Trasfigurazione del Signore

BENEDETTO XVI
ANGELUS – SULLA TRASFIGURAZIONE DEL SIGNORE
Piazza San Pietro
Domenica, 20 marzo 2011
Cari fratelli e sorelle!
Ringrazio il Signore che mi ha donato di vivere nei giorni scorsi gli Esercizi Spirituali, e sono grato anche a quanti mi sono stati vicini con la preghiera. L’odierna domenica, la seconda di Quaresima, è detta della Trasfigurazione, perché il Vangelo narra questo mistero della vita di Cristo. Egli, dopo aver preannunciato ai discepoli la sua passione, “prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce” (Mt 17,1-2). Secondo i sensi, la luce del sole è la più intensa che si conosca in natura, ma, secondo lo spirito, i discepoli videro, per un tempo breve, uno splendore ancora più intenso, quello della gloria divina di Gesù, che illumina tutta la storia della salvezza. San Massimo il Confessore afferma che “le vesti divenute bianche portavano il simbolo delle parole della Sacra Scrittura, che diventavano chiare e trasparenti e luminose” (Ambiguum 10: PG 91, 1128 B).
Dice il Vangelo che, accanto a Gesù trasfigurato, “apparvero Mosè ed Elia che conversavano con lui” (Mt 17,3); Mosè ed Elia, figura della Legge e dei Profeti. Fu allora che Pietro, estasiato, esclamò: “Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia” (Mt 17,4). Ma sant’Agostino commenta dicendo che noi abbiamo una sola dimora: Cristo; Egli “è la Parola di Dio, Parola di Dio nella Legge, Parola di Dio nei Profeti” (Sermo De Verbis Ev. 78,3: PL 38, 491). Infatti, il Padre stesso proclama: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo” (Mt 17,5). La Trasfigurazione non è un cambiamento di Gesù, ma è la rivelazione della sua divinità, “l’intima compenetrazione del suo essere con Dio, che diventa pura luce. Nel suo essere uno con il Padre, Gesù stesso è Luce da Luce” (Gesù di Nazaret, Milano 2007, 357). Pietro, Giacomo e Giovanni, contemplando la divinità del Signore, vengono preparati ad affrontare lo scandalo della croce, come viene cantato in un antico inno: “Sul monte ti sei trasfigurato e i tuoi discepoli, per quanto ne erano capaci, hanno contemplato la tua gloria, affinché, vedendoti crocifisso, comprendessero che la tua passione era volontaria e annunciassero al mondo che tu sei veramente lo splendore del Padre” (Roma 1901, 341).
Cari amici, partecipiamo anche noi di questa visione e di questo dono soprannaturale, dando spazio alla preghiera e all’ascolto della Parola di Dio. Inoltre, specie in questo tempo di Quaresima, esorto, come scrive il Servo di Dio Paolo VI, “a rispondere al precetto divino della penitenza con qualche atto volontario, al di fuori delle rinunce imposte dal peso della vita quotidiana” (Cost. ap. Pænitemini, 17 febbraio 1966, III, c: AAS 58 [1966], 182). Invochiamo la Vergine Maria, affinché ci aiuti ad ascoltare e seguire sempre il Signore Gesù, fino alla passione e alla croce, per partecipare anche alla sua gloria.
http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/32176.html
OMELIA SU MT 17, 1-9 TRASFIGURAZIONE DEL SIGNORE
Monastero Domenicano Matris Domini
Commento su Mt 17, 1-9
Collocazione del brano
La festa della Trasfigurazione deve la sua collocazione nel calendario alla giorno della dedicazione delle basiliche costruite sul monte Tabor, in Palestina, il luogo in cui secondo la tradizione avvenne appunto questo episodio narrato nei Vangeli. Questa festa è in diretto collegamento con quella della Santa Croce, dalla quale è volutamente posta a 40 giorni di distanza. La trasfigurazione sul monte Tabor è infatti l’anticipazione del mistero di sofferenza e di gloria che si manifesterà pienamente sul Calvario.
Lectio
1 Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte.
Questo versetto ci dà in modo sintetico le notizie necessarie per inquadrare l’avvenimento che sta per narrare: quando, chi, cosa, dove avviene.
Quando? Sei giorni dopo aver annunciato la sua morte. I sei giorni possono fare riferimento alla manifestazione del Signore che era avvenuta sul monte Sinai (Es 24,16: la gloria del Signore venne a dimorare sul monte Sinai e la nube lo coprì per sei giorni). Oppure i sei giorni sono quelli che distanziavano la festa dell’Espiazione da quella delle Capanne (Lv 23,39-43. A questa festa si farà ancora riferimento nel corso di questo episodio).
Chi? Gesù insieme ai suoi tre discepoli più intimi: Pietro, Giacomo e Giovanni. Essi furono tra primi ad essere chiamati (Mt 4,18-22) e mentre in Marco la loro presenza è espressamente indicata in diversi momenti importanti della vicenda di Gesù, Matteo li ricorda qui alla Trasfigurazione e nell’agonia dell’orto degli Ulivi (Mt 26,36-39).
Cosa? Gesù portò questi suoi amici in un luogo particolare.
