nome del Santo, Dionigi, cioè letteralmente « Consacrato al dio Dioniso » (Bacco): Eleuterio è « Libero » (altro nome del dio Bacco) e Rustico « dei campi ». La scena in cui Dionigi prende in mano la sua testa sembra un’interpretazione ingenua dell’iconografia tradizionale, in cui il martire per decapitazione regge la propria testa fra le mani.
Verso la metà del V secolo Santa Genoveffa fece edificare a Parigi una prima chiesa dedicata a San Dionigi. Nel 639 re Dagoberto sistemò le reliquie in una grande chiesa abbaziale che divenne il centro spirituale della monarchia francese.
È patrono della casa reale di Francia; protegge contro il « mal francese » (la sifilide) e i morsi dei cani rabbiosi. Viene rappresentato in abito vescovile, con la propria testa fra le mani.

È uno dei quattrordici « Santi Ausiliatori ».

 

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L’ANZIANO NELLA SACRA SCRITTURA

http://www.cistercensi.info/monari/1997/m19970315.htm

Caritas – Commissione anziani

L’ANZIANO NELLA SACRA SCRITTURA

15 marzo 1997

Introduzione
Provo a dire quali sono le linee fondamentali di riflessione sull’esperienza dell’anziano, così come emergono dalla Sacra Scrittura. Naturalmente non aspettatevi che la Bibbia possa o voglia rispondere a tutti i problemi che pone la condizione dell’anziano dal punto di vista sociologico, culturale e pastorale. Noi viviamo in una situazione notevolmente diversa da quella che la Bibbia testimonia, quindi molti problemi la Bibbia non se li è nemmeno posti; quello che ci può dare non è la soluzione a tutti gli interrogativi della vita quotidiana, ma la prospettiva fondamentale di lettura dell’esperienza dell’anziano dentro al progetto di Dio. C’è un progetto di Dio che si chiama “storia di salvezza”, in cui sono coinvolti tutti gli uomini in tutte le loro esperienze ed età; in questo progetto di Dio gli anziani sono certamente coinvolti.
In che modo l’esperienza caratteristica dell’anziano entra a realizzare il progetto di Dio? che cosa la caratterizza in modo specifico?
Vi propongo tre riflessioni molto semplici:
L’anzianità come esperienza di povertà e di debolezza.
Il valore dell’anzianità in quanto tale: la ricchezza e pienezza di vita che possiede, secondo alcuni aspetti caratteristici che nella Bibbia sono: la sapienza, la fede, la vita sociale.
La condizione dell’anziano come una chance, un’opportunità della vita di fede nelle mani del Signore; come apertura a una speranza che va al di là della quantità di energie e di capacità che l’anziano possiede dal punto di vista fisico o psicologico.
I. L’anzianità come esperienza di povertà e debolezza
I.1. Barzillài il Galaadita

Partiamo da un testo del secondo Libro di Samuele. Ricordate che Assalonne si era ribellato contro suo padre Davide. Davide aveva rischiato di perdere il regno e la sua stessa vita; poi, consigliato e aiutato da alcune persone, è riuscito a sfuggire la cattura e a riorganizzare la resistenza. Finalmente riesce a far rientrare la ribellione, vince, torna a Gerusalemme deciso a punire gli avversari e a ricompensare gli amici.
Gli si fa incontro il vecchio Barzillài il Galaadita, un uomo che era ricco e che aveva aiutato Davide al momento del pericolo:
Il re disse a Barzillài: Vieni con me; io provvederò al tuo sostentamento presso di me, a Gerusalemme. Ma Barzillài rispose al re: Quanti sono gli anni che mi restano da vivere, perché io salga con il re a Gerusalemme? Io ho ora ottant’anni; posso forse ancora distinguere ciò che è buono da ciò che è cattivo? Può il tuo servo gustare ancora ciò che mangia e ciò che beve? Posso udire ancora la voce dei cantori e delle cantanti? E perché allora il tuo servo dovrebbe essere di peso al re mio signore? Solo per poco tempo il tuo servo verrà con il re oltre il Giordano; perché il re dovrebbe darmi una tale ricompensa? Lascia che il tuo servo torni indietro e che io possa morire nella mia città presso la tomba di mio padre e di mia madre. Ecco qui mio figlio, il tuo servo Chimàm; venga lui con il re mio signore; fa per lui quello che ti piacerà (2 Sam 19, 34-38).

