PAOLO DI TARSO EDUCATORE E MAESTRO
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PAOLO DI TARSO EDUCATORE E MAESTRO
L’Apostolo delle genti ha saputo portare il Vangelo con ardente novità. Ma è stato anche essere un grande formatore di cristiani. Nei suoi scritti troviamo insegnamenti ancora validi su come educare i giovani.
Paolo ha davvero molto da dirci, oltre che per aver messo al centro della sua vita Gesù Cristo, anche per il grande lascito all’umanità, di cui tutti siamo chiamati a farne tesoro.
Paolo di Tarso fu essenzialmente un operatore della parola, e in lui si incontrano e si fondono due grandi civiltà della parola: quella greca e quella ebraica. Dopo l’evento di Damasco nascono la predicazione di Cristo, la comunicazione dell’annuncio salvifico, l’educazione ai valori umani ed ai principi etici universali. Predicare, comunicare, educare: sono le tre azioni principali legate alla parola, che in Paolo trovano piena e feconda concretizzazione.
Paolo « parla », dunque. Ma, per noi, soprattutto « scrive »: allora la scrittura non era diffusa e le conoscenze venivano tramandate oralmente dagli anziani ai giovani.
Nel bimillenario della sua nascita, vogliamo rileggere in chiave educativa le Lettere scritte dall’Apostolo delle genti, per prendere più piena consapevolezza del suo pensiero, pedagogico in particolare, e per attualizzare, nell’oggi e in maniera feconda, il suo insegnamento..
Paolo educatore appassionato
Paolo è stato un educatore. Maestro di umanità, di virtù, di valori: « magister » nel senso più autentico del termine. Il libro degli Atti ci racconta come nelle primitive comunità cristiane c’erano dei « maestri » (didscaloi), cioè persone dedite all’insegnamento (e impegnate nello studio). « C’erano nella Chiesa di Antiochia profeti e maestri: Barnaba, Simone detto Niger, Lucio di Cirene, Manaèn, compagno di infanzia di Erode il tetrarca, e Saulo » (At 13,1).
L’insegnamento per un credente di quel tempo nasceva dallo studio delle Scritture. Studio che a Paolo non è servito soltanto per rafforzare la sua cultura personale, ma anche a far maturare l’intera personalità dell’uomo nuovo, che si era manifestato in lui. Il corpus delle sue Lettere, ci consegna una eredità pedagogica, davvero ricca che interpella anche la scuola d’oggi. Quelle stesse sollecitazioni educative rivolte da Paolo all’uomo del suo tempo, rimangono, dopo duemila anni, di pregnante attualità.
San Paolo è insieme teologo e filosofo: nel suo discorso nell’Areopago di Atene (At 17,16-34) si rivolge ad un attento uditorio di filosofi epicurei, che esaltavano la cultura dell’effimero e del piacere, e di filosofi stoici con la loro visione panteistica del mondo. Con le ammonizioni, le esortazioni, le indicazioni, ha dimostrato di essere anche un valente pedagogo. Passione per l’uomo, quale immenso capolavoro di Dio, ma anche attenzione per i suoi problemi comportamentali nella quotidianità dell’agire.
Ma Paolo è anche un esempio da imitare, perché ha accompagnato la predicazione della Parola con la testimonianza della vita. I paradigmi fondamentali del suo stile pedagogico sono la conoscenza e l’ascolto. Ascoltare la voce dello Spirito e conoscere una Persona, Cristo il Risorto. Non quindi una dottrina o una teoria, sebbene affascinanti e coinvolgenti, ma una Persona.
Ma in Paolo è fondamentale anche l’ascolto degli altri, ovvero dei ragionamenti dei cosiddetti « gentili », e la conoscenza dei fatti, delle circostanze, degli eventi per portarli a sostegno dei suoi convincimenti. In lui è sempre presente l’incontro con l’altro, il dialogo con gli altri. Ad Atene con il discorso all’Areopago, egli si apre al diverso, allo scettico, alla cultura dominante nella città greca. Incontra gli altri, che non sono ancora cristiani, non per strapparli alla loro cultura ed imporne una nuova, antitetica rispetto alla loro, ma per discutere, argomentare e colloquiare. Paolo adotta i loro punti di vista sui quali innesterà, con dolcezza e senza forzature, la vera e propria azione di cambiamento.