Dove? In disparte, su un monte alto. Matteo dice che qualche volta Gesù si reca in disparte, in un luogo deserto a pregare, questa volta porta i suoi amici più intimi. Il luogo deserto però questa volta è un monte alto. Il monte nella mentalità popolare è sempre stato il luogo della presenza di Dio. Il monte per eccellenza è il monte Sinai, dove Mosè ha ricevuto le tavole della legge. Questa immagine di Gesù come nuovo Mosè percorre tutto il vangelo di Matteo e in modo particolare questo brano. Un altro elemento che richiama al monte Sinai è la presenza di tre compagni, che per Mosè erano Aronne e i suoi due figli Nadab e Abiu (Es. 24,1.9).
La tradizione ha identificato il monte della trasfigurazione con il monte Tabor, nella piana di Jizreel, che è facilmente raggiungibile in « sei giorni » da Cesarea.
2 E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce.
Il verbo usato da Matteo per raccontare la trasfigurazione è metamorphòthe: cambiò di aspetto. Gesù dona ai suoi discepoli un’anteprima della gloria che sarà propria di Gesù dopo la risurrezione e alla fine dei tempi. Nel volto luminoso di Gesù possiamo trovare un riferimento a Mosè che, scendendo dal monte Sinai « non si era accorto che la pelle del suo volto era raggiante per il fatto di aver conversato con Dio » (Es 34,29).
3 Ed ecco, apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui.
« Ed ecco » è un’espressione letteraria tipica della narrativa biblica che attira l’attenzione dell’ascoltatore e lo porta a conoscere un fatto nuovo: accanto a Gesù compaiono due altre figure, Mosè ed Elia. Questi due sono i personaggi più importanti dell’Antico Testamento, sono il simbolo della Legge e dei Profeti. Entrambi sono stati sul monte Sinai e hanno avuto il privilegio di vedere Dio faccia a faccia. Inoltre la morte di entrambi è avvenuta in circostanze particolari: Mosè morì prima di entrare nella terra promessa, ma la sua tomba non è mai stata ritrovata (Dt 34,5-6); Elia fu rapito da un carro di fuoco (2Re 2). La presenza di Gesù, Mosè ed Elia sul monte indica così la pienezza della rivelazione: la Legge, i Profeti e il compimento di tutte le Scritture. I tre inoltre conversavano: si tratta dunque di un compimento dinamico, che si realizza nella conversazione, nello scambio di idee tra coloro che rappresentano tutta la rivelazione di Dio.
4 Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: « Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia ».
Pietro non si smentisce e si intromette nel discorso dei tre. Nel parallelo di Marco Pietro chiama Gesù Rabbì. In Luca lo chiama Maestro. Matteo invece usa il termine Signore, poiché non permette ai discepoli di chiamare Gesù Rabbì /maestro (lo farà soltanto Giuda, 26,25.49), Gesù non è un maestro come gli altri! Pietro con la proposta di fare delle capanne rivela la tentazione di un messianismo trionfante, vorrebbe impedire a Gesù la discesa dal monte della gloria. Questo significa annullare il senso dell’incarnazione.
La menzione delle capanne è anche il riferimento alla festa delle Capanne (cf. Lv 23,39-43). Durante questa festa gli israeliti abitavano in capanne per sette giorni, in ricordo del periodo trascorso nel deserto dell’Esodo, una situazione di precarietà, ma anche il momento in cui ricevettero la Legge dalle mani di Dio.
5 Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: « Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo »
La nube luminosa interrompe il discorso di Pietro. La nube luminosa è un controsenso che si trova solo in Matteo (come può una nube fare luce?). In questo elemento troviamo ancora l’influsso dell’Esodo: la nube della gloria del Signore « appariva come fuoco divorante, agli occhi dei figli d’Israele, sulla cima della montagna » (Es 24,17). Ancora la nube copriva la tenda del convegno in Es 40,34-35. Vi è un accostamento interessante: non c’è più bisogno di fare capanne, poiché la rivelazione della gloria del Signore è stata ormai racchiusa nel cuore dei discepoli!
Ed ecco (queste parole introducono per la terza volta qualcosa di nuovo) si ode una voce dal cielo, del tutto simile a quella che è stata udita dopo il battesimo di Gesù. Con le sue parole ricorda ancora il destino messianico del Figlio (Salmo 2), con quello di Isacco (il figlio « unico », « prediletto »: Gn 22) e con quello del Servo (il compiacimento del Padre: Is 42). A differenza della voce del battesimo, qui si aggiunge un « Ascoltatelo » (Dt 18,15). Qui si trova un concentrato di riflessione messianica davvero sorprendente.
6 All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. 7Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: « Alzatevi e non temete ».
Le parole provenienti dalla nube fanno spaventare gli apostoli. Questo quadro richiama alla memoria la visione apocalittica dell’uomo vestito di lino contenuta in Dn 10,5-21. Ritornano infatti gli stessi elementi di questo brano: lo splendore luminoso del volto, la voce, il timore, l’incoraggiamento. Sono gli elementi della rivelazione, o apocalisse che solitamente esige il segreto e progredisce anche grazie alla conversazione di un angelo interprete. Infatti anche nel vangelo ci sarà l’ingiunzione di non dire niente a nessuno di « quello che avevano visto ».
8 Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo.
La visione termina bruscamente. Gesù rimane solo: ormai non c’è più bisogno di Mosè e di Elia. Gesù è il compimento di tutte le scritture. Però egli nasconde ancora per un po’ di tempo la sua gloria: è necessario che egli affronti la sua croce a Gerusalemme.
9 Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: « Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti ».
Come accennato sopra vi è il comando di non dire niente e ancora richiama il libro di Daniele l’espressione Figlio dell’uomo (Dn 7,13-14). L’esperienza viene chiamata esplicitamente « visione », come nelle esperienze di visioni apocalittiche.