Sono parole significative che dicono un sentimento di malinconia di fronte alla vita che ormai va verso la sua conclusione, ma che contengono una dimensione di realismo e di consapevolezza. Quest’uomo a ottant’anni e percepisce chiaramente la sua situazione, come dice il Salmo 90: «Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma la maggior parte sono fatica e dolore; passano presto e noi ci dileguiamo» (Sal 90, 10). Barzillài non se la sente più di vivere tutte le tensioni della vita politica nella reggia di Davide a Gerusalemme. È vero che la vita nella reggia è interessante, è piena di possibilità, ci sono esperienze sempre nuove, produce degli intensi piaceri. Ma tutto questo non fa più per lui: «posso forse ancora distinguere ciò che è buono da ciò che è cattivo?». Questo non vuol dire che sia venuto meno il senso morale, la capacità di valutare il bene in male; vuol dire che è venuto meno il gusto delle cose; le cose buone non lo entusiasmano più come un tempo; e le cose cattive non hanno più una presa così grande come una volta. Barzillài preferisce ritirarsi nella sua città e prepararsi alla morte, che vuol dire per lui ricongiungersi con i suoi padri. A tutto questo aggiunge una richiesta: che Davide prenda con sé il figlio Chimàm, lui è giovane e potrà vivere l’aspetto della lotta e di piacere che la vita nella reggia gli può offrire.
Allora ci sono già in questo brano alcuni aspetti elementari evidenti, ma importanti dell’esperienza dell’anziano:
La percezione del limite. L’anzianità è una diminuzione della vitalità, un venire meno delle forze e delle capacità. È saggezza rendersene conto e accettare con serenità (anche se con una punta di malinconia) la propria situazione (si direbbe il proprio destino).
Il desiderio di Barzillai di tornare nella propria città, che sembra una delle costanti della vita dell’anziano: il desiderare l’ambiente familiare e rassicurante della propria casa; godere nel sentire il legame che unisce ai propri padri anche alle persone care già morte; perché sembra che il pensiero dei propri morti aiuti ad affrontare con più serenità il problema della propria morte.
Barzillài lascia il posto nella vita al figlio. Non cade nella tentazione di considerare la vita misera perché lui non la può più gustare del tutto; piuttosto sa e accetta che la vita appartenga ormai ad un altro: a suo figlio, a Chimàm, lui farà l’esperienza. Barzillài gli lascia il posto e vive ormai con questa gioia o fierezza di avere preparato per suo figlio un posto onorevole nella reggia di Davide.
Barzillài è un uomo saggio che ha imparato a valutare correttamente la vita, come dice ancora il Salmo 90: «Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore» (Sal 90, 12). E vuol dire: aiutaci a capire fino in fondo la fragilità della nostra vita, a contare i nostri giorni, quanto sono brevi i nostri giorni; questo ci renderà saggi, equilibrati nelle scelte.
Una percezione di questo tipo è presente in una lunga serie di testi della Sacra Scrittura che dicono il realismo e l’accettazione dell’anzianità così com’è, senza romanticismi e illusioni. Non serve negare tutto questo e volere attribuire alla vecchiaia una bellezza che non possiede. Dicevamo: “vecchiaia” è diminuzione della vitalità, quindi esperienza di debolezza e di fragilità; è consapevolezza del proprio cammino verso la morte. È vero che il cammino verso la morte incomincia il primo giorno di vita, ma è altrettanto vero che solo nella vecchiaia la morte diventa una possibilità concreta che si sente vicino.
I.2. Il Libro di Qoèlet

Un altro esempio bellissimo dal punto di vista letterario è l’ultimo capitolo del Libro di Qoèlet. Qoèlet (una volta si chiamava Ecclesiaste) è la riflessione di un uomo anziano che ha fatto un esperimento della vita: si è chiesto se la vita valga la pena di essere vissuta, quale sia il salario che si può ricavare dal lavoro del vivere. Vivere è un lavoro, è una fatica, tutte le fatiche hanno un loro salario. Qoèlet ha cercato di fare questa esperienza e siccome era re di Israele in Gerusalemme, quindi aveva delle possibilità che il singolo cittadino non possiede, ha potuto fare tantissime esperienze: si è dato da fare, è vissuto intensamente e a ripensato e riflettuto alla sua esperienza. Poi, fa il bilancio di quello che ha trovato: «Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità, tutto è vanità» (Qo 1, 2). Dove “vanità” vuol dire un soffio, come uno che vuole raggiungere il vento e chiude nel pugno dell’aria, non c’è niente, né sostanza, né un vero salario.
L’ultimo capitolo di questo Libro dice:
Ricordati del tuo creatore nel tempo della tua giovinezza, prima che vengano i giorni tristi e giungano gli anni in cui dovrai dire: Non ci provo alcun gusto, prima che si oscuri il sole, la luce, la luna e le stelle e ritornino le nubi dopo la pioggia; quando tremeranno i custodi della casa e si curveranno i gagliardi e cesseranno di lavorare le donne che macinano, perché rimaste in poche, e si offuscheranno quelle che guardano dalle finestre e si chiuderanno le porte sulla strada; quando si abbasserà il rumore della mola e si attenuerà il cinguettio degli uccelli e si affievoliranno tutti i toni del canto; quando si avrà paura delle alture e degli spauracchi della strada; quando fiorirà il mandorlo e la locusta si trascinerà a stento e il cappero non avrà più effetto, poiché l’uomo se ne va nella dimora eterna e i piagnoni si aggirano per la strada; prima che si rompa il cordone d’argento e la lucerna d’oro s’infranga e si rompa l’anfora alla fonte e la carrucola cada nel pozzo e ritorni la polvere alla terra, com’era prima, e lo spirito torni a Dio che lo ha dato. Vanità delle vanità, dice Qoèlet, e tutto è vanità (Qo 12, 1- 8).

