Archive pour septembre, 2014

La Resurrezione

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PAPA FRANCESCO – 10 APRILE 2013 – (SULLA RESURREZIONE)

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PAPA FRANCESCO

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

MERCOLEDÌ, 10 APRILE 2013 – (SULLA RESURREZIONE)

Cari fratelli e sorelle, buon giorno!

Nella scorsa Catechesi ci siamo soffermati sull’evento della Risurrezione di Gesù, in cui le donne hanno avuto un ruolo particolare. Oggi vorrei riflettere sulla sua portata salvifica. Che cosa significa per la nostra vita la Risurrezione? E perché senza di essa è vana la nostra fede? La nostra fede si fonda sulla Morte e Risurrezione di Cristo, proprio come una casa poggia sulle fondamenta: se cedono queste, crolla tutta la casa. Sulla croce, Gesù ha offerto se stesso prendendo su di sé i nostri peccati e scendendo nell’abisso della morte, e nella Risurrezione li vince, li toglie e ci apre la strada per rinascere a una vita nuova. San Pietro lo esprime sinteticamente all’inizio della sua Prima Lettera, come abbiamo ascoltato: «Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce» (1,3-4).
L’Apostolo ci dice che con la Risurrezione di Gesù qualcosa di assolutamente nuovo avviene: siamo liberati dalla schiavitù del peccato e diventiamo figli di Dio, siamo generati cioè ad una vita nuova. Quando si realizza questo per noi? Nel Sacramento del Battesimo. In antico, esso si riceveva normalmente per immersione. Colui che doveva essere battezzato scendeva nella grande vasca del Battistero, lasciando i suoi vestiti, e il Vescovo o il Presbitero gli versava per tre volte l’acqua sul capo, battezzandolo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Poi il battezzato usciva dalla vasca e indossava la nuova veste, quella bianca: era nato cioè ad una vita nuova, immergendosi nella Morte e Risurrezione di Cristo. Era diventato figlio di Dio. San Paolo nella Lettera ai Romani scrive: voi «avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”» (Rm 8,15). È proprio lo Spirito che abbiamo ricevuto nel battesimo che ci insegna, ci spinge, a dire a Dio: “Padre”, o meglio, “Abbà!” che significa “papà”. Così è il nostro Dio: è un papà per noi. Lo Spirito Santo realizza in noi questa nuova condizione di figli di Dio. E questo è il più grande dono che riceviamo dal Mistero pasquale di Gesù. E Dio ci tratta da figli, ci comprende, ci perdona, ci abbraccia, ci ama anche quando sbagliamo. Già nell’Antico Testamento, il profeta Isaia affermava che se anche una madre si dimenticasse del figlio, Dio non si dimentica mai di noi, in nessun momento (cfr 49,15). E questo è bello!
Tuttavia, questa relazione filiale con Dio non è come un tesoro che conserviamo in un angolo della nostra vita, ma deve crescere, dev’essere alimentata ogni giorno con l’ascolto della Parola di Dio, la preghiera, la partecipazione ai Sacramenti, specialmente della Penitenza e dell’Eucaristia, e la carità. Noi possiamo vivere da figli! E questa è la nostra dignità – noi abbiamo la dignità di figli -. Comportarci come veri figli! Questo vuol dire che ogni giorno dobbiamo lasciare che Cristo ci trasformi e ci renda come Lui; vuol dire cercare di vivere da cristiani, cercare di seguirlo, anche se vediamo i nostri limiti e le nostre debolezze. La tentazione di lasciare Dio da parte per mettere al centro noi stessi è sempre alle porte e l’esperienza del peccato ferisce la nostra vita cristiana, il nostro essere figli di Dio. Per questo dobbiamo avere il coraggio della fede e non lasciarci condurre dalla mentalità che ci dice: “Dio non serve, non è importante per te”, e così via. E’ proprio il contrario: solo comportandoci da figli di Dio, senza scoraggiarci per le nostre cadute, per i nostri peccati, sentendoci amati da Lui, la nostra vita sarà nuova, animata dalla serenità e dalla gioia. Dio è la nostra forza! Dio è la nostra speranza!
Cari fratelli e sorelle, dobbiamo avere noi per primi ben ferma questa speranza e dobbiamo esserne un segno visibile, chiaro, luminoso per tutti. Il Signore Risorto è la speranza che non viene mai meno, che non delude (cfr Rm 5,5). La speranza non delude. Quella del Signore! Quante volte nella nostra vita le speranze svaniscono, quante volte le attese che portiamo nel cuore non si realizzano! La speranza di noi cristiani è forte, sicura, solida in questa terra, dove Dio ci ha chiamati a camminare, ed è aperta all’eternità, perché fondata su Dio, che è sempre fedele. Non dobbiamo dimenticare: Dio sempre è fedele; Dio sempre è fedele con noi. Essere risorti con Cristo mediante il Battesimo, con il dono della fede, per un’eredità che non si corrompe, ci porti a cercare maggiormente le cose di Dio, a pensare di più a Lui, a pregarlo di più. Essere cristiani non si riduce a seguire dei comandi, ma vuol dire essere in Cristo, pensare come Lui, agire come Lui, amare come Lui; è lasciare che Lui prenda possesso della nostra vita e la cambi, la trasformi, la liberi dalle tenebre del male e del peccato.
Cari fratelli e sorelle, a chi ci chiede ragione della speranza che è in noi (cfr 1Pt 3,15), indichiamo il Cristo Risorto. Indichiamolo con l’annuncio della Parola, ma soprattutto con la nostra vita di risorti. Mostriamo la gioia di essere figli di Dio, la libertà che ci dona il vivere in Cristo, che è la vera libertà, quella che ci salva dalla schiavitù del male, del peccato, della morte! Guardiamo alla Patria celeste, avremo una nuova luce e forza anche nel nostro impegno e nelle nostre fatiche quotidiane. E’ un servizio prezioso che dobbiamo dare a questo nostro mondo, che spesso non riesce più a sollevare lo sguardo verso l’alto, non riesce più a sollevare lo sguardo verso Dio.