Meditatio
- In quale circostanza mi è capitato di dire come Pietro: « E’ bello per noi stare qui »?
- Quali reazioni suscita in me guardare Gesù crocifisso? Vi trovo i lineamenti di Gesù glorioso?
- Faccio fatica a rimanere fedele a Gesù « una volta sceso/a dalla montagna », nell’opacità della vita quotidiana?
Preghiamo
(colletta della festa della Trasfigurazione)
O Dio, che nella gloriosa Trasfigurazione del Cristo Signore hai confermato i misteri della fede con la testimonianza della legge e dei profeti, e hai mirabilmente preannunziato la nostra definitiva adozione a tuoi figli, fa’ che ascoltiamo la parola del tuo amatissimo Figlio per diventare coeredi della sua vita immortale. Egli è Dio, e vive…
http://www.preghiereperlafamiglia.it/madonna-della-neve.htm
05 AGOSTO : MADONNA DELLA NEVE
Dedicazione della Basilica di Santa Maria Maggiore
Un nobile patrizio romano di nome Giovanni, assieme alla moglie, non avendo figli,
decise di dedicare una chiesa alla Vergine Maria.
Una leggenda devozionale narra che la Madonna apparve loro in sogno
nella notte tra lunedì 4 e martedì 5 agosto del 352 d.C.,
informandoli che un miracolo avrebbe indicato loro il luogo su cui costruire la chiesa.
Anche il papa Liberio fece lo stesso sogno e il giorno seguente,
recatosi sull’Esquilino, lo trovò coperto di neve.
Il papa stesso tracciò il perimetro dell’edificio e la chiesa fu costruita a spese dei due coniugi,
divenendo nota come chiesa di Santa Maria « Liberiana » o popolarmente « ad Nives ».
PREGHIERA A SANTA MARIA DELLA NEVE
O Dio, Padre di misericordia, che in Maria, madre di Cristo tuo Figlio, ci hai dato una madre sempre pronta a soccorrerci, concedi, ti preghiamo, che implorando assiduamente la sua materna protezione, meritiamo di godere per sempre il frutto dalla redenzione.
Tu, Maria, madre del redentore, continua a mostrarti madre per tutti i baranesi, veglia sul nostro cammino verso il cielo. Affidiamo a te la nostra vita, ti chiediamo di rinnovare in tutti il dono della fede in Dio Padre, in Gesù Cristo redentore e nello Spirito Santo amore.
O Maria madre di Gesù e madre nostra, siamo qui, dinanzi a te, presenza viva della chiesa come comunità unita nell’amore, perché la preoccupante situazione del mondo e la vita che il popolo cristiano conduce, ci spingono ad affidarci a te e ad implorare la tua intercessione presso Gesù tuo Figlio e nostro salvatore.
Noi ti preghiamo di guidare la nostra parrocchia e il nostro parroco. Guidaci e sostienici perché possiamo sempre vivere come autentici figli e figlie della chiesa di tuo Figlio, e possiamo contribuire a stabilire sulla terra la civiltà della verità, della pace e dell’amore secondo il desiderio di Dio, per la sua gloria. Benedici la nostra festa, perché attraverso di essa si possa sempre proclamare l’amore del tuo Figlio.
Santa Maria della neve prega per i tuoi figli.
Amen
PREGHIERA ALLA MADONNA DELLA NEVE
L. Ti salutiamo Madonna della Neve. Tu sei Nostra Madre e Regina – ti ringraziamo
per tutte le grazie ricevute da Te, che hanno sperimentato tantissimi uomini
provenienti da vicino e da lontano qui in Aufhausen. Da Te possiamo venire con tutte le
nostre esperienze – come un bambino dalla sua mamma.
T. Tu sempre gioisci con noi se abbiamo qualcosa di bello da raccontarti. Tu condividi
anche le nostre sofferenze se piangiamo. Aiutaci a vedere tutti gli avvenimenti più
profondamente e a rispondere nella luce della fede. Come allora durante le nozze di
Kana, anche oggi vai da Gesù con tutti i nostri problemi. Come hai chiesto ai servi di
fare tutto quello che Gesù gli chiederà, così aiutaci ad accettare nella fede la Volontà di
Dio, anche se non sempre la capiamo subito.
L. Confidando nel Tuo aiuto, Madre della Miserircodia, siamo anche oggi di nuovo nel
Tuo santuario. Vogliamo affidarti tutto quello che abbiamo nel cuore: le nostre
preoccupazioni per la salute del corpo, dell´anima e dello spirito, per le nostre
famiglie, le parrocchie, le nostre città, per la vita pubblica, per la giustizia e la pace in
tutto il mondo.
T. Insieme con Te vogliamo guardare al Padre nel Cielo e non dimenticare che la
nostra vita sulla terra non è tutto, ma soltanto una preparazione all´eternità. In questo
modo le nostre grandi difficoltà si fanno più leggere e le piccole cose quotidiane
ricevono valore e importanza. Aiutaci a non dimenticare mai che siamo creati e
chiamati per l´eternità, per lei dovremmo raccogliere tesori che hanno un valore
infinito.
L. La Nostra Signora della Neve Tu sei, dal primo momento della Tua esistenza la
Purissima, l`Immacolata. Grazie al Sangue di Cristo, che ha avuto inizio sotto il Tuo
cuore, sei stata e rimasta sempre libera dal peccato originale e personale. Puoi aiutare
anche noi a purificare la nostra coscienza attraverso „l´Amore versato sulla Croce“.
