Archive pour le 4 septembre, 2014

San Mosè Profeta

San Mosè Profeta dans immagini sacre 30

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Publié dans:immagini sacre |on 4 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

1. LA TORAH SCRITTA E LA TORAH ORALE

http://www.luzappy.eu/ebra/torah.htm

1. LA TORAH SCRITTA E LA TORAH ORALE

(non conosco l’autore, ma sulla Home Page del sito c’è la foto della Sinagoga di Roma)

Due premesse.
a) Una precisazione sul significato di Torah. Il termine ebraico Torah (dal verbo jarah «istruire, ammaestrare») è stato tradotto con il greco nòmos e il latino lex. Non si tratta di una traduzione molto corretta, perché «legge» fa venire in mente qualcosa di negativo, di pesante da mettere in pratica (da qui l’idea del Dio che punisce i trasgressori). Torah significa invece «insegnamento, guida». Non si tratta quindi di leggi fondate giuridicamente, emanate da un sovrano o da un parlamento, ma di istruzioni, norme di vita e di comportamento. In senso teologico, non si tratta di qualcosa di vincolante e schiavizzante, a cui contrapporre un vangelo di liberazione («non sono venuto ad abolire la torah, ma a completarla»); si tratta piuttosto della santificazione della vita umana secondo la volontà di Dio, si tratta di un grande dono di grazia che Dio fa affinché l’uomo possa vivere in un giusto rapporto con lui. Nell’ebraismo, il termine Torah (ammaestramento, conoscenza) può indicare:
· l’istruzione umana così come è data quotidianamente
· la dottrina divina comunicata oralmente
· la dottrina divina fissata per iscritto
· i primi cinque libri della Bibbia ebraica (pentateuco).

b) L’ebraismo è accomunato al cristianesimo e all’islam per il fatto di essere una «religione del libro». Il testo scritto, però, in tutte le culture, è sempre preceduto dalla narrazione orale (si pensi ai poemi omerici), la quale poi dà luogo ad una fissazione per scritto.
Ora, se è vero che anche nell’ebraismo le cose sono andate in questo modo (e la moderna critica biblica lo ha dimostrato chiaramente), è anche vero che nell’ebraismo non si può parlare di testo scritto senza testo orale e viceversa: tra scritto e orale c’è una dialettica continua, perché, se è importante il testo, è forse più importante il commento, come mostra questo racconto tratto dal Talmud:
«Una volta un pagano si presentò davanti a Shammai e gli disse: “Voglio convertirmi a patto di imparare tutta la Torah nel tempo in cui si può stare su un piede solo”. Shammai lo mandò via spingendolo col bastone che aveva in mano. Allora si presentò a Hillel, il quale lo convertì dicendogli: “Ciò che a te non piace, non farlo al tuo prossimo! Questa è tutta la Torah, il resto è solo commento. Va’ e studia”» [Shabbat 31b].
L’esempio mostra come nell’ebraismo la Torah scritta non possa essere separata dalla Torah orale.

1.1. Torah scritta (Torah she-bi-khtav)
Quella che di solito, con termine greco, si chiama Bibbia, gli ebrei la chiamano TaNaK, che è l’acronimo delle tre parti di cui è costituita la Bibbia: Torah, Neviim, Ketuvim.
La Torah comprende cinque libri (Pentateuco): Genesi (bereshit: all’inizio); Esodo (shemòt: nomi); Levitico (wahiqrà: li chiamò); Numeri (ba-midbàr: nel deserto); Deuteronomio (ha-debbarìm: parole).
La Bibbia ebraica distingue tra profeti anteriori (Giosuè, Giudici, 1-2 Samuele, 1-2 Re) e profeti posteriori (15 libri; i più importanti Isaia, Geremia, Ezechiele, Osea, Amos, Giona). Il termine nabi (dal verbo naba «gridare, proclamare») significa all’attivo «colui che proclama» e al passivo «colui che è chiamato».
Gli agiografi (Ketuvin), a differenza dei profeti, sono definiti «parola ispirata», mentre quella dei profeti è definita «parola riferita». Ciò significa che alla base c’è una diversa intensità di ispirazione profetica. Mentre la predicazione di un profeta è il risultato di una comunicazione di Dio al profeta stesso, nei Ketuvin si può e si deve parlare di una ispirazione che fa loro affermare una certa predicazione: si tratta di persone colpite dall’ispirazione e quindi del tutto affidabili, nonostante alcuni di essi risultino piuttosto problematici. Tra i Ketuvim: Salmi (Tehillim «lodi»); Proverbi (meshalim), Giobbe, Cantico dei Cantici (Shir hashirim), Ruth, Qoelet, Ester, Daniele, Ezra, Nehemia, 1-2 Cronache. Cinque Meghillot: Cantico dei cantici a Pesach, Ruth a Shavuot, Lamentazione a Tichah be-Av, Qoelet a Sukkot, Ester a Purim.