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COLTIVARE E CUSTODIRE… LA VITA

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COLTIVARE E CUSTODIRE… LA VITA

« Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perchè lo coltivasse (avad) e lo custodisse (shamar)” (Gn 2,15).

‘Prendere’ l’uomo e ‘stabilirlo’ sono termini che evocano l’uscita dall’Egitto e l’introduzione nella terra promessa. Sono termini che rimandano all’origine di un popolo libero e non più schiavo, un popolo in grado di riconoscere il proprio Dio, come colui che rimane accanto e, nello stesso tempo, di accogliere da Lui un dono e un compito.
Il verbo ‘coltivare’ significa ‘servire’, ‘lavorare’, indica la fatica che dissoda il terreno, il lavoro che sa trasformare e produrre frutto; mentre il verbo ‘custodire’ è l’azione che accoglie il dono e fedelmente lo conserva; significa anche ‘osservare’ ed è riferito spesso alla sentinella che vigila, ma anche, e soprattutto, all’osservare e custodire la Parola di Dio. Dice la cura che deve essere presente nelle varie attività degli esseri umani; una cura che è consapevole dell’avere tra le mani un dono prezioso che non appartiene a se stessi, ma che è di Dio.
Vuol dire, inoltre, ri-cordare, rimettere nel cuore, quella Parola che sola può aiutare a comprendere quello che magari non si capisce. Viene in mente ciò che si dice di Maria nel Nuovo Testamento: « custodiva tutte queste cose nel suo cuore” (Lc 2,50). Faceva, cioè, ‘tesoro’ di tutto ciò che avveniva, serbandolo nel profondo, custodendo e meditando ogni cosa nel proprio cuore. In mezzo agli avvenimenti a volte ‘oscuri’, custodire può aiutare a scoprire il ‘movimento’ dello Spirito per comprendere almeno quel poco che serve per proseguire il cammino.
Compito dell’uomo è quindi quello di ‘coltivare e custodire’ il creato, ma anche la propria vita, entrambi doni di Dio, riconoscendo in essi la Sua opera. È un’indicazione data da Dio all’adam, il ‘terrestre’, prima ancora della differenziazione sessuale, all’inizio della storia, ma anche in ogni tempo e a ciascuno: chiede di far crescere il mondo con responsabilità, ‘trasformandolo’ con il nostro lavoro e la nostra vigilanza perchè ridiventi giardino, luogo abitabile per tutti. Coltivare e custodire sono attività che rendono l’essere umano ‘simile’ a Dio, al suo Creatore. Dio si ‘ritira’ lasciando spazio all’uomo, affinchè agisca sulle opere delle sue mani.
Nel primo capitolo della Genesi, pur scritto in epoca più tarda, il maschio e la femmina creati a ‘immagine di Dio’ ricevono un comando analogo: « Siate fecondi…” (Gn 1,22), donate vita. Non dobbiamo dimenticare, per cogliere l’importanza di questo passo biblico, che il testo è nato in un ambiente di ‘morte’ perchè Israele era in esilio a Babilonia dopo la deportazione. I regni erano stati conquistati da un popolo invasore, il tempio e le case distrutte, le famiglie smembrate, i più giovani e forti, in grado di lavorare, sradicati dalla loro terra per essere condotti in terra straniera.
È un’esperienza di morte molto forte e reale, causata non solo dalla sofferenza fisica, dalla pesantezza dell’oppressione, ma anche dal non capire più cosa stava succedendo e soprattutto dal non sentire più Dio vicino. Dov’era il loro Dio in mezzo a quella desolazione? In questo contesto viene scritto il primo capitolo, a confermare che Dio c’è e ha creato cose belle e buone, e allora si può anche attraversare la morte perchè ‘oltre’ c’è la vita, sempre. Per questo è possibile dare il comando « Siate fecondi…dominate la terra”: è un diritto dovere che appartiene ad ogni essere umano, perchè ogni uomo e ogni donna sono ‘a immagine di Dio’ e spetta a tutti -e non solo ad alcuni- la responsabilità del mondo, condividendo lo sguardo ammirato di Dio su ogni cosa: « E Dio vide che ciò era buono”.