Nella nostra relazione con Dio, gli uomini e noi stessi vogliamo diventare pienamente
puri – così bianchi come la neve, come Te.
T. Maria, Tu sei la nostra Speranza, da Te portiamo tutte le nostre preoccupazioni.
Aiutaci a fare quello che è possibile e nello stesso tempo ad aver fiducia nell´aiuto di
Dio, se qualcosa diventerà troppo pesante per noi. Rendici grati anche per quegli aiuti
e avvenimenti che non capiamo, quando Dio vuole aiutarci in modo diverso da quello
che abbiamo chiesto. Perchè Dio sa sempre meglio, che cosa è veramente bene per noi.
Insieme con Te, Maria, vogliamo in ogni situazione di vita ringraziare e lodare Dio.
L. Sposa dello Spirito Santo, aiutaci a salvare e sviluppare la grazia del Battesimo e
della Cresima. Preparaci sempre e di nuovo a ricevere degnamente i Sacramenti dell
´Eucaristia e della Penitenza e Riconciliazione. Vogliamo vivere e pregare come Te
attraverso la Parola di Dio. Sii sempre vicino a noi, affinchè possiamo percepire l`opera
dello Spirito Santo e collaborare con Lui.
T. Amen.
O Maria, donna delle altezze più sublimi,
insegnaci a scalare la santa montagna che è Cristo.
Guidaci sulla strada di Dio,
segnata dalle orme dei Tuoi passi materni.
Insegnaci la strada dell’amore,
per essere capaci di amare sempre.
Insegnaci la strada della gioia,
per poter rendere felici gli altri.
Insegnaci la strada della pazienza,
per poter accogliere tutti con generosità.
Insegnaci la strada della bontà,
per servire i fratelli che sono nel bisogno.
Insegnaci la strada della semplicità,
per godere delle bellezze del creato.
Insegnaci la strada della mitezza,
per portare nel mondo la pace.
Insegnaci la strada della fedeltà,
per non stancarci mai nel fare il bene.
Insegnaci a guardare in alto,
per non perdere di vista il traguardo finale della nostra vita:
la comunione eterna con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
Amen!
http://www.zenit.org/it/articles/la-devozione-a-maria-e-la-basilica-di-santa-maria-maggiore
LA DEVOZIONE A MARIA E LA BASILICA DI SANTA MARIA MAGGIORE
RICORRE OGGI, 5 AGOSTO, LA RICORRENZA LITURGICA DELLA DEDICAZIONE DELLA CELEBRE BASILICA, CONOSCIUTA DAI ROMANI CON DIVERSI NOMI
Roma, 05 Agosto 2014 (Zenit.org) Osvaldo Rinaldi
Il 5 Agosto è la ricorrenza liturgica della dedicazione della Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, un luogo pieno di fascino e di storia che attira la devozione di tanti fedeli.
Esso è il primo santuario mariano costruito in Occidente. Per volontà di papa Liberio questa chiesa fu edificata a partire da un antico tempio pagano, situato sul colle Esquilino. Un’antica leggenda narra che la Madonna sia apparsa la notte del 5 Agosto del 352 a papa Liberio e a un patrizio romano, invitandoli a costruire una chiesa dedicata a Maria nel luogo dove avrebbero trovato la neve nel mattino seguente. Quel segno fu confermato il mattino del 6 Agosto e per questa ragione fu edificata in quel luogo una chiesa che prese il nome di Santa Maria della neve.
Circa un secolo dopo, papa Sisto III decise di ricostruire la chiesa nelle dimensioni attuali, per onorare la Madonna, alla quale era stata attribuito, durante il Concilio di Efeso (431), il titolo di Madre di Dio. Il nome Maggiore è motivato dal fatto che il popolo cristiano è chiamato a rendere alla Vergine Maria una venerazione più grande rispetto a tutti gli altri santi. Maria è l’unica creatura che ha ricevuto il singolare privilegio di essere stata assunta in anima e corpo nel cielo. La Basilica viene chiamata anche Santa Maria del Presepe, perchè nel VI secolo furono portate in questo luogo delle tavole di legno che facevano parte della mangiatoia nella quale è stato adagiato il bambino Gesù a Betlemme.
Ogni singolo nome, attributo a questa Basilica di Roma, costituisce un’indicazione data ad ogni fedele per conoscere meglio la Madre di Dio e la Madre nostra. Il titolo di Santa Maria della neve ci invita a lasciarci rinfrescare sotto il manto di Maria per trovare quel refrigerio spirituale che rende più gioiosa la nostra vita. Durante questi giorni d’estate nei quali si registrano le più alte temperature esterne e nei quali si dedica il maggior tempo al riposo del corpo, vi è il serio rischio di rilassarsi troppo nella vita spirituale. La preghiera, la partecipazione alla Santa Messa, la testimonianza della propria fede, tendono ad essere tralasciate, incorrendo nel pericolo di cadere in una tiepidezza spirituale. In questo tempo tenere sempre vicino a noi Maria, significa continuare a vivere il ritmo della Chiesa senza perdere le proprie abitudini della vita spirituale, perchè la tentazione del peccato diventa ancora più forte proprio nei momenti di maggiore ozio del corpo e dell’anima.