1.2. La Torah orale (Torah she-be-al peh)
Partiamo dalla parola lettura. In italiano questo termine ha molti significati: può indicare una lettura silenziosa, mentale, come quella che abitualmente si pratica oggi quando si legge un libro, un giornale, un’insegna, una lettera; oppure una lettura ad alta voce, perché gli altri ascoltino, pur senza avere il testo davanti: è la lettura che si fa nelle assemblee religiose o civili, a scuola, a gente che non sa leggere (gli antichi invece leggevano sempre ad alta voce, anche quando erano soli, quindi il loro leggere era anche un ascoltare); infine, lettura significa modo di intendere e interpretare ciò che si legge.
Ora, quando noi ci occupiamo del modo ebraico di leggere la Scrittura, dobbiamo prima di tutto tener presente che in ebraico la «Scrittura» si dice miqrah, termine che significa «lettura»; esso deriva dal verbo qarah, che significa «leggere, chiamare, gridare, nominare» (dalla stessa radice semitica qr’ deriva, tra l’altro, anche il termine al-quràn, Corano). Come si vede, tutti fatti acustici. Questo ci aiuta a capire che, delle tre modalità di lettura che ho citato prima, per la Bibbia ebraica ce ne sono una che non conta e due che contano: la lettura silenziosa no; la proclamazione ascoltata e l’interpretazione sì.

