Archive pour septembre, 2014

LE FESTE EBRAICHE – ROSH HA SHANÀ – IL CAPODANNO

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LE FESTE EBRAICHE – ROSH HA SHANÀ – IL CAPODANNO

(inizia domani 25 settembre, vedi sotto)

Rosh Ha-Shanà cade i primi due giorni del mese di Tishrì ed è il capo d’anno per la numerazione degli anni, per il computo dei giubilei e per la validità dei documenti. Ha un carattere e un’atmosfera assai diversi da quella normalmente vigente nel capo d’anno « civile » in Italia. Infatti è considerato giorno di riflessione, di introspezione, di auto esame e di rinnovamento spirituale. E’ il giorno in cui, secondo la tradizione, il Signore esamina tutti gli uomini e tiene conto delle azioni buone o malvagie che hanno compiuto nel corso dell’anno precedente. Nel Talmud infatti è scritto « A Rosh Ha-Shanà tutte le creature sono esaminate davanti al Signore ». Non a caso tale giorno nella tradizione ebraica è chiamato anche « Yom Ha Din », il giorno del giudizio. Il giudizio divino verrà sigillato nel giorno di Kippur, il giorno dell’espiazione. Tra queste due date corrono sette giorni che sommati ai due di Rosh Ha-Shanà e a quello di Kippur vengono detti i « dieci giorni penitenziali ».
Rosh Ha-Shanà riguarda il singolo individuo, il rapporto che ha con il suo prossimo e con Dio, le sue intenzioni di miglioramento.
Nella Torà, (Levitico 23:23,24) il primo giorno del mese di Tishrì è designato come « giorno di astensione dal lavoro, ricordo del suono, sacra convocazione », e nuovamente in Numeri (29:1,6) è ripetuto che è « un giorno di suono strepitoso »: un altro dei nomi di questa festa è « Yom Teru’a », giorno del suono dello Shofar, il grande corno. In ottemperanza al comando biblico in questo giorno viene suonato lo Shofar, simbolo del richiamo all’uomo verso il Signore. Questo suono serve a suscitare una rinascita spirituale e a portare verso la teshuvà, il pentimento, il ritorno verso la giusta via. Lo Shofar, oltre a chiamare a raduno, ricorda l’episodio biblico del « sacrificio » di Isacco, sacrificio in realtà mai avvenuto in quanto fu sacrificato un montone al posto del ragazzo. Il corno deve essere di un animale ovino o caprino in ricordo di questo episodio. Inoltre lo shofar ricorda il dono della Torà nel Sinai che era accompagnato da questo suono e allude anche al Grande Shofar citato in Isaia (27:13) « E in quel giorno suonerà un grande shofar », annunciatore dei tempi messianici.
I suoni che vengono emessi da questo strumento sono di diverso tipo: note brevi, lunghe e interrotte; secondo una interpretazione esse sono emesse in onore dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe.
Rosh Ha-Shanà è chiamato anche Giorno del Ricordo, infatti la tradizione vuole che Dio proprio in questa data abbia finito la Sua opera di creazione e sarebbe stato creato Adamo, il primo uomo.
Un uso legato a questa giornata vede l’ebreo recarsi verso un corso d’acqua o verso il mare e lì recitare delle preghiere e svuotarsi le tasche, atto che rappresenta simbolicamente il disfarsi delle colpe commesse e un impegno simbolico a rigettare ogni cattivo comportamento, come scritto nel libro biblico di Michà : « Getterai i nostri peccati nelle profondità del mare ».
Gli ebrei azkenaziti in questo giorno vestono di bianco, simbolo di purezza e rinnovamento spirituale. Anche i rotoli della Torà e l’Arca vengono vestiti di questo colore. Quest’usanza può essere ricondotta al verso di Isaia (1:18) in cui è scritto: « quand’anche i vostri peccati fossero come lo scarlatto, diverranno bianchi come la neve ».
A Rosh Ha-Shanà si usa mangiare cibi il cui nome o la cui dolcezza possa essere ben augurante per l’anno a venire. Il pane tipico della festa assume una forma rotonda, a simbolo della corona di Dio e anche della ciclicità dell’anno. Con l’augurio che l’anno nuovo sia dolce, si usa mangiare uno spicchio di mela intinta nel miele. Si usa anche piantare dei semini di grano e di granturco che germoglieranno in questo periodo, in segno di prosperità.

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PAPA FRANCESCO : UDIENZA GENERALE, 24.9.14

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PAPA FRANCESCO

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 24 settembre 2014

VIAGGIO APOSTOLICO IN ALBANIA

Cari fratelli e sorelle, buongiorno.