Rappresentanze dei popoli indigeni a Piazza S. Pietro all’udienza generaleCustode del creato, l’uomo è anche custode dell’altro, di tutti i fratelli e le sorelle in umanità: l’essere stati creati dall’unico Dio ci rende fin dall’origine uniti in questo vincolo che ci chiama ad essere ‘custodi’ l’uno dell’altro/a. Il volto degli altri ci guarda e ci testimonia che il nostro ‘io’ non è tutto, che ciascuno si deve misurare con i bisogni degli altri, con l’esigenza che ciascuno, in fondo, porta nel profondo, di amare e di essere amati.
Custodi del creato e dell’altro, ognuno di noi è chiamato anche ad essere ‘custode’ di Dio. In tempi non sempre facili e comprensibili, dove spesso il rifiuto e la chiusura dominano le relazioni, è necessario ‘coltivare’ la presenza di Dio in noi, come annotava Etty Hillesum: « Ti aiuterò Dio, a non spezzarti in me…l’unica cosa che in questo periodo possiamo salvare, ed è l’unica cosa, questa, che davvero importi: un pezzo di te in noi stessi Dio…la tua abitazione in noi, dove davvero vivi, noi dobbiamo difenderla fino all’ultimo:” (Diario, 12 luglio 1942)
C’è un passo nel Vangelo che può diventare modello interpretativo di ciò che Gesù intenda con il compito di ‘coltivare e custodire’ ed è la ‘parabola del fico’ raccontata in Luca 13,6-9.
Abbi pazienza ancora per un anno…Nella parabola, il padrone di un campo che aveva piantato nella sua vigna un albero di fichi, non trovando da tre anni frutti su quella pianta, ordinò al vignaiolo di tagliarla perchè sfruttava inutilmente il terreno. La replica del vignaiolo è uno stupendo esempio della misericordiosa pazienza di Dio che non si arrende e lascia aperto il tempo del cambiamento, della conversione: « Padrone, lascialo ancora quest’anno, finchè gli avrò zappato intorno e gli avrò messo il concime”.
I fichi e la vigna hanno sempre avuto per gli Israeliti un significato tutto particolare perchè erano segno dell’insediamento nella terra promessa, oltre a ricordare il ‘paradiso perduto’, l’Eden.
La storia del fico è, in fondo, anche la nostra storia, storia di aspettative e delusioni, di attese e aridità, di ‘raccolti’ mancati; ma ci mostra soprattutto la ‘giustizia’ di Dio, che non si riduce a estirpare il ‘male’, eliminando ciò che all’apparenza è inutile. Giovanni il Battista aveva presentato un’altra immagine di Dio: « Razza di vipere che vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? …già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco” (Lc 3,7.9). Le parole del vignaiolo e del padrone della vigna, sembrano invece un dialogo tra la giustizia e la misericordia: « lascialo ancora per un anno…”. La storia va avanti nell’attesa che la nostra esperienza porti frutto. Il tempo non ci appartiene, è il tempo della pazienza di Dio e nostra, dell’azione di Dio e nostra. Deve essere però un’attesa operosa: bisogna rompere la terra intorno, una terra diventata dura nel tempo e che necessita di essere mossa, ammorbidita, per far penetrare il concime, per ‘nutrire’. E la condizione essenziale per poter ‘dare frutto’ è rimanere in Cristo: « Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto” (Gv 15,5).
Tempo e amore rendono possibile il progetto di Dio e ‘il coltivare’ di ciascuno di noi, lasciando che il Vangelo invada a poco, a poco, tutto lo spazio disponibile affinchè la misericordia abbia sempre la meglio sul giudizio e ciascuno possa, con speranza, dire ogni giorno: « Oggi posso ripartire a ‘coltivare’ il mio rapporto con Dio, la mia vita, le mie relazioni, l’ambiente in cui vivo. Oggi posso ricominciare”. 

Exaltation de la Sainte-Croix, Les Très Riches Heures du duc de Berry (Musée Condé, Chantilly)

Exaltation de la Sainte-Croix, Les Très Riches Heures du duc de Berry (Musée Condé, Chantilly) dans immagini sacre 640px-Folio_193r_-_The_Exaltation_of_the_Cross

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GIOVANNI PAOLO II : CANTICO FIL 2,6-11 – CRISTO, SERVO DI DIO (2003)

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GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 19 novembre 2003

CANTICO FIL 2,6-11 – CRISTO, SERVO DI DIO

Primi Vespri della Domenica 1a settimana (Lettura: Fil 2,6-9)

1. La Liturgia dei Vespri comprende, oltre ai Salmi, anche alcuni Cantici biblici. Quello or ora proclamato è sicuramente uno dei più significativi e di forte densità teologica. Si tratta di un inno incastonato nel capitolo secondo della Lettera di san Paolo ai cristiani di Filippi, la città greca che fu la prima tappa dell’annunzio missionario dell’Apostolo in Europa. Il Cantico è ritenuto espressione della liturgia cristiana delle origini ed è una gioia per la nostra generazione potersi associare, a distanza di due millenni, alla preghiera della Chiesa apostolica.
Il Cantico rivela una duplice traiettoria verticale, un movimento prima discensionale e poi ascensionale. Da un lato c’è, infatti, la discesa umiliante del Figlio di Dio quando, nell’Incarnazione, diventa uomo per amore degli uomini. Egli piomba nella kenosis, cioè nello «svuotamento» della sua gloria divina, spinto fino alla morte sulla croce, il supplizio degli schiavi che ne ha fatto l’ultimo degli uomini, rendendolo vero fratello dell’umanità sofferente, peccatrice e reietta.
2. Dall’altro lato, ecco l’ascesa trionfale che si compie nella Pasqua quando Cristo viene ristabilito dal Padre nello splendore della divinità ed è celebrato Signore da tutto il cosmo e da tutti gli uomini ormai redenti. Siamo di fronte a una grandiosa rilettura del mistero di Cristo, soprattutto di quello pasquale. San Paolo, oltre a proclamare la risurrezione (cfr 1Cor 15,3-5), ricorre anche alla definizione della Pasqua di Cristo come «esaltazione», «innalzamento», «glorificazione».
Dunque, dall’orizzonte luminoso della trascendenza divina il Figlio di Dio ha varcato l’infinita distanza che intercorre tra Creatore e creatura. Egli non si è aggrappato come ad una preda al suo «essere uguale a Dio», che gli compete per natura e non per usurpazione: non ha voluto conservare gelosamente questa prerogativa come un tesoro né usarla a proprio vantaggio. Anzi, Cristo «svuotò», «umiliò» se stesso e apparve povero, debole, destinato alla morte infamante della crocifissione. Proprio da questa estrema umiliazione parte il grande movimento ascensionale descritto nella seconda parte dell’inno paolino (cfr Fil 2,9-11).
3. Dio ora «esalta» suo Figlio conferendogli un «nome» glorioso, che, nel linguaggio biblico, indica la persona stessa e la sua dignità. Orbene, questo «nome» è Kyrios, «Signore», il nome sacro del Dio biblico, ora applicato a Cristo risorto. Esso pone in atteggiamento di adorazione l’universo descritto secondo la tripartizione di cielo, terra e inferi.
Il Cristo glorioso appare, così, nel finale dell’inno, come il Pantokrator, cioè il Signore onnipotente che troneggia trionfale nelle absidi delle basiliche paleocristiane e bizantine. Egli reca ancora i segni della passione, cioè della sua vera umanità, ma si rivela ora nello splendore della divinità. Vicino a noi nella sofferenza e nella morte, Cristo ora ci attrae a sé nella gloria, benedicendoci e facendoci partecipi della sua eternità.
4. Concludiamo la nostra riflessione sull’inno paolino affidandoci alle parole di sant’Ambrogio, che spesso riprende l’immagine di Cristo che «spogliò se stesso», umiliandosi e come annullandosi (exinanivit semetipsum) nell’incarnazione e nell’offerta di se stesso sulla croce.
In particolare, nel Commento al Salmo CXVIII il Vescovo di Milano così si esprime: «Cristo, appeso all’albero della croce… fu punto dalla lancia e ne uscirono sangue e acqua più dolci d’ogni unguento, vittima gradita a Dio, spandendo per tutto il mondo il profumo della santificazione… Allora Gesù, trafitto, sparse il profumo del perdono dei peccati e della redenzione. Infatti, diventato uomo da Verbo che era, era stato ben limitato ed è diventato povero, pur essendo ricco, per arricchirci con la sua miseria (cfr 2Cor 8,9); era potente, e si è mostrato come un miserabile, tanto che Erode lo disprezzava e lo derideva; sapeva scuotere la terra, eppure restava attaccato a quell’albero; chiudeva il cielo in una morsa di tenebre, metteva in croce il mondo, eppure era stato messo in croce; reclinava il capo, eppure ne usciva il Verbo; era stato annullato, eppure riempiva ogni cosa. È disceso Dio, è salito uomo; il Verbo è diventato carne perché la carne potesse rivendicare a sé il trono del Verbo alla destra di Dio; era tutto una piaga, eppure ne fluiva unguento, appariva ignobile, eppure lo si riconosceva Dio» (III,8, Saemo IX, Milano-Roma 1987, pp. 131.133).

 

ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE – TESTI ED OMELIA

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ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE – TESTI ED OMELIA

I Lettura (Nm 21,4-9)
Dal libro dei Numeri

In quei giorni, il popolo non sopportò il viaggio. Il popolo disse contro Dio e contro Mosè: “Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo così leggero”.
Allora il Signore mandò fra il popolo serpenti brucianti i quali mordevano la gente, e un gran numero d’Israeliti morì. Il popolo venne da Mosè e disse: “Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore e contro di te; supplica il Signore che allontani da noi questi serpenti”. Mosè pregò per il popolo.
Il Signore disse a Mosè: “Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita”. Mosè allora fece un serpente di bronzo e lo mise sopra l’asta; quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita.

Salmo (77)

Rit. Non dimenticate le opere del Signore!

Ascolta, popolo mio, la mia legge,
porgi l’orecchio alle parole della mia bocca.
Aprirò la mia bocca con una parabola,
rievocherò gli enigmi dei tempi antichi. Rit.

Quando li uccideva, lo cercavano
e tornavano a rivolgersi a lui,
ricordavano che Dio è la loro roccia
e Dio, l’Altissimo, il loro redentore. Rit.

Lo lusingavano con la loro bocca,
ma gli mentivano con la lingua:
il loro cuore non era costante verso di lui
e non erano fedeli alla sua alleanza. Rit.

Ma lui, misericordioso, perdonava la colpa,
invece di distruggere.
Molte volte trattenne la sua ira
e non scatenò il suo furore. Rit.

II Lettura (Fil 2,6-11)
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi

Cristo Gesù,
pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
”Gesù Cristo è Signore!”,
a gloria di Dio Padre.

Rit. Alleluia, alleluia.
Noi ti adoriamo, o Cristo, e ti benediciamo,
perché con la tua croce hai redento il mondo.
Rit. Alleluia.

Vangelo (Gv 3,13-17)
Dal Vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo:
“Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui”.

Omelia

Nel deserto il popolo pensò di avere un piano migliore di quello comunicatogli da Dio per mezzo di Mosè, anzi pensò che quanto diceva Mosè era profondamente errato e lo dimostrava la precarietà delle condizioni del cammino. Meglio la certezza dell’Egitto; e così decisero di ritornare, pronti a sottomettersi al faraone. Il risultato fu che ben presto si trovarono in una zona dove abbondavano le aspidi, serpenti velenossimi. Fu così chiaro che abbandonando la guida di Mosè, vero interlocutore con Dio, erano finiti nelle braccia della morte. Da qui il pentimento e la richiesta di aiuto.
Vogliamo domandarci: per gli Israeliti cosa significava immediatamente quel serpente di bronzo sull’asta?
La curiosità può essere soddisfatta se si pensa che l’imponente copricapo del faraone aveva sul fronte l’immagine di un aspide, l’ureo. L’ureo era il segno dell’abilità di governo del faraone, del suo sapere e quindi della sua capacità di dare prosperità al suo regno. Il popolo colpito dai morsi velenosi dei serpenti capì; guardare al serpente di bronzo innalzato su di un asta era far riconfluire in Dio ogni speranza. Il serpente acquistava nel deserto la simbologia della sapienza e della potenza di Dio.
Soddisfatta la domanda, si deve considerare che il punto a cui guarda Gesù è l’innalzamento del serpente di bronzo sull’asta e non il serpente di bronzo, la cui portata simbolica che aveva nel deserto non è messa in primo piano. Gesù si riferisce all’essere elevato da terra, indicando come anche lui sarà posto in alto, sulla croce; e gli uomini che vorranno essere liberati dai veleni del peccato dovranno guardare a lui, come già nel deserto per essere liberati dal morso dei serpenti gli Israeliti dovettero guardare al serpente di bronzo.
Gesù sarà innalzato da terra e gli uomini vedranno la sapienza e la potenza di Dio. L’ora della croce non è un’ora di sconfitta, ma un’ora di vittoria. Gesù sulla croce esprime una sapienza nuova, del tutto inedita, che è quella di far sì che con l’amore il dolore diventi crisma di gloria. Gesù, che nel Giordano ha visto su di lui scendere lo Spirito Santo, ha avuto come olio consacratorio il dolore. Lo Spirito Santo, con le sue vampe d’amore, l’ha condotto sulla croce così che il Cristo avesse la completezza della consacrazione a re universale. Gesù ha parlato chiaramente di questa sua consacrazione per mezzo del crisma dolore (Gv 17,19): “Per loro consacro me stesso”.
Gesù innalzato sulla croce esprime una potenza nuova, mai vista, che abbatte l’inferno e libera gli uomini; è la potenza dell’amore al Padre e agli uomini. Dolore e amore formano un binomio unitario sulla croce. L’amore accetta il dolore, e il dolore rende puro l’amore.
A questo punto possiamo considerare le parole di Gesù: “Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo”. In Gesù c’è una discesa e un’ascesa. Discesa, per l’Incarnazione. Salita al cielo perché l’anima di Gesù vedeva l’Essenza divina. La salita al cielo del Figlio dell’uomo era accompagnata dall’amore incandescente del Padre. A questo amore Gesù ha sempre corrisposto con l’obbedienza che è vertice d’amore. Ma proprio sulla croce Gesù imparò l’obbedienza. Non che prima non avesse obbedienza, ma tutta la sublime portata dell’obbedienza Gesù la imparò sulla croce (Cf. Eb 5,8). Obbedienza mentre il Cielo taceva su di lui, anzi lo respingeva spingendolo a gridare il vertice di dolore che è il silenzio del Padre (Mt 27,46): “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. L’anima di Gesù vedeva il Padre, ma vedeva il Padre che non operava moto su di lui, morente sulla croce. La beatitudine del cielo non consiste solo nel vedere Dio, ma anche nel vedere come egli sia infinitamente comunicatore d’amore verso di noi. Sappiamo infatti che egli in cielo ci servirà eternamente comunicandoci il suo amore (Lc 12,37): “Si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli”.
L’anima di Gesù vedeva il Padre, poiché aveva la visione intuitiva di lui, ma vedeva pure l’assenza della sua comunicazione d’amore: nessuna dolcezza gli veniva dal Padre, che trattava il figlio da peccato (2Cor 6,21). Questo non è visione beatifica, ma tormento nei tormenti. La gloria celeste non sta solo nell’accesso alla visione di Dio, ma nell’essere glorificati in eterno da Dio mediante il suo incessante amore.
Ci si domanda: “E’ possibile vedere Dio e non avere la sua comunicazione d’amore?”. Dico che è possibile vedere Dio e nello stesso tempo vedere che Dio fa il contrario, cioè si rifiuta: è quello che visse Gesù. Mi si dirà: “Ma il Padre non ama il Figlio?”. Rispondo che infinitamente lo ama, ma poiché il Figlio si era addossato le nostre colpe, il Padre lo trattò con rigore affinché il nostro peccato venisse espiato con un amore che vincesse il giusto sdegno del Padre per i nostri peccati.
Il Figlio dell’uomo, Verbo incarnatosi nel grembo Immacolato di Maria, fu sempre perfetto davanti agli uomini e anche davanti al Padre ma doveva, attraverso la morte di croce (Cf. Eb 2,10), diventare superperfetto.
L’essere elevato da terra sulla croce fu per il Cristo il momento vertice della crescita, in quanto uomo, del suo amore al Padre e agli uomini. Gesù sulla croce salì a vertici immisurabili d’amore, e ciò determinò la sua glorificazione nella risurrezione. Colui che, disceso dal cielo, era salito al cielo, vi doveva poi salire nella pienezza gloriosa della risurrezione (Cf. Rm 1,4). La glorificazione attraverso la croce. La glorificazione data dal Padre
Il sacrificio di Cristo fu il sacrificio di colui che, onnipotente, volle avere solo la potenza dell’amore. In nessun momento della sua vita Gesù si avvalse della sua uguaglianza con Dio, dell’essere Dio (Cf. Fil 2,6).
Di fronte all’Odio che lo tentava non lo fulminò con la sua potenza di Dio, ma lo vinse con l’obbedienza alla parola del Padre. Se avesse scacciato Satana con la sua potenza di Dio, non avrebbe ottenuto altro che dare spunto a Satana per inoculare il menzognero veleno satanico di considerare Dio un Dio altero, che offeso non sa altro che schiacciare, volle invece vincerlo. Satana si sentì stritolato quando l’Amore crocifisso emise lo spirito: aveva vinto l’Amore e lui l’Odio aveva perso.
Gesù rimase il Figlio dell’uomo sino alla fine, mite, umile e misericordioso senza limiti. Di fronte agli offensori, ai torturatori, non ha reagito maledicendo (1Pt 2,23). I suoi schernitori gli domandavano di scendere dalla croce dando così un segno della sua potenza. Non lo fece, pur potendolo fare. Non maledisse, non odiò. Amò. Così guardare a lui nel suo supremo atto d’amore è salvezza per noi, è liberarsi dal morso di Satana che iniettò il suo veleno nel genere umano, e continua a iniettarlo sempre più quando un uomo aderisce a lui.
L’esaltazione della croce è dunque esaltare il mezzo col quale Cristo ha vinto, ha espiato i nostri peccati, ha liberato i nostri cuori dal male. L’esaltazione della croce è riconoscere la potenza del crisma del dolore, che consacra l’anima a Dio in un incendio d’amore che parte dalle profondità dell’essere.
L’esaltazione della croce è riconoscere la sua fecondità apostolica.
La croce è dolore, ma è anche riposo. L’orgoglio all’anima ferita dal dolore offre un giaciglio per riposare, giaciglio che si chiama rancore, risentimento; ma l’anima che ama la croce e la esalta preferisce riposare sul duro tavolo della croce, perché solo così trova la pace. La pace che nasce dall’amore.
Viva la croce, dunque. Amen. Ave Maria. Vieni, Signore Gesù

Depiction of God the Father (detail), Pieter de Grebber, 1654.

Depiction of God the Father (detail), Pieter de Grebber, 1654. dans immagini sacre GodInvitingChristDetail

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Publié dans:immagini sacre |on 11 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO : UDIENZA GENERALE 10.9.2014

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PAPA FRANCESCO

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 10 settembre 2014

Saluti ai malati prima dell’Udienza Generale

Vi ringrazio della vostra visita, grazie tante. Vi chiedo di pregare per me, non dimenticare, eh!, perché possa andare avanti col mio lavoro. Io pregherò per tutti voi e per i bambini. E adesso, tutti insieme, preghiamo la Madonna e vi do la benedizione. [Ave Maria] Buona giornata, e avanti, eh! Grazie a voi! Grazie.

La Chiesa
6. La Chiesa è Madre (II): insegna le opere di misericordia

Cari fratelli e sorelle, buongiorno.

Nel nostro itinerario di catechesi sulla Chiesa, ci stiamo soffermando a considerare che la Chiesa è madre. La volta scorsa abbiamo sottolineato come la Chiesa ci fa crescere e, con la luce e la forza della Parola di Dio, ci indica la strada della salvezza, e ci difende dal male. Oggi vorrei sottolineare un aspetto particolare di questa azione educativa della nostra madre Chiesa, cioè come essa ci insegna le opere di misericordia.
Un buon educatore punta all’essenziale. Non si perde nei dettagli, ma vuole trasmettere ciò che veramente conta perché il figlio o l’allievo trovi il senso e la gioia di vivere. E’ la verità. E l’essenziale, secondo il Vangelo, è la misericordia. L’essenziale del Vangelo è la misericordia. Dio ha inviato suo Figlio, Dio si è fatto uomo per salvarci, cioè per darci la sua misericordia. Lo dice chiaramente Gesù, riassumendo il suo insegnamento per i discepoli: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36). Può esistere un cristiano che non sia misericordioso? No. Il cristiano necessariamente deve essere misericordioso, perché questo è il centro del Vangelo. E fedele a questo insegnamento, la Chiesa non può che ripetere la stessa cosa ai suoi figli: «Siate misericordiosi», come lo è il Padre, e come lo è stato Gesù. Misericordia.
E allora la Chiesa si comporta come Gesù. Non fa lezioni teoriche sull’amore, sulla misericordia. Non diffonde nel mondo una filosofia, una via di saggezza…. Certo, il Cristianesimo è anche tutto questo, ma per conseguenza, di riflesso. La madre Chiesa, come Gesù, insegna con l’esempio, e le parole servono ad illuminare il significato dei suoi gesti.
La madre Chiesa ci insegna a dare da mangiare e da bere a chi ha fame e sete, a vestire chi è nudo. E come lo fa? Lo fa con l’esempio di tanti santi e sante che hanno fatto questo in modo esemplare; ma lo fa anche con l’esempio di tantissimi papà e mamme, che insegnano ai loro figli che ciò che avanza a noi è per chi manca del necessario. E’ importante sapere questo. Nelle famiglie cristiane più semplici è sempre stata sacra la regola dell’ospitalità: non manca mai un piatto e un letto per chi ne ha bisogno. Una volta una mamma mi raccontava – nell’altra diocesi – che voleva insegnare questo ai suoi figli e diceva loro di aiutare e dare da mangiare a chi ha fame; ne aveva tre. E un giorno a pranzo – il papà era fuori al lavoro, c’era lei con i tre figli, piccolini, 7, 5, 4 anni più o meno – e bussano alla porta: c’era un signore che chiedeva da mangiare. E la mamma gli ha detto: “Aspetta un attimo”. E’ rientrata e ha detto ai figli: “C’è un signore lì che chiede da mangiare, cosa facciamo?” “Gliene diamo, mamma, gliene diamo!”. Ognuno aveva sul piatto una bistecca con le patate fritte. “Benissimo – dice la mamma -, prendiamo la metà di ciascuno di voi, e gli diamo la metà della bistecca di ognuno di voi”. “Ah no, mamma, così non va bene!”. “E’ così, tu devi dare del tuo”. E così questa mamma ha insegnato ai figli a dare da mangiare del proprio. Questo è un bell’esempio che mi ha aiutato tanto. “Ma non mi avanza niente…”. “Da’ del tuo!”. Così ci insegna la madre Chiesa. E voi, tante mamme che siete qui, sapete cosa dovete fare per insegnare ai vostri figli perché condividano le loro cose con chi ha bisogno.
La madre Chiesa insegna a stare vicino a chi è malato. Quanti santi e sante hanno servito Gesù in questo modo! E quanti semplici uomini e donne, ogni giorno, mettono in pratica quest’opera di misericordia in una stanza di ospedale, o di una casa di riposo, o nella propria casa, assistendo una persona malata.
La madre Chiesa insegna a stare vicino a chi è in carcere. “Ma Padre no, è pericoloso questo, è gente cattiva”. Ma ognuno di noi è capace… Sentite bene questo: ognuno di noi è capace di fare lo stesso che ha fatto quell’uomo o quella donna che è in carcere. Tutti abbiamo la capacità di peccare e di fare lo stesso, di sbagliare nella vita. Non è più cattivo di te e di me! La misericordia supera ogni muro, ogni barriera, e ti porta a cercare sempre il volto dell’uomo, della persona. Ed è la misericordia che cambia il cuore e la vita, che può rigenerare una persona e permetterle di inserirsi in modo nuovo nella società.
La madre Chiesa insegna a stare vicino a chi è abbandonato e muore solo. E’ ciò che ha fatto la beata Teresa per le strade di Calcutta; è ciò che hanno fatto e fanno tanti cristiani che non hanno paura di stringere la mano a chi sta per lasciare questo mondo. E anche qui, la misericordia dona la pace a chi parte e a chi resta, facendoci sentire che Dio è più grande della morte, e che rimanendo in Lui anche l’ultimo distacco è un “arrivederci”… Lo aveva capito bene la beata Teresa questo! Le dicevano: “Madre, questo è perdere tempo!”. Trovava gente moribonda sulla strada, gente alla quale incominciavano a mangiare il corpo i topi della strada, e lei li portava a casa perché morissero puliti, tranquilli, carezzati, in pace. Lei dava loro l’”arrivederci”, a tutti questi… E tanti uomini e donne come lei hanno fatto questo. E loro li aspettano, lì [indica il cielo], alla porta, per aprire loro la porta del Cielo. Aiutare a morire la gente bene, in pace.
Cari fratelli e sorelle, così la Chiesa è madre, insegnando ai suoi figli le opere di misericordia. Lei ha imparato da Gesù questa via, ha imparato che questo è l’essenziale per la salvezza. Non basta amare chi ci ama. Gesù dice che questo lo fanno i pagani. Non basta fare il bene a chi ci fa del bene. Per cambiare il mondo in meglio bisogna fare del bene a chi non è in grado di ricambiarci, come ha fatto il Padre con noi, donandoci Gesù. Quanto abbiamo pagato noi per la nostra redenzione? Niente, tutto gratuito! Fare il bene senza aspettare qualcos’altro in cambio. Così ha fatto il Padre con noi e noi dobbiamo fare lo stesso. Fa’ il bene e vai avanti!
Che bello è vivere nella Chiesa, nella nostra madre Chiesa che ci insegna queste cose che ci ha insegnato Gesù. Ringraziamo il Signore, che ci dà la grazia di avere come madre la Chiesa, lei che ci insegna la via della misericordia, che è la via della vita. Ringraziamo il Signore.

Publié dans:catechesi del mercoledì, PAPA FRANCESCO |on 11 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

ENZO BIANCHI, LE PAROLE DELLA SPIRITUALITÀ- LA PREGHIERA

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=124067

ENZO BIANCHI, LE PAROLE DELLA SPIRITUALITÀ

La preghiera, una relazione

All’interno di ogni tradizione religiosa la preghiera, nelle sue forme e nei suoi modi, appare essere direttamente connessa al volto del Dio che essa intende raggiungere. E il Dio della rivelazione biblica è il Dio vivente che non sta al termine di un nostro ragionamento, ma…

All’interno di ogni tradizione religiosa la preghiera, nelle sue forme e nei suoi modi, appare essere direttamente connessa al volto del Dio che essa intende raggiungere. E il Dio della rivelazione biblica è il Dio vivente che non sta al termine di un nostro ragionamento, ma nella libertà amorosa dei suoi atti, dei suoi interventi che lo mostrano essere egli stesso alla ricerca dell’uomo. È pertanto vero che, lungi dall’essere il frutto del naturale senso di autotrascendenza dell’uomo o l’esito del suo innato senso religioso, la preghiera cristiana, che contesta ogni autosufficienza antropocentrica, appare come risposta dell’uomo alla decisione gratuita e prioritaria di Dio di entrare in relazione con l’uomo. È Dio che, secondo tutte le pagine bibliche, cerca, interroga, chiama l’uomo, il quale è condotto dall’ascolto alla fede, e nella fede reagisce attraverso il rendimento di grazie (benedizione, lode ecc.) e la domanda (invocazione, supplica, intercessione ecc.), cioè attraverso la preghiera sintetizzata nei suoi due momenti fondamentali. La preghiera è dunque oratio fidei (Giacomo 5, 15), eloquenza della fede, espressione dell’adesione personale al Signore.
Al tempo stesso la rivelazione biblica attesta anche la dimensione della preghiera come ricerca di Dio fatta dall’uomo: ricerca come spazio che l’uomo predispone allo svelarsi, che resta libero e sovrano, di Dio a lui; ricerca come apertura dell’uomo all’evento dell’incontro in vista della comunione; ricerca come affermazione dell’alterità di Dio stesso rispetto all’uomo, come segno del fatto che egli non può essere posseduto dall’uomo anche quando dall’uomo è conosciuto; ricerca come elemento costitutivo della dialettica dell’amore, della relazione di dialogicità centrale nella preghiera. Se la preghiera cristiana è risposta al Dio che ci ha parlato per primo, essa è anche invocazione e ricerca del Dio che si nasconde, che tace, che cela la sua presenza. La dialettica amorosa presente nel Cantico dei Cantici, il gioco di nascondimento e scoperta, di desiderio e ricerca tra amante e amata può applicarsi anche alla preghiera. I Salmi lo mostrano: «o Dio, dall’aurora io ti cerco, la mia anima ha sete di te, mio Dio [...] ti parlo nelle veglie notturne, [...] il mio essere aderisce a te, la tua destra mi abbraccia e mi sostiene» (Salmo 63). E il dialogo amoroso presente nel Cantico è in fondo la realtà a cui la Scrittura vuole condurre l’uomo nel suo rapporto con Dio. È forse questa dimensione relazionale ciò che meglio esprime il proprium della preghiera cristiana, preghiera che si immette e vive all’interno della relazione di alleanza stabilita da Dio con l’uomo.
Posta questa fondamentale premessa, possiamo dire che, se la vita è adattamento all’ambiente, la preghiera, che è vita spirituale in atto, è adattamento al nostro ambiente vitale ultimo che è la realtà di Dio in cui tutto e tutti sono contenuti. Essenziale, come disposizione fondamentale della preghiera cristiana, è l’accettazione e la confessione della propria debolezza. Esemplare è l’atteggiamento del pubblicano della parabola evangelica (Luca 18,9-14) che prega presentandosi a Dio così com’è in realtà, senza menzogne e senza maschere, senza ipocrisie e senza idealizzazioni, e accettando come propria verità quello che Dio pensa di lui, lo sguardo di Dio su di lui. Solo chi è capace di un atteggiamento realistico, povero e umile, può stare davanti a Dio accettando di essere conosciuto da Dio per ciò che egli è veramente. Del resto ciò che davvero è importante è la conoscenza che Dio ha di noi, mentre noi ci conosciamo solo in modo imperfetto (cfr. 1 Corinti 13,12; Galati 4,9). Base di partenza per la preghiera è allora la confessione della nostra incapacità di pregare: «Noi non sappiamo cosa domandare per pregare come si deve, ma lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza e intercede per noi con gemiti inesprimibili» (Romani 8,26). Da questa confessione scaturisce l’apertura all’accoglienza della vita di Dio in noi. La preghiera porta il soggetto a decentrarsi dal proprio «io» per vivere sempre più della vita di Cristo in lui, per vivere sotto la guida dello Spirito, per vivere da figlio nei confronti del Padre. Questo decentramento non ha nulla a che vedere con il «far il vuoto in se stessi» che scimmiotta atteggiamenti spirituali afferenti ad altre tradizioni culturali e religiose. È un decentramento finalizzato all’agape, all’amore. Infatti il fine della preghiera cristiana, che la distingue anche dalle forme di meditazione e dalle tecniche di ascesi o di concentrazione diffuse nelle religioni orientali, è la carità, l’uscita da sé per l’incontro con la persona vivente di Gesù Cristo e per pervenire ad amare gli uomini «come lui ci ha amati». Questa relazionalità, che è riflesso della vita del Dio trinitario e che abbraccia tanto Dio quanto gli altri uomini, è dunque il contrassegno fondamentale della preghiera cristiana.

La protezione della Madre di Dio Theothokos

La protezione della Madre di Dio Theothokos dans immagini sacre 1001BProtection

http://oca.org/saints/lives/2014/10/01/102824-the-protection-of-our-most-holy-lady-the-mother-of-god-and-ever

Publié dans:immagini sacre |on 10 septembre, 2014 |Pas de commentaires »
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