Si capisce che con queste parole Qoèlet cerca di descrivere il progressivo venire meno della vitalità; per chi è anziano anche il sole diventa oscuro e si oscurano la luna, la luce, le stelle. Quando Dio aveva creato il mondo aveva fatto brillare la luce in mezzo alle tenebre (cfr. Gen 1, 3-4), ma ora per l’anziano anche questa luce si oscura e le tenebre sembrano riprendere il sopravvento. Così gli astri, il sole, erano stati creati da Dio per misurare il tempo (cfr. Gen 1, 16), ma adesso per l’anziano il tempo perde la sua consistenza, i giorni e le stagioni si confondono. Dice il proverbio: «dopo la pioggia viene il bel tempo»; ma dice Qoèlet: questo è vero solo fin che si è giovani, quando si è vecchi accade piuttosto che “dopo la pioggia ritornano le nubi”. Allora: «tremeranno i custodi della casa e si curveranno i gagliardi e cesseranno di lavorare le donne che macinano, perché rimaste in poche, e si offuscheranno quelle che guardano dalle finestre». Pensate ad un palazzo o a un castello, dove per molto tempo si è lavorato e c’erano molti servi, molte persone impegnate ciascuna nella propria mansione, era come un mondo alacre e rumoroso che dava il senso della vita. Ma adesso il castello si spopola, “i custodi incominciano a tremare”; gli operai che un tempo erano attivi si “curvano”; “le donne che macinano smettono di lavorare”, sono rimaste in poche; quelle che erano curiose che “guardavano dalle finestre si offuscano”, non vedono più bene; “si chiudono le porte sulla strada e si abbassa il rumore della mola”. Insomma, la vita che un tempo era fervente si raffredda, il rumore della vita ammutolisce. Questa è ancora la descrizione di un’esistenza diminuita dal punto di vista fisico, psichico e sociale.
È interessante l’interpretazione che danno molti rabbini di questo testo di Qoèlet che abbiamo letto, perché secondo loro:
«i custodi della casa che tremano», sono le mani che perdono la fermezza di un tempo;
«i gagliardi che si curvano», sono i ginocchi che non sono più saldi e dritti;
«le donne che macinano e che rimangono in poche», sono i denti che smettono di lavorare e che nella dentatura rimangono pochi;
«le donne che guardano dalla finestra», sono gli occhi che pian piano si chiudono come se fossero stanchi di osservare lo spettacolo della vita;
«si chiudono le porte sulla strada», cioè i sensi che mettevano in comunicazione con il mondo si ottundono e la nostra vita pian piano si rinserra in se stesso;
«i toni del canto si affievoliscono», perché gli orecchi diventano duri e i suoni non li sentono più bene;
«quando si avrà paura delle alture e degli spauracchi della strada»; è vera la descrizione del vecchio che sente la vertigine per ogni piccola lettura e che tentenna impaurito quando deve attraversare la strada;
«quando fiorirà il mandorlo», quindi i capelli cominciano a diventare bianchi;
«quando la locusta si trascinerà a stento e il cappero non avrà più effetto»; è anche il vigore sessuale che non è più così grande; anche il cappero (un afrodisiaco) non riesce più a ridare la forza della giovinezza.
Questo è il primo aspetto da vedere con lucidità e con serena obiettività. “Serena” vuole dire: quando la ricchezza della vita viene meno c’è un aspetto di tristezza e un senso di malinconia, ma la saggezza sta nel riconoscere che questa è la struttura della vita. Bisogna imparare ad accettare la lezione di questo cammino, e vuol dire: imparare a cogliere la ricchezza della vita fino a che il Signore ti dà la forza.
Il capitolo 12 di Qoèlet cominciava così: «Ricordati del tuo creatore nei giorni della tua giovinezza, prima che vengano i giorni tristi e giungano gli anni di cui dovrai dire: Non ci provo alcun gusto» (Qo 12, 1). Il gusto della vita prendilo fino a che il Signore te lo dona: sta lieto o giovane nella tua giovinezza.
II. L’anzianità come esperienza di pienezza della vita
C’è un secondo aspetto da considerare. Nell’esperienza dell’uomo biblico l’anzianità è anche una ricchezza, è la pienezza della vita. Dal punto di vista fisico e sociale è una sorta di “diminuzione” della vita, è invece pienezza di vita dal punto di vista della sapienza, della saggezza.
II.1. L’arte di vivere la vita dal punto di vista della sapienza e la saggezza

