Archive pour le 16 septembre, 2014

« J’attens la resurrection des mort »

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Publié dans:immagini sacre |on 16 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

LA FEDE CHE PIÙ AMO, DICE DIO, È LA SPERANZA. – CHARLES PÉGUY

http://www.fractio.it/Gemme.htm

LA FEDE CHE PIÙ AMO, DICE DIO, È LA SPERANZA. – CHARLES PÉGUY

La fede che più amo, dice Dio, è la speranza.
La fede, no, non mi sorprende. La fede non è sorprendente.

Io risplendo talmente nella mia creazione.
Nel sole e nella luna e nelle stelle. In tutte le mie creature.
Negli astri del firmamento e nei pesci del mare. Nell’universo delle mie creature.
Sulla faccia della terra e sulla faccia delle acque.
Nei movimenti degli astri che sono nel cielo.
Nel vento che soffia sul mare e nel vento che soffia nella valle. Nella calma valle.
Nella quieta valle. Nelle piante e nelle bestie e nelle bestie delle foreste.
E nell’uomo. Mia creatura.
Nei popoli e negli uomini e nei re e nei popoli. Nell’uomo e nella donna sua compagna.
E soprattutto nei bambini. Mie creature.
Nello sguardo e nella voce dei bambini. Perché i bambini sono più creature mie.
Che gli uomini. Non sono ancora stati disfatti dalla vita. Della terra.
E fra tutti sono i miei servitori. Prima di tutti.
E la voce dei bambini è più pura della voce del vento nella calma della valle.
Nella quieta valle.
E lo sguardo dei bambini è più puro dell’azzurro del cielo, del bianco latteo del cielo, e di un raggio di stella nella calma notte.

