Archive pour le 2 septembre, 2014

Seventh Day of Creation (from the 1493 Nuremberg Chronicle)

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http://en.wikipedia.org/wiki/Genesis_creation_narrative

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ASCESA VERSO L’ALTO – INCONTRO CON L’ »ALTRO » – Enzo Bianchi

http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/rit_bianchi31.htm

ASCESA VERSO L’ALTO – INCONTRO CON L’ »ALTRO »

In cammino verso casa, con lo sfondo di pace delle montagne… Il Rifugio Mulaz, tra le Pale di San Martino, nelle Dolomiti trentine! Il tramonto sul Monte Torraggio, in provincia di Imperia, al confine tra Italia e Francia… Dal Trentino, le Torri del Vajolet, nel Catinaccio, in Val di Fassa!
ENZO BIANCHI
(« Jesus », Maggio 2009)

«Sollevo i miei occhi verso i monti, da dove verrà l’aiuto?» (« Salmo 121, 1″). Il « Salmista » non aveva grandi vette davanti a sé: pellegrino verso Gerusalemme, il Monte Sion, spingeva lo sguardo verso un’altura spirituale, verso l’Altro che non poteva che trovarsi in alto rispetto alla comune condizione umana. Invocazione, imprecazione, distacco, estraniamento, abbandono: tutto questo esprimiamo con il nostro levare gli occhi al cielo, con lo sguardo proteso che pare aver bisogno di alture per poter davvero far spiccare il volo al nostro anelito. In realtà, il nostro sguardo, anche quando si alza, « si posa » alla ricerca di un luogo in cui sostare per riprendere il cammino. Quante volte nell’ascendere verso una vetta fermiamo il passo, apparentemente per riprendere il fiato, in realtà per misurarci una volta ancora con l’altrove, segno di un Altro che sembra sempre rinviare l’appuntamento a una cima ulteriore, nascosta rispetto a quella più a ridosso di noi. Allora i nostri occhi si attardano a ripercorrere idealmente sentieri che paiono danzare attorno alle falde della montagna, visitano baite e villaggi, discendono lieti dalle cime innevate ai pendii boscosi fino ai pascoli verdeggianti, rincorrono gli irrefrenabili torrenti, si riflettono nelle calme acque di laghetti alpini…
La montagna invita a una duplice contemplazione, a due prospettive speculari e complementari: salendo si fissa lo sguardo sulla vetta, ci si protende verso l’ »al-di-là », l’ulteriore, quasi a incalzare l’irraggiungibile di cui pure calchiamo le radici rocciose. Una volta in vetta, invece, lo sguardo si distende rappacificato in un volgersi che non è retrospettivo ma piuttosto onnicomprensivo: rileggiamo il percorso appena compiuto e nel contempo la realtà dalla quale ci siamo innalzati, abbracciamo con un solo sguardo il mondo che credevamo di conoscere e a volte, per pura grazia, come San Benedetto poco prima di morire, ci può essere dato di vedere «davanti agli occhi tutto intero il mondo, quasi raccolto sotto un unico raggio di sole» (cfr. Gregorio Magno, « Dialoghi 11,35″). La terra che tanto amiamo è lì, teneramente abbracciata al cielo cui aneliamo: questa duplice contemplazione che si dischiude nelle altezze parla alle profondità del nostro intimo e ci invita a intraprendere un viaggio la cui lunghezza non si può misurare perché fatto di memorie e di attese, di radici e di desiderio di spiccare il volo.
Capiamo meglio, allora, come mai la montagna – fosse anche «un’umile collina» come il Monte Sion celebrato nei « Salmi » o come il dolce declivio verso il Lago di Tiberiade che ha sentito scorrere sulla sua superficie la pace delle « Beatitudini » e lo sciamare delle folle benedette – ha sempre simboleggiato il distacco dal quotidiano per perseguire l’ascesa, una ricerca di sé non « autistica » ma aperta al futuro, all’inatteso. Sì, accostarsi alla montagna è un cammino di ascesa interiore, vissuto con tutto il proprio corpo: i sensi spirituali si affinano grazie a quanto sperimentano le nostre membra. Così l’incontro tra il cielo e la terra è evocato dalla contrapposizione tra l’orizzontale della pianura e il verticale del monte, le alterne vicende dell’esistenza paiono simboleggiate dalla sequenza di salite e discese, la leggerezza e la semplicità sono richieste affinché l’ascesa non sia frenata dall’attaccamento all’inutile o al superfluo, il discernimento è acuito e l’oblio contrastato dal non poter tralasciare nulla di essenziale, per quanto apparentemente trascurabile, la vigilanza è tenuta desta dallo scrutare i segni del tempo e del cielo… Anche il rarefarsi dell’aria, il repentino mutare delle condizioni meteorologiche, il brusco contrasto tra passaggi ombreggiati e accecanti riflessi di sole sulla neve contribuiscono a una purificazione che nasce dalla sorprendente scoperta di come la complementarietà degli opposti plasmi il nostro sentire interiore.
Sì, inoltrarsi in montagna – ma anche solo ripercorrere con la mente e con il cuore le balze che si sono imparate a conoscere dai « racconti biblici » e dalle narrazioni di quanti ci hanno preceduto nel cammino della vita – rappresenta una inesauribile esplorazione interiore: davvero, come scriveva Dag Hammarskjold, uomo di fede e amante della montagna, «il viaggio più lungo è il viaggio interiore». Un viaggio che richiede e al contempo stimola coraggio e resistenza, capacità di ascolto e di silenzio, solidarietà e fiducia in sé stessi e negli altri, attenta valutazione delle proprie forze per metterle al servizio di un’impresa nata in noi stessi ma destinata a dilatarsi su quanti ci stanno accanto.
Davvero muoversi «verso l’alto» può essere l’occasione non di irrefrenabile superbia ma, al contrario, di faticosa e liberante ascesi verso una dimensione più grande di noi e al contempo alla nostra portata. Da dove, infatti, ci verrà l’aiuto? «Dal Signore che ha fatto cielo e terra», canta il « Salmo », dal Signore che ha voluto che cielo e terra si toccassero in un abbraccio infinito.