Il termine sapienza, ohk’mah, nella Bibbia vuol dire l’arte di vivere, cioè la capacità di muoversi dentro alla complessità della vita e di muoversi in un modo positivo, raggiungendo quello che oggi chiameremmo il successo o in ogni modo la realizzazione della propria esistenza.
La sapienza così intesa deve appartenere a tutti gli uomini, ma appartiene in modo specifico agli anziani. L’anzianità è l’età della saggezza. La canizie (i capelli bianchi) nella prospettiva della Scrittura è il segno di un’esperienza che si è consolidata e che si è rivelata positiva.
Nella società di oggi sono cambiate molte cose e i giovani fanno fatica a riconoscere la saggezza degli anziani. I motivi del cambiamento sono più che evidenti. Duemila anni fa, quando la Bibbia è stata vissuta e scritta, la vita si viveva attraverso tecniche che si imparavano essenzialmente dagli anziani.
Io faccio il contadino e come imparo l’arte di fare il contadino? Vado a scuola di agraria? No. Imparo dagli anziani, da quelli che hanno fatto il contadino prima di me e che sanno quando è tempo di seminare e di arare, come si fa a mietere e a vendemmiare.
Quello che vale per il lavoro vale per tutta la vita. La vita si impara attraverso la Tradizione, ricevendo gli insegnamenti dagli anziani, che erano la sorgente di tutte le conoscenze necessarie per vivere, anche dal punto di vista tecnico del lavoro.
Il lavoro si tramanda di padre in figlio; le conoscenze necessarie si trasmettono con l’esperienza.
Naturalmente oggi le cose sono molto cambiate perché viviamo in un mondo di trasformazione velocissime. Quello che sapeva mio padre mi serve praticamente poco o quasi niente. Debbo imparare le tecniche nuove che sono state inventate ieri e che sono state messe sul mercato; per questo devo andare a scuola, istruirmi con la televisione, fare corsi di aggiornamento sul computer e cose di questo genere. La conoscenza degli anziani dal punto di vista tecnico è meno preziosa di una volta, perché le conoscenze di lavoro vengono recuperate da un altro contesto che non è della famiglia, né della tradizione della trasmissione per esperienza.
Ma l’arte di vivere non è solo quella di fare il contadino o il meccanico o un qualunque mestiere ma è soprattutto quella di entrare in rapporto con gli altri, di sapere che cosa conta e non conta nella vita, di avere una gerarchia corretta di valori.
In questo l’anziano può e deve essere maestro; non può oggi insegnarmi le tecniche di lavoro perché quello che imparo oggi sono migliori di quelle che utilizzavano i miei antenati (non faccio fatica a lavorare meglio di loro dal punto di vista positivo). Ma la questione rimane aperta per i valori umani: l’amicizia, l’amore, il rispetto della persona, la verità della comunicazione, la solidarietà. Anche queste sono cose che s’imparano per contagio, per trasmissione di esperienza.
Nel famoso libro, L’arte di amare, Fromm dice: «l’amore è un arte». Per “arte” intende un’abilità che s’impara come a fare il falegname o il pittore.
Ma come si fa per imparare un arte? Dice Fromm: ci si mette vicino ad un esperto; se voglio imparare a dipingere (si diceva una volta: vado a bottega) mi metto accanto ad un pittore che sia bravo e guardo come fa a dipingere e pian piano imparo la tecnica corretta.
Anche l’arte di amare è di questo genere, così è anche per l’arte di vivere. Anche per questo si richiede una tecnica vitale che non s’impara studiando, ma frequentando quelli che hanno l’esperienza, che sanno vivere, conoscere e amare.
Per questo sono necessarie delle persone mature che hanno imparato dalla vita ad amare con gratuità, con generosità e con fedeltà. Se sto vicino a loro riesco ad imparare quasi per connaturalità: prendo la ricchezza e i valori di certi tipi di comportamento e di atteggiamento. Pensate alla fedeltà e all’importanza che ha nella vita sociale avere qualcuno di cui mi posso fidare e non essere costretto a diffidare e a dubitare. Questo è fondamentale per vivere in società, ma è una qualità che s’impara non studiandola sui libri, anche se sui libri posso imparare l’importanza della fedeltà nella vita sociale dal punto di vista speculativo. La pratica della fedeltà s’impara stando vicino a qualcuno che me la trasmette con il suo esempio e con una parola personale.
In questa trasmissione vitale l’anziano è istintivamente maestro di sapienza e di saggezza.
Pensate al Libro dei Proverbi. I proverbi sono dei condensati di esperienza, ripetuta per tante volte diventa una frase capace di illuminare il comportamento di quelli che vengono dopo. Dentro ai proverbi c’è l’esperienza degli anziani. Il proverbio era una volta una delle forme più usuali di conoscenze tipiche che l’anziano trasmetteva. Oggi non ci interessano più i proverbi come formule, ma quello che ci sta dentro: l’esperienza vitale di cui i proverbi sono l’espressione.
II.2. L’arte di vivere la vita dal punto di vista della saggezza biblica