1.2.1. Modalità di lettura
Uno dei primi esempi di questo tipo di lettura è presente in Neemia 8,1-8. Questa scena, avvenuta verso il 444 a.e.v. o circa cinquant’anni prima (vi sono rilevanti problemi di cronologia), ci rappresenta per la prima volta un culto di lettura. In questo periodo il secondo tempio esisteva già (era stato infatti consacrato nel 515). Qui però avviene qualcosa fuori dal tempio, in piazza, cioè nella situazione primitiva della sinagoga (le più antiche sinagoghe erano le piazze). Infatti ci sono già i due elementi fondamentali della sinagoga: la tribuna alzata e il libro. Il centro di questa solenne seduta non è l’altare, ma il sefer («rotolo») che viene portato con la solennità che si usa quando si estrae il rotolo dall’Arca e lo si porta per la lettura. Questo rotolo contiene la legge di Dio.
Come avviene questa lettura? Prima di tutto, c’è una cerimonia di «onore al libro». Segue una benedizione. Il libro viene letto a sezioni, con l’assistenza di alcune persone. Il brano descrive una collaborazione alla lettura: «Essi leggevano nel libro»; poi si dice: «ne davano il senso per far capire al popolo quello che leggevano». Cosa sarà questo ne davano il senso (terzo significato del termine lettura di cui s’è detto sopra)? Può essere due cose contemporaneamente: facevano il targum, cioè la traduzione in aramaico (perché la gente non capiva più l’ebraico) e, al tempo stesso, ne davano un’interpretazione, una spiegazione.
Analizziamo questa scena visivamente (analizzarla all’interno della sinagoga di sabato al giorno d’oggi sarebbe la stessa cosa). In che modo l’assemblea entra in rapporto con la Scrittura o, per dirla in ebraico, con la miqrà (lettura)? Non è qualcosa di assimilabile ad un sapiente o a un non sapiente che legge e pensa a ciò che lo Spirito gli fa capire. Nell’ebraismo, al contrario, bisogna sempre usare il plurale e parlare di fedeli, di assemblea, perché il libro non può essere estratto dall’Arca e letto se non c’è il cosiddetto miniam, cioè la presenza di almeno dieci uomini. Ora, i fedeli non stanno in rapporto diretto con il Libro. C’è piuttosto una situazione di tipo triangolare: tra l’assemblea e il Libro sta la tradizione, che, in termine tecnico, è chiamata Torah she-be-’al pèh, che significa «la torah che sta sulla bocca». Non solo sulla bocca di chi legge, ma anche sulla bocca di tutte le generazioni che li hanno preceduti.
L’assemblea di ascolto non è altro che l’attualizzazione del momento in cui sul Sinai c’è stato il dono della Torah a Mosè. Secondo Es 20,18-20, la gente non voleva neppure sentire la voce di Dio perché aveva troppa paura ed era Mosè che riceveva e trasmetteva, cioè faceva da mediatore tra Dio e il popolo in ascolto (Esodo 20,18-21). Dunque, nella situazione di lettura della Torah di qualunque secolo, anche di oggi, dobbiamo sempre tener presente che tra l’assemblea e il Libro c’è la tradizione orale.
Il trattato rabbinico Pirqè Avòt («Capitoli dei Padri») comincia con queste parole: «Mosè ricevette (qibbel) la Torah dal Sinai e la trasmise (mesarah) a Giosuè, Giosuè agli anziani, gli anziani ai profeti e i profeti la trasmisero agli uomini della grande assemblea (knesset ha-gedolah). Questi dicevano tre cose: Siate misurati nel giudicare, suscitate molti discepoli e fate una siepe (sejag) intorno alla Torah». Un commentatore medievale, Machazor di Vitry, chiarisce: «La Torah tutta intera, sia quella scritta sia quella orale». E il più antico rabbì Jonà: «Sia la Torah che è stata messa per iscritto (Torah she-bi-khtav) sia la Torah che è sulla bocca (Torah she be-al-peh), perché la Torah è già stata data insieme alle sue interpretazioni».
Tutto ciò che costituisce la Torah orale è anch’esso rivelazione sinaitica, che Mosè non ha messo per iscritto, ma ha trasmesso oralmente. Dal punto di vista ebraico la Torah scritta è come un vascello trasportato da un fiume, che è la Torah orale. E’ quest’ultima la garanzia della Torah scritta, non viceversa.

1.2.2. Il midrash
Perché abbiano effetto, le letture vanno capite e la Torah deve quindi essere spesso tradotta e illustrata in modo che risulti attuale. Il midrash, che nasce come insegnamento orale e diventerà tradizione orale, scaturisce dal bisogno di estrarre dalla fissità della parola scritta lezioni sempre nuove e mutevoli, in modo da tener vivo lo spirito dello scritto in stretta aderenza con i problemi contingenti e cercando di prevenire problemi futuri. Si può dire che il midrash sia il metodo rabbinico di esegesi. Questo spiega perché la teologia ebraica sia una teologia narrativa più che una teologia speculativa.
Il termine midrash viene dalla radice DRSh, «spiegare, interpretare, indagare» (i darshanim sono coloro che si servono del midrash per indagare il testo biblico). I darshanim interpretavano la Torah nel Tempio, attraverso l’omelia. Alla fasce meno colte il testo veniva illustrato attraverso elementi mitologici e folklorici (haggadah). In questo modo si formarono due filoni, distinti e complementari: il midrash haggadah (da lehaghid, «raccontare, spiegare»), di carattere illustrativo-narrativo, e il midrash halakah (dalla radice HLKh, «camminare»), di carattere normativo-giuridico.
L’insegnamento midrashico non è carismatico, ma continuamente dialogico, sta su un piano di parità, senza mai perdere il contatto sia con la Torah sia con la realtà, tanto che spesso per ribadire un principio contenuto nella Torah si porta come esempio un episodio della vita di un maestro, che diventa così esempio vivente. E questi maestri vedevano la Torah come un Pardes, uno speciale giardino percorso da quattro sentieri: Peshat Remez Darash Sod (= PRDS)
Un midrash racconta che quattro maestri vollero percorrere il giardino. Il primo morì fulminato; il secondo fu accecato; il terzo impazzì e diventò apostata; solo il grande rabbi Akiba uscì incolume e anzi padrone di una superiore conoscenza. I nomi dei quattro sentieri hanno questo significato: il peshat è il senso letterale della Scrittura; il remez, «accenno», tende a trovare analogie tra parole ed espressioni uguali in punti diversi del testo e le collega fra di loro al fine di sottolineare l’unità dell’insieme (le parti formano il tutto); il darash (stessa radice DRSh di midrash) è la spiegazione omiletica-allegorica; infine il sod, «segreto», è la mistica della qabbalah [G. Limentani, Il Midrash. Come i Maestri ebrei leggevano e vivevano la Bibbia, Ed. Paoline, Milano 1996, pp. 20-21].