Il secondo titolo di questa chiesa, Maria del Presepe, è un altro segno con il quale la Vergine vuole sorreggerci in questa stagione estiva. Gesù Cristo ha avuto come culla un luogo poco comodo e scarsamente accogliente. Le tavole di legno della mangiatoia sono un richiamo a non adagiarci alle comodità della vita, perchè esse conducono alla pigrizia spirituale. Molti ricercano luoghi di vacanza con le maggiori adagiatezza possibili, perchè attribuiscono ad esse l’origine del benessere personale.
Quella mangiatoia ci ricorda che la vera serenità è la pace del cuore, che nasce dal dedicare tanti piccoli spazi della giornata alla relazione con Dio, dallo stare insieme in famiglia e dal vivere con fede la storia che Dio ci ha dato. Quelle tavole di legno sono un richiamo alla semplicità di stile di vita, che si manifesta nel contemplare la bellezza della natura, nel ringranziare Dio per il dono della vita, nel lodare il Signore per averci dato la possibilità di svolgere il nostro servizio nella Chiesa.
Ed infine, il nome di Santa Maria Maggiore, racchiude tutti gli elementi della devozione mariana. La prima grandezza di Maria è quella di essere serva obbediente e discepola del suo Figlio Gesù Cristo. Proprio perchè rimane sempre vicina al suo Figlio, Maria rimane vicina ad ogni essere umano. Maria non fa distinzione di persone, una madre ama tutti i suoi figli, sia quelli fedeli che quelli disobbedienti. Per coloro che l’ascoltano maggiormente, Maria li invita a perseverare nella loro fede e li spinge ad amare coloro che sono assopiti dall’incredulità, affinchè possano affidarsi maggiormente alla Madre del cielo che vuole portare tutti i suoi figli da Gesù.
A coloro che non hanno la fede in Dio, Maria vuole donare una grazia particolare, rimanendo silenziosamente ai piedi della loro croce. Maria è la Madre silenziosa che condivide le sofferenze della malattia fisica, i dolori del peccato, le piaghe della nostra incredulità. Maria come Madre è la maggiore, è la più grande, perchè intercede sempre verso suo Figlio, per farci ottenere il perdono dei peccati, la guarigione dalla nostra incredulità, il sollievo del dolore dell’anima.
Tutta la Chiesa è chiamata a crescere nella fede in Gesù Cristo per mezzo della Beata Vergine. In questo giorno Maria desidera ardentemente che la invochiamo con cuore sincero, affinchè la possiamo sempre riconoscere, dietro ogni vicenda della nostra vita, come Madre, Maestra e Consigliera. Maria è la più grande, perchè supera i limiti del tempo e dello spazio: Ella ci segue, ci precede, ci accompagna durante tutto il pellegrinaggio della nostra vita.
Per questo motivo, se in qualche occasione non riusciamo a capire quello che sta accadendo, possiamo rivolgerci a Maria per trovare un approdo sicuro dove ripararci dalle tempeste della vita, per ricorrere a quell’abbraccio materno che dono sicurezza e consolazione, e per gustare quel sorriso della Madre che dona senso e speranza al nostro agire.
BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo
Mercoledì, 5 agosto 2009
SAN GIOVANNI MARIA VIANNEY, IL SANTO CURATO D’ARS – 4 AGOSTO
Cari fratelli e sorelle,
nell’odierna catechesi vorrei ripercorrere brevemente l’esistenza del Santo Curato d’Ars sottolineandone alcuni tratti, che possono essere di esempio anche per i sacerdoti di questa nostra epoca, certamente diversa da quella in cui egli visse, ma segnata, per molti versi, dalle stesse sfide fondamentali umane e spirituali. Proprio ieri si sono compiuti 150 anni dalla sua nascita al Cielo: erano infatti le due del mattino del 4 agosto 1859, quando san Giovanni Battista Maria Vianney, terminato il corso della sua esistenza terrena, andò incontro al Padre celeste per ricevere in eredità il regno preparato fin dalla creazione del mondo per coloro che fedelmente seguono i suoi insegnamenti (cfr Mt 25,34). Quale grande festa deve esserci stata in Paradiso all’ingresso di un così zelante pastore! Quale accoglienza deve avergli riservata la moltitudine dei figli riconciliati con il Padre, per mezzo dalla sua opera di parroco e confessore! Ho voluto prendere spunto da questo anniversario per indire l’Anno Sacerdotale, che, com’è noto, ha per tema Fedeltà di Cristo, fedeltà del sacerdote. Dipende dalla santità la credibilità della testimonianza e, in definitiva, l’efficacia stessa della missione di ogni sacerdote.
Giovanni Maria Vianney nacque nel piccolo borgo di Dardilly l’8 maggio del 1786, da una famiglia contadina, povera di beni materiali, ma ricca di umanità e di fede. Battezzato, com’era buon uso all’epoca, lo stesso giorno della nascita, consacrò gli anni della fanciullezza e dell’adolescenza ai lavori nei campi e al pascolo degli animali, tanto che, all’età di diciassette anni, era ancora analfabeta. Conosceva però a memoria le preghiere insegnategli dalla pia madre e si nutriva del senso religioso che si respirava in casa. I biografi narrano che, fin dalla prima giovinezza, egli cercò di conformarsi alla divina volontà anche nelle mansioni più umili. Nutriva in animo il desiderio di divenire sacerdote, ma non gli fu facile assecondarlo. Giunse infatti all’Ordinazione presbiterale dopo non poche traversìe ed incomprensioni, grazie all’aiuto di sapienti sacerdoti, che non si fermarono a considerare i suoi limiti umani, ma seppero guardare oltre, intuendo l’orizzonte di santità che si profilava in quel giovane veramente singolare. Così, il 23 giugno 1815, fu ordinato diacono e, il 13 agosto seguente, sacerdote. Finalmente all’età di 29 anni, dopo molte incertezze, non pochi insuccessi e tante lacrime, poté salire l’altare del Signore e realizzare il sogno della sua vita.