Quindi l’anzianità è anche una ricchezza dal punto di vista della sapienza, della pienezza della vita e dell’arte di vivere con saggezza, però con una correzione dal punto di vista biblico.
Perché è vero che l’anziano per natura è un saggio, però è altrettanto vero che non basta l’anzianità anagrafica per essere veramente saggi. L’anziano è saggio perché ha esperienza della vita e si è misurato con le difficoltà della vita sociale, ma perché l’anziano sia effettivamente saggio bisogna che abbia saputo imparare davvero dalla vita, che abbia saputo interiorizzare l’esperienza nel modo giusto.
Scrive il Libro del Siracide:
Nella giovinezza non hai raccolto; come potresti procurarti qualcosa nella vecchiaia? Come s’addice il giudicare ai capelli bianchi, e agli anziani intendersi di consigli! Come s’addice la sapienza ai vecchi, il discernimento e il consiglio alle persone eminenti! Corona dei vecchi è un’esperienza molteplice, loro vanto il timore del Signore (Sir 25, 3-6).

Tipico, dote e caratteristica dell’anziano è la capacità di giudicare, di valutare le cose, intendersi di consigli, il discernimento. L’esperienza molteplice che l’anziano ha fatto gli permette di dire delle parole più sagge e di valutare con lucidità le cose; ma a condizione che l’anziano abbia il timore del Signore.
“Timore del Signore” vuol dire: il riconoscimento rispettoso della sovranità di Dio che permette all’uomo di collocarsi nell’atteggiamento giusto davanti alla vita, senza presunzione o arroganza, e quindi di acquisire la sapienza. L’anziano è capace di fare tesoro dell’esperienza solo se vivendola sa riconoscere e accettare Dio e la sua volontà. L’età anagrafica da sola non basta, anzi ci possono essere delle situazioni di anziani che appaiono stolti e privi di quella loro caratteristica che è la sapienza.
Dice sempre il Siracide: «Tre tipi di persone io detesto, la loro vita è per me un grande orrore: un povero superbo, un ricco bugiardo, un vecchio adultero privo di senno» (Sir 25, 2).
Queste persone esprimono una specie di contraddizione interna: un povero non può essere superbo; un ricco non ha nessun motivo di mentire per mentire, il vecchio non dovrebbe essere adultero. Un vecchio che, nonostante sia anagraficamente anziano, non ha ancora imparato la fedeltà, né l’amore e il dono di sé, non è bello, non è una figura giusta, ha qualche cosa di contraddittorio che per il Siracide non è possibile accettare.
Allora, il messaggio diventa questo: l’anzianità è sorgente di saggezza, però a condizione che la vita sia vissuta e capita in obbedienza alla Parola di Dio, in un atteggiamento di fedeltà e di disponibilità a questa Parola.
Per cui il Salmo famoso 119 può dire:
Io sono più saggio degli anziani, perché ho meditato la tua Parola. Più saggio degli anziani mi ha fatto la tua Parola (Sal 119, 99-100).