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STRANIERI E PELLEGRINI di Enzo Bianchi (priore di Bose)

http://web.tiscalinet.it/INDACO/g_pe_stp.html

STRANIERI E PELLEGRINI

di Enzo Bianchi (priore di Bose)

Secondo la Scrittura, l’uomo non ha qui stabile dimora. Cammina (come Abramo, come Israele, come Gesù, come la Chiesa) verso una meta. La vita di fede è un pellegrinaggio, un itinerario di morte, in vista di una vita.
In ogni esperienza religiosa, dunque per l’uomo religioso, il pellegrinaggio è un cammino di un certo tempo verso un luogo simbolicamente centrale. Questo itinerario è ricerca del contatto con il divino e dei rinnovamento della propria vita. E esperienza spazio-temporale che dà senso allo spazio e al tempo, al cui interno si vive la quotidianità. La centralità di un « luogo sacro » verso cui si cammina (l’autentico pellegrinaggio si compie a piedi) è evidente esteriorizzazione del bisogno di avere in sé un centro, di avere un centro nella propria vita. Il pellegrinaggio è evidentemente legato al problema del senso della vita e, in particolare, del senso religioso dell’esistenza umana. Così ha scritto il teologo Virgil Elizondo a proposito di questo fenomeno visto negli ambienti cristiani: « Non c’è alcun mandato della Chiesa che prescriva i pellegrinaggi, eppure il numero delle persone che vanno in pellegrinaggio continua ad aumentare, mentre diminuisce la frequentazione delle liturgie prescritte dalla Chiesa. (1)

Il Dio della storia
All’interno della Scrittura, l’esperienza del pellegrinaggio è illuminata dal proprium della rivelazione del Dio Uno. Egli si rivela nella storia, per cercare un 1 alleanza con l’uomo e manifesta il suo volto di Dio personale in Gesù Cristo, colui che pone se stesso quale « via » del credente. Per la Bibbia, che pure conosce la prassi e anche la legislazione che regola il pellegrinaggio, ciò che è centrale è l’autenticità della relazione con Dio, in nome della quale il pellegrinaggio è comandato ed è anche contestato radicalmente. Non può pertanto stupire che la tradizione biblica conosca il comando che ordina il pellegrinaggio al tempio tre volte all’anno, in occasione delle tre grandi feste d’Israele (Pesacb, Sbavulot, Sukkot.- cf Dt 16,16-17), e il suo contrappunto profetico, che ne critica le deviazioni e le perversioni idolatriche: « Non rivolgetevi a Betel, non andate a Galgala, non passate a Bersabea, … ma cercate il Signore e vivrete » (Am 5,56). Per comprendere allora il legame profondo tra fede dell’uomo biblico e esperienza del suo cammino tutto orientato verso un fine (com’è il pellegrinaggio), occorre guardare anzitutto a due esperienze fondanti che sono anche divenute figure essenziali della fede biblica: l’esperienza dei nomadismo e quella dell’esodo.