Oggi vorrei parlare del Viaggio Apostolico che ho compiuto in Albania domenica scorsa. Lo faccio anzitutto come atto di ringraziamento a Dio, che mi ha concesso di compiere questa Visita per dimostrare, anche fisicamente e in modo tangibile, la vicinanza mia e di tutta la Chiesa a questo popolo. Desidero poi rinnovare la mia fraterna riconoscenza all’Episcopato albanese, ai sacerdoti e ai religiosi e religiose che operano con tanto impegno. Il mio grato pensiero va anche alle Autorità che mi hanno accolto con tanta cortesia, come pure a quanti hanno cooperato per la realizzazione della Visita.
Questa Visita è nata dal desiderio di recarmi in un Paese che, dopo essere stato a lungo oppresso da un regime ateo e disumano, sta vivendo un’esperienza di pacifica convivenza tra le sue diverse componenti religiose. Mi sembrava importante incoraggiarlo su questa strada, perché la prosegua con tenacia e ne approfondisca tutti i risvolti a vantaggio del bene comune. Per questo al centro del Viaggio c’è stato un incontro interreligioso dove ho potuto constatare, con viva soddisfazione, che la pacifica e fruttuosa convivenza tra persone e comunità appartenenti a religioni diverse è non solo auspicabile, ma concretamente possibile e praticabile. Loro la praticano! Si tratta di un dialogo autentico e fruttuoso che rifugge dal relativismo e tiene conto delle identità di ciascuno. Ciò che accomuna le varie espressioni religiose, infatti, è il cammino della vita, la buona volontà di fare del bene al prossimo, non rinnegando o sminuendo le rispettive identità.
L’incontro con i sacerdoti, le persone consacrate, i seminaristi e i movimenti laicali è stata l’occasione per fare grata memoria, con accenti di particolare commozione, dei numerosi martiri della fede. Grazie alla presenza di alcuni anziani, che hanno vissuto sulla loro carne le terribili persecuzioni, è riecheggiata la fede di tanti eroici testimoni del passato, i quali hanno seguito Cristo fino alle estreme conseguenze. È proprio dall’unione intima con Gesù, dal rapporto d’amore con Lui che è scaturita per questi martiri – come per ogni martire – la forza di affrontare gli avvenimenti dolorosi che li hanno condotti al martirio. Anche oggi, come ieri, la forza della Chiesa non è data tanto dalle capacità organizzative o dalle strutture, che pure sono necessarie: la sua forza la Chiesa non la trova lì. La nostra forza è l’amore di Cristo! Una forza che ci sostiene nei momenti di difficoltà e che ispira l’odierna azione apostolica per offrire a tutti bontà e perdono, testimoniando così la misericordia di Dio.
Percorrendo il viale principale di Tirana che dall’aeroporto porta alla grande piazza centrale, ho potuto scorgere i ritratti dei quaranta sacerdoti assassinati durante la dittatura comunista e per i quali è stata avviata la causa di beatificazione. Questi si sommano alle centinaia di religiosi cristiani e musulmani assassinati, torturati, incarcerati e deportati solo perché credevano in Dio. Sono stati anni bui, durante i quali è stata rasa al suolo la libertà religiosa ed era proibito credere in Dio, migliaia di chiese e moschee furono distrutte, trasformate in magazzini e cinema che propagavano l’ideologia marxista, i libri religiosi furono bruciati e ai genitori si proibì di mettere ai figli i nomi religiosi degli antenati. Il ricordo di questi eventi drammatici è essenziale per il futuro di un popolo. La memoria dei martiri che hanno resistito nella fede è garanzia per il destino dell’Albania; perché il loro sangue non è stato versato invano, ma è un seme che porterà frutti di pace e di collaborazione fraterna. Oggi, infatti, l’Albania è un esempio non solo di rinascita della Chiesa, ma anche di pacifica convivenza tra le religioni. Pertanto, i martiri non sono degli sconfitti, ma dei vincitori: nella loro eroica testimonianza risplende l’onnipotenza di Dio che sempre consola il suo popolo, aprendo strade nuove e orizzonti di speranza.
Questo messaggio di speranza, fondato sulla fede in Cristo e sulla memoria del passato, l’ho affidato all’intera popolazione albanese che ho visto entusiasta e gioiosa nei luoghi degli incontri e delle celebrazioni, come pure nelle vie di Tirana. Ho incoraggiato tutti ad attingere energie sempre nuove dal Signore risorto, per poter essere lievito evangelico nella società e impegnarsi, come già avviene, in attività caritative ed educative.
Ringrazio ancora una volta il Signore perché, con questo Viaggio, mi ha dato di incontrare un popolo coraggioso e forte, che non si è lasciato piegare dal dolore. Ai fratelli e sorelle dell’Albania rinnovo l’invito al coraggio del bene, per costruire il presente e il domani del loro Paese e dell’Europa. Affido i frutti della mia visita alla Madonna del Buon Consiglio, venerata nell’omonimo Santuario di Scutari, affinché Lei continui a guidare il cammino di questo popolo-martire. La dura esperienza del passato lo radichi sempre più nell’apertura verso i fratelli, specialmente i più deboli, e lo renda protagonista di quel dinamismo della carità tanto necessario nell’odierno contesto socio culturale. Io vorrei che tutti noi oggi facessimo un saluto a questo popolo coraggioso, lavoratore, e che in pace cerca l’unità.

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Icon of the Mother of God “the Unexpected Joy”

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Publié dans:immagini sacre |on 23 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

3. I “MISTERI GLORIOSI” EDUCANO ALLA SPERANZA E ALLA GIOIA

http://www.donbosco-torino.it/ita/Maria/catechesi/2000-2001/maestra_di_speranza2.html