L’ascolto della Parola del Signore dà una ricchezza di vita che l’età da sola non è in grado di conferire.
Il Libro della Sapienza, che riassume in questo la tradizione dei saggi, può dire:
Vecchiaia veneranda non è la longevità, né si calcola dal numero degli anni; ma la canizie per gli uomini sta nella sapienza; e un’età senile è una vita senza macchia (Sap 4, 8-9).

Sapienza e vita senza macchia sono la vera vecchiaia.
Possiamo aggiungere riflessioni o esortazioni che si trovano nel Nuovo Testamento in riferimento esattamente agli anziani: nella lettera a Tito al cap. 2, si fa una descrizione ideale del credente anziano:
I vecchi siano sobri, dignitosi, assennati, saldi nella fede, nell’amore e nella pazienza. Ugualmente le donne anziane si comportino in maniera degna dei credenti; non siano maldicenti né schiave di molto vino; sappiano piuttosto insegnare il bene, per formare le giovani all’amore del marito e dei figli, ad essere prudenti, caste, dedite alla famiglia, buone, sottomesse ai propri mariti, perché la parola di Dio non debba diventare oggetto di biasimo (Tt 2, 2-5).

Insomma, dietro a questo modo di parlare c’è la Tradizione sapienziale, l’arte di vivere che s’impara e di cui il maestro naturale è l’anziano.
II.3. L’arte di vivere dal punto di vista della fede

L’anziano ha un patrimonio di esperienza che gli permette di insegnare ai giovani la saggezza. Ma l’anziano ha la possibilità anche di trasmettere la fede: è il trasmettitore naturale della fede, perché anche la fede nasce e si trasmette come esperienza.
Di fatto qual è il contenuto essenziale della fede? È la memoria dei grandi avvenimenti di salvezza che Dio ha operato per il suo popolo.
E chi è il custode della “memoria” se non l’anziano. L’anziano vive di memoria. Il credente anziano vive della “memoria della fede”, e proprio per questo è il maestro naturale. La fede s’impara dagli anziani e dai genitori, che trasmettono l’educazione e la memoria di fede, che permette un’esperienza personale.
Dice il Salmo 44, 2:
Con le nostre orecchie abbiamo udito, i nostri padri ci hanno raccontato l’opera che hai compiuto ai loro giorni, nei tempi antichi.

E prosegue nel narrare il fondamento della fede.
Il fondamento della fede, dal punto di vista biblico, è il racconto di quello che Dio ha fatto per noi: noi eravamo schiavi in Egitto e il Signore… (cfr. Es 20, 2); noi eravamo servi in Babilonia e il Signore…; noi siamo stati portati dal Signore sul Sinai e il Signore…
Tutte le esperienze di fede nascono come narrazioni di fatti del passato. L’esperienza di fede biblica, cristiana, è il ricordo dell’amore di Dio in senso storico, cioè dei fatti, degli avvenimenti della storia della salvezza in cui Dio ha manifestato il suo amore.
Questo incontro – ricordo – lo abbiamo attraverso la testimonianza degli anziani.
È vero che ci sono i preti e i catechisti che trasmettono il contenuto della fede, ma sono soprattutto i genitori e i nonni che trasmettono un’esperienza della fede, non solo come trasmissione dei contenuti dogmatici, ma come esperienza di vita.
L’anziano è in grado di trasmettere la fede con una forza e grande chiarezza perché la sua fede ha affrontato e superato le prove della vita. Un anziano se ha mantenuto la fede, vuol dire che le prove della vita non sono state capaci di schiacciargliela e rubargliela. È una fede provata e ormai salda.
Uno dei precetti fondamentali che rileviamo dai testi del Deuteronomio è dire ai figli quello che si è conosciuto e sperimentato. La generazione che è uscita dall’Egitto ha il dovere di trasmettere ai figli la propria esperienza e così ai nipoti, ai pronipoti e così via in futuro (cfr. Dt 6, 1-9).
Da questo punto di vista l’anziano è il custode della tradizione. “Custode della tradizione”, vuol dire custode degli avvenimenti di salvezza. “Custodi degli avvenimenti di salvezza”, vuol dire custode del fondamento della fede. La fede si costruisce così.
S. Paolo ricorda a Timoteo che la sua fede è dovuta alla mamma e alla nonna:
Mi ricordo infatti della tua fede schietta, fede che fu prima nella tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunìce e ora, ne sono certo, anche in te (2 Tm 1, 5).