1.2.3. La Mishnah e il Talmud
a) Come si sa, erano due i gruppi di maestri della legge più importanti: i Sadducei (zeduqim), che rifiutavano la Torah orale ed erano per un’interpretazione più rigorosa della Scrittura, e i farisei (perushim), sostenitori della Torah orale e di un’interpretazione più dialettica. Dopo la distruzione di Gerusalemme, i farisei prendono il sopravvento e comincia il periodo dell’interpretazione rabbinica. Senonché, al tempo dell’imperatore Adriano, i Romani vietano lo studio della Torah. Di fronte al rischio della chiusura delle accademie e della dispersione della tradizione rabbì Jehudà ha-Nasì (135-217 e.v.) decide di mettere per scritto non tanto la Torah orale, ma le discussioni fatte dai maestri (tannaim) per ristabilire l’insegnamento originario della Torah orale, dal momento che, a furia di trasmissioni orali e del proliferare di accademie, si erano create delle divergenze di trasmissione. Nasce così la Mishnah. Il termine deriva dalla radice shanah e significa «ripetizione, insegnamento». Nella Mishnah per la prima volta vengono esposti alcuni dei principi ermeneutici, fissati nella Halakhah. Cosa succede, per esempio, quando un insegnamento viene riferito in modo diverso da varie fonti? Nelle accademie vigeva un principio, che noi chiameremmo democratico, secondo il quale prevaleva il parere della maggioranza. Più che sull’amore per la democrazia, questo principio trovava il suo fondamento su di un versetto di Esodo: «Non seguirai la maggioranza nel dare del male; non ergerti in una lite per far piegare la decisione a favore della maggioranza» (23,2). La frase è poco chiara e ci sono varie interpretazioni. Una di queste dice che, laddove c’è una divergenza di opinioni, si segue quella della maggioranza: se infatti così ricorda un maggior numero di persone, è più probabile che sia quella giusta. La Mishnah fu redatta tra il 200 e il 220 e.v.: essa si presenta come una raccolta dei dibattiti e delle discussioni halakiche. La Mishnah fa in modo che la Torah orale diventi, per così dire, la bussola per la vita dell’ebreo.
b) Con il passar del tempo, la Mishnah, da patrimonio da conoscere a memoria e da trasmettere da maestro a maestro, generazione dopo generazione, subì un processo di laicizzazione per effetto del quale divenne un testo scritto che chiunque poteva leggere e conoscere. In seguito, poi, alla diaspora, gli ebrei si trovarono dispersi, chi in Babilonia chi nel vasto impero romano, ma la Mishnah continua ad essere studiata. Ci si accorge che esistevano degli insegnamenti al di fuori della Mishnah, i quali dovevano essere armonizzati con il testo della Mishnah, compito che venne assunto dagli studenti delle accademie. Di fronte al pericolo di chiusura delle accademie, si decise di raccogliere gli appunti di questi allievi (amoraim) che riportavano gli insegnamenti dei vari maestri. Nascono così le ghemarot (ghemarah, termine aramaico, significa «dibattito, approfondimento»). Mishnah e ghemarah insieme formano il Talmud (da lamad, «abituarsi a qualcosa, imparare»), «studio della Torah», il quale è sostanzialmente la ghemarah della Mishnah, cioè il commento della Mishnah. Del Talmud abbiamo due redazioni: quello di Gerusalemme, Talmud Yerushalmi (è più breve; la sua redazione, stabilita da rabbi Yohanan, venne chiusa nel 350 e.v.) e quello di Babilonia, Talmud Babli, nato dalla armonizzazione degli studi delle due maggiori accademie di Babilonia, quella di Sura e quella di Pumbedita, ultima redazione nel 498 e.v. da parte di rabbi Ashi).