Il Santo Curato d’Ars manifestò sempre un’altissima considerazione del dono ricevuto. Affermava: “Oh! Che cosa grande è il Sacerdozio! Non lo si capirà bene che in Cielo… se lo si comprendesse sulla terra, si morirebbe, non di spavento ma di amore!” (Abbé Monnin, Esprit du Curé d’Ars, p. 113). Inoltre, da fanciullo aveva confidato alla madre: “Se fossi prete, vorrei conquistare molte anime” (Abbé Monnin, Procès de l’ordinaire, p. 1064). E così fu. Nel servizio pastorale, tanto semplice quanto straordinariamente fecondo, questo anonimo parroco di uno sperduto villaggio del sud della Francia riuscì talmente ad immedesimarsi col proprio ministero, da divenire, anche in maniera visibilmente ed universalmente riconoscibile, alter Christus, immagine del Buon Pastore, che, a differenza del mercenario, dà la vita per le proprie pecore (cfr Gv 10,11). Sull’esempio del Buon Pastore, egli ha dato la vita nei decenni del suo servizio sacerdotale. La sua esistenza fu una catechesi vivente, che acquistava un’efficacia particolarissima quando la gente lo vedeva celebrare la Messa, sostare in adorazione davanti al tabernacolo o trascorrere molte ore nel confessionale.
Centro di tutta la sua vita era dunque l’Eucaristia, che celebrava ed adorava con devozione e rispetto. Altra caratteristica fondamentale di questa straordinaria figura sacerdotale era l’assiduo ministero delle confessioni. Riconosceva nella pratica del sacramento della penitenza il logico e naturale compimento dell’apostolato sacerdotale, in obbedienza al mandato di Cristo: “A chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi” (cfr Gv 20,23). San Giovanni Maria Vianney si distinse pertanto come ottimo e instancabile confessore e maestro spirituale. Passando “con un solo movimento interiore, dall’altare al confessionale”, dove trascorreva gran parte della giornata, cercava in ogni modo, con la predicazione e con il consiglio persuasivo, di far riscoprire ai parrocchiani il significato e la bellezza della penitenza sacramentale, mostrandola come un’esigenza intima della Presenza eucaristica (cfr Lettera ai sacerdoti per l’Anno Sacerdotale).
I metodi pastorali di san Giovanni Maria Vianney potrebbero apparire poco adatti alle attuali condizioni sociali e culturali. Come potrebbe infatti imitarlo un sacerdote oggi, in un mondo tanto cambiato? Se è vero che mutano i tempi e molti carismi sono tipici della persona, quindi irripetibili, c’è però uno stile di vita e un anelito di fondo che tutti siamo chiamati a coltivare. A ben vedere, ciò che ha reso santo il Curato d’Ars è stata la sua umile fedeltà alla missione a cui Iddio lo aveva chiamato; è stato il suo costante abbandono, colmo di fiducia, nelle mani della Provvidenza divina. Egli riuscì a toccare il cuore della gente non in forza delle proprie doti umane, né facendo leva esclusivamente su un pur lodevole impegno della volontà; conquistò le anime, anche le più refrattarie, comunicando loro ciò che intimamente viveva, e cioè la sua amicizia con Cristo. Fu “innamorato” di Cristo, e il vero segreto del suo successo pastorale è stato l’amore che nutriva per il Mistero eucaristico annunciato, celebrato e vissuto, che è divenuto amore per il gregge di Cristo, i cristiani e per tutte le persone che cercano Dio. La sua testimonianza ci ricorda, cari fratelli e sorelle, che per ciascun battezzato, e ancor più per il sacerdote, l’Eucaristia “non è semplicemente un evento con due protagonisti, un dialogo tra Dio e me. La Comunione eucaristica tende ad una trasformazione totale della propria vita. Con forza spalanca l’intero io dell’uomo e crea un nuovo noi” (Joseph Ratzinger, La Comunione nella Chiesa, p. 80).
Lungi allora dal ridurre la figura di san Giovanni Maria Vianney a un esempio, sia pure ammirevole, della spiritualità devozionale ottocentesca, è necessario al contrario cogliere la forza profetica che contrassegna la sua personalità umana e sacerdotale di altissima attualità. Nella Francia post-rivoluzionaria che sperimentava una sorta di “dittatura del razionalismo” volta a cancellare la presenza stessa dei sacerdoti e della Chiesa nella società, egli visse, prima – negli anni della giovinezza – un’eroica clandestinità percorrendo chilometri nella notte per partecipare alla Santa Messa. Poi – da sacerdote – si contraddistinse per una singolare e feconda creatività pastorale, atta a mostrare che il razionalismo, allora imperante, era in realtà distante dal soddisfare gli autentici bisogni dell’uomo e quindi, in definitiva, non vivibile.