I patriarchi
L’esperienza del nomadismo e dei semi-nomadismo dei padri d’Israele (Abramo, Isacco e Giacobbe), ha fatto sì che il « Dio dei padri » fosse appunto un Dio di « qualcuno », non tanto di una località, di un luogo sacro. Il Dio rivelato della Bibbia è il « Dio dell’altro », che lega la sua presenza alle persone. Ora l’esperienza dei padri è normante e decisiva per tutto l’Israele successivo. E la loro esperienza è quella di chi non ha stabile dimora, di colui che deve dire di se stesso. « Io sono straniero e di passaggio » (Gen. 23,4).
La lettera agli Ebrei, rileggendo l’esperienza di Abramo, Isacco e Giacobbe, coglie questo aspetto di fede vissuta come cammino in obbedienza alla parola di Dio e come essere stranieri: « Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della stessa promessa. Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso » (Eb 11,8-10). Questa esperienza di essere stranieri sarà sempre presente nel cuore del credente, anche dopo la sedentarizzazione e l’installazione nella terra promessa. Lo mostra, fra le diverse testimonianze, la preghiera di Davide « Tutto proviene da te, Signore; noi, dopo averlo ricevuto dalla tua mano, te l’abbiamo ridato. Noi siamo stranieri davanti a te e pellegrini come tutti i nostri padri. Come un’ombra sono i nostri giorni sulla terra e non c’è speranza » (Cr 29,15).

La vita? Un pellegrinaggio!
Ma questa esperienza è costitutiva anche della fede dei cristiano. La prima lettera di Pietro parla dei cristiani come « stranieri e pellegrini » (1 Pt. 2,11), che dimorano temporaneamente sulla terra, ma non qui hanno la loro dimora definitiva. Questo è il tempo (e lo spazio) del loro pellegrinaggio: « Comportatevi con timore nel tempo del vostro pellegrinaggio » (I Pt 1,17). La tipologia di Abramo, che ha lasciato la sua terra, la patria, il clan famigliare, la sicurezza e il conforto del « noto », per obbedire alla parola di Dio, dice che la fede è questo cammino di obbedienza senza contare su alcuna umana sicurezza (2). La categoria della stranierità, non solo è stata vissuta da Gesù stesso come categoria di rivelazione, ma è anche vitale per la Chiesa che vive sempre più la condizione di minoranza e che è chiamata a confrontarsi quotidianamente con uomini e donne radicalmente « altri » per religione, cultura, etica, ecc. Secondo il quarto Vangelo, Gesù è sentito come straniero perché la sua origine e provenienza è « da Dio », « dall’alto » e perché la sua lingua non è capita dal suoi interlocutori (Gv 8,43), ma proprio questa sua stranierità diviene lo spazio a partire dal quale è possibile la rivelazione di Dio e dunque l’incontro e la comunione. Il Dio biblico è il Dio che si rivela a degli stranieri (i figli d’Israele in Egitto) e che si fa straniero (secondo Ezechiele, Dio segue i figli d’Israele nella deportazione a Babilonia). Soprattutto nel NT, Dio si fa straniero in Cristo per incontrare l’uomo, e lo stesso itinerario di Cristo da Dio verso l’uomo è un pellegrinaggio (3), che culmina nella croce, vero luogo di comunione fra ogni uomo e Dio.