MAESTRA DI SPERANZA E DI GIOIA – 2

3. I “MISTERI GLORIOSI” EDUCANO ALLA SPERANZA E ALLA GIOIA

“Mater spei”, madre della speranza, viene invocata Maria. E a ragione. Nell’ora della prova, durante la passione, Maria la madre ha seguito e accompagnato Gesù passo passo fino al sacrificio supremo sulla croce. Maria è stata fino all’ultimo discepola fedele del suo Figlio. Non ha mai interrotto la sequela Christi. Anzi, proprio in questo periodo, Maria è stata la madre che ha sostenuto la speranza di chi aveva perduto ogni speranza. E la sua grande fede fu premiata da Gesù, che per primo apparve a sua madre.
Nella catechesi mariana di mercoledì 21 maggio 1997, il Santo Padre Giovanni Paolo II diceva: “È [...] legittimo pensare che verosimilmente la Madre sia stata la prima persona a cui Gesù risorto è apparso. L’assenza di Maria dal gruppo delle donne che all’alba si reca al sepolcro (cfr Mc 16,1; Mt 28,1), non potrebbe forse costituire un indizio del fatto che Ella aveva già incontrato Gesù? Questa deduzione troverebbe conferma anche nel dato che le prime testimonianze della risurrezione, per volere di Gesù, sono state le donne, le quali erano rimaste fedeli ai piedi della Croce, e quindi più salde nella fede”.3
Che l’eventuale apparizione del Risorto alla madre non venga registrata nei Vangeli, viene spiegato col fatto che si tratterebbe di una testimonianza superflua.
Il benedettino inglese, Eadmero di Canterbury (1064-1124), a questo proposito, afferma: “Se vi fosse scritto [nei Vangeli] che alla Madre del Signore, alla Regina del mondo, lo stesso Figlio suo, risorgendo dai morti, è apparso come ad uno qualsiasi e l’ha in questo modo informata della sua risurrezione, chi non giudicherebbe superflua questa testimonianza scritta? È come se mettesse la Regina del cielo e della terra e di ogni creatura sullo stesso piano del tale o talaltro, uomo o donna che sia, ai quali Gesù apparve”.4
In realtà, Gesù Risorto che appare per primo a sua Madre è un tema caro alla pietà sia occidentale sia orientale. Abbiamo testimonianze di ciò fin dal primo millennio dell’era cristiana.
Il poeta latino Sedulio (prima metà del secolo V), nel suo Carme pasquale, riporta la prima apparizione del Cristo risorto a Maria: “Il Signore si mostrò innanzitutto al suo sguardo [di Maria] quando si presentò apertamente nella luce, affinché la buona madre, divulgando i grandiosi miracoli, essendo stata un giorno la via per la sua prima venuta, diventasse anche il segno del suo ritorno”.5
Nel secolo VI, il vescovo Cesario di Arles, in uno dei suoi sermoni, paragonando Maria alla luna e San Giuseppe e gli undici apostoli al sole e alle undici stelle del sogno di Giuseppe dell’A.T. (cfr Gn 37,9-13), afferma che questo sogno si è realizzato nella risurrezione di Gesù: “Questo sogno non si adempì per quel Giuseppe, mentre i misteri di quel sogno si sono adempiuti nel nostro Giuseppe, cioè nel Signore nostro Gesù Cristo. Infatti il sole, la luna e le undici stelle lo hanno adorato quando dopo la risurrezione la santa Madre, come luna, e il beato Giuseppe, quasi come il sole insieme alle undici stelle, cioè i beati Apostoli, si sono curvati e prostrati davanti a lui, portando a compimento la profezia che aveva detto: «Lodatelo, sole e luna, lodatelo, voi tutte, fulgide stelle» (Sal 148,3)”.6
Nel vangelo apocrifo di Gamaliele (sec. VI), si narra di Santa Maria che non trova il corpo di Gesù nel sepolcro: “Ma poi apparve la luce e, mentre ella nel suo cuore era afflitta e addolorata, un forte profumo di aromi si effuse dal lato destro dell’ingresso del sepolcro. Sembrava che si sprigionasse il profumo dell’albero della vita. La Vergine si voltò, guardò al lato destro della tomba presso una spirale d’incenso e vide il buon Dio, là, in piedi, con un abito molto bello di porpora celeste”.7
Giorgio di Nicomedia (sec. IX) loda Maria, come colei che fu la prima a vedere il Figlio risorto e a provare “la gioia della risurrezione vivificatrice”.8
Un theotokion, composto dall’imperatore Costantino VII Porfirogenito (sec. X), così loda la Beata Vergine: “Ti sei rallegrata con i discepoli, o Vergine Madre di Dio, perché hai visto Cristo risuscitato dal sepolcro il terzo giorno, come egli aveva predetto. Manifestatosi anche ai discepoli, egli li ammaestrò e insegnò loro le cose migliori, dando loro l’ordine di battezzare nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo e a noi di credere nella sua risurrezione e di glorificare te, o Fanciulla”.9
Uno scrittore copto del secolo VIII immagina un dialogo tra Maria e il suo figlio divino. A Maria spaventata dal fulgore del risorto, Gesù risponde: “«O madre mia, che mi portasti nel tuo seno per nove mesi e cinque giorni, che mi portasti sul dorso, che mi nutristi del latte delle tue mammelle, più dolce del miele e dello zucchero, più bianco del latte, più limpido dell’acqua del giardino dell’Eden, cosa farò per te, o Maria, madre mia, per quale opera mi hai chiamato? Quale domanda ti devo accordare? cosa vuoi da me, cosa devo fare per te?». La Vergine benedetta rispose al figlio diletto: «Mio figlio e mio diletto, mio Signore Gesù Cristo, mio Dio, mio Salvatore e mio Sovrano; tu sei la mia speranza, il mio rifugio, la mia forza: è in te che metto la mia fiducia [...]; sei tu che menzionerò in ogni tempo e alla fine dei giorni; tu sei nato da me per tua propria volontà e con il consenso di tuo Padre e dello Spirito Santo. Ora, mio Signore, ascolta la mia preghiera e la mia richiesta, presta l’orecchio alle parole che la mia bocca sta per pronunciare»”.10
Nella nostra tradizione latina, questo evento è stato registrato sia negli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio di Loyola, che nella prima meditazione della quarta settimana che pone la contemplazione su “Come Cristo nostro Signore apparve alla Madonna” (n. 218-219; 299); sia nella pietà popolare, nella nota processione dell’Incontro del Risorto con la Madre, all’alba della domenica di Pasqua (il Salubong della tradizione filippina).
Il significato di questo straordinario mistero glorioso viene spiegato dal Santo Padre con queste parole: “Presente sul Calvario durante il Venerdì Santo (cfr Gv 19,25) e nel cenacolo a Pentecoste (cfr At 1,14), la Vergine Santissima è probabilmente stata testimone privilegiata anche della risurrezione di Cristo, completando in tal modo la sua partecipazione a tutti i momenti essenziali del Mistero pasquale. Accogliendo Gesù risorto, Maria è inoltre segno di anticipazione dell’umanità che spera nel raggiungimento della sua piena realizzazione mediante la risurrezione dai morti. Nel tempo pasquale la comunità cristiana, rivolgendosi alla Madre del Signore, la invita a gioire: «Regina Coeli, laetare, Alleluia!», «Regina dei cieli, rallegrati, Alleluia!». Ricorda così la gioia di Maria per la risurrezione di Gesù, prolungando nel tempo il «rallegrati» rivoltole dall’Angelo all’annunciazione, perché divenisse «causa di gioia» per l’intera umanità”.11
Gioia e speranza sono esperienze vissute da Maria, che, come madre, modello e maestra della Chiesa, insegna a tutti i suoi figli.
Il poeta Charles Péguy riassume bene questo in una sua preghiera alla Vergine: “A colei che è infinitamente ricca. / Perché è anche infinitamente povera. / [...] A colei che è infinitamente giovane. / Perché è anche infinitamente madre. / [...] A colei che è infinitamente gioiosa. / Perché è anche infinitamente dolorosa. / Settanta e sette volte settanta volte dolorosa. / A colei che è infinitamente commovente. / Perché è infinitamente commossa. / A colei che è tutta Grandezza e tutta Fede. / Perché è anche tutta Carità. / A colei che è tutta Fede e tutta Carità. / Perché è anche tutta Speranza”.12

4. Le sette gioie di Maria e la nostra speranza

La celebrazione di Maria è una caratteristica della Chiesa indivisa. Filippo il Cancelliere (sec. XIII) ha un opuscolo dedicato alle sette gioie della Beata Vergine. In realtà, si tratta di sette invocazioni a Maria, madre e maestra della nostra gioia e della nostra speranza. Eccole, in un nostro adattamento.
1. Ave, Maria, piena di grazia, tempio della Trinità, ornamento della suprema bontà e misericordia. Per questa tua gioia noi ti preghiamo di meritare che Dio Trinità abiti sempre nel nostro cuore e ci accolga nella terra dei viventi.
2. Ave, Maria, Stella del mare. Come il fiore non perde la bellezza a causa del profumo che emana, così tu non perdi il candore della verginità per la nascita del Creatore. O Madre pia, per questa tua seconda gioia, sii nostra maestra nell’accogliere Gesù nella nostra vita.
3. Ave, Maria, la stella che vedi fermarsi sul bambino Gesù ti invita a rallegrarti perché tutte le genti adorano il tuo Figlio. O stella del mondo, fa’ che anche noi possiamo offrire a Gesù l’oro della purezza della nostra mente, la mirra della castità della nostra carne, l’incenso della preghiera e dell’adorazione continua.
4. Ave, Maria, una quarta gioia ti è concessa: la risurrezione di Gesù il terzo giorno. Questo evento rafforza la fede, fa rinascere la speranza, concede la grazia. O Vergine, madre del Risorto, effondi preghiere a tutte le ore affinché, grazie a questa gioia, al termine della nostra vita, siamo riuniti ai cori beati dei cittadini del cielo.
5. Ave, Maria, hai ricevuto una quinta gioia, quando hai visto il Figlio salire alla gloria. Attraverso questa gioia imploriamo di non sottometterci alle potenze del demonio, ma di salire al cielo, dove finalmente possiamo godere con te e con il Figlio tuo.
6. Ave, Maria, piena di grazia. La sesta gioia te la dona lo Spirito Santo Paraclito, quando discende dall’alto a Pentecoste sotto forma di lingue di fuoco. Per questa tua gioia noi speriamo che il Santo Spirito bruci col suo fuoco di grazia i peccati causati dalla nostra cattiva lingua.
7. Ave, Maria, piena di grazia, il Signore è con te. Alla settima gioia Cristo ti ha invitato quando ti ha chiamato da questo mondo al cielo, innalzandoti al di sopra di tutti i cori celesti. O Madre e Maestra, intercedi per noi affinché anche noi siamo innalzati al sommo delle virtù della fede, della speranza, della carità per poter un giorno essere uniti ai cori dei beati nella gioia eterna.
Preghiamo
Signore Gesù Cristo, che ti sei degnato di rallegrare la gloriosa Vergine Maria con questa gioia settiforme, concedimi di celebrare devotamente queste medesime gioie, affinché, mediante la tua materna intercessione e i suoi meriti gloriosi, io possa essere sempre liberato da ogni tristezza presente e meritare di gioire eternamente della tua gloria, insieme a lei e a tutti i tuoi santi. Amen.