Cari fratelli e sorelle, a 150 anni dalla morte del Santo Curato d’Ars, le sfide della società odierna non sono meno impegnative, anzi forse, si sono fatte più complesse. Se allora c’era la “dittatura del razionalismo”, all’epoca attuale si registra in molti ambienti una sorta di “dittatura del relativismo”. Entrambe appaiono risposte inadeguate alla giusta domanda dell’uomo di usare a pieno della propria ragione come elemento distintivo e costitutivo della propria identità. Il razionalismo fu inadeguato perché non tenne conto dei limiti umani e pretese di elevare la sola ragione a misura di tutte le cose, trasformandola in una dea; il relativismo contemporaneo mortifica la ragione, perché di fatto arriva ad affermare che l’essere umano non può conoscere nulla con certezza al di là del campo scientifico positivo. Oggi però, come allora, l’uomo “mendicante di significato e compimento” va alla continua ricerca di risposte esaustive alle domande di fondo che non cessa di porsi.
Avevano ben presente questa “sete di verità”, che arde nel cuore di ogni uomo, i Padri del Concilio Ecumenico Vaticano II quando affermarono che spetta ai sacerdoti, “quali educatori della fede”, formare “un’autentica comunità cristiana” capace di aprire “a tutti gli uomini la strada che conduce a Cristo” e di esercitare “una vera azione materna” nei loro confronti, indicando o agevolando a che non crede “il cammino che porta a Cristo e alla sua Chiesa”, e costituendo per chi già crede “stimolo, alimento e sostegno per la lotta spirituale” (cfr Presbyterorum ordinis, 6). L’insegnamento che a questo proposito continua a trasmetterci il Santo Curato d’Ars é che, alla base di tale impegno pastorale, il sacerdote deve porre un’intima unione personale con Cristo, da coltivare e accrescere giorno dopo giorno. Solo se innamorato di Cristo, il sacerdote potrà insegnare a tutti questa unione, questa amicizia intima con il divino Maestro, potrà toccare i cuori della gente ed aprirli all’amore misericordioso del Signore. Solo così, di conseguenza, potrà infondere entusiasmo e vitalità spirituale alle comunità che il Signore gli affida. Preghiamo perché, per intercessione di san Giovanni Maria Vianney, Iddio faccia dono alla sua Chiesa di santi sacerdoti, e perché cresca nei fedeli il desiderio di sostenere e coadiuvare il loro ministero. Affidiamo questa intenzione a Maria, che proprio oggi invochiamo come Madonna della Neve.
http://www.eremosangiorgio.it/documenti/Silenzio%20abitato%20da%20Dio.doc.
UN SILENZIO ABITATO DA DIO
Franco Mosconi – Eremo San Giorgio
È un fatto da tutti constatabile che il bisogno di silenzio è ormai una esigenza imprescindibile di ogni uomo. Le grandi città raggiungono momenti di parossistica eccitazione e si avverte un crescente bisogno di calma.
D’altra parte uno dei più gravi pericoli che corre il cristiano d’oggi è lo svuotamento e l’inaridimento dello spirito, la perdita della dimensione interiore e personale della fede, della vita cristiana, quindi l’annebbiamento delle realtà spirituali. Dio, la vita interiore, la preghiera, l’unione con Dio, rischiano oggi di perdere consistenza e spessore, di diventare evanescenti e marginali. A ciò contribuisce enormemente il modo di pensare, di sentire e di vivere proprio del nostro tempo.
La civiltà industriale, della tecnica, dell’elettronica è ormai definita come la civiltà del rumore. È difficile ormai fare silenzio, trovare il silenzio, abituarsi alle pause di silenzio quando si riesce a trovarne. I fine settimana diventano momenti di fatica e di rumore invece di salutari pause di riflessione.
Passando per le nostre affollate città si avverte un eccesso di suoni in disarmonia, ripetuti con insistenza e ossessione, che colpiscono l’orecchio e il sistema nervoso e come conseguenza danneggiano lo stesso equilibrio psichico. Non solo, ma questo sistema di esistenza, spesso subìto inconsciamente, è venuto anche a rompere i ritmi biologici umani più profondi. Non fosse altro che per questo, il silenzio oggi, si pone come un bisogno all’interno delle situazioni di crisi che investono il pianeta a tutti i livelli, da quello umano a quello ecologico. Dobbiamo ancora ripetere che questo frenetico sistema di vita non lascia spazio nemmeno a Dio e, come si accennava, alle realtà spirituali. L’uomo ha paura del silenzio perché, inconsciamente o no, ha eliminato la fonte del proprio silenzio, che è Dio.
Se so da dove proviene il silenzio, lo accetto. È possibile accettare il silenzio soltanto se si conosce la fonte da cui proviene. Avendo eliminato Dio, il silenzio è diventato inaccettabile. Se Dio esiste, deve darsi da fare, altrimenti è un falso Dio. Anche noi, oggi, percepiamo il silenzio come un’assenza, come un vuoto. Non riusciamo a concepire un silenzio « abitato » da Qualcuno.
Noi cerchiamo sempre di spiegare, mai di rispondere con il silenzio. Nel silenzio, l’uomo si sente solo. Non accettiamo il silenzio e non riusciamo a fare silenzio perché abbiamo paura della solitudine. Per accettare il silenzio, bisogna essere in compagnia di qualcuno. Per non essere costretto ad affrontare il silenzio, l’uomo cerca di riempire ogni angolo di tempo e di spazio: « Dove mi trovo?… a che punto sono?… che ora è… cosa sto facendo? ». È il terrore di non sapere dove si è, quale posto si occupa, quale ruolo si svolge.