Ora io risplendo talmente nella mia creazione.
Sulla faccia delle montagne e sulla faccia della pianura.
Nel pane e nel vino e nell’uomo che ara e nell’uomo che semina e nella mietitura
e nella vendemmia.
Nella luce e nelle tenebre.
E nel cuore dell’uomo, che è ciò che di più profondo v’è nel mondo. Creato.
(….)
Nella preghiera e nei sacramenti.
Nelle case degli uomini e nella chiesa che è la mia casa sulla terra.
Nell’aquila mia creatura che vola sui picchi.
L’aquila reale che ha almeno due metri d’apertura d’ali e fors’anche tre.
E nella formica mia creatura che striscia e che ammassa miseramente.
Nella terra. Nella formica mio servitore. E fin nel serpente.
Nella formica mia serva, mia infima serva, che ammassa a fatica, la parsimoniosa.
Che lavora come una disgraziata e non conosce sosta e non conosce riposo.
Se non la morte e il lungo sonno invernale.
(…)
Io risplendo talmente in tutta la mia creazione.
Nell’infima, nella mia creatura infima, nella mia serva infima, nella formica infima.
Che tesaurizza miseramente, come l’uomo. Come l’uomo infimo.
E che scava gallerie nella terra. Nel sottosuolo della terra.
Per ammassarvi meschinamente dei tesori. Temporali. Poveramente.
(….)
Io risplendo talmente nella mia creazione.
In tutto ciò che accade agli uomini e ai popoli, e ai poveri.
E anche ai ricchi. Che non vogliono esser mie creature. E che si mettono al riparo.
Per non esser miei servitori.
In tutto ciò che l’uomo fa e disfa in male e in bene.
(E io passo sopra a tutto, perché sono il Signore, e faccio ciò che lui ha disfatto e disfo quello che lui ha fatto).
E fin nella tentazione del peccato. Stesso.
E in tutto ciò che è accaduto a mio figlio. A causa dell’uomo. Mia creatura.
Che io avevo creato.
Nell’incorporazione, nella nascita e nella vita e nella morte di mio figlio.
E nel santo sacrificio della Messa.
In ogni nascita e in ogni vita. E in ogni morte.
E nella vita eterna che non avrà mai fine. Che vincerà ogni morte.
Io risplendo talmente nella mia creazione.
Che per non vedermi realmente queste povere persone dovrebbero esser cieche.
La carità, dice Dio, non mi sorprende.
La carità, no, non è sorprendente.
Queste povere creature son così infelici che, a meno di aver un cuore di pietra, come potrebbero non aver carità le une per le altre.
Come potrebbero non aver carità per i loro fratelli.
Come potrebbero non togliersi il pane di bocca, il pane di ogni giorno, per darlo a dei bambini infelici che passano.
E da loro mio figlio ha avuto una tale carità.
Mio figlio loro fratello.
Una così grande carità.
Ma la speranza, dice Dio, la speranza, sì, che mi sorprende.
Me stesso.
Questo sì che è sorprendente.
Che questi poveri figli vedano come vanno le cose e credano che domani andrà meglio.
Che vedano come vanno le cose oggi e credano che andrà meglio domattina.
Questo sì che è sorprendente ed è certo la più grande meraviglia della nostra grazia.
Ed io stesso ne son sorpreso.
E dev’esser perché la mia grazia possiede davvero una forza incredibile.
E perché sgorga da una sorgente e come un fiume inesauribile
Da quella prima volta che sgorgò e da sempre che sgorga.
Nella mia creazione naturale e soprannaturale.
Nella mia creazione spirituale e carnale e ancora spirituale.
Nella mia creazione eterna e temporale e ancora eterna.
Mortale e immortale.
E quella volta, oh quella volta, da quella volta che sgorgò, come un fiume di sangue,
dal fianco trafitto di mio figlio.
Quale non dev’esser la mia grazia e la forza della mia grazia perché questa piccola speranza, vacillante al soffio del peccato, tremante a tutti i venti,
ansiosa al minimo soffio,
sia così invariabile, resti così fedele, così eretta, così pura; e invincibile, e immortale, e impossibile da spegnere; come questa fiammella del santuario.
Che brucia in eterno nella lampada fedele.
Una fiamma tremolante ha attraversato la profondità dei mondi.
Una fiamma vacillante ha attraversato la profondità delle notti.
Da quella prima volta che la mia grazia è sgorgata per la creazione del mondo.
Da sempre che la mia grazia sgorga per la conservazione del mondo.
Da quella volta che il sangue di mio figlio è sgorgato per la salvezza del mondo.
Una fiamma che non è raggiungibile,
una fiamma che non è estinguibile dal soffio della morte.
Ciò che mi sorprende, dice Dio, è la speranza.
E non so darmene ragione.
Questa piccola speranza che sembra una cosina da nulla.
Questa speranza bambina. Immortale.
Perché le mie tre virtù, dice Dio. Le tre virtù mie creature. Mie figlie mie fanciulle.
Sono anche loro come le altre mie creature. Della razza degli uomini.
La Fede è una Sposa fedele.
La Carità è una Madre.
Una madre ardente, ricca di cuore.
O una sorella maggiore che è come una madre.
La Speranza è una bambina insignificante.
Che è venuta al mondo il giorno di Natale dell’anno scorso.
Che gioca ancora con il babbo Gennaio.
Con i suoi piccoli abeti in legno di Germania coperti di brina dipinta.
E con il suo bue e il suo asino in legno di Germania. Dipinti.
E con la sua mangiatoia piena di paglia che le bestie non mangiano.
Perché sono di legno.
Ma è proprio questa bambina che attraverserà i mondi. Questa bambina insignificante.
Lei sola, portando gli altri, che attraverserà i mondi passati.
Come la stella ha guidato i tre re dal più remoto Oriente.
Verso la culla di mio figlio.
Così una fiamma tremante. Lei sola guiderà le Virtù e i Mondi.
Una fiamma squarcerà delle tenebre eterne.
(…)
Si dimentica troppo, bambina mia, che la speranza è una virtù, che è una virtù teologale, e che di tutte le virtù, e delle tre virtù teologali, è forse quella più gradita a Dio.
Che è certamente la più difficile, che è forse l’unica difficile,
e che probabilmente è la più gradita a Dio.
La fede va da sé. La fede cammina da sola. Per credere basta solo lasciarsi andare, basta solo guardare. Per non credere bisognerebbe violentarsi, torturarsi, tormentarsi, contrariarsi. Irrigidirsi. Prendersi a rovescio, mettersi a rovescio, andare all’inverso. La fede è tutta naturale, tutta sciolta, tutta semplice, tutta quieta. Se ne viene pacifica. E se ne va tranquilla. È una brava donna che si conosce, una brava vecchia, una brava vecchia parrocchiana, una brava donna della parrocchia, una vecchia nonna, una brava parrocchiana. Ci racconta le storie del tempo antico, che sono accadute nel tempo antico. Per non credere, bambina mia, bisognerebbe tapparsi gli occhi e le orecchie.
Per non vedere, per non credere.
La carità va purtroppo da sé. La carità cammina da sola. Per amare il proprio prossimo basta solo lasciarsi andare, basta solo guardare una tal miseria. Per non amare il proprio prossimo bisognerebbe violentarsi, torturarsi, tormentarsi, contrariarsi. Irrigidirsi. Farsi male. Snaturarsi, prendersi a rovescio, mettersi a rovescio. Andare all’inverso. La carità è tutta naturale, tutta fresca, tutta semplice, tutta quieta. È il primo movimento del cuore. E il primo movimento quello buono. La carità è una madre e una sorella.
Per non amare il proprio prossimo, bambina mia,
bisognerebbe tapparsi gli occhi e le orecchie.
Dinanzi a tanto grido di miseria.
Ma la speranza non va da sé. La speranza non va da sola. Per sperare, bambina mia, bisogna esser molto felici, bisogna aver ottenuto, ricevuto una grande grazia.
È la fede che è facile ed è non credere che sarebbe impossibile. È la carità che è facile ed è non amare che sarebbe impossibile. Ma è sperare che è difficile
(…)
E quel che è facile e istintivo è disperare ed è la grande tentazione.
La piccola speranza avanza fra le due sorelle maggiori
e su di lei nessuno volge lo sguardo.