Da questo punto di vista, come l’anziano è ricchezza di sapienza e di saggezza da trasmettere, così è ancora ricchezza di fede da trasmettere.
II.4. L’autorità dell’anziano nella comunità sociale

Tra gli elementi che esprimono la ricchezza dell’anziano dobbiamo aggiungere l’autorità. Nella struttura sociale di Israele gli anziani hanno sempre avuto una importanza decisiva. Le decisioni politiche che riguardano la città vengono prese dal consiglio degli anziani; e quando c’è una causa, un giudizio da pronunciare in tribunale, sono gli anziani che debbono valutare e decidere.
È vero che l’essenziale non è ancora l’anzianità anagrafica, ma è anche vero che l’anziano, a motivo della sua saggezza, ha la possibilità di valutare e di decidere per il bene della comunità in cui vive.
La parola “prete” viene da Presbitero che vuol dire anziano. Questo non significa che un prete debba essere anagraficamente anziano però è significativo che per esprimere il servizio di guida della comunità si usi esattamente questa parola. Se ne potevano utilizzare molte altre, invece quella che ha prevalso è proprio “Presbitero”, anziano.
L’autorità in quanto tale quindi, da chiunque sia esercitata, fa riferimento alla pienezza di vita che è propria dell’anziano; se è un giovane che ha questa autorità, dovrà supplire in qualche modo, perché il suo servizio sia effettivamente saggio, quindi sia arricchito della pienezza che è propria dell’anziano.
III. La condizione dell’anziano, come vita di fede e di speranza che può essere realizzata più pienamente
A questo punto debbo aggiungere un ultimo elemento che credo sia importante e che prendo dalla fine del cap. 40 di Isaia:
Perché dici, Giacobbe, e tu, Israele, ripeti: La mia sorte è nascosta al Signore e il mio diritto è trascurato dal mio Dio? Non lo sai forse? Non lo hai udito? Dio eterno è il Signore, creatore di tutta la terra. Egli non si affatica né si stanca, la sua intelligenza è inscrutabile. Egli dà forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato. Anche i giovani faticano e si stancano, gli adulti inciampano e cadono; ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, crescono loro ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi (Is 40, 27-31).

Provo spiegare questo testo che a me sembra stupendo. Gli Ebrei sono in esilio in Babilonia e vivono una condizione di miseria: si lamentano e hanno l’impressione di essere stati abbandonati da Dio: «Siamo in balia dei nostri avversari. Dio ci ha abbandonato». E a questi Ebrei rassegnati risponde il profeta Isaia con la speranza della fede, e il suo ragionamento è questo: «Perché dici: Dio mi ha abbandonato? Non sai che Dio è grande e che per la sua grandezza non si stanca mai, non si affatica; la sua intelligenza è inscrutabile, non aver paura che Dio si sia stancato, non temere che Dio abbia dovuto confessare la sua debolezza perché è incapace di fronte alla potenza di Babilonia. Dio è perennemente giovane».
Daniele dice: «Dio è l’antico di giorno, quello che ha visto tanti giorni nella sua vita ma che è rimasto vigoroso come all’inizio, il suo braccio non diventa stanco, né incapace di salvare, anzi dà forza allo stanco».
«Anche i giovani a forza di operare faticano, a volte inciampano e cadono, ma se uno spera nel Signore riacquista forza, crescono loro le ali come di aquile, corrono e non si stancano, camminano e non si affaticano».
Qui la parola fondamentale è la speranza: «a quelli che sperano in lui Dio rinnova le forze». Ci sono delle forze fisiche che decadono con il passare del tempo, però man mano che il tempo passa la speranza si rinnova, si rigenera, perché è speranza in Dio che è eternamente giovane.
Allora, anche colui che è anche anagraficamente anziano diventa capace di produrre una vita ricca proprio a motivo della speranza. Al di là della situazione fisica e psicologica dell’anziano c’è una realtà di speranza che produce una capacità nuova di vita, una rigenerazione della vita.
La speranza è assumere la sfida del mondo, del tempo, della povertà e rispondere a questa sfida poggiando sulla forza e potenza di Dio, che certamente il tempo non diminuisce.
Tanto che S. Paolo può scrivere di Abramo nella lettera ai Romani:
Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza (cioè “sperando”, quando dal punto di vista esterno non aveva dei motivi di sperare, dei fondamenti mondani di speranza) e così divenne padre di molti popoli… Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo – aveva circa cento anni – e morto il seno di Sara. Per la promessa di Dio non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento. Ecco perché gli fu accreditato come giustizia… Anche a noi sarà accreditato: a noi che crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore, il quale è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione (Rm 4, 18-22.24-25).