L’esodo
L’altra grande esperienza fondante la fede biblica è costituita dall’esodo. Esso è un cammino scandito da tre momenti: uscita da – passaggio attraverso – entrata in.
Uscire dall’Egitto, la casa di schiavitù, per entrare nella terra promessa passando attraverso il deserto: tutto questo è il movimento dell’esodo, come movimento di liberazione e di salvezza. Specificando però che il terzo momento, la terra, funziona più come scopo, meta, futuro che genera e suscita il dinamismo del presente (dunque come promessa e come senso), che come possesso. Una volta entrato nella terra, Israele continuerà a ritenersi ospite in quella terra che è di Dio: « La terra è mia e voi siete presso di me stranieri e di passaggio » (Lv 25,23). La lettera agli Ebrei, rileggendo tipologicamente e applicando al cristiani il cammino dei figli di Israele nel deserto per quarant’anni (4), parlerà di una meta, di un riposo, che è davanti al credente e che richiede al cristiano fede e speranza, perseveranza e fedeltà, vigilanza e lotta contro le tentazioni, essenzialità e povertà, dimensioni che contrassegnano anche il cammino di Cristo sulla terra. Cammino che il NT ha letto come esodo dal Padre per ritornare al Padre e che traccia la via al cammino dei credenti.

L’orizzonte escatologico
Negli Atti degli apostoli, i cristiani sono chiamati « seguaci della via » (cf. At 9,2; 18,25.26, 19,9-93; 22,4; 24,14.22), e il cammino che essi percorrono è un esodo verso la patria celeste (Fil 3,20), la città futura (Eb 13,14) cioè verso la comunione con Dio per sempre. Questo esodo è orientato da Cristo che è la « via » (Gv 14,5-6). 1 cristiani sono coloro che seguono Cristo (1 Pt. 2,21), che camminano in Cristo (Col. 2,6) e nello Spirito (5,6), in una vita nuova (Rm 6,4), nell’amore (Ef 5,2), nella fede (2Cor 5,7). Spesso il verbo greco peripatéo, « camminare », è tradotto dalla Bibbia CEI con « comportarsi » o espressioni equivalenti (lCor 3,3; Ef 5,8; Col 1,10; lTs 2,12; 4,1.12- ecc.), essi sono pronti a convertirsi, cioè a ritornare dopo aver commesso il peccato, ovvero dopo aver sbagliato strada… Di questo cammino esodico mi pare urgente sottolineare soprattutto la dimensione escatologica. Il regno di Dio è la meta di tale cammino, e il Regno non coincide con la Chiesa: essa resta pellegrina e in ricerca di un Regno che la eccede. Anche la dimensione escatologica deve essere assunta dalla Chiesa oggi sia a livello ecclesiologico che spirituale. Questo significa ripensare la Chiesa a partire dal regno di Dio, vero criterio di autenticità della tradizione, e assumere la dimensione della povertà non solo come estrinseca (Chiesa per i poveri), ma costitutiva (Chiesa povera). Significa anche riconoscere il posto che Israele mantiene nella storia di salvezza e cogliere Israele come pungolo escatologico, significa confessare la dimensione di peccato che traversa la Chiesa e che ostacola il suo cammino; significa vivere la fede come perseveranza e fedeltà.

Incamminarsi verso Gerusalemme
Tutto questo pone i cristiani in quell’atteggiamento di umiltà, di umile risolutezza che è lo stesso atteggiamento di Gesù quando ha reso duro il suo volto per incamminarsi verso Gerusalemme (cf Lc 9,51), cioè verso la passione e morte cui sarebbe seguita la glorificazione, la resurrezione. Ma il concreto cammino di Gesù che rivela agli uomini la salvezza di Dio è di kenosi, di abbassamento. Anche il cammino di Israele nel deserto, vero cammino di libertà verso la salvezza, era sentito dai figli d’Israele come cammino di morte più che di vita. Questo è anche il cammino della fede. Un cammino che riflette in sé il dinamismo pasquale, cammino in cui la preghiera fa del credente un errante, nel tempo più ancora che nello spazio, un cercatore di Dio più che un esploratore di « luoghi sacri ». In questo cammino, infatti, occorre saper vedere l’invisibile: come Mosè quando lasciò l’Egitto (Eb 11.27), anche noi « non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili sono eterne » (2 Cor 4,17-18).

NOTE
1) Elizondo V., « Il pellegrinaggio. Un rituale permanente dell’umanità », Editoriale di Conciliurn 4 (1996), pp. 11- 15.
2) Cf Manicardi L., I cristiani: stranieri e pellegrini, Qiqajon, Bose 1997.
3) Langkammer H., Il pellegrino Cristo e a sua sequela », in Communio 153 (1997) pg. 27-37.
4) Cf. Bianchi E., Il deserto: valenze spirituali, Qiqajon, Bose 1993.

Publié dans:Enzo Bianchi, meditazioni |on 2 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

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