 

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BENEDETTO XVI – L’UOMO IN PREGHIERA (5) – 4 SETTEMBRE: SAN MOSÈ PROFETA

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20110601_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 1° giugno 2011

L’UOMO IN PREGHIERA (5) – 4 SETTEMBRE: SAN MOSÈ PROFETA

L’intercessione di Mosè per il popolo (Es 32,7-14)

Cari fratelli e sorelle,

leggendo l’Antico Testamento, una figura risalta tra le altre: quella di Mosè, proprio come uomo di preghiera. Mosè, il grande profeta e condottiero del tempo dell’Esodo, ha svolto la sua funzione di mediatore tra Dio e Israele facendosi portatore, presso il popolo, delle parole e dei comandi divini, conducendolo verso la libertà della Terra Promessa, insegnando agli Israeliti a vivere nell’obbedienza e nella fiducia verso Dio durante la lunga permanenza nel deserto, ma anche, e direi soprattutto, pregando. Egli prega per il Faraone quando Dio, con le piaghe, tentava di convertire il cuore degli Egiziani (cfr Es 8–10); chiede al Signore la guarigione della sorella Maria colpita dalla lebbra (cfr Nm 12,9-13), intercede per il popolo che si era ribellato, impaurito dal resoconto degli esploratori (cfr Nm 14,1-19), prega quando il fuoco stava per divorare l’accampamento (cfr Nm 11,1-2) e quando serpenti velenosi facevano strage (cfr Nm 21,4-9); si rivolge al Signore e reagisce protestando quando il peso della sua missione si era fatto troppo pesante (cfr Nm 11,10-15); vede Dio e parla con Lui «faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico» (cfr Es24,9-17; 33,7-23; 34,1-10.28-35).

Anche quando il popolo, al Sinai, chiede ad Aronne di fare il vitello d’oro, Mosè prega, esplicando in modo emblematico la propria funzione di intercessore. L’episodio è narrato nel capitolo 32 del Libro dell’Esodo ed ha un racconto parallelo in Deuteronomio al capitolo 9. È su questo episodio che vorrei soffermarmi nella catechesi di oggi, e in particolare sulla preghiera di Mosè che troviamo nella narrazione dell’Esodo. Il popolo di Israele si trovava ai piedi del Sinai mentre Mosè, sul monte, attendeva il dono delle tavole della Legge, digiunando per quaranta giorni e quaranta notti (cfr Es 24,18; Dt 9,9). Il numero quaranta ha valore simbolico e significa la totalità dell’esperienza, mentre con il digiuno si indica che la vita viene da Dio, è Lui che la sostiene. L’atto del mangiare, infatti, implica l’assunzione del nutrimento che ci sostiene; perciò digiunare, rinunciando al cibo, acquista, in questo caso, un significato religioso: è un modo per indicare che non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca del Signore (cf Dt 8,3). Digiunando, Mosè mostra di attendere il dono della Legge divina come fonte di vita: essa svela la volontà di Dio e nutre il cuore dell’uomo, facendolo entrare in un’alleanza con l’Altissimo, che è fonte della vita, è la vita stessa.