Angelo Amato, SDB

Publié dans:meditazioni, preghiere |on 23 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

PAPA BENEDETTO AI GIOVANI: « SIATE MISSIONARI DELLA GIOIA »

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PAPA BENEDETTO AI GIOVANI: « SIATE MISSIONARI DELLA GIOIA »

27 MARZO 2012

Pubblicato il Messaggio di Benedetto XVI per la XXVII Giornata Mondiale della Gioventù. Il tema di quest’anno è Siate sempre lieti nel Signore!, ispirato alla Lettera di San Paolo apostolo ai Filippesi. « Portate a coloro che soffrono, a coloro che sono in ricerca, la gioia che Gesù vuole donare ».
Con il cuore ancora a Madrid e con la mente proiettata a Rio, papa Benedetto XVI ha diffuso ieri, martedì 27 marzo, il Messaggio per la XXVII Giornata Mondiale della Gioventù che si celebrerà, a livello diocesano, il 1 aprile 2012, prossima domenica delle Palme.
« Siate sempre lieti nel Signore! », dalla Lettera di San Paolo ai Filippiesi, è il tema scelto quest’anno dal Santo Padre per la XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù che si celebra a livello diocesano ogni anno la Domenica delle Palme. Di seguito riportiamo alcuni estratti del Messaggio datato 15 marzo.
« Quest’anno, il tema della Giornata Mondiale della Gioventù ci è dato da un’esortazione della Lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi: ‘Siate sempre lieti nel Signore!’ (4,4). La gioia, in effetti, è un elemento centrale dell’esperienza cristiana. Anche durante ogni Giornata Mondiale della Gioventù facciamo esperienza di una gioia intensa, la gioia della comunione, la gioia di essere cristiani, la gioia della fede. È una delle caratteristiche di questi incontri. E vediamo la grande forza attrattiva che essa ha: in un mondo spesso segnato da tristezza e inquietudini, è una testimonianza importante della bellezza e dell’affidabilità della fede cristiana. (…) La Chiesa ha la vocazione di portare al mondo la gioia. (…) Nel difficile contesto attuale, tanti giovani intorno a voi hanno un immenso bisogno di sentire che il messaggio cristiano è un messaggio di gioia e di speranza ».
1. Il nostro cuore è fatto per la gioia. « L’aspirazione alla gioia è impressa nell’intimo dell’essere umano. Al di là delle soddisfazioni immediate e passeggere, il nostro cuore cerca la gioia profonda, piena e duratura, che possa dare ‘sapore’ all’esistenza. E ciò vale soprattutto per voi, perché la giovinezza è (…) un tempo di apertura verso il futuro, in cui si manifestano i grandi desideri di felicità, di amicizia, di condivisione e di verità, in cui si è mossi da ideali e si concepiscono progetti. Ogni giorno, però, ci scontriamo anche con tante difficoltà e nel cuore vi sono preoccupazioni per il futuro, al punto che ci possiamo chiedere se la gioia piena e duratura alla quale aspiriamo non sia forse un’illusione e una fuga dalla realtà. (…) Ma come distinguere le gioie veramente durature dai piaceri immediati e ingannevoli? Come trovare la vera gioia nella vita, quella che dura e non ci abbandona anche nei momenti difficili? »
2. Dio è la fonte della vera gioia. « In realtà le gioie autentiche, quelle piccole del quotidiano o quelle grandi della vita, trovano tutte origine in Dio, anche se non appare a prima vista, perché Dio è comunione di amore eterno, è gioia infinita che non rimane chiusa in se stessa, ma si espande in quelli che Egli ama e che lo amano. (…) Dio vuole renderci partecipi della sua gioia, divina ed eterna, facendoci scoprire che il valore e il senso profondo della nostra vita sta nell’essere accettato, accolto e amato da Lui, e non con un’accoglienza fragile come può essere quella umana, ma con un’accoglienza incondizionata come è quella divina: io sono voluto, ho un posto nel mondo e nella storia, sono amato personalmente da Dio ».
« Questo amore infinito di Dio per ciascuno di noi si manifesta in modo pieno in Gesù Cristo. In Lui si trova la gioia che cerchiamo. (…) Il motivo di questa gioia è dunque la vicinanza di Dio, che si è fatto uno di noi. (…) Cristo è il vivente, è Colui che ha vinto il male, il peccato e la morte. Egli è presente in mezzo a noi come il Risorto, fino alla fine del mondo. Il male non ha l’ultima parola sulla nostra vita, ma la fede in Cristo Salvatore ci dice che l’amore di Dio vince ».
3. Conservare nel cuore la gioia cristiana. « Trovare e conservare la gioia spirituale nasce dall’incontro con il Signore, che chiede di seguirlo, di fare la scelta decisa di puntare tutto su di Lui. (…) La gioia è frutto della fede (…). Imparate a vedere come Dio agisce nelle vostre vite, scopritelo nascosto nel cuore degli avvenimenti del vostro quotidiano. Credete che Egli è sempre fedele all’alleanza che ha stretto con voi nel giorno del vostro Battesimo. Sappiate che non vi abbandonerà mai. Rivolgete spesso il vostro sguardo verso di Lui. Sulla croce, ha donato la sua vita perché vi ama. La contemplazione di un amore così grande porta nei nostri cuori una speranza e una gioia che nulla può abbattere ». « Cercare il Signore, incontrarlo nella vita significa anche accogliere la sua Parola. (…) La Parola di Dio fa scoprire le meraviglie che Dio ha operato nella storia dell’uomo. (…) In modo particolare, poi, la Liturgia è il luogo per eccellenza in cui si esprime la gioia che la Chiesa attinge dal Signore e trasmette al mondo. Ogni domenica, nell’Eucaristia, le comunità cristiane celebrano il Mistero centrale della salvezza: la morte e risurrezione di Cristo ».
4. La gioia dell’amore. « La gioia è intimamente legata all’amore: sono due frutti inseparabili dello Spirito Santo. L’amore produce gioia, e la gioia è una forma d’amore. (…) Pensando ai vari ambiti della vostra vita, vorrei dirvi che amare significa costanza, fedeltà, tener fede agli impegni. (…) Per entrare nella gioia dell’amore, siamo chiamati anche ad essere generosi, a non accontentarci di dare il minimo, ma ad impegnarci a fondo nella vita, con un’attenzione particolare per i più bisognosi. Il mondo ha necessità di uomini e donne competenti e generosi, che si mettano al servizio del bene comune. (…) Cercate il modo di contribuire a rendere la società più giusta e umana, là dove vi trovate. (…) Non posso non menzionare una gioia speciale: quella che si prova rispondendo alla vocazione di donare tutta la propria vita al Signore. (…) Non abbiate paura della chiamata di Cristo alla vita religiosa, monastica, missionaria o al sacerdozio. Siate certi che Egli colma di gioia coloro che (…) rispondono al suo invito a lasciare tutto per rimanere con Lui (…). Allo stesso modo, grande è la gioia che Egli riserva all’uomo e alla donna che si donano totalmente l’uno all’altro nel matrimonio per costituire una famiglia e diventare segno dell’amore di Cristo per la sua Chiesa. Vorrei richiamare un terzo elemento per entrare nella gioia dell’amore: far crescere nella vostra vita e nella vita delle vostre comunità la comunione fraterna ».
5. La gioia della conversione. « Per vivere la vera gioia occorre anche identificare le tentazioni che la allontanano. La cultura attuale induce spesso a cercare traguardi, realizzazioni e piaceri immediati, favorendo più l’incostanza che la perseveranza nella fatica e la fedeltà agli impegni. (…) L’esperienza insegna che l’avere non coincide con la gioia (…). E la volontà di Dio è che noi siamo felici. Per questo ci ha dato delle indicazioni concrete per il nostro cammino: i Comandamenti. Osservandoli, noi troviamo la strada della vita e della felicità. Anche se a prima vista possono sembrare un insieme di divieti, quasi un ostacolo alla libertà, se li meditiamo più attentamente, alla luce del Messaggio di Cristo, essi sono un insieme di essenziali e preziose regole di vita che conducono a un’esistenza felice, realizzata secondo il progetto di Dio. (…) Ma se a volte il cammino cristiano non è facile e l’impegno di fedeltà all’amore del Signore incontra ostacoli o registra cadute, Dio, nella sua misericordia, non ci abbandona, ma ci offre sempre la possibilità di ritornare a Lui, di riconciliarci con Lui, di sperimentare la gioia del suo amore che perdona e raccoglie. (…) Cari giovani, ricorrete spesso al Sacramento della Penitenza e della Riconciliazione! »
6. La gioia nelle prove. « Alla fine, però, potrebbe rimanere nel nostro cuore la domanda se veramente è possibile vivere nella gioia anche in mezzo alle tante prove della vita, specialmente le più dolorose e misteriose (…). La risposta ci può venire da alcune esperienze di giovani come voi che hanno trovato proprio in Cristo la luce capace di dare forza e speranza, anche in mezzo alle situazioni più difficili.
« Il beato Pier Giorgio Frassati (1901-1925) ha sperimentato tante prove nella sua pur breve esistenza (…) E il beato Giovanni Paolo II, presentandolo come modello, diceva di lui: ‘era un giovane di una gioia trascinante, una gioia che superava tante difficoltà della sua vita’. (…) La giovane Chiara Badano (1971-1990), recentemente beatificata, ha sperimentato come il dolore possa essere trasfigurato dall’amore ed essere misteriosamente abitato dalla gioia. Sono due semplici testimonianze tra molte altre che mostrano come il cristiano autentico non è mai disperato e triste, anche davanti alle prove più dure, e mostrano che la gioia cristiana non è una fuga dalla realtà, ma una forza soprannaturale per affrontare e vivere le difficoltà quotidiane ».
7. Testimoni della gioia. « Per concludere vorrei esortarvi ad essere missionari della gioia. Non si può essere felici se gli altri non lo sono (…) Andate a raccontare agli altri giovani la vostra gioia di aver trovato quel tesoro prezioso che è Gesù stesso. Non possiamo tenere per noi la gioia della fede: perché essa possa restare in noi, dobbiamo trasmetterla ». (…) « A volte viene dipinta un’immagine del Cristianesimo come di una proposta di vita che opprime la nostra libertà, che va contro il nostro desiderio di felicità e di gioia. Ma questo non risponde a verità! I cristiani sono uomini e donne veramente felici perché sanno di non essere mai soli, ma di essere sorretti sempre dalle mani di Dio! Spetta soprattutto a voi, giovani discepoli di Cristo, mostrare al mondo che la fede porta una felicità e una gioia vera, piena e duratura. E se il modo di vivere dei cristiani sembra a volte stanco ed annoiato, testimoniate voi per primi il volto gioioso e felice della fede. Il Vangelo è la ‘buona novella’ che Dio ci ama e che ognuno di noi è importante per Lui. Mostrate al mondo che è proprio così! Siate dunque missionari entusiasti della nuova evangelizzazione! Portate a coloro che soffrono, a coloro che sono in ricerca, la gioia che Gesù vuole donare ».