Sulla via della salvezza, sulla via carnale, sulla via accidentata della salvezza, sulla strada interminabile, sulla strada fra le sue due sorelle la piccola speranza.
Avanza. Fra le due sorelle maggiori. Quella che è sposata. E quella che è madre.
E non si fa attenzione, il popolo cristiano non fa attenzione che alle due sorelle maggiori.
La prima e l’ultima. Che badano alle cose più urgenti. Al tempo presente.
All’attimo momentaneo che passa.
il popolo cristiano non vede che le due sorelle maggiori, non ha occhi che per le due sorelle maggiori.
Quella a destra e quella a sinistra.
E quasi non vede quella ch’è al centro.
La piccola, quella che va ancora a scuola. E che cammina.
Persa fra le gonne delle sorelle.
E ama credere che sono le due grandi a portarsi dietro la piccola per mano.
Al centro. Fra loro due.
Per farle fare questa strada accidentata della salvezza.
Ciechi che sono a non veder invece
Che è lei al centro a spinger le due sorelle maggiori.
E che senza di lei loro non sarebbero nulla.
Se non due donne avanti negli anni. Due donne d’una certa età. Sciupate dalla vita.
È lei, questa piccola, che spinge avanti ogni cosa.
Perché la Fede non vede se non ciò che è. E lei, lei vede ciò che sarà.
La Carità non ama se non ciò che è. E lei, lei ama ciò che sarà.
La Fede vede ciò che è. Nel Tempo e nell’Eternità.
La Speranza vede ciò che sarà. Nel tempo e per l’eternità.
Per così dire nel futuro della stessa eternità.
La Carità ama ciò che è. Nel Tempo e nell’Eternità.
Dio e il prossimo.
Così come la Fede vede.
Dio e la creazione.
Ma la Speranza ama ciò che sarà. Nel tempo e per l’eternità.
Per così dire nel futuro dell’eternità.
La Speranza vede quel che non è ancora e che sarà.
Ama quel che non è ancora e che sarà.
Nel futuro del tempo e dell’eternità.
Sul sentiero in salita, sabbioso, disagevole. Sulla strada in salita.
Trascinata, aggrappata alle braccia delle due sorelle maggiori,
Che la tengono per mano. La piccola speranza. Avanza.
E in mezzo alle due sorelle maggiori sembra lasciarsi tirare.
Come una bambina che non abbia la forza di camminare.
E venga trascinata su questa strada contro la sua volontà.
Mentre è lei a far camminar le altre due.
E a trascinarle. E a far camminare tutti quanti. E a trascinarli.
Perché si lavora sempre solo per i bambini.
E le due grandi camminan solo per la piccola.