L’esperienza contemplativa insegna la disciplina del silenzio come esclusione di ogni essere rumoroso e di ogni chiacchiera inutile che ne violerebbe gli spazi. Il vero saggio si esprime in poche parole, e nello stesso tempo la sua parola è silenzio, ciò che egli dice viene dal cuore e non soltanto dalla punta della lingua. Le sue parole scaturiscono da una profonda meditazione.
Solo chi è sceso in profondità nella propria solitudine e vi ha incontrato Dio è veramente capace di comunione anche con gli uomini, con tutti, senza discriminazioni. È stata l’intuizione anche di Bonhoeffer: solo chi è capace di solitudine è capace di comunione e dunque può contribuire davvero a costruire la comunità, e solo chi è capace di comunione può vivere una solitudine che non uccida. La ricerca della comunità e degli altri, se non si è arrivati a riconoscere e accettare la propria solitudine esistenziale, è fuga da se stessi; e la solitudine, magari per dedicarsi alla preghiera, che rifiuta gli altri e la comunità non porta ad alcun incontro, neanche con Dio: è una solitudine che uccide.
Il vero, profondo e vissuto silenzio rende possibile la presenza e la trasparenza di una persona; silenzio inteso e visto non solo e semplicemente come mezzo, strumento, ma come pienezza di vita. Il silenzio è il dono dell’eternità, è una profonda realtà, è sorgente di vita.
Il silenzio è una eredità che ci viene da Dio stesso. La vita esce da una realtà silenziosa; nel quieto silenzio che avvolgeva ogni cosa… « il tuo Verbo onnipotente, o Signore, è sceso dal cielo, dal trono regale » (Sap 18,14-15).
Un uomo come Lanza del Vasto proponeva questa massima: « Taci molto per avere qualcosa da dire che valga la pena di essere sentita. Ma ancora taci, per ascoltare te stesso ».
La bontà di ogni parola detta è proporzionata alla maturazione avvenuta nel silenzio meditativo.
Le « ragioni » del silenzio
L’uomo di natura espansiva, abituato alla più cordiale comunicativa con il mondo esterno, aperto con i propri simili, si chiede: perché tacere? Non si deve essere comunicativi? Come può effettuarsi il contatto con gli altri se non con le parole? Perché essere chiusi? Quando seguendo l’esperienza monastica si consiglia di parlare meno, di parlare poco, o di tacere del tutto, di dominare la lingua, non si vuole affatto consigliare di diventare tipi chiusi, non comunicativi, solitari, o, peggio, complessati, contorti, complicati, pieni di sottintesi; no davvero! I grandi uomini furono e sono tutti silenziosi. Anche quelli di cui si dice che parlarono molto, che furono sommi oratori; tutti maturarono in lunghi silenzi quello che poi dissero agli uomini.
La parola è grande cosa, ma non è ciò che vi è di più grande. « Se essa è argento, il silenzio è oro », afferma un antico proverbio. Quegli stessi che sanno meglio parlare sentono più degli altri che le parole non esprimono mai le reali e speciali relazioni esistenti tra due esseri.
Rimangono sempre delle verità che nessuno crede di poter esprimere con la parola. Sono verità che si percepiscono nel silenzio e restano inespresse.
Il silenzio è come l’aprirsi di altre porte, di altri canali, per i quali arriva all’uomo un’altra voce. Chi tende a mete di vita più elevata dal punto di vista dello spirito, ha bisogno di silenzio, per ristoro e ripresa di energie, come ha bisogno di pane quotidiano e di riposo del corpo.
Nell’usura di ogni giorno, la mente si svuota, le energie si logorano e la vita si appesantisce di infinite scorie. Chi voglia realizzare una vita interiore profonda, sappia circondarsi di silenzio, di quiete, di pace, per frapporre tra se e le cose esteriori una fascia in cui le onde turbolente del fragore umano vadano ad infrangersi e a spegnersi, prima di giungere a lui.
L’uomo cerca il silenzio per un bisogno di vita più alta. La ricerca si impone per una spinta che viene dal proprio intimo e alla quale non si può disobbedire.
È naturale allora constatare come in questi ultimi anni i monasteri siano sempre più meta di ospiti, giovani soprattutto, alla ricerca di una dimensione di vita più autentica e più vera, attraverso il dialogo orante col Padre, con lunghi spazi di silenzio e nel confronto con la vita della comunità.
L’esperienza monastica aiuta l’ospite a ritrovare il senso della vita e a dare una risposta alla sua ricerca di significati: in quasi lutti gli ospiti si avverte il desiderio di sperimentare giornate in piena solitudine, per ascoltare in profondità la voce di Dio, per far sì che la sua Parola diventi ancora un annuncio di vita. Una volta gustato il valore del silenzio, si riesce a cogliere in esso momenti di verità e sincerità con se stessi, con Dio e con i fratelli.
In definitiva, lo spazio di silenzio e di deserto che il monastero offre all’uomo di oggi, alle prese con le sue disperazioni e i suoi non sensi della vita, aiuta l’ospite a riscoprire nella sua storia il giusto posto, la sua responsabilità corrispondente a quel piano di amore che Dio ha su ciascun uomo. Abitualmente sono molti i fratelli che frequentano i monasteri ritornando a ripetere la loro esperienza di silenzio; in questi spazi di « deserto » ritrovano la speranza che li spinge a superare momenti di stanchezza e di sfiducia; ritrovano in essi la forza dello Spirito che li ricolloca continuamente al loro giusto posto nel piano della salvezza.