Ma mentre il Signore, sul monte, dona a Mosè la Legge, ai piedi del monte il popolo la trasgredisce. Incapaci di resistere all’attesa e all’assenza del mediatore, gli Israeliti chiedono ad Aronne: «Fa’ per noi un dio che cammini alla nostra testa, perché a Mosè, quell’uomo che ci ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto» (Es 32,1). Stanco di un cammino con un Dio invisibile, ora che anche Mosè, il mediatore, è sparito, il popolo chiede una presenza tangibile, toccabile, del Signore, e trova nel vitello di metallo fuso fatto da Aronne, un dio reso accessibile, manovrabile, alla portata dell’uomo. È questa una tentazione costante nel cammino di fede: eludere il mistero divino costruendo un dio comprensibile, corrispondente ai propri schemi, ai propri progetti. Quanto avviene al Sinai mostra tutta la stoltezza e l’illusoria vanità di questa pretesa perché, come ironicamente afferma il Salmo106, «scambiarono la loro gloria con la figura di un toro che mangia erba» (Sal 106,20). Perciò il Signore reagisce e ordina a Mosè di scendere dal monte, rivelandogli quanto il popolo stava facendo e terminando con queste parole: «Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione» (Es 32,10). Come con Abramo a proposito di Sodoma e Gomorra, anche ora Dio svela a Mosè che cosa intende fare, quasi non volesse agire senza il suo consenso (cfr Am 3,7). Dice: «lascia che si accenda la mia ira». In realtà, questo «lascia che si accenda la mia ira» è detto proprio perché Mosè intervenga e Gli chieda di non farlo, rivelando così che il desiderio di Dio è sempre di salvezza. Come per le due città dei tempi di Abramo, la punizione e la distruzione, in cui si esprime l’ira di Dio come rifiuto del male, indicano la gravità del peccato commesso; allo stesso tempo, la richiesta dell’intercessore intende manifestare la volontà di perdono del Signore. Questa è la salvezza di Dio, che implica misericordia, ma insieme anche denuncia della verità del peccato, del male che esiste, così che il peccatore, riconosciuto e rifiutato il proprio male, possa lasciarsi perdonare e trasformare da Dio. La preghiera di intercessione rende così operante, dentro la realtà corrotta dell’uomo peccatore, la misericordia divina, che trova voce nella supplica dell’orante e si fa presente attraverso di lui lì dove c’è bisogno di salvezza.

La supplica di Mosè è tutta incentrata sulla fedeltà e la grazia del Signore. Egli si riferisce dapprima alla storia di redenzione che Dio ha iniziato con l’uscita d’Israele dall’Egitto, per poi fare memoria dell’antica promessa data ai Padri. Il Signore ha operato salvezza liberando il suo popolo dalla schiavitù egiziana; perché allora – chiede Mosè – «gli Egiziani dovranno dire: “Con malizia li ha fatti uscire, per farli perire tra le montagne e farli sparire dalla faccia della terra”?» (Es 32,12). L’opera di salvezza iniziata deve essere completata; se Dio facesse perire il suo popolo, ciò potrebbe essere interpretato come il segno di un’incapacità divina di portare a compimento il progetto di salvezza. Dio non può permettere questo: Egli è il Signore buono che salva, il garante della vita, è il Dio di misericordia e perdono, di liberazione dal peccato che uccide. E così Mosè fa appello a Dio, alla vita interiore di Dio contro la sentenza esteriore. Ma allora, argomenta Mosè con il Signore, se i suoi eletti periscono, anche se sono colpevoli, Egli potrebbe apparire incapace di vincere il peccato. E questo non si può accettare. Mosè ha fatto esperienza concreta del Dio di salvezza, è stato inviato come mediatore della liberazione divina e ora, con la sua preghiera, si fa interprete di una doppia inquietudine, preoccupato per la sorte del suo popolo, ma insieme anche preoccupato per l’onore che si deve al Signore, per la verità del suo nome. L’intercessore infatti vuole che il popolo di Israele sia salvo, perché è il gregge che gli è stato affidato, ma anche perché in quella salvezza si manifesti la vera realtà di Dio. Amore dei fratelli e amore di Dio si compenetrano nella preghiera di intercessione, sono inscindibili. Mosè, l’intercessore, è l’uomo teso tra due amori, che nella preghiera si sovrappongono in un unico desiderio di bene.