Publié dans:Letteratura straniera, poesie |on 16 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

LE CANDELE – (CHIESA ORTODOSSA)

http://www.ortodossiatorino.net/DocumentiSezDoc.php?cat_id=27&id=575

LE CANDELE – (CHIESA ORTODOSSA)

Che cosa fa un cristiano ortodosso appena varcata la soglia di una chiesa? In nove casi su dieci, va al banco delle candele. La nostra pratica del cristianesimo, il nostro coinvolgimento nel suo rito, inizia con una piccola candela di cera d’api. È impossibile immaginare una chiesa ortodossa in cui non si accendono candele.

Il Beato Simeone di Tessalonica (XV secolo), commentatore della Liturgia, dice che la cera pura simbolizza la purezza e la castità di quanti la offrono. L’offerta è un segno di pentimento per l’ostinazione e la volontà personale. La morbidezza e la flessibilità della cera indicano la nostra prontezza a obbedire a Dio. La candela che brucia rappresenta la deificazione dell’essere umano, il suo divenire creatura nuova attraverso il fuoco dell’amore di Dio.

Inoltre, la candela è un testimone della fede, della nostra appartenenza alla luce divina. Esprime la fiamma del nostro amore per il Signore, per la Madre di Dio, per gli angeli e per i santi. Non si deve accendere una candela con il cuore freddo, come mera formalità. L’azione esterna deve avere il supplemento della preghiera, anche la più semplice, usando le proprie parole.

Una candela accesa è presente in molte funzioni della chiesa. Ne tengono in mano una i nuovi battezzati, e quanti si uniscono l’uno all’altra nel mistero del Matrimonio. Il rito del funerale si compie in mezzo a una moltitudine di candele accese. Proteggendo dal vento le loro candele accese, i fedeli camminano nelle processioni della Croce. Non vi sono regole assolute su quali e quante candele si devono offrire. Il loro acquisto è un piccolo sacrificio a Dio, volontario e non pesante. Una candela larga e costosa non è portatrice di maggiore grazia rispetto a una piccola.

Chi è meticoloso ad andare in chiesa cerca di accendere diverse candele in ogni visita: davanti all’icona della festa al centro della chiesa, all’icona del Salvatore o della Madre di Dio – per la salute dei propri cari, e al candelabro rettangolare (kanun) di fronte alla Croce – per il riposo delle anime dei defunti. Se il cuore lo desidera, si possono accendere candele a qualsiasi santo.

Talvolta accade che tutti gli spazi di un candelabro siano pieni, e non c’è posto per accendere un’altra candela. Non si dovrebbe spegnere una candela che sta ancora bruciando per rimpiazzarla con la propria. È meglio chiedere a uno degli attendenti di accenderla al momento appropriato. E nessuno si deve rattristare se, alla fine della funzione, la sua candela viene spenta; il sacrificio è già stato accettato da Dio.