Paolo dialoga con le culture del suo tempo, dialoga con i collaboratori, primo tra tutti con Tito e Timoteo, ai quali indirizza tre lettere; dialoga con la gente comune, da convertire al cristianesimo.
Tenendo conto della sua matrice giudaica, della sua lingua greca, della sua prerogativa di civis romanus, Paolo è l’uomo delle tre culture.
Gli Atti degli Apostoli (19,9ss) riferiscono dell’incontro di Paolo con i giovani a Efeso e dell’insegnamento « a tutti quelli, giudei e greci, che abitavano in Asia nella scuola di Tiranno », un noto retore della città. Insegnamento che « durò per due anni », Nelle ore più calde della giornata. Instancabile educatore, dunque. Annunciando il Vangelo parla ovunque: nelle sinagoghe dei giudei e nelle piazze e nelle scuole delle città pagane. Inoltre Paolo, è bene sottolinearlo, non soltanto parla ma anche scrive, rivolgendosi ad intere comunità.
Il messaggio pedagogico di San Paolo non poggia, quindi, solo sulla tradizione (parádosis), cioè sulla trasmissione verbale di un annuncio codificato da altri (Paolo non ha mai incontrato direttamente Gesù Cristo), ma viene anche rafforzato dalla sapienza (sophia), dalla intelligenza di argomentare per iscritto le verità del kerygma, sia per gli iniziati (i pagani da convertire), sia per i più progrediti nella fede, che hanno già conosciuto la bontà misericordiosa di Dio.
La tradizione e l’intelligenza sapienziale stanno, quindi, alla base del suo insegnamento, che è rivolto soprattutto a consolidare forti legami tra le generazioni.
I consigli per i giovani
Circa il rapporto educativo tra i genitori ed i figli, che troviamo troviamo dei riferimenti specifici nelle Lettere inviate alle comunità di Corinto, di Colossi e di Efeso, e al suo collaboratore Timoteo.
Nella Seconda Lettera ai Corinzi (2Cor 12,14), Paolo si sofferma sul tema del « sostentamento ». Considerato non solo dal punto di vista materiale, ma anche morale. I genitori ad essere invitati a sostenere i figli e non viceversa. I padri non esauriscono mai i loro compiti di guida, sostegno e incoraggiamento.
La Lettera ai Colossesi (Col 3,20s) contiene una doppia esortazione educativa. La prima è rivolta ai figli: sono chiamati, in modo categorico, ad ubbidire ai genitori, ciò è gradito al Signore.
L’ubbidienza raccomandata ai giovani verso i genitori non è servile, di cieca sottomissione, ma una assunzione di reciproca responsabilità. Vive nell’affetto reciproco, nella stima e nello scambievole aiuto. Giacché anche gli adulti hanno qualcosa da apprendere da una corretta relazione.
Si ubbidisce non sotto la paura di eventuali punizioni o, viceversa, con la prospettiva di una ricompensa, bensì come bisogno interiore per rafforzare la propria personalità. Con Simone Weil, potremmo dire che « l’ubbidienza è un bisogno vitale dell’anima umana » ed inoltre « essendo un nutrimento necessario all’anima, chiunque ne sia definitivamente privo, è malato ».
L’esortazione per i genitori
La seconda esortazione educativa è rivolta ai padri. Il « non provocate » sta per « non esasperate », che presuppone il dialogo tra le generazioni, tra gli adulti e i giovani. A sua volta il dialogo favorisce, anzi richiede e pretende il confronto, quindi offre la disponibilità a rivedere le proprie posizioni, che non inficia l’autorevolezza. L’espressione « non si perdano di coraggio » equivale a « non scoraggiate ». Lo scoraggiamento porta dritto dritto al disinteresse ed elimina, peggio annulla, tutti le gratificazioni che sono essenzialmente di natura morale>>.
Non va dimenticata la circostanza che le riunioni cristiane (le ekklesìai) attestate nelle Lettere paoline, avvenivano in case private. La casa è, quindi, per Paolo il luogo naturale dell’incontro (talvolta anche dello scontro) tra i padri e i figli, lo spazio entro il quale far circolare ammonizioni, esortazioni, raccomandazioni.