Publié dans:Papa Benedetto XVI |on 23 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

San Matteo (sito interessante)

San Matteo (sito interessante) dans immagini sacre 16-07

http://schools.nashua.edu/myclass/lavalleev/Art%20History%20Pictures/ch16/index16.html

Publié dans:immagini sacre |on 22 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

IN ATTESA DELL’ ULTIMO AMEN

http://www.korazym.org/16728/in-attesa-dell-amen/#more-16728

IN ATTESA DELL’ ULTIMO AMEN

17 agosto 2014 Bussole per la fede

di Don Giuseppe Liberto

Samuel Beckett, in Aspettando Godot, narra la storia di due mendicanti in attesa di un certo Godot dal quale sperano una serena e definitiva sistemazione. Quanto a Godot, però, non sanno né chi sia né il luogo né la data dell’appuntamento. I due consumano il tempo aspettando. Improvvisamente arriva un ragazzo con un messaggio in cui Godot annuncia il suo arrivo per l’indomani. Il giorno dopo arriva lo stesso messaggio: domani verrà. È un domani, però, senza luogo, senza giorno e senza ora. E così i mendicanti aspettano quell’incontro che mai avverrà.
Ogni attesa esige sempre l’incontro dell’atteso che viene:

Oracolo sul Silenzio.
Da Seir mi si grida:
”Sentinella, quanto resta della notte?
Sentinella, quanto resta della notte?”.
La sentinella risponde:
“Viene il mattino, poi anche la notte;
se volete domandare, domandate,
ravvedetevi, venite!” (Is 21,11-12).

Siamo ai tempi di Isaia alla fine del secolo VIII a.C.. Gli abitanti della regione di Edom, alleati dei Filistei e sconfitti da Sargon, subiscono a loro volta il giogo assiro e perciò interrogano il profeta circa la fine di quel drammatico periodo di sofferenza. Alla domanda, espressa metaforicamente, Isaia risponde in maniera piuttosto enigmatica. In quell’enigma c’è la risposta che apre il cuore alla speranza: il mattino si farà ancora aspettare perché la notte non è ancora terminata. La speranza verrà e dissiperà la tenebra dell’angoscioso disagio.
Qualcuno dice che Samuel Beckett va piangendo da tempo la morte di Dio, vale a dire, la morte della parola. Godot, che i misteriosi viandanti aspettano sotto un albero spoglio e stecchito, in un’ora e in un luogo senza storia, parlando con un non-senso, invoca ancora la parola. La parola, quando è pensata e comunicata, porta sempre a quella luce che è dentro l’uomo.
Ci sono parole per progettare e parole per commerciare, parole per costruire e parole per intuire, parole per esaltare e parole per distruggere, parole per lodare e parole per imprecare, parole per cantare e parole per filosofare, parole che conducono all’arcano incantesimo e parole che servono come espansione sonora.
Amo l’energia redentrice della parola appassionata che trascina, cattura e coinvolge in quel processo di abbraccio estatico che aiuta a scoprire l’uomo che pensa, spera e ama. La parola è la dote tipica dell’uomo che lo distingue dalle altre creature. La parola è dono divino offerto all’uomo per “dare il nome” alle creature e ai sentimenti. La parola, che cerca il senso della vita, accende l’amore tra gli uomini.
La parola muore quando si spegne l’uomo, perché muore il pensiero e si spegne l’uomo interiore. Qual è la parola più appassionata che dona speranza di vita ed energia d’amore alle nostre parole? Quella parola “invocata e attesa” non è il flatus vocis del vuoto mutismo, della vana attesa o della mancata promessa. La parola “invocata e attesa” è una Persona: il Logos Fos!