Non c’è ragione di credere che si debba accendere una candela solo con la mano destra, che se la candela si spegne da sola questo sia un segno sfortunato, o che bruciacchiare il fondo di una candela per farla meglio aderire al candelabro sia un peccato, etc. Ci sono molte superstizioni simili, e sono tutte prive di senso.

La candela di cera che brucia è gradita a Dio, ma Egli gradisce ancor di più l’ardore dei cuori. La nostra vita spirituale, la nostra partecipazione alle funzioni della chiesa, non è limitata alle candele. Le candele non ci liberano dai peccati, non ci uniscono a Dio, e non ci danno il potere di combattere la guerra spirituale. La candela è ricca di significato simbolico, ma noi non siamo salvati dai simboli, bensì dalla piena realtà, la Grazia increata di Dio.

Perché usare candele di cera d’api?

La cera pura d’api, così come l’olio d’oliva, il vino, il frumento e altre sostanze naturali e pure, è un elemento essenziale del culto della Chiesa ortodossa. La cera, anche se prodotta dalle api, non contiene materiale di origine animale, e pertanto simbolizza sia la purezza dei doni, sia la sincerità di chi dona.

La cera d’api viene impiegata assieme all’olio per alimentare le luci davanti agli oggetti sacri, ed è stata usata nella pratica costante della Chiesa ortodossa fin dai primi secoli. Purtroppo, a causa della mentalità molto utilitaristica introdotta anche nelle chiese negli ultimi secoli, oggi si fa ricorso in molti luoghi di culto ortodossi a candele composte in quantità più o meno elevata di paraffina.

La paraffina si produce « decerando » i residui del petrolio dall’olio lubrificante. Per fare candele, il petrolio deve essere purificato per mezzo di un’operazione decerante a base di solventi. Il petrolio è trattato con acido solforico seguito dal filtraggio nella creta e dalla deodorazione per rimuovere le impurità. La paraffina di petrolio, di cui sono fatte la maggior parte delle candele commerciali, è anche la base della fabbricazione di etano, propano e butano. La presenza di alcune impurità nella paraffina può dare origine a irritazioni della pelle e in rari casi all’eczema (infiammazione cronica della pelle). Le candele di paraffina producono una fuliggine nera che ricopre gradualmente dipinti, arredi e mura. Talora è visibile sulle candele stesse. Queste tendono anche a gocciolare eccessivamente, lasciando spesso colate mentre bruciano.

La ragione dell’uso della paraffina è esclusivamente di natura economica: mischiando la cera con paraffina – o sostituendola del tutto – si riducono i costi di produzione. Questo atto, però, non resta senza risultati sul piano della pratica della fede cristiana. Se crediamo – e siamo disposti ad ammetterlo con tutta la forza del nostro ragionamento – che « solo il nostro meglio è buono abbastanza per un’offerta al Signore », allora la trasformazione di un’offerta di prima qualità in un’offerta più scadente equivale simbolicamente a una perdita di fede. Leggiamo a proposito il capitolo 4 della Genesi: Caino fa un’offerta che Dio non gradisce (a differenza di Abele, che offre le primizie del suo gregge), e le conseguenze di questo gesto sono tragiche.

Certo, le condizioni di difficoltà di una chiesa ortodossa che sorge fuori di un proprio ambiente tradizionale – e senza i canali adeguati di rifornimento di materiali – giustificano più che ampiamente il ricorso a forme provvisorie per venire incontro alle necessità immediate (si può ricordare a proposito anche l’uso delle riproduzioni di icone al posto delle vere icone dipinte). Ciò non toglie, tuttavia, che quanto prima possibile una chiesa ortodossa dovrebbe adeguarsi al meglio del proprio ideale di culto, senza rimanere adagiata sui surrogati mondani.

Publié dans:meditazioni |on 16 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

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