Nei versetti 6,1-4 della Lettera agli Efesini, ritorna il richiamo all’obbedienza dei figli nei confronti dei genitori da praticare nel nome del Signore, un’esortazione con la quale Paolo sottolinea l’obbedienza di figli di Cristo, che si ottiene già con la grazia del battesimo.
L’ammonizione « non esasperate » (quasi identica al « non scoraggiate » di Colossesi) è posta in modo diretto, non è un semplice consiglio. L’esasperazione provoca l’ira, che arriva a sfociare anche in « bestemmie e oltraggi ». Torna qui la necessità del dialogo, dell’incontro, delle relazioni tra le persone.
Nella Prima Lettera a Timoteo, nei versetti 5,1-8, si scopre un’altra indicazione educativa.
L’invito è rivolto agli anziani ed ai giovani. Gli uni e gli altri membri della stessa famiglia. Gli anziani sono i padri e le madri, i fratelli e le sorelle sono i figli. In questi versetti Paolo riprende il valore del quarto comandamento, già esaminato nella Lettera agli Efesini (6,1-3). L’ammonimento di Paolo non è solo morale, ma questa volta anche materiale. Ai genitori in difficoltà va restituito, ovvero contraccambiato il bene ricevuto da piccoli.
Questo scambio di doni per Paolo non va inteso come compassione, commiserazione, bensì come la pietas romana, come riconoscimento, presa d’atto, dei doveri dei figli verso i genitori. La compassione diventa, allora, com-passione, cioè capacità di condivisione, di partecipazione l’uno con l’altro.
L’eredità pedagogica di Paolo
Ed è indubbio che anche l’educazione per essere valida ed efficace, deve togliere di mezzo la durezza del cuore, la casualità dei gesti, l’estemporaneità degli interventi: insomma tutto ciò che può essere d’ostacolo alla crescita umana dei figli, e dei giovani in genere. I quali per essere educati (nel senso di educati bene), debbono essere continuamente destinatari di esortazioni e di orientamenti.
Correzione (paideia) ed ammonizioni (nuthesia) sono vocaboli particolarmente forti nel linguaggio biblico. La paideia è la disciplina che usa tutti i mezzi per riportare i figli sulla retta via; l’ammonizione è il richiamo fatto con parole. Il binomio paideia-nuthesia indica, dunque, l’opera educativa del pedagogo delle scuole greco-romane, che però deve essere temperata nel Signore: anche per l’educazione il modello da imitare è sempre Cristo.
Nella Lettera agli Ebrei (attribuita a Paolo solo a partire dal secondo secolo), si legge che « ogni correzione sul momento, è vero, appare causa non di gioia, ma di dolore, ma più tardi porta in cambio un frutto pacifico di giustizia » (Eb 12,11). Chi ti vuol bene – recita un adagio popolare – ti fa piangere, chi ti vuol male, invece, ti fa ridere.
La correzione, dunque, non va intesa come costrizione (fare o non fare una cosa), ma come aiuto a non rimanere imbrigliati nell’errore, a risollevarsi e a riprendere la giusta via.
Come per San Paolo, il grande desiderio del Beato Alberione era di raggiungere tutti, per formare l’uomo a immagine di Cristo.
Come per San Paolo, il grande desiderio del Beato Alberione era di raggiungere tutti,
per formare l’uomo a immagine di Cristo.
Paolo, un modello da imitare
Quale conclusione si può trarre da questi brevi cenni tratti dall’epistolario paolino sull’educazione? San Paolo rimane un modello educativo da riscoprire. Un apostolo anche per il nostro tempo: egli è per noi un faro di luce, che rischiara le tetre ombre del disagio che vive oggi la scuola.
L’educazione al vero, al bene, al bello non è forse il cardine di quel pensiero pedagogico, che affonda le sue radici nella matrice personalistica cristiana sviluppatasi lungo il secolo scorso?
E allora possiamo concludere con l’esortazione rivolta da San Paolo ai Filippesi: « Tutto quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri. Le cose che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, mettetele in pratica » (Fil 4,8-9).
Teobaldo Guzzo

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