Una voce…! Il mio Diletto!
Eccolo viene saltando sui monti,
balzando sulle colline…
Parla il mio amato e mi dice:
“Alzati, mia amata,
mia bella e vieni!
Ecco, l’inverno è passato,
la pioggia è cessata…
I fiori rispuntano sulla terra…
Il fico emette le sue gemme,
le viti in fiore esalano profumo.
Alzati, mia amata, mia bella e vieni!
O mia colomba che ti annidi nelle fenditure della roccia
e negli anfratti dei dirupi,
fammi vedere il tuo viso,
fammi sentire la tua voce
perché la tua voce è soave
e il tuo viso affascinante” (Ct 2,8-14).

Cristo, l’invocato e l’atteso dalla sua diletta Chiesa-Sposa, è lo Sposo amato che viene e rimane, arriva e canta la bellezza della Sposa. E la Sposa risponde col canto di bellezza dello Sposo.
Se l’attesa è impazienza d’incontro, l’incontro è amore che ammira e si dona. Chi smette d’attendere e d’ammirare cessa d’amare. Il Logos Fos è ansia di luce che muove ogni cuore umano verso una vita più piena, un amore più grande, una libertà più autentica e vera.
Dov’è il Verbo-Luce atteso, sperato, venuto? Dov’è il Cristo veniente, vivente e presente? Egli è presente nelle Sante Scritture, nella Divina Eucaristia, nella Chiesa, suo Corpo e sua Sposa! Quella Chiesa che crede in Lui con amore appassionato e che coltiva sogni di pace e di concordia, di bellezza e di verità. Quella Chiesa che cerca, con cuore umile e assetato d’amore, le ragioni della speranza sui sentieri del Logos Agape. E cerca sapendo che Egli è sempre presente in tutte quelle realtà viventi di cui il Verbo è il cuore, l’anima e l’ardore più intenso. È presente nei cuori che cercano l’incontro che avverrà, in Lui e con Lui, Pellegrino senza frontiere, nei cieli nuovi e nella terra nuova della celeste Gerusalemme (cf. SC 7).
Profondamente coinvolta nell’incarnazione redentrice del Figlio di Dio, Maria non può non partecipare allo stesso modo alla sua risurrezione. Maria Assunta in cielo è il simbolo più alto e più vero dell’accoglienza e del traguardo della redenzione umana. Lei, che viene chiamata, con un’espressione molto significativa, «l’icona escatologica della Chiesa», ci assicura che il credente non attende invano qualcuno che non verrà mai. L’Assunzione della Vergine, che sorge dalla risurrezione di Cristo, la fa apparire come primizia e immagine della Chiesa (cf 1Cor 15,20-26). Presso il trono della Gloria c’è l’umiltà regale di Maria. Non attendiamo invano Colui che è venuto e ci ha promesso che verrà quando saremo sciolti dal tempo e dai suoi confini nell’evento della morte. Mentre attendiamo, Egli continua a restare con noi nel Mistero della sua Presenza sacramentale. Gesù non è né il lontano né l’assente, ma il “Presente” in un “oggi” che non ha tramonto.
C’è una domanda che, di eco in eco, si è ripetuta attraverso i secoli e che si continua a ripetere: Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo attenderne un altro? (Mt 11,3). E si vedono cristiani smarriti e senza speranza che hanno perduto la fiducia nel Cristo e nel cristianesimo. Forse perché un certo tipo di cristianesimo ha smarrito Cristo, facendo di Cristo un evanescente fantasma? E Giovanni, nel deserto della storia, continua a gridare: In mezzo a voi sta Uno che voi non conoscete; e finché non lo si incontra, non lo si conosce e non lo si riconosce, non si avrà mai la gioia piena dell’incontro d’amore con Lui. La felice sublimità che nasce dal rapporto cor ad cor con il Verbo Incarnato è libertà di armonie raggiunte, serenità di bufere domate, quiete di torturanti enigmi risolti. L’evangelista Giovanni ha sentito nascere dentro di sé la vera gioia quando ha fatto esperienza ineffabile e personale di essere amico dello Sposo: Sposo è colui che ha la sposa, ma l’amico dello Sposo sta lì e l’ascolta, trasalisce di gioia alla voce dello sposo: ora questa mia gioia si è compiuta (Gv 3,29). La gioia dell’incontro riposa nel mare placido e sconfinato della fiducia in Colui che è venuto e che attendiamo con cuore trepido per partecipare al Banchetto di Nozze dell’Agnello.
Cristo morto e risorto è la nostra salvezza! Ha condiviso il suo trionfo con la Chiesa, il nuovo popolo di Dio, simboleggiato dalla Donna vestita di sole dell’Apocalisse. Essa è la Sposa di Dio: partorisce nel dolore perché il popolo è peccatore, ma partorisce il Messia. Contro il popolo e il Messia si erge il drago, Satana. Cristo si sottrae al suo potere con la gloriosa risurrezione. La Chiesa, rifugiata nel deserto, affida la sua sorte soltanto a Dio, ed è sicura così che, alla fine, il suo Signore trionferà. La Vergine Madre è l’immagine vivente del popolo di Dio. Come esso, ha vissuto la prova della fede, il silenzio del deserto, la contraddizione della croce; ora è anche l’immagine gloriosa del futuro promesso ai figli di Dio.
Per san Paolo, il grande cantore della più incantevole Parusia, l’incontro ultimo sarà anche l’epilogo supremo di tutta la creazione, la quale, in ansiosa attesa, anela alla manifestazione gloriosa dei figli di Dio (cf Rm 8,19). L’attesa e il ritorno finale di Gesù esploderanno nel fremito di gioia che avvolgerà e travolgerà cielo e terra, Creatore e creature. L’attesa, che ebbe inizio nel Fiat creatore, s’immergerà nell’oceano dell’Amore glorificato, e i figli di Dio, in concorde polifonia, risponderanno col canto dell’ultima antifona della Santa Scrittura: Amen, Vieni, Signore Gesù! (Ap 22,20).

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BENEDETTO XVI : SAN MATTEO APOSTOLO – 21 SETTEMBRE

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2006/documents/hf_ben-xvi_aud_20060830_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 30 agosto 2006

SAN MATTEO APOSTOLO – 21 SETTEMBRE

Cari fratelli e sorelle,

proseguendo nella serie dei ritratti dei dodici Apostoli, che abbiamo cominciato alcune settimane fa, oggi ci soffermiamo su Matteo. Per la verità, delineare compiutamente la sua figura è quasi impossibile, perché le notizie che lo riguardano sono poche e frammentarie. Ciò che possiamo fare, però, è tratteggiare non tanto la sua biografia quanto piuttosto il profilo che ne trasmette il Vangelo.
Intanto, egli risulta sempre presente negli elenchi dei Dodici scelti da Gesù (cfr Mt 10,3; Mc 3,18; Lc 6,15; At 1,13). Il suo nome ebraico significa “dono di Dio”. Il primo Vangelo canonico, che va sotto il suo nome, ce lo presenta nell’elenco dei Dodici con una qualifica ben precisa: “il pubblicano” (Mt 10,3). In questo modo egli viene identificato con l’uomo seduto al banco delle imposte, che Gesù chiama alla propria sequela: “Andando via di là, Gesù vide un uomo seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: «Seguimi!». Ed egli si alzò e lo seguì” (Mt 9,9). Anche Marco (cfr 2,13-17) e Luca (cfr 5,27-30) raccontano la chiamata dell’uomo seduto al banco delle imposte, ma lo chiamano “Levi”. Per immaginare la scena descritta in Mt 9,9 è sufficiente ricordare la magnifica tela di Caravaggio, conservata qui a Roma nella chiesa di San Luigi dei Francesi. Dai Vangeli emerge un ulteriore particolare biografico: nel passo che precede immediatamente il racconto della chiamata viene riferito un miracolo compiuto da Gesù a Cafarnao (cfr Mt 9,1-8; Mc 2,1-12) e si accenna alla prossimità del Mare di Galilea, cioè del Lago di Tiberiade (cfr Mc 2,13-14). Si può da ciò dedurre che Matteo esercitasse la funzione di esattore a Cafarnao, posta appunto “presso il mare” (Mt 4,13), dove Gesù era ospite fisso nella casa di Pietro.
Sulla base di queste semplici constatazioni che risultano dal Vangelo possiamo avanzare un paio di riflessioni. La prima è che Gesù accoglie nel gruppo dei suoi intimi un uomo che, secondo le concezioni in voga nell’Israele del tempo, era considerato un pubblico peccatore. Matteo, infatti, non solo maneggiava denaro ritenuto impuro a motivo della sua provenienza da gente estranea al popolo di Dio, ma collaborava anche con un’autorità straniera odiosamente avida, i cui tributi potevano essere determinati anche in modo arbitrario. Per questi motivi, più di una volta i Vangeli parlano unitariamente di “pubblicani e peccatori” (Mt 9,10; Lc 15,1), di “pubblicani e prostitute” (Mt 21,31). Inoltre essi vedono nei pubblicani un esempio di grettezza (cfr Mt 5,46: amano solo coloro che li amano) e menzionano uno di loro, Zaccheo, come “capo dei pubblicani e ricco” (Lc 19,2), mentre l’opinione popolare li associava a “ladri, ingiusti, adulteri” (Lc 18, 11). Un primo dato salta all’occhio sulla base di questi accenni: Gesù non esclude nessuno dalla propria amicizia. Anzi, proprio mentre si trova a tavola in casa di Matteo-Levi, in risposta a chi esprimeva scandalo per il fatto che egli frequentava compagnie poco raccomandabili, pronuncia l’importante dichiarazione: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati: non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori” (Mc 2,17).
Il buon annuncio del Vangelo consiste proprio in questo: nell’offerta della grazia di Dio al peccatore! Altrove, con la celebre parabola del fariseo e del pubblicano saliti al Tempio per pregare, Gesù indica addirittura un anonimo pubblicano come esempio apprezzabile di umile fiducia nella misericordia divina: mentre il fariseo si vanta della propria perfezione morale, “il pubblicano … non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore»”. E Gesù commenta: “Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato, ma chi si umilia sarà esaltato” (Lc 18,13-14). Nella figura di Matteo, dunque, i Vangeli ci propongono un vero e proprio paradosso: chi è apparentemente più lontano dalla santità può diventare persino un modello di accoglienza della misericordia di Dio e lasciarne intravedere i meravigliosi effetti nella propria esistenza. A questo proposito, san Giovanni Crisostomo fa un’annotazione significativa: egli osserva che solo nel racconto di alcune chiamate si accenna al lavoro che gli interessati stavano svolgendo. Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni sono chiamati mentre stanno pescando, Matteo appunto mentre riscuote il tributo. Si tratta di lavori di poco conto – commenta il Crisostomo – “poiché non c’è nulla di più detestabile del gabelliere e nulla di più comune della pesca” (In Matth. Hom.: PL 57, 363). La chiamata di Gesù giunge dunque anche a persone di basso rango sociale, mentre attendono al loro lavoro ordinario.
Un’altra riflessione, che proviene dal racconto evangelico, è che alla chiamata di Gesù, Matteo risponde all’istante: “egli si alzò e lo seguì”. La stringatezza della frase mette chiaramente in evidenza la prontezza di Matteo nel rispondere alla chiamata. Ciò significava per lui l’abbandono di ogni cosa, soprattutto di ciò che gli garantiva un cespite di guadagno sicuro, anche se spesso ingiusto e disonorevole. Evidentemente Matteo capì che la familiarità con Gesù non gli consentiva di perseverare in attività disapprovate da Dio. Facilmente intuibile l’applicazione al presente: anche oggi non è ammissibile l’attaccamento a cose incompatibili con la sequela di Gesù, come è il caso delle ricchezze disoneste. Una volta Egli ebbe a dire senza mezzi termini: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel regno dei cieli; poi vieni e seguimi” (Mt 19,21). E’ proprio ciò che fece Matteo: si alzò e lo seguì! In questo ‘alzarsi’ è legittimo leggere il distacco da una situazione di peccato ed insieme l’adesione consapevole a un’esistenza nuova, retta, nella comunione con Gesù.
Ricordiamo, infine, che la tradizione della Chiesa antica è concorde nell’attribuire a Matteo la paternità del primo Vangelo. Ciò avviene già a partire da Papia, Vescovo di Gerapoli in Frigia attorno all’anno 130. Egli scrive: “Matteo raccolse le parole (del Signore) in lingua ebraica, e ciascuno le interpretò come poteva” (in Eusebio di Cesarea, Hist. eccl. III,39,16). Lo storico Eusebio aggiunge questa notizia: “Matteo, che dapprima aveva predicato tra gli ebrei, quando decise di andare anche presso altri popoli scrisse nella sua lingua materna il Vangelo da lui annunciato; così cercò di sostituire con lo scritto, presso coloro dai quali si separava, quello che essi perdevano con la sua partenza” (ibid., III, 24,6). Non abbiamo più il Vangelo scritto da Matteo in ebraico o in aramaico, ma nel Vangelo greco che abbiamo continuiamo a udire ancora, in qualche modo, la voce persuasiva del pubblicano Matteo che, diventato Apostolo, séguita ad annunciarci la salvatrice misericordia di Dio e ascoltiamo questo messaggio di san Matteo, meditiamolo sempre di nuovo per imparare anche noi ad alzarci e a seguire Gesù con decisione.

 

I lavoratori della vigna, Matteo 20, 1-16

I lavoratori della vigna, Matteo 20, 1-16 dans immagini sacre workers_in_vineyard

http://pericope.org/buls-notes/matthew/matthew_20_1_16.htm

Publié dans:immagini sacre |on 19 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

ISAIA 55,6-9 – (prima lettura di domenica, commento biblico)

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Isaia%2055,6-9

ISAIA 55,6-9

6 Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino. 7 L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona.
8 Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie — oracolo del Signore. 9 Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.

COMMENTO
Isaia 55,6-9
La ricerca di Dio
Nella seconda parte del libro di Isaia (Is 40-55), opera di un profeta anonimo chiamato Deuteroisaia, si preannunzia e si prepara il ritorno nella loro terra dei giudei esiliati in Babilonia (538 a.C.). La sezione inizia con l’evocazione di una grande strada che si apre nel deserto, lungo la quale gli esuli si incamminano sotto la guida di Dio (Is 40), e termina con un poema nel quale si riafferma la fedeltà di Dio che porterà a compimento tutte le sue promesse (Is 55). Quest’ultimo capitolo si divide in tre parti: 1) il rinnovamento dell’alleanza davidica (vv. 1-5); 2) l’efficacia della parola di JHWH (vv. 6-11); 3) Rinnovamento di tutte le cose (vv. 12-13). Il testo liturgico riprende la prima metà della seconda parte di questo capitolo. Essa inizia con un’esortazione generale alla ricerca di Dio (v. 6), che diventa poi un invito alla conversione (v. 7), seguito da una motivazione di carattere teologico (vv. 8-9).
Il testo liturgico inizia con queste parole: «Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino» (v. 6). Il tema del «ricercare» (darash) Dio nasce dalla consuetudine diffusa in tutte le religioni di visitare il santuario di una divinità per poterla incontrare nella statua che la rappresenta e ottenere da essa doni e grazie. L’incontro con la statua era l’occasione di una forte esperienza religiosa. Anche in Israele il termine indicava originariamente la visita al santuario di JHWH per richiedere una responso per mezzo di un oracolo (cfr. Dt 17,9;). Il termine assume però altre connotazioni, quali l’essere fedeli a Dio (cfr. Os 10,12; Am 5,4.6; Is 9,12), pregarlo (cfr. Sal 69,23-24; 105,4), compiere la sua volontà (cfr. Is 31,1; Ger 10,21). In questo contesto l’invito a ricercare Dio è parallelo a quello di invocarlo e ha come motivazione il fatto che egli si fa trovare, è vicino. Rivolto agli esuli, questo invito ha lo scopo di renderli attenti alla presenza di Dio nella storia e disponibili lasciarsi coinvolgere nella sua azione, che sta per configurarsi in un intervento risolutivo a loro favore, la liberazione e il ritorno nella loro terra.
L’esigenza di cercare Dio comporta quindi un impegno preciso: «L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona» (v. 7). Il termine «empio» (rasha‘), in parallelismo con «uomo iniquo» (îsh awen) indica colui che non si preoccupa di compiere il volere di Dio nella sua vita quotidiana. In questo contesto indica quei giudei che si erano stabiliti nella terra d’esilio integrandosi nella società in cui si trovavano senza più pensare alla possibilità di un ritorno nella loro terra. L’empio e l’iniquo sono invitati ad abbandonare rispettivamente la loro via e i loro pensieri. Per la legge del parallelismo i due termini sono equivalenti; ma le «vie» sono piuttosto i comportamenti pratici, mentre «pensieri» indicano più direttamente i propositi e i progetti che ne sono la causa. Secondo la mentalità biblica pensieri e azione sono intimamente collegati: per trasformare la prassi è indispensabile mutare la mentalità, il cuore delle persone. Positivamente l’empio è invitato a «ritornare» (shûb) a Dio. Questo verbo indica la «conversione», che consiste in un cambiamento di rotta per ritornare sul proprio cammino e incontrare nuovamente JHWH. Per colui che è andato fuori strada non è facile convertirsi, soprattutto se sussiste l’immagine di un Dio vendicativo e crudele. Perciò il profeta sottolinea che JHWH è un Dio misericordioso e disponibile al perdono. Per colui che si è allontanato un gesto radicale di cambiamento è possibile solo se è sicuro di ottenere il perdono.
Per cogliere fino in fondo la misericordia infinita di Dio bisogna superare la tendenza spontanea a immaginare Dio con categorie umane. È questo il problema di ogni pratica religiosa. Il profeta lo affronta in questi termini: «Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie – oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri» (vv. 8-9). Anche Dio ha i suoi pensieri e le sue vie, ma sia gli uni che le altre sono totalmente diversi da quelli dell’uomo. I pensieri di Dio sono i suoi progetti in favore del cosmo e dell’uomo. Le sue vie sono i suoi interventi nella storia. Ciò che Dio pensa e per cui agisce è solo la salvezza del suo popolo e in prospettiva di tutta l’umanità. I pensieri e le vie di Dio non solo sono diversi, ma «sovrastano» quelli dell’uomo, sono più alti di essi come è più alto il cielo rispetto alla terra. I piani di Dio sono quindi sconosciuti all’uomo, e questo non solo perché Dio è un Dio misterioso (cfr Is 45,15), ma anche e soprattutto perché l’uomo è rivolto alle cose che gli interessano, mentre Dio cerca il vero bene di tutti. Dio progetta e dirige la storia in un modo superiore e sovrano. L’esilio e il ritorno lo rivelano a quelli che sanno comprendere.

Linee interpretative
In questo testo il Deuterosisaia presenta Dio da una parte come Colui che è immensamente superiore all’uomo, che ha pensieri e comportamenti diametralmente opposti ai suoi. D’altra parte però lo presenta anche come Colui che è vicino e si lascia trovare dall’uomo. In forza della sua trascendenza, Dio non può essere definito, perché inevitabilmente sarebbe ridotto a categorie umane. Di lui si può dire con più sicurezza quello che non è che non quello che è. Tutto quanto si dice di Lui non può essere che una metafora, un’analogia totalmente inadeguata al suo vero essere. Tuttavia questo Dio inaccessibile si fa vicino all’uomo e gli parla attraverso gli eventi della storia, interpretati dai suoi profeti. Costoro sono persone che hanno una percezione più diretta e immediata del divino così come si manifesta nel mondo e nella storia. La loro parola è luce e guida per tutto il popolo, specialmente nei momenti più cruciali, come è quello del ritorno dall’esilio. Coloro a cui si rivolgono devono ascoltarli: ciò non li esime però da una ricerca personale, senza della quale non potranno discernere i veri dai falsi profeti.
Nel contesto biblico la ricerca di Dio non consiste in una riflessione astratta circa la sua natura e i suoi attributi, ma piuttosto in una «conversione» vissuta, che si esplica nell’impegno quotidiano per vivere secondo i suoi comandamenti. Nella prospettiva profetica questi non coincidono con le numerose prescrizioni della legge mosaica, ma in quello che ne è il fondamento, il decalogo. L’empio non è colui che rifiuta a Dio gesti esterni di culto, ma colui che gli nega il vero sacrificio di lode. Per trovare Dio gli israeliti devono anzitutto instaurare rapporti autentici di giustizia e di solidarietà tra di loro. L’amore del prossimo, mediante il quale si ricostituisce l’unità del popolo, sta alla base di una vera conversione e rappresenta il primo effetto dell’intervento di Dio e la condizione indispensabile perché esso giunga a compimento.

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