Abramo ebbe fede sperando contro ogni speranza quando dal punto di vista umano non c’era più niente da sperare. Abramo ha cent’anni, non può certamente sperare in un figlio dal punto di vista umano, della potenza umana. Allora Abramo si è illuso? No, al contrario; ha sperato nella promessa divina. Dio gli aveva promesso un figlio da sua moglie Sara, così la condizione di debolezza di Abramo è paradossalmente quella che ha consentito a Dio di manifestare la sua potenza; è diventato il luogo di manifestazione dell’amore di Dio, del compimento della speranza umana.
Il discorso fondamentale è questo: la vecchiaia è una perdita di energie, ma non pensate che questo significhi una sconfitta per la vita; è proprio in quel momento che l’uomo deve imparare a giocare la sua speranza.
Sperare da giovani è facile perché ha davanti a sé molte possibilità, ogni hanno che passa alcune di queste possibilità vengono portate via ma è lì che si gioca il vero valore della speranza.
La speranza di dare senso alla vita, del riconquistare il valore dell’esistere, dello stare in mezzo agli altri, dell’amare, donare e ricevere. È la fede nella promessa di Dio che deve essere giocata; fede che proprio nella vecchiaia può essere giocata con il massimo di serietà.
Dal punto di vista della speranza la vecchiaia è un momento critico.
L’anziano ha una grande memoria del passato ma tende ad avere meno speranza per il futuro. Ma è proprio lì che si gioca la speranza teologale: non è il progetto che si potrà fare l’anno prossimo ma la speranza nella fedeltà e nell’amore di Dio, nel senso della vita, nella capacità di trasformare la propria vita in amore, di vivere abbandonandosi fiduciosamente nel Signore. Da questo punto di vista la vecchiaia è il momento in cui la vita di fede e di speranza può essere realizzata più pienamente.
S. Paolo nella seconda lettera ai Corinzi parla di «una spina nella carne» che secondo lui era un impedimento a vivere con pienezza la sua vocazione di apostolo, e dice: «per tre volte ho chiesto che Dio me la allontanasse», lo liberasse da questa condizione di debolezza. E la risposta di Dio è stata : «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2 Cor 12, 7-9a).
Capite perché la vecchiaia da questo punto di vista diventa un momento privilegiato nell’esperienza della speranza: «la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza».
Proprio perché la vecchiaia è fisicamente debolezza, è il momento in cui la potenza di Dio si può manifestare con il massimo di forza e lucidità. Continua ancora S. Paolo: «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Cor 12, 9b-10).
Dicevamo, la vecchiaia è debolezza (è il primo punto della nostra riflessione), ma proprio per questo è una chance, è come una sfida che può aprire la via a una fede più intensa e più pulita; perché è una fede che ormai ha perso molti appoggi mondani, nelle capacità, nelle forze e nelle possibilità dell’uomo.
Quando l’uomo si scontra con il suo limite, Dio manifesta la sua potenza; allora la fede e la speranza diventano ancora più luminose. Questo non vuol dire che debbo creare il limite, ma vuol dire che debbo cercare di vivere la condizione del limite senza lasciarmene vincere, senza esserne sconfitto dall’avvilimento, ma scoprendo nel limite la sfida alla fede e alla speranza, quella speranza di Abramo che «ha sperato contro ogni speranza».
La domanda che ci eravamo posti era: come si può leggere il significato dell’anzianità, della vecchiaia, dentro al progetto di Dio? Le linee fondamentali del pensiero biblico dicono quelle tre cose che abbiamo considerato.
L’anzianità è esperienza del limite e della povertà, quindi si tratta di incominciare ad accettare questo limite e povertà.
Però l’anzianità è anche esperienza di ricchezza, di pienezza di vita, nella logica della sapienza e della fede, e della presenza nella comunità.
Proprio perché è esperienza di povertà, la vecchiaia vissuta nella fede diventa una chance, una vita offerta a Dio; perché Dio in quella vita manifesti la sua potenza di salvezza; che la debolezza fisica non impedisce affatto, anzi che la rende ancora più evidente, perché è una potenza di Dio che si manifesta senza appoggi o stampelle umane.
* Documento rilevato dalla registrazione, adattato al linguaggio scritto, non rivisto dall’autore ma dall’Ufficio Caritas.
* Questa relazione è stata tenuta nel corso di un cammino formativo dal titolo «Anziani e territorio» proposto dalla commissione Anziani della Caritas diocesana a volontari impegnati con e per gli anziani nel territorio.

Publié dans:BIBBIA, BIBBIA: TEMI VARI |on 9 octobre, 2014 |Pas de commentaires »

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