Poi, Mosè si appella alla fedeltà di Dio, rammentandogli le sue promesse: «Ricordati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo, e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti e la possederanno per sempre”» (Es 32,13). Mosè fa memoria della storia fondatrice delle origini, dei Padri del popolo e della loro elezione, totalmente gratuita, in cui Dio solo aveva avuto l’iniziativa. Non a motivo dei loro meriti, essi avevano ricevuto la promessa, ma per la libera scelta di Dio e del suo amore (cfr Dt 10,15). E ora, Mosè chiede che il Signore continui nella fedeltà la sua storia di elezione e di salvezza, perdonando il suo popolo. L’intercessore non accampa scuse per il peccato della sua gente, non elenca presunti meriti né del popolo né suoi, ma si appella alla gratuità di Dio: un Dio libero, totalmente amore, che non cessa di cercare chi si è allontanato, che resta sempre fedele a se stesso e offre al peccatore la possibilità di tornare a Lui e di diventare, con il perdono, giusto e capace di fedeltà. Mosè chiede a Dio di mostrarsi più forte anche del peccato e della morte, e con la sua preghiera provoca questo rivelarsi divino. Mediatore di vita, l’intercessore solidarizza con il popolo; desideroso solo della salvezza che Dio stesso desidera, egli rinuncia alla prospettiva di diventare un nuovo popolo gradito al Signore. La frase che Dio gli aveva rivolto, «di te invece farò una grande nazione», non è neppure presa in considerazione dall’“amico” di Dio, che invece è pronto ad assumere su di sé non solo la colpa della sua gente, ma tutte le sue conseguenze. Quando, dopo la distruzione del vitello d’oro, tornerà sul monte per chiedere di nuovo la salvezza per Israele, dirà al Signore: «E ora, se tu perdonassi il loro peccato! Altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto» (v. 32). Con la preghiera, desiderando il desiderio di Dio, l’intercessore entra sempre più profondamente nella conoscenza del Signore e della sua misericordia e diventa capace di un amore che giunge fino al dono totale di sé. In Mosè, che sta sulla cima del monte faccia a faccia con Dio e si fa intercessore per il suo popolo e offre se stesso – «cancellami» -, i Padri della Chiesa hanno visto una prefigurazione di Cristo, che sull’alta cima della croce realmente sta davanti a Dio, non solo come amico ma come Figlio. E non solo si offre – «cancellami» -, ma con il suo cuore trafitto si fa cancellare, diventa, come dice san Paolo stesso, peccato, porta su di sé i nostri peccati per rendere salvi noi; la sua intercessione è non solo solidarietà, ma identificazione con noi: porta tutti noi nel suo corpo. E così tutta la sua esistenza di uomo e di Figlio è grido al cuore di Dio, è perdono, ma perdono che trasforma e rinnova.

Penso che dobbiamo meditare questa realtà. Cristo sta davanti al volto di Dio e prega per me. La sua preghiera sulla Croce è contemporanea a tutti gli uomini, contemporanea a me: Egli prega per me, ha sofferto e soffre per me, si è identificato con me prendendo il nostro corpo e l’anima umana. E ci invita a entrare in questa sua identità, facendoci un corpo, uno spirito con Lui, perché dall’alta cima della Croce Egli ha portato non nuove leggi, tavole di pietra, ma ha portato se stesso, il suo corpo e il suo sangue, come nuova alleanza. Così ci fa consanguinei con Lui, un corpo con Lui, identificati con Lui. Ci invita a entrare in questa identificazione, a essere uniti con Lui nel nostro desiderio di essere un corpo, uno spirito con Lui. Preghiamo il Signore perché questa identificazione ci trasformi, ci rinnovi, perché il perdono è rinnovamento, è trasformazione.

Vorrei concludere questa catechesi con le parole dell’apostolo Paolo ai cristiani di Roma: «Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi. Chi ci separerà dall’amore di Cristo? […] né morte né vita, né angeli né principati […] né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,33-35.38.39).

 

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