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Le lacrime di San Pietro

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GIOVANNI PAOLO II – SALMO 62, 2-9: L’ANIMA ASSETATA DEL SIGNORE

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GIOVANNI PAOLO II – SALMO 62, 2-9: L’ANIMA ASSETATA DEL SIGNORE

(LODI DOMENICA 1ª SETTIMANA)

terza Catechesi di SS. Giovanni Paolo II su i Salmi e i Cantici delle Lodi, (mercoledì 25 aprile 2001)

1. Il Salmo 62, sul quale oggi ci fermiamo a riflettere, è il Salmo dell’amore mistico, che celebra l’adesione totale a Dio, partendo da un anelito quasi fisico e raggiungendo la sua pienezza in un abbraccio intimo e perenne. La preghiera si fa desiderio, sete e fame, perché coinvolge anima e corpo.
Come scrive santa Teresa d’Avila, “la sete esprime il desiderio di una cosa, ma un desiderio talmente intenso che noi moriamo se ne restiamo privi” (Cammino di perfezione, c. XXