Archive pour septembre, 2014

21 SETTEMBRE 2014 | 25A DOMENICA A – LECTIO DIVINA : MT 20,1-16

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21 SETTEMBRE 2014 | 25A DOMENICA A – T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

LECTIO DIVINA : MT 20,1-16

Ordinariamente coloro che non credono in Dio, atei o agnostici, non trovano molta difficoltà a relazionarsi con Lui: semplicemente non lo fanno. È a noi che crediamo – curioso – ci risulta più penoso affermare l’esistenza di Dio e la sua bontà, non potendo negare la realtà del male ed il trionfo dell’ingiustizia. Credere in Dio non risulta facile al credente. Ma la cosa peggiore è che le difficoltà più comuni ce li creiamo noi stessi, o perché ci immaginiamo che Dio è come lo vogliamo o perché non ci impegniamo a non accettarlo come Lui è. Sarebbe più logico smettere di credere in Dio che continuare a crearci un Dio a nostra immagine e misura: più facile sarebbe che pensassimo che Dio non esista piuttosto di immaginarcelo come deve essere. L’avvertenza ce l’ha fatta Gesù nel vangelo; converrebbe prenderla sul serio.
1″ Il regno dei cieli somiglia ad un proprietario che all’alba uscì ad assumere braccianti per la sua vigna. 2Dopo essersi accordato con essi per un denaro a giornata, li mandò nella vigna.
3 Uscì un’altra volta verso le nove del mattino, ne vide ad altri che stavano nella piazza senza lavoro, 4e disse loro: « Andate anche voi nella mia vigna, e vi pagherò il dovuto. »
5 Essi andarono.
Uscì di nuovo verso mezzogiorno ed a metà pomeriggio e fece la stessa cosa. 6Uscì verso sera e ne trovò altri, oziosi, e disse loro: « Come è che state qui tutto il giorno senza lavorare? »
7 Gli risposero:
« Nessuno ci ha contrattati. » Egli disse loro: « Andate anche voi nella mia vigna. »
8 Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore:
« Chiama i braccianti e paga loro la giornata, incominciando dagli ultimi e finendo coi primi. »
9 Vennero quelli dall’imbrunire e ricevettero ciascuno un denaro.
10 Quando arrivarono i primi, pensavano che avrebbero ricevuto di più, ma anche essi ricevettero un denaro per ognuno. 11Allora si misero a protestare contro il padrone:
12″Questi ultimi hanno lavorato solo un’ora, e li hai trattati come noi che abbiamo sopportato il peso del giorno e l’afa. »
13 Egli replicò ad uno di essi:
« Amico, non ti faccio nessuna ingiustizia. Non ci siamo accordati per un denaro? 14Prendi il tuo e vattene. Io voglio dare a quest’ultimo come a te.
15 Non sono libero di fare quello che voglio delle mie cose? 0 tu hai invidia perché io sono buono? »
16 Così, gli ultimi saranno i primi ed i primi gli ultimi. »
1. LEGGERE : capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
Con questa parabola che ha i suoi discepoli come unici destinatari, Gesù chiude un’istruzione sulla sequela e la sua ricompensa (Mt 19,16-30). Pietro aveva domandato che cosa dovevano sperare coloro che avevano lasciato tutto per seguirlo (Mt 19,27). Dopo avere promesso loro il centuplo di quello che avevano abbandonato e la vita eterna, Gesù concluse con una frase enigmatica, la stessa con la quale chiuderà dopo la parabola: i primi saranno ultimi, e gli ultimi i primi. Questa sorprendente affermazione è la chiave per trovare il senso della parabola.
Nell’immagine della vigna gli uditori di Gesù poterono riconoscere facilmente un’allusione al popolo di Dio (Is 5,1-7). Ma la parabola non tratta di una vigna, bensì del suo proprietario; egli è il protagonista assoluto del racconto. Al narratore non gli interessano le attenzioni che riceve la vigna, bensì l’impegno del suo padrone nel lavorarla: la vigna è il posto dove invia i suoi salariati. In realtà, la narrazione è un dialogo tra il padrone della vigna e gli operai che sono inviati da lui, nella cornice di una giornata di lavoro. Il comportamento del proprietario sembra, ma non è, logico: esce a tutte le ore cercando operai; finché ha la sua vigna da lavorare, non può permettere pigri seduti nelle piazze. Bisogna notare che solo coi primi operai, quelli che lavorarono dall’alba, il padrone strinse un accordo per la giornata. Che incominci a pagare gli ultimi e conceda loro lo stipendio dei primi potrebbe essere una rarità; si trasforma in evidente ‘ingiustizia’, quando tutti ricevono la stessa paga. Il padrone è ‘giusto’ coi primi e ‘buono’ con gli ultimi. Chi non lo capisce e non gli mancano buone ragioni per non comprenderlo è invidioso della generosità del padrone. La disuguaglianza nel trattamento dei suoi braccianti scopre che il signore della vigna paga non secondo lo sforzo ma bensì perché tutti hanno lavorato, poco o molto, nella sua vigna. Il Dio di Gesù non soddisfa chi spera di più perché ha lavorato di più. La sua libertà e la sua bontà si manifestano quando paga allo stesso modo chiunque sia stato inviato da lui a lavorare nella sua vigna. Non è il lavoro, dunque, bensì l’obbedienza alla missione quello che conta per lui. Per questo motivo, non c’è preferenza coi primi: gli ultimi operai avranno identico salario.
2 – MEDITARE : Applicare quello che dice il testo alla vita
Parlando ai suoi discepoli del regno di Dio, Gesù propose loro il sorprendente comportamento del proprietario di una vigna che invitò a lavorarla per un giorno chiunque trovò ozioso, e che pagò a tutti i braccianti di quel giorno lo stesso salario, senza considerare che non tutti avevano lavorato lo stesso tempo. La parabola dei braccianti spiega una delle leggi, tanto insolita come ‘ingiusta’, del comportamento di Dio. Come il proprietario che passa il giorno assumendo braccianti, Dio non smette di invitare perché si lavori nel suo regno finché dura il giorno. Non contratta nessuno promettendo il salario dovuto, perché è ovvio che lo pagherà. Ma è provocante che non tenga in conto la durezza del lavoro dei primi e la scarsità di sforzi degli ultimi: stima di più che abbiano risposto al suo invito che il lavo. Oltre ad ingiusta, la sua decisione è di cattivo gusto; e la protesta dei primi è più che logica.
Nell’atteggiamento inusuale del proprietario sta il messaggio della parabola: se Dio vuole essere buono con tutti, non valgono né privilegi né meriti alla sua presenza; che dia a tutti allo stesso modo non può essere giusto, ma è buono, precisamente perché glielo dà a chi meno lo merita. Davanti al Dio di Gesù chi si crede con dei diritti, si vedrà confuso, ‘picchiato.’ Dio non è giusto per essere buono con pochi: è buono con tutti, perché concede i suoi doni senza fare attenzione allo sforzo. Fare obiezioni al suo comportamento implicherebbe circoscrivere la sua bontà. Bisognerà accettare Dio come Egli vuole essere.
Potrebbe sembrarci bene che un atteggiamento tanto insolito sia solo un racconto, un’altra parabola di Gesù: nessuno di noi smette di vedere la tremenda ingiustizia che sarebbe il trattare allo stesso modo tutti i lavoratori. E, tuttavia, Gesù arrivò a paragonare l’estraneo comportamento del vignaiolo col regno di Dio, con la sovrana forma di regnare di Dio, col modo inappellabile di agire del Dio di Gesù. E, oggi, il vangelo ci fa notare che possiamo perdere Dio ed i doni della sua bontà se, come i braccianti della prima ora, facciamo obiezioni alla sua forma di esserlo con noi.
Nel proprietario che passa tutto il giorno assumendo operai per la sua vigna, dovremmo scoprire l’impegno del nostro Dio affinché nessuno rimanga pigro nel suo regno. Preoccupato affinché non ci siano disoccupati, esce continuamente, mentre dura il sole, a cercare nuovi operai. Ha tanto interesse perché si lavori nella sua proprietà che non si ferma finché il giorno continua a trascorrere ed il tempo per lavorare diminuisce: il non essere stato contrattato non è una scusa per non essere invitato a lavorare. Tutti coloro che incontrano il padrone della vigna trovano un posto di lavoro: se Dio ed il suo regno non occupano il nostro cuore, e le mani, se i suoi interessi non ci rendono operosi né ci preoccupano, non sarà perché ancora, e nonostante tanti anni di vita cristiana, Dio non è padrone del nostro cuore? Perché non si potrà dire che serve Dio colui il quale non si occupa delle cose di Dio né lascia che gli occupino il cuore: chi rimane pigro tutto il giorno non sarà mai operaio di Dio. Chi non fa niente per Dio, non può sognare di essere ricompensato. Solamente lavorando per Dio, e nel suo regno, potremo essere riconosciuti da lui come i suoi servi.
Se Dio e le sue cose non ci danno nessun lavoro, non sarà perché non abbiamo seguito ancora il suo invito a lavorare nella sua vigna? Perché, benché fuori, dovremmo pensare che al nostro Dio non gli importa tanto che abbiamo ritardato la nostra incorporazione al lavoro, quanto che continuiamo a rimanere molto pigri con il molto lavoro che c’è da fare. Nel regno di Dio l’importante non è avere incominciato a lavorare dall’inizio, bensì riuscire ad essere inviato al lavoro; e, come nella parabola, Dio invita a lavorare tutti quelli che vede pigri.
Le attenzioni di Dio li ottiene, come il lavoro ed il salario, chi è stato lì dove lo volle il suo signore e dal momento in cui fu invitato. Finché Dio ci trova oziosi e spensierati, non riusciremo ad accettare le sue attenzioni. E non perché Egli non ci vuole, o non abbia maggiore interesse per noi, bensì perché non stiamo lì dove egli ci vuole vedere, né facciamo quello che spera da noi: lavorare nella sua vigna, seguendo il suo invito, trasformerebbe ognuno di noi in oggetto delle sue preoccupazioni. Difficilmente potremo sentire che Dio si preoccupa di noi, se ci disinteressiamo di quello che gli preoccupa.
Ma non basta lavorare per Dio per ottenere un salario dovuto. Bisognerà accettare che Dio lo dia come Lui vuole, senza imporgli condizioni né immaginare comportamenti dovuti. Nella parabola è provocante che il signore paghi tutti i suoi operai un identico salario, quello che aveva stabilito coi primi, senza tenere conto del maggiore sforzo e della fatica maggiore di questi; stima di più che tutti abbiano risposto al suo invito che il tempo trascorso a lavorare. La sua decisione può sembrarci di cattivo gusto, oltre ad essere un’evidente ingiustizia. Sicuro che se fossimo stati tra i primi, anche noi avremmo protestato!.
Questo comportamento del Dio di Gesù non risulta facile da accettare: non è bene, almeno ci sembra, che chi lavorò meno riceva lo stesso salario di colui che lavorò di più. E, tuttavia, come il padrone della vigna, Dio non fa torto a chi lavorò tutto il sacro giorno dandogli il salario stipulato, ma preferisce essere buono anche con chi lavorò di meno. Per premiare chiunque lavori per Lui, nel suo regno, può non sembrare giusto, poiché non tutti lavorarono sopportando le stesse fatiche; ma, dando a tutti lo stesso salario, anche a coloro che arrivarono ultimi, si mostra incomparabilmente buono, molto di più di quello che noi avremmo potuto pensare e, certamente, migliore di quanto, gli uni e gli altri, ci meritiamo.
Per incredibile che ci sembri, una delle maggiori difficoltà che troviamo noi veri credenti per credere in Dio, è quello della sua bontà inaspettata. Precisamente perché è migliore di quello che pensiamo, smettiamo di pensare a Dio e non lavoriamo nel suo regno. Può sembrare impossibile, ma è così. Se non stima lo sforzo, per quale motivo tanta fatica? Se dà a tutti lo stesso salario, perché essere primi nel suo servizio? Davanti al Dio di Gesù chi si crede con dei diritti chi si appoggia sui propri meriti, ipotetici o reali, si vedrà confuso, e perfino ‘trattato male’. Dio che come il padrone della vigna dà il salario di una giornata intera a chi non ha lavorato tutta la giornata, non è buono perché è giusto con i pochi, quelli che lavorarono di più. Piuttosto, passa per ingiusto con alcuni per potere essere buono con tutti. Chi facesse obiezioni al comportamento di un Dio tanto buono starebbe rischiando di perderlo. I buoni credenti, sfortunatamente, siamo quelli che meno crediamo nella bontà senza misura, l’amore senza ragione, del nostro Dio. Per non sopportare che sia tanto buono con quelli che non lo sono stato con noi, corriamo il rischio di perdere Dio e la sua bontà per sempre.
Certo, ha i suoi vantaggi, evidentemente, avere un Dio così. Non sarà necessario essere della prima ora, sforzarsi di più, avere lavorato sempre, per il suo regno, per ricevere lo stesso salario di quanti lo fecero prima. Così Dio consola quanti, come noi, non ci siamo messi a lavorare sul serio ancora per Lui o ci mettemmo a farlo con ritardo. Decisivo non è quello che facciamo noi per Lui, quanto quello che Egli vuole fare per noi: incominciamo quanto prima a lavorare nel suo regno, e speriamo di ricevere quella ricompensa che non meriteremo mai del tutto.

JUAN JOSE BARTOLOME sdb

Icon of Holy Communion – « Receive ye the Body of Christ; taste the Fountain of Immortality ».

Receive ye the Body of Christ

 
http://en.wikipedia.org/wiki/Eastern_Orthodox_Church

Publié dans:immagini sacre |on 18 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

IL SIGNIFICATO ULTRATEMPORALE E ULTRAMONDANO DELLA CROCE – Ireneo di Lione

http://www.clerus.org/clerus/dati/1999-03/16-2/LaCroceneiPadridellaChiesa.rtf.html

IL SIGNIFICATO ULTRATEMPORALE E ULTRAMONDANO DELLA CROCE

Ireneo di Lione, Dimostrazione della predicazione apostolica, 31-34

Alla fine di questo secolo Gesù Cristo si sarebbe manifestato al mondo intero come uomo, egli che è il Verbo di Dio che in sé ricapitola tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra. Egli unì dunque l’uomo con Dio operò l’unione di Dio con l’uomo; noi uomini non avremmo potuto in alcun modo partecipare all’incorruttibilità se egli non fosse venuto tra noi. Infatti, se l’incorruttibilità fosse rimasta invisibile ed occulta, non ci sarebbe stata di utilità alcuna. Perciò egli si fece visibile, affinché ricevessimo la partecipazione, in ogni senso, a questa incorruttibilità. E perché nella prima creatura, Adamo, noi tutti eravamo stati incatenati alla morte per la disobbedienza, fu necessario che i lacci di morte venissero rotti dall’obbedienza di colui che per noi si era fatto uomo. La morte aveva regnato sulla carne; per mezzo della carne bisognava che essa venisse perciò abolita, e l’uomo venisse liberato dalla sua schiavitù. Per questo, il Verbo si fece carne, affinché il peccato fosse abolito per mezzo della carne – grazie alla quale aveva ottenuto potere, diritto di possesso e dominio – e più non dimorasse in noi. Per questo, il Signore assunse una « corporeità » identica a quella della prima creatura, per combattere in maniera ravvicinata in favore dei padri, e vincere in Adamo colui che in Adamo ci aveva colpiti.
Ora da dove procede la sostanza della prima creatura? Dalla volontà, dalla sapienza di Dio e da una terra vergine, perché Dio non aveva ancora fatto piovere, dice la Scrittura, prima che l’uomo fosse stato fatto, e non vi era nessuno che lavorasse la terra (Gen. 2, 5). Dunque, da questa terra, mentre era ancora vergine, Dio prese del fango e ne plasmò l’uomo, capostipite della nostra umanità. Ricapitolando in sé quest’uomo, il Signore assunse la stessa economia della sua « corporeità », nascendo da una Vergine per volontà e sapienza di Dio. Mostrò così l’identità della sua « corporeità » con quella di Adamo e divenne quello ch’era stato descritto all’inizio, cioè l’uomo fatto ad immagine e somiglianza di Dio (Gen. 1, 26).
Come per l’opera di una vergine che aveva disobbedito l’uomo fu ferito, cadde e morì, così per l’opera di una vergine che ha obbedito alla parola di Dio l’uomo è stato rianimato, e dalla Vita ha ricevuto la vita. Il Signore è venuto a cercare la pecorella smarrita, ed era l’uomo che s’era perduto; e se egli non ha assunto una qualunque altra carne umana diversamente plasmata, ma per mezzo di questa stessa Vergine che era della razza di Adamo, ha voluto mantenere la somiglianza con questa nostra carne plasmata, tutto ciò è avvenuto per uno scopo ben preciso: perché Adamo venisse ricapitolato nel Cristo – e così ciò che era mortale venisse assorbito e inghiottito dall’immortalità – ed Eva venisse ricapitolata in Maria e così una Vergine, divenendo l’avvocata di un’altra vergine, distruggesse e cancellasse la disobbedienza di quella vergine con la sua obbedienza verginale. Il peccato ch’era stato commesso per mezzo di un legno, fu distrutto per mezzo dell’obbedienza patita sul legno conformemente alla quale il Figlio dell’uomo, in obbedienza a Dio ` fu inchiodato sul legno: distrusse in tal modo la scienza del male e rivelò e comunicò la scienza del bene. Il male è appunto disobbedire a Dio mentre il bene è obbedirgli.
Per questo il Verbo disse per bocca di Isaia profeta, che preannunciava il futuro – erano profeti appunto perché annunciavano il futuro — il Verbo, ripeto, così disse: Io non mi rifiuto, né contesto; ho presentato le mie spalle alle percosse e le mie guance agli schiaffi; non ho sottratto il mio volto all’ignominia degli sputi (Is. 50, 6). Dunque, per quell’obbedienza cui si è sottomesso inchiodato fino alla morte sul legno, egli ha distrutto l’antica disobbedienza commessa per il legno.
E poiché è il Verbo di Dio, anche lui onnipotente, che per la sua natura invisibile è presente tra noi in questo universo che egli abbraccia in tutta la sua lunghezza e larghezza, altezza e profondità – infatti, è per opera del Verbo di Dio che tutte le cose quaggiù sono state disposte e strutturate – per questo la crocifissione del Figlio di Dio si è compiuta anche lungo tutt’e quattro queste dimensioni, quando egli ha tracciato sull’universo il segno della sua croce. Infatti, col suo farsi visibile, ha dovuto rendere visibile la partecipazione di questo nostro universo alla sua crocifissione, per mostrare, con la sua forma visibile, l’azione che egli esercita sull’universo visibile: che egli cioè illumina l’altezza cioè tutto ciò che è nel cielo, che contiene la profondità, cioè quanto esiste nelle viscere della terra, che estende la sua lunghezza da oriente a occidente, che governa come nocchiero la regione di Arturo e la larghezza del Mezzogiorno, chiamando d’ogni parte coloro che sono dispersi, alla conoscenza del Padre. 

Publié dans:Padri della Chiesa e Dottori |on 18 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

NON È RISORTO, SI È INNALZATO – DI GIANFRANCO RAVASI

http://blog.messainlatino.it/2010/05/la-risurrezione-lascensione-e-mons.html

NON È RISORTO, SI È INNALZATO

DI GIANFRANCO RAVASI

Un fatto che si radica nella storia, ma che va letto con categorie teologiche

L’immagine di un Cristo sfolgorante di luce che si libra sul sepolcro, dopo averne scardinato la pietra tombale, non è evangelica ma è attinta solo ai primi testi cristiani apocrifi. Forse una frase come questa suona eterodossa ed « ereticale » agli orecchi di non pochi nostri lettori che negli occhi hanno la possente fisicità della Risurrezione di Cristo che Piero della Francesca dipinse nel 1463 nella sala dell’antico palazzo comunale del suo paese natale, Borgo Sansepolcro. E, invece, la frase è ineccepibile ed è proprio da questa reticenza descrittiva dei Vangeli canonici che vorremmo avviarci per una riflessione sulla Pasqua, evento e articolo di fede centrale del cristianesimo.
Partiamo, allora, da quell’alba ancora incerta di una primavera tra il 30 e il 33. Tre sono gli elementi registrati dal racconto evangelico. Ecco innanzitutto farsi avanti un gruppo di donne, seguaci di Gesù. Siamo di fronte a un dato storico incontrovertibile: essendo, secondo il diritto semitico, le donne inabilitate alla testimonianza valida, giuridica o storica, gli evangelisti non avrebbero mai « inventato » una simile attestazione, affidata a persone « incapaci » di testimoniare, se essa non fosse stata nella nuda e semplice realtà dei fatti. Veniamo, così, al secondo dato: la pietra che sigillava l’apertura della tomba – secondo la rilevazione attestata da quelle donne – giace ribaltata. L’evangelista Giovanni aggiunge una nota ulteriore sull’interno di quel sepolcro così come appare a un testo successivo, Pietro: « Vide le bende per terra e il sudario, che era stato posto sul capo di Gesù, non per terra con le bende ma piegato in un luogo a parte » (20, 6-7). Dunque, una tomba vuota che conserva le tracce di un morto ormai non più presente.
Ecco, infine, il terzo elemento narrato dai Vangeli, una teofania, cioè un’esperienza trascendente, rappresentata da una figura angelica che proclama le stesse parole del successivo Credo cristiano: « È risorto! ». Una formula che ha lo scopo di spiegare quella tomba vuota. Siamo, a questo punto, nel cuore del problema che suscita un grappolo di domande alle quali potremo dare ovviamente solo un abbozzo di risposta (biblioteche intere di storiografia, esegesi e teologia lo hanno già fatto in modo ben più sistematico). Che senso ha l’espressione « risorto dai morti »? La formula « risurrezione di Cristo » usata dai Vangeli e dalla tradizione cristiana comprende un evento storico o è solo una categoria ermeneutica, cioè un’interpretazione teologica di una realtà trascendente? E il termine « risurrezione » è l’unico usato per descrivere la Pasqua di Cristo?
Innanzitutto sottolineiamo che per il Nuovo Testamento la misteriosa vicenda finale di Cristo non può essere ricondotta alla rianimazione pura e semplice di un cadavere, come quelle compiute da Gesù nei confronti di Lazzaro (Giovanni 11) e del figlio della vedova di Nain (Luca 7, 11-17). Ora, noi siamo di fronte a un evento che ha contorni verificabili storicamente (la tomba vuota, i lini abbandonati, la testimonianza delle donne) ma il cui nucleo è trascendente. C’è, dunque, anche il ritorno alla vita di Gesù morto, ma ciò che accade in quell’atto, non descritto dai Vangeli, è – per usare un’immagine di Gesù – simile a quanto avviene al seme o al lievito. Si ha una trasformazione che va oltre il corpo di Gesù e incide su tutto l’essere e sulla storia. Nella lettura evangelica di quell’evento la divinità, la trascendenza, l’eterno e l’infinito, attraverso Cristo, Figlio di Dio, sono penetrati nella realtà intera dell’umanità e nell’essere cosmico trasfigurandoli; è un’irradiazione che feconda di eternità il nostro tempo.
Ora, per esprimere questo evento che incide nella storia in modo non solo episodico ma radicale, il Nuovo Testamento è ricorso a due linguaggi che cercano di esprimere ciò che è di sua natura un « mistero », ossia una realtà trascendente e superiore all’orizzonte umano. Il primo è quello della risurrezione, un linguaggio già noto all’Antico Testamento: basterebbe leggere il capitolo 37 di Ezechiele ove, in una visione surreale, il profeta descrive lo Spirito creatore di Dio che ritesse su una distesa di scheletri la carne della vita, dando origine a un immenso popolo vivente. Il Nuovo Testamento esprime la « risurrezione » con il verbo eghéirein, « risvegliare » dalla morte, simbolicamente inteso come un sonno, oppure con il verbo anístemi, « levarsi, sorgere in piedi ». Dietro il velo del linguaggio simbolico si vuole le indicare che Gesù come uomo passa attraverso il segno radicale dell’umanità, la morte, « risvegliandosi » alla vita divina che gli appartiene e che ora pervade il morire, vincendolo.
C’è, però, un altro linguaggio, caro a Giovanni, a Luca e a Paolo che è definito di esaltazione o glorificazione ed è espresso con il verbo greco hypsoùn, « innalzare elevare », e con immagini di ascensione verso l’alto. Basterebbe citare tre frammenti giovannei: « Come Mosè innalzò nel deserto il serpente, cosi bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo… Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono [Nome Divino]… Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me » (3, 14; 8, 28; 12, 32). Oppure basterebbe rievocare il racconto dell’ascensione al cielo ribadito da Luca nella finale del suo Vangelo (24, 50-53) e in apertura alla sua seconda opera, gli Atti degli Apostoli (1, 6-12). Il senso del linguaggio è chiaro. Con la « risurrezione » si affermava la continuità tra il Gesù storico e il Cristo risorto; con l’ « esaltazione » si celebra la gloria divina del Risorto e la novità del suo status. Venendo in mezzo a noi, Gesù è divenuto in tutto simile a noi; con la morte egli conclude la sua parabola storica, ma è « esaltato », cioè rientra nel mondo divino a cui appartiene come Figlio di Dio, attirando a sé quell’umanità che egli aveva assunto incarnandosi e morendo per condurla alla gloria. Questo è nitidamente dichiarato nell’inno che Paolo incastona nella sua Lettera ai Filippesi (2, 6-11): « Cristo, pur essendo di natura divina, spogliò se stesso assumendo la condizione di servo (…), facendosi obbediente sino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio lo ho esaltato e gli ha dato un nome che è sopra ogni altro nome (…) Così che nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra ».
L’ascensione-esaltazione-innalzamento non è, quindi, da concepire in termini materialistici o « astronautici », ma secondo categorie metafisiche e teologiche: fra l’altro, in tutte le culture il cielo è l’area della divinità perché trascende l’orizzonte terreno, è il simbolo della superiorità e diversità di Dio rispetto all’uomo. Quanto accade nella risurrezione di Cristo è, dunque, un evento complesso, accuratamente rappresentato dai Vangeli. È un evento che si radica nel tempo e nello spazio, è cioè nella morte e in una tomba, e che perciò ammette una verificabilità storica; ma esso fiorisce nell’eterno e nel divino, ed è per questo che esige un’analisi nella fede e nella teologia. Nella sua sostanza la Pasqua di Cristo è una realtà trascendente e, come tale supera la pura verifica storica. Ma ha una risonanza efficace anche nella storia e nello spazio ove rimangono tracce e segni, per cui ha una sua legittimità anche un’investigazione di taglio storiografico. Ora comprendiamo perché gli evangelisti si sono rifiutati di ridurre quello che avviene al sepolcro di Cristo’ entro i confini di una rianimazione di cadavere e siano invece ricorsi a linguaggi più profondi e simbolici.
Nelle sue Lettere di Nicodemo (1951) lo scrittore polacco cattolico Jan Dobraczynski, morto nel 1994, fa una considerazione che potremmo porre a suggello del nostro particolarissimo e limitato itinerario nell’orizzonte pasquail cristiano: « Vi sono misteri nei quali bisogna avere il coraggio di gettarsi, per toccare il fondo, come ci gettiamo nell’acqua certi che essa si aprirà sotto di noi. Non ti è mai parso che vi siano delle cose alle quali bisogna prima credere per poterle capire? ». I racconti evangelici pasquali sono prima di tutto testi di fede e, proprio per questa via, aprono la ricerca di una comprensione che sia anche razionale e storica. Il credere e il comprendere s’intrecciano in modo complesso e delicato e costituiscono la struttura fondamentale della teologia cristiana. Un filosofo, il gesuita Xavier Tilliette nella sua opera la Settimana Santa dei filosofi (1922), scriveva che « la filosofia deve attestarsi alla soglia delle apparizioni pasquali, al sabato santo. Essa non deve testimoniare la Gloria. Occorre mantenere castamente la frontiera, diceva il filosofo Schelling ». Certo, la filosofia e la storiografia non possono appropriarsi delle vie della grazia e della fede. Tuttavia questo non impedisce alla fede di agganciarsi alle vie della ragione e alla ragione di guardar oltre le sue frontiere. Scriveva Agostino: « Chiunque crede pensa e pensando crede… La fede se non è pensata è nulla » (De praedestinatione sanctorum 2, 5).

Publié dans:biblica, CAR. GIANFRANCO RAVASI |on 18 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

Cherubino posto a guardia dei giardini dell’Eden, Basilica dell’Assunta, Torcello, XI sec. c.ca

Cherubino posto a guardia dei giardini dell'Eden, Basilica dell'Assunta, Torcello, XI sec. c.ca dans immagini sacre cherubino+torcello

http://wwwbisanzioit.blogspot.it/2012/08/gli-angeli.html

Publié dans:immagini sacre |on 17 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE (17.9.2014)

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2014/documents/papa-francesco_20140917_udienza-generale.html

PAPA FRANCESCO

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 17 settembre 2014

La Chiesa: 6. Cattolica e Apostolica

Cari fratelli e sorelle, buongiorno.

In questa settimana continuiamo a parlare sulla Chiesa. Quando professiamo la nostra fede, noi affermiamo che la Chiesa è “cattolica” e “apostolica”. Ma qual è effettivamente il significato di queste due parole, di queste due note caratteristiche della Chiesa? E che valore hanno per le comunità cristiane e per ciascuno di noi?
1. Cattolica significa universale. Una definizione completa e chiara ci è offerta da uno dei Padri della Chiesa dei primi secoli, san Cirillo di Gerusalemme, quando afferma: «La Chiesa senza dubbio è detta cattolica, cioè universale, per il fatto che è diffusa ovunque dall’uno all’altro dei confini della terra; e perché universalmente e senza defezione insegna tutte le verità che devono giungere a conoscenza degli uomini, sia riguardo alle cose celesti, che alle terrestri» (Catechesi XVIII, 23).
Segno evidente della cattolicità della Chiesa è che essa parla tutte le lingue. E questo non è altro che l’effetto della Pentecoste (cfr At 2,1-13): è lo Spirito Santo, infatti, che ha messo in grado gli Apostoli e la Chiesa intera di far risuonare a tutti, fino ai confini della terra, la Bella Notizia della salvezza e dell’amore di Dio. Così la Chiesa è nata cattolica, cioè “sinfonica” fin dalle origini, e non può che essere cattolica, proiettata all’evangelizzazione e all’incontro con tutti. La Parola di Dio oggi si legge in tutte le lingue, tutti hanno il Vangelo nella propria lingua, per leggerlo. E torno sullo stesso concetto: è sempre buono prendere con noi un Vangelo piccolo, per portarlo in tasca, nella borsa e durante la giornata leggerne un passo. Questo ci fa bene. Il Vangelo è diffuso in tutte le lingue perché la Chiesa, l’annuncio di Gesù Cristo Redentore, è in tutto il mondo. E per questo si dice la Chiesa è cattolica, perché è universale.
2. Se la Chiesa è nata cattolica, vuol dire che è nata «in uscita», che è nata missionaria. Se gli Apostoli fossero rimasti lì nel cenacolo, senza uscire a portare il Vangelo, la Chiesa sarebbe soltanto la Chiesa di quel popolo, di quella città, di quel cenacolo. Ma tutti sono usciti per il mondo, dal momento della nascita della Chiesa, dal momento che è disceso su di loro lo Spirito Santo. E per questo la Chiesa è nata “in uscita”, cioè missionaria. È quello che esprimiamo qualificandola apostolica, perché l’apostolo è quello che porta la buona notizia della Risurrezione di Gesù. Questo termine ci ricorda che la Chiesa, sul fondamento degli Apostoli e in continuità con essi – sono gli Apostoli che sono andati e hanno fondato nuove chiese, hanno costituito nuovi vescovi e così in tutto il mondo, in continuità. Oggi tutti noi siamo in continuità con quel gruppo di Apostoli che ha ricevuto lo Spirito Santo e poi è andato in “uscita”, a predicare -, è inviato a portare a tutti gli uomini questo annuncio del Vangelo, accompagnandolo con i segni della tenerezza e della potenza di Dio. Anche questo deriva dall’evento della Pentecoste: è lo Spirito Santo, infatti, a superare ogni resistenza, a vincere la tentazione di chiudersi in sé stessi, tra pochi eletti, e di considerarsi gli unici destinatari della benedizione di Dio. Se ad esempio alcuni cristiani fanno questo e dicono: “Noi siamo gli eletti, solo noi”, alla fine muoiono. Muoiono prima nell’anima, poi moriranno nel corpo, perché non hanno vita, non sono capaci di generare vita, altra gente, altri popoli: non sono apostolici. Ed è proprio lo Spirito a condurci incontro ai fratelli, anche a quelli più distanti in ogni senso, perché possano condividere con noi l’amore, la pace, la gioia che il Signore Risorto ci ha lasciato in dono.
3. Che cosa comporta, per le nostre comunità e per ciascuno di noi, far parte di una Chiesa che è cattolica e apostolica? Anzitutto, significa prendersi a cuore la salvezza di tutta l’umanità, non sentirsi indifferenti o estranei di fronte alla sorte di tanti nostri fratelli, ma aperti e solidali verso di loro. Significa inoltre avere il senso della pienezza, della completezza, dell’armonia della vita cristiana, respingendo sempre le posizioni parziali, unilaterali, che ci chiudono in noi stessi.
Far parte della Chiesa apostolica vuol dire essere consapevoli che la nostra fede è ancorata all’annuncio e alla testimonianza degli stessi Apostoli di Gesù – è ancorata là, è una lunga catena che viene di là –; e perciò sentirsi sempre inviati, sentirsi mandati, in comunione con i successori degli Apostoli, ad annunciare, con il cuore pieno di gioia, Cristo e il suo amore a tutta l’umanità. E qui vorrei ricordare la vita eroica di tanti, tanti missionari e missionarie che hanno lasciato la loro patria per andare ad annunciare il Vangelo in altri Paesi, in altri Continenti. Mi diceva un Cardinale brasiliano che lavora abbastanza in Amazzonia, che quando lui va in un posto, in un paese o in una città dell’Amazzonia, va sempre al cimitero e lì vede le tombe di questi missionari, sacerdoti, fratelli, suore che sono andati a predicare il Vangelo: apostoli. E lui pensa: tutti questi possono essere canonizzati adesso, hanno lasciato tutto per annunciare Gesù Cristo. Rendiamo grazie al Signore perché la nostra Chiesa ha tanti missionari, ha avuto tante missionarie e ne ha bisogno di più ancora! Ringraziamo il Signore di questo. Forse fra tanti giovani, ragazzi e ragazze che sono qui, qualcuno ha voglia di diventare missionario: vada avanti! E’ bello questo, portare il Vangelo di Gesù. Che sia coraggioso e coraggiosa!
Chiediamo allora al Signore di rinnovare in noi il dono del suo Spirito, perché ogni comunità cristiana e ogni battezzato sia espressione della santa madre Chiesa cattolica e apostolica.

Publié dans:catechesi del mercoledì, PAPA FRANCESCO |on 17 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

GLI ANGELI NELLA BIBBIA – DI GIANFRANCO RAVASI

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GLI ANGELI NELLA BIBBIA

DI GIANFRANCO RAVASI

Dalla prima pagina delle Scritture Sacre coi “Cherubini dalla fiamma della spada folgorante”, posti a guardia del giardino dell’Eden (Genesi 3,24), fino alla folla angelica che popola il cielo dell’Apocalisse, tutti i libri della Bibbia sono animati dalla presenza di queste figure sovrumane, ma non divine, che già occhieggiavano nelle religioni circostanti al mondo ebraico e cristiano. Proprio i Cherubini, che saranno destinati a proteggere l’Arca dell’Alleanza (Esodo 25,18-21), sono noti anche nel nome (karibu) all’antica Mesopotamia, simili quasi a sfingi alate, dal volto umano e dal corpo zoomorfo, posti a tutela delle aree sacre templari e regali, mentre i Serafini della vocazione di Isaia (6,1-7), nella loro radi- ce nominale, rimandano a qualcosa di serpentiniforme e ardente.

L’Angelo, “trasparenza” del divino
Ma lasciamo questo intreccio marginale – coltivato, però, con entusiasmo dalle successive tradizioni apocrife e popolari – tra mitologia e angelologia per individuare, in modo sia pure molto semplificato, il vero volto dell’Angelo secondo le Scritture. V’è subito da segnalare un dato statistico: il vocabolo mal’ak, in ebraico “messaggero”, tradotto in greco come ‘Anghelos (donde il nostro “angelo”) risuona nell’Antico Testamento ben 215 volte e diventa persino il nome (o lo pseudonimo) di un profeta, Malachia, che in ebraico significa “angelo del Signore”.
Certo, come prima si diceva a proposito di Cherubini e Serafini, non mancano elementi di un retaggio culturale remoto che la Bibbia ha fatto suoi: la Rivelazione ebraico-cristiana si fa strada nei meandri della storia e nelle coordinate topografiche di una regione appartenente all’antico Vicino Oriente e ne raccoglie echi e spunti tematici e simbolici.
I “figli di Dio”, ad esempio, nella religione cananea, indigena della Palestina, erano dèi inferiori che facevano parte del consiglio della corona della divinità suprema del pantheon, ’El (o in altri casi Ba’al, il dio della fecondità e della vita). Israele declassa questi “figli di Dio”, che qua e là appaiono nei suoi testi sacri (Genesi 6,1-4; Giobbe 1,6 e Salmi 29,1), al rango di Angeli che assistono il Signore, il cui nome sacro, unico e impronunziabile, è JHWH. Anche “il Satana”, cioè 1’avversario (in ebraico è un titolo comune e ha l’articolo), in Giobbe appare come un pubblico ministero angelico della corte divina (1,6-12).
L’Angelo biblico, perciò, conserva tracce divine. Anzi diventa non di rado – soprattutto quando è chiamato mal’ak Jhwh, “Angelo del Signore” – una rappresentazione teofanica, ossia un puro e semplice rivelarsi di Dio in modo indiretto. Come scriveva uno dei più famosi biblisti del Novecento, Gerhard von Rad, “attraverso 1’Angelo è in realtà Dio stesso che appare agli uomini in forma umana”. E’ per questo che talvolta 1’Angelo biblico sembra entrare in una dissolvenza e dal suo volto lievitano i lineamenti del Re celeste che lo invia. Infatti in alcuni racconti l’Angelo e Dio stesso sono intercambiabili.
Nel roveto ardente del Sinai a Mosè appare innanzitutto “l’Angelo del Signore” ma, subito dopo, la narrazione continua così: ”Il Signore vide che Mosè si era avvicinato e Dio lo chiamò dal roveto” (Esodo 3,2.4). Questa stessa identificazione può essere rintracciata nel racconto che vede protagonisti Agar, schiava di Abramo e di Sara, e suo figlio Ismaele dispersi nel deserto (Genesi 16,7.13) in quello del sacrificio di Isacco al monte Moria (Genesi 22,11-17), nella vocazione di Gedeone (Giudici 6,12.14) e così via.
Lasciamo ai nostri lettori più esigenti la verifica all’interno dei passi biblici citati. In questa funzione di “trasparenza” del divino, 1’Angelo può acquistare anche fisionomie umane per rendersi visibile. Così nel capitolo 18 della Genesi – divenuto celebre nella ripresa iconografica di Andrej Rublev – gli Angeli si presentano davanti alla tenda di Abramo come tre viandanti; uno solo di loro annunzia la promessa divina; nel prosieguo del racconto (19,1) diventano “due Angeli”, ritornano poi a essere “tre uomini” per ritrasformarsi in Angeli (19,15), mentre è uno solo a pronunziare le parole decisive per Lot, nipote di Abramo (19,17-22). E’ ancora sotto i tratti di un uomo misterioso che si cela 1’Angelo della lotta notturna di Giacobbe alle sponde del fiume Jabbok (Genesi 32,23- 33), ma il patriarca è convinto di “aver visto Dio faccia a faccia”.
Dobbiamo, allora, interrogarci sul significato di questa personificazione “angelica” di Dio che appare in non poche pagine bibliche come espressione della sua benedizione ma anche del suo giudizio (si pensi all’Angelo sterminatore dei primogeniti egiziani nell’Esodo che il libro della Sapienza reinterpreta come la stessa Parola divina).
Se non leggiamo materialmente o “fondamentalisticamente” (cioè in modo letteralistico) quei passi, ma cerchiamo di coglierne il significato genuino sotto il velo delle modalità espressive, ci accorgiamo che in questi casi l’Angelo biblico racchiude in sé una sintesi dei due tratti fondamentali del volto di Dio. Da un lato, infatti, il Signore è per eccellenza 1’Altro, cioè colui che è diverso e superiore rispetto all’uomo, è – se usiamo il linguaggio teologico – il Trascendente. D’altra parte, però, egli è anche il Vicino, 1’Emmanuele, il Dio – con – noi, presente nella storia dell’uomo. Ora, per impedire che questa vicinanza ‘impolveri’ Dio, lo imprigioni nel mondo come un oggetto sacro, 1’autore biblico ricorre all’Angelo. Egli, pur venendo dall’area divina, entra nel mondo degli uomini, parla e agisce visibilmente come una creatura.
Ma il messaggio che egli porta con sé è sempre divino. In altri termini 1’Angelo è spesso nella Bibbia una personificazione dell’efficace parola di Dio che annunzia e opera salvezza e giudizio. La visione della scala che Giacobbe ha a Betel è in questo senso esemplare: “Gli angeli di Dio salivano e scendevano su una scala che poggiava sulla terra mentre la sua cima raggiungeva il cielo” (Genesi 28,12). L’Angelo raccorda cielo e terra, infinito e finito, eternita e storia, Dio e uomo.
Il volto “ personale” dell’Angelo
Ma gli Angeli sono anche qualcosa di più di una semplice immagine di Dio. E’ necessario, perciò, percorrere altre pagine bibliche. Ebbene, in altri testi antico o neotestamentari gli Angeli appaiono nettamente con una loro entità e identità e non come rappresentazione simbolica dello svelarsi e dell’agire di Dio. E’ necessaria, però, una nota preliminare. Soprattutto nell’Antico Testamento, non si parla mai di “purissimi spiriti” come noi siamo soliti definire gli Angeli, perché per i Semiti era quasi impossibile concepire una creatura in termini solo spirituali, separata dal corpo (Dio stesso è raffigurato antropomorficamente).
Essi, perciò, hanno connotati e fisionomie con tratti concreti e umani. Ed è soprattutto nella letteratura biblica successiva all’esilio babilonese di Israele (dal VI secolo a.C. in poi) che 1’Angelo acquista un’identità propria sempre più spiccata. Evochiamone alcuni desumendoli dalla narrazione biblica. Iniziamo con la storia esemplare di Tobia jr. che parte verso la meta di Ecbatana, ove 1’attenderanno le nozze con Sara, accompagnato da un giovane di nome Azaria. Egli ignora che, sotto le spoglie di questo ebreo che cerca lavoro, si cela un Angelo dal nome emblematico, Raffaele, in ebraico “Dio guarisce”. Egli, infatti, non solo preparerà un filtro magico per esorcizzare il demonio Asmodeo che tiene sotto il suo malefico influsso la promessa sposa di Tobia, Sara, ma anche appronterà una pozione oftalmica per far recuperare la vista a Tobia sr., il vecchio padre accecato da sterco caldo di passero.
Come è facile intuire, il racconto “fine e amabile” di Tobia – secondo la definizione di Lutero che ne raccomandava la lettura alle famiglie cristiane – è percorso da elementi fiabeschi, ma la certezza dell’esistenza di un “Angelo custode” del giusto è indiscussa. discorso finale che egli rivolge ai suoi beneficati nel capitolo 12 del libro di Tobia, al momento dello svelamento, è significativo: Raffaele-Azaria ha introdotto 1’uomo nel segreto del re divino e 1’b rivelato come quello di un Dio d’amore (“quando ero con voi, io non stavo con voi per mia iniziativa, ma per la volontà di DIO” confessa in Tobia 12,18).
L’idea di un Angelo che non lascia solo il povero e il giusto per le strade del mondo, ma gli cammina a fianco è, d’altronde, reiterata nella preghiera dei Salmi: “L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono e li salva (…). Il Signore darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutti i tuoi passi; sulle loro mani ti porteranno perchè non inciampi nella pietra il tuo piede” (Salmi .34, 91,11-12).
Nel libro di Giobbe appare anche 1’Angelo intercessore che placa la giustizia divina educando 1’uomo alla fedeltà e incamminandolo sulle vie della salvezza: “Se 1’uomo incontra un angelo un intercessore tra i mille, che gli sveli il suo dovere, che abbia compassione di lui e implori: Scampalo, Signore, dal discendere nella fossa della morte perchè io gli ho trovato un riscatto!, allo la carne dell’uomo ritroverà la freschezza della giovinezza e tornerà ai giorni dell’adolescenza” (Giobbe 33,23-25).
Un’altra figura angelica “personale” di grande rilievo per entrambi i Testamenti è, con Michele (“chi è come Dio?”), Angelo combattente, Gabriele (“uomo di Dio” o “Dio si è mostrato forte” o “uomo fortissimo”). Nel libro di Daniele egli entra in scena nel funzioni di Angelo “interprete”, perchè consegna e decifra ai fedeli gli enigmi della Rivelazione divina, spesso affidata ai sogni. Si leggano appunto i capitoli 7-12 del libro apocalittico di Daniele, che è mo lto simile a una sciarada storico- simbolica, i cui fili aggrovigliati vengono dipanati da Gabriele, 1’Angelo che – come vedremo – sarà presente anche alla soglia del Nuovo Testamento.
Nella tradizione giudaica, soprattutto in quella della letteratura apocalittica apocrifa dei secoli III-I a.C., egli si affaccia dal cielo per abbracciare con sguardo tutti gli eventi del mondo così da poterne riferire a Dio. E presiede le classi angeliche dei Cherubini e delle Potestà e ha in pratica la gestione dell’intero palazzo celeste. Gli Angeli si moltiplicheranno in particolare nel racconto biblico dell’epoca dei Maccabei, combattenti per la libertà di Israele sotto il regime siro-ellenistico nel II secolo a.C. Questa proliferazione è naturalmente lo specchio di un’epoca storica e della convinzione di combattere una battaglia giusta e santa, avallata da Dio stesso che ne produce 1’esito positivo attraverso la sua armata celeste. Ma v’è anche la netta certezza che 1’Angelo faccia parte delle verità di fede secondo una sua precisa identità e funzione. Così, al ministro siro Eliodoro, che vuole confiscare il tesoro del tempio di Gerusalemme, si fanno incontro prima un cavaliere rivestito d’armatura aurea e poi “due giovani dotati di grande forza splendidi per bellezza e con vesti meravigliose” che lo neutralizzano e lo convincono a riconoscere il primato della volontà divina ( 2Maccabei 3,24-40).
Durante un violento scontro tra Giuda Maccabeo e i Siri “apparvero dal cielo ai nemici cinque cavaliere splendidi su cavalli dalle briglie d’oro: essi guidavano gli Ebrei e, prendendo in mezzo a loro Giuda, lo ripararono con le loro armature rendendolo invulnerabile” (2 Maccabei 10,29-30). Altre volte è un solitario “cavaliere in sella, vestito di bianco, in atto di agitare un’arma tura d’oro”, a guidare Israele alla battaglia (2 Maccabei 11,8). E non manca neppure una vera e propria squadriglia angelica composta da “cavalieri che correvano per 1’aria con auree vesti, armati di lance roteanti e di spade sguainate” (2 Maccabei 5,2).Al di là della retorica marziale di queste pagine v’è la sicurezza di una presenza forte che, come si diceva nei Salmi già citati, si accampa accanto agli oppressi e ai fedeli per tutelarli e salvarli.

Publié dans:angeli, CAR. GIANFRANCO RAVASI |on 17 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

« J’attens la resurrection des mort »

http://www.orthodoxie.com/wp-content/uploads/2014/03/Fresque_paroisse-Sartrouville.pdf

Publié dans:immagini sacre |on 16 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

LA FEDE CHE PIÙ AMO, DICE DIO, È LA SPERANZA. – CHARLES PÉGUY

http://www.fractio.it/Gemme.htm

LA FEDE CHE PIÙ AMO, DICE DIO, È LA SPERANZA. – CHARLES PÉGUY

La fede che più amo, dice Dio, è la speranza.
La fede, no, non mi sorprende. La fede non è sorprendente.

Io risplendo talmente nella mia creazione.
Nel sole e nella luna e nelle stelle. In tutte le mie creature.
Negli astri del firmamento e nei pesci del mare. Nell’universo delle mie creature.
Sulla faccia della terra e sulla faccia delle acque.
Nei movimenti degli astri che sono nel cielo.
Nel vento che soffia sul mare e nel vento che soffia nella valle. Nella calma valle.
Nella quieta valle. Nelle piante e nelle bestie e nelle bestie delle foreste.
E nell’uomo. Mia creatura.
Nei popoli e negli uomini e nei re e nei popoli. Nell’uomo e nella donna sua compagna.
E soprattutto nei bambini. Mie creature.
Nello sguardo e nella voce dei bambini. Perché i bambini sono più creature mie.
Che gli uomini. Non sono ancora stati disfatti dalla vita. Della terra.
E fra tutti sono i miei servitori. Prima di tutti.
E la voce dei bambini è più pura della voce del vento nella calma della valle.
Nella quieta valle.
E lo sguardo dei bambini è più puro dell’azzurro del cielo, del bianco latteo del cielo, e di un raggio di stella nella calma notte.

Ora io risplendo talmente nella mia creazione.
Sulla faccia delle montagne e sulla faccia della pianura.
Nel pane e nel vino e nell’uomo che ara e nell’uomo che semina e nella mietitura
e nella vendemmia.
Nella luce e nelle tenebre.
E nel cuore dell’uomo, che è ciò che di più profondo v’è nel mondo. Creato.
(….)
Nella preghiera e nei sacramenti.
Nelle case degli uomini e nella chiesa che è la mia casa sulla terra.
Nell’aquila mia creatura che vola sui picchi.
L’aquila reale che ha almeno due metri d’apertura d’ali e fors’anche tre.
E nella formica mia creatura che striscia e che ammassa miseramente.
Nella terra. Nella formica mio servitore. E fin nel serpente.
Nella formica mia serva, mia infima serva, che ammassa a fatica, la parsimoniosa.
Che lavora come una disgraziata e non conosce sosta e non conosce riposo.
Se non la morte e il lungo sonno invernale.
(…)
Io risplendo talmente in tutta la mia creazione.
Nell’infima, nella mia creatura infima, nella mia serva infima, nella formica infima.
Che tesaurizza miseramente, come l’uomo. Come l’uomo infimo.
E che scava gallerie nella terra. Nel sottosuolo della terra.
Per ammassarvi meschinamente dei tesori. Temporali. Poveramente.
(….)
Io risplendo talmente nella mia creazione.
In tutto ciò che accade agli uomini e ai popoli, e ai poveri.
E anche ai ricchi. Che non vogliono esser mie creature. E che si mettono al riparo.
Per non esser miei servitori.
In tutto ciò che l’uomo fa e disfa in male e in bene.
(E io passo sopra a tutto, perché sono il Signore, e faccio ciò che lui ha disfatto e disfo quello che lui ha fatto).
E fin nella tentazione del peccato. Stesso.
E in tutto ciò che è accaduto a mio figlio. A causa dell’uomo. Mia creatura.
Che io avevo creato.
Nell’incorporazione, nella nascita e nella vita e nella morte di mio figlio.
E nel santo sacrificio della Messa.
In ogni nascita e in ogni vita. E in ogni morte.
E nella vita eterna che non avrà mai fine. Che vincerà ogni morte.
Io risplendo talmente nella mia creazione.
Che per non vedermi realmente queste povere persone dovrebbero esser cieche.
La carità, dice Dio, non mi sorprende.
La carità, no, non è sorprendente.
Queste povere creature son così infelici che, a meno di aver un cuore di pietra, come potrebbero non aver carità le une per le altre.
Come potrebbero non aver carità per i loro fratelli.
Come potrebbero non togliersi il pane di bocca, il pane di ogni giorno, per darlo a dei bambini infelici che passano.
E da loro mio figlio ha avuto una tale carità.
Mio figlio loro fratello.
Una così grande carità.
Ma la speranza, dice Dio, la speranza, sì, che mi sorprende.
Me stesso.
Questo sì che è sorprendente.
Che questi poveri figli vedano come vanno le cose e credano che domani andrà meglio.
Che vedano come vanno le cose oggi e credano che andrà meglio domattina.
Questo sì che è sorprendente ed è certo la più grande meraviglia della nostra grazia.
Ed io stesso ne son sorpreso.
E dev’esser perché la mia grazia possiede davvero una forza incredibile.
E perché sgorga da una sorgente e come un fiume inesauribile
Da quella prima volta che sgorgò e da sempre che sgorga.
Nella mia creazione naturale e soprannaturale.
Nella mia creazione spirituale e carnale e ancora spirituale.
Nella mia creazione eterna e temporale e ancora eterna.
Mortale e immortale.
E quella volta, oh quella volta, da quella volta che sgorgò, come un fiume di sangue,
dal fianco trafitto di mio figlio.
Quale non dev’esser la mia grazia e la forza della mia grazia perché questa piccola speranza, vacillante al soffio del peccato, tremante a tutti i venti,
ansiosa al minimo soffio,
sia così invariabile, resti così fedele, così eretta, così pura; e invincibile, e immortale, e impossibile da spegnere; come questa fiammella del santuario.
Che brucia in eterno nella lampada fedele.
Una fiamma tremolante ha attraversato la profondità dei mondi.
Una fiamma vacillante ha attraversato la profondità delle notti.
Da quella prima volta che la mia grazia è sgorgata per la creazione del mondo.
Da sempre che la mia grazia sgorga per la conservazione del mondo.
Da quella volta che il sangue di mio figlio è sgorgato per la salvezza del mondo.
Una fiamma che non è raggiungibile,
una fiamma che non è estinguibile dal soffio della morte.
Ciò che mi sorprende, dice Dio, è la speranza.
E non so darmene ragione.
Questa piccola speranza che sembra una cosina da nulla.
Questa speranza bambina. Immortale.
Perché le mie tre virtù, dice Dio. Le tre virtù mie creature. Mie figlie mie fanciulle.
Sono anche loro come le altre mie creature. Della razza degli uomini.
La Fede è una Sposa fedele.
La Carità è una Madre.
Una madre ardente, ricca di cuore.
O una sorella maggiore che è come una madre.
La Speranza è una bambina insignificante.
Che è venuta al mondo il giorno di Natale dell’anno scorso.
Che gioca ancora con il babbo Gennaio.
Con i suoi piccoli abeti in legno di Germania coperti di brina dipinta.
E con il suo bue e il suo asino in legno di Germania. Dipinti.
E con la sua mangiatoia piena di paglia che le bestie non mangiano.
Perché sono di legno.
Ma è proprio questa bambina che attraverserà i mondi. Questa bambina insignificante.
Lei sola, portando gli altri, che attraverserà i mondi passati.
Come la stella ha guidato i tre re dal più remoto Oriente.
Verso la culla di mio figlio.
Così una fiamma tremante. Lei sola guiderà le Virtù e i Mondi.
Una fiamma squarcerà delle tenebre eterne.
(…)
Si dimentica troppo, bambina mia, che la speranza è una virtù, che è una virtù teologale, e che di tutte le virtù, e delle tre virtù teologali, è forse quella più gradita a Dio.
Che è certamente la più difficile, che è forse l’unica difficile,
e che probabilmente è la più gradita a Dio.
La fede va da sé. La fede cammina da sola. Per credere basta solo lasciarsi andare, basta solo guardare. Per non credere bisognerebbe violentarsi, torturarsi, tormentarsi, contrariarsi. Irrigidirsi. Prendersi a rovescio, mettersi a rovescio, andare all’inverso. La fede è tutta naturale, tutta sciolta, tutta semplice, tutta quieta. Se ne viene pacifica. E se ne va tranquilla. È una brava donna che si conosce, una brava vecchia, una brava vecchia parrocchiana, una brava donna della parrocchia, una vecchia nonna, una brava parrocchiana. Ci racconta le storie del tempo antico, che sono accadute nel tempo antico. Per non credere, bambina mia, bisognerebbe tapparsi gli occhi e le orecchie.
Per non vedere, per non credere.
La carità va purtroppo da sé. La carità cammina da sola. Per amare il proprio prossimo basta solo lasciarsi andare, basta solo guardare una tal miseria. Per non amare il proprio prossimo bisognerebbe violentarsi, torturarsi, tormentarsi, contrariarsi. Irrigidirsi. Farsi male. Snaturarsi, prendersi a rovescio, mettersi a rovescio. Andare all’inverso. La carità è tutta naturale, tutta fresca, tutta semplice, tutta quieta. È il primo movimento del cuore. E il primo movimento quello buono. La carità è una madre e una sorella.
Per non amare il proprio prossimo, bambina mia,
bisognerebbe tapparsi gli occhi e le orecchie.
Dinanzi a tanto grido di miseria.
Ma la speranza non va da sé. La speranza non va da sola. Per sperare, bambina mia, bisogna esser molto felici, bisogna aver ottenuto, ricevuto una grande grazia.
È la fede che è facile ed è non credere che sarebbe impossibile. È la carità che è facile ed è non amare che sarebbe impossibile. Ma è sperare che è difficile
(…)
E quel che è facile e istintivo è disperare ed è la grande tentazione.
La piccola speranza avanza fra le due sorelle maggiori
e su di lei nessuno volge lo sguardo.

Sulla via della salvezza, sulla via carnale, sulla via accidentata della salvezza, sulla strada interminabile, sulla strada fra le sue due sorelle la piccola speranza.
Avanza. Fra le due sorelle maggiori. Quella che è sposata. E quella che è madre.
E non si fa attenzione, il popolo cristiano non fa attenzione che alle due sorelle maggiori.
La prima e l’ultima. Che badano alle cose più urgenti. Al tempo presente.
All’attimo momentaneo che passa.
il popolo cristiano non vede che le due sorelle maggiori, non ha occhi che per le due sorelle maggiori.
Quella a destra e quella a sinistra.
E quasi non vede quella ch’è al centro.
La piccola, quella che va ancora a scuola. E che cammina.
Persa fra le gonne delle sorelle.
E ama credere che sono le due grandi a portarsi dietro la piccola per mano.
Al centro. Fra loro due.
Per farle fare questa strada accidentata della salvezza.
Ciechi che sono a non veder invece
Che è lei al centro a spinger le due sorelle maggiori.
E che senza di lei loro non sarebbero nulla.
Se non due donne avanti negli anni. Due donne d’una certa età. Sciupate dalla vita.
È lei, questa piccola, che spinge avanti ogni cosa.
Perché la Fede non vede se non ciò che è. E lei, lei vede ciò che sarà.
La Carità non ama se non ciò che è. E lei, lei ama ciò che sarà.
La Fede vede ciò che è. Nel Tempo e nell’Eternità.
La Speranza vede ciò che sarà. Nel tempo e per l’eternità.
Per così dire nel futuro della stessa eternità.
La Carità ama ciò che è. Nel Tempo e nell’Eternità.
Dio e il prossimo.
Così come la Fede vede.
Dio e la creazione.
Ma la Speranza ama ciò che sarà. Nel tempo e per l’eternità.
Per così dire nel futuro dell’eternità.
La Speranza vede quel che non è ancora e che sarà.
Ama quel che non è ancora e che sarà.
Nel futuro del tempo e dell’eternità.
Sul sentiero in salita, sabbioso, disagevole. Sulla strada in salita.
Trascinata, aggrappata alle braccia delle due sorelle maggiori,
Che la tengono per mano. La piccola speranza. Avanza.
E in mezzo alle due sorelle maggiori sembra lasciarsi tirare.
Come una bambina che non abbia la forza di camminare.
E venga trascinata su questa strada contro la sua volontà.
Mentre è lei a far camminar le altre due.
E a trascinarle. E a far camminare tutti quanti. E a trascinarli.
Perché si lavora sempre solo per i bambini.
E le due grandi camminan solo per la piccola.

Publié dans:Letteratura straniera, poesie |on 16 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

LE CANDELE – (CHIESA ORTODOSSA)

http://www.ortodossiatorino.net/DocumentiSezDoc.php?cat_id=27&id=575

LE CANDELE – (CHIESA ORTODOSSA)

Che cosa fa un cristiano ortodosso appena varcata la soglia di una chiesa? In nove casi su dieci, va al banco delle candele. La nostra pratica del cristianesimo, il nostro coinvolgimento nel suo rito, inizia con una piccola candela di cera d’api. È impossibile immaginare una chiesa ortodossa in cui non si accendono candele.

Il Beato Simeone di Tessalonica (XV secolo), commentatore della Liturgia, dice che la cera pura simbolizza la purezza e la castità di quanti la offrono. L’offerta è un segno di pentimento per l’ostinazione e la volontà personale. La morbidezza e la flessibilità della cera indicano la nostra prontezza a obbedire a Dio. La candela che brucia rappresenta la deificazione dell’essere umano, il suo divenire creatura nuova attraverso il fuoco dell’amore di Dio.

Inoltre, la candela è un testimone della fede, della nostra appartenenza alla luce divina. Esprime la fiamma del nostro amore per il Signore, per la Madre di Dio, per gli angeli e per i santi. Non si deve accendere una candela con il cuore freddo, come mera formalità. L’azione esterna deve avere il supplemento della preghiera, anche la più semplice, usando le proprie parole.

Una candela accesa è presente in molte funzioni della chiesa. Ne tengono in mano una i nuovi battezzati, e quanti si uniscono l’uno all’altra nel mistero del Matrimonio. Il rito del funerale si compie in mezzo a una moltitudine di candele accese. Proteggendo dal vento le loro candele accese, i fedeli camminano nelle processioni della Croce. Non vi sono regole assolute su quali e quante candele si devono offrire. Il loro acquisto è un piccolo sacrificio a Dio, volontario e non pesante. Una candela larga e costosa non è portatrice di maggiore grazia rispetto a una piccola.

Chi è meticoloso ad andare in chiesa cerca di accendere diverse candele in ogni visita: davanti all’icona della festa al centro della chiesa, all’icona del Salvatore o della Madre di Dio – per la salute dei propri cari, e al candelabro rettangolare (kanun) di fronte alla Croce – per il riposo delle anime dei defunti. Se il cuore lo desidera, si possono accendere candele a qualsiasi santo.

Talvolta accade che tutti gli spazi di un candelabro siano pieni, e non c’è posto per accendere un’altra candela. Non si dovrebbe spegnere una candela che sta ancora bruciando per rimpiazzarla con la propria. È meglio chiedere a uno degli attendenti di accenderla al momento appropriato. E nessuno si deve rattristare se, alla fine della funzione, la sua candela viene spenta; il sacrificio è già stato accettato da Dio.

Non c’è ragione di credere che si debba accendere una candela solo con la mano destra, che se la candela si spegne da sola questo sia un segno sfortunato, o che bruciacchiare il fondo di una candela per farla meglio aderire al candelabro sia un peccato, etc. Ci sono molte superstizioni simili, e sono tutte prive di senso.

La candela di cera che brucia è gradita a Dio, ma Egli gradisce ancor di più l’ardore dei cuori. La nostra vita spirituale, la nostra partecipazione alle funzioni della chiesa, non è limitata alle candele. Le candele non ci liberano dai peccati, non ci uniscono a Dio, e non ci danno il potere di combattere la guerra spirituale. La candela è ricca di significato simbolico, ma noi non siamo salvati dai simboli, bensì dalla piena realtà, la Grazia increata di Dio.

Perché usare candele di cera d’api?

La cera pura d’api, così come l’olio d’oliva, il vino, il frumento e altre sostanze naturali e pure, è un elemento essenziale del culto della Chiesa ortodossa. La cera, anche se prodotta dalle api, non contiene materiale di origine animale, e pertanto simbolizza sia la purezza dei doni, sia la sincerità di chi dona.

La cera d’api viene impiegata assieme all’olio per alimentare le luci davanti agli oggetti sacri, ed è stata usata nella pratica costante della Chiesa ortodossa fin dai primi secoli. Purtroppo, a causa della mentalità molto utilitaristica introdotta anche nelle chiese negli ultimi secoli, oggi si fa ricorso in molti luoghi di culto ortodossi a candele composte in quantità più o meno elevata di paraffina.

La paraffina si produce « decerando » i residui del petrolio dall’olio lubrificante. Per fare candele, il petrolio deve essere purificato per mezzo di un’operazione decerante a base di solventi. Il petrolio è trattato con acido solforico seguito dal filtraggio nella creta e dalla deodorazione per rimuovere le impurità. La paraffina di petrolio, di cui sono fatte la maggior parte delle candele commerciali, è anche la base della fabbricazione di etano, propano e butano. La presenza di alcune impurità nella paraffina può dare origine a irritazioni della pelle e in rari casi all’eczema (infiammazione cronica della pelle). Le candele di paraffina producono una fuliggine nera che ricopre gradualmente dipinti, arredi e mura. Talora è visibile sulle candele stesse. Queste tendono anche a gocciolare eccessivamente, lasciando spesso colate mentre bruciano.

La ragione dell’uso della paraffina è esclusivamente di natura economica: mischiando la cera con paraffina – o sostituendola del tutto – si riducono i costi di produzione. Questo atto, però, non resta senza risultati sul piano della pratica della fede cristiana. Se crediamo – e siamo disposti ad ammetterlo con tutta la forza del nostro ragionamento – che « solo il nostro meglio è buono abbastanza per un’offerta al Signore », allora la trasformazione di un’offerta di prima qualità in un’offerta più scadente equivale simbolicamente a una perdita di fede. Leggiamo a proposito il capitolo 4 della Genesi: Caino fa un’offerta che Dio non gradisce (a differenza di Abele, che offre le primizie del suo gregge), e le conseguenze di questo gesto sono tragiche.

Certo, le condizioni di difficoltà di una chiesa ortodossa che sorge fuori di un proprio ambiente tradizionale – e senza i canali adeguati di rifornimento di materiali – giustificano più che ampiamente il ricorso a forme provvisorie per venire incontro alle necessità immediate (si può ricordare a proposito anche l’uso delle riproduzioni di icone al posto delle vere icone dipinte). Ciò non toglie, tuttavia, che quanto prima possibile una chiesa ortodossa dovrebbe adeguarsi al meglio del proprio ideale di culto, senza rimanere adagiata sui surrogati mondani.

Publié dans:meditazioni |on 16 septembre, 2014 |Pas de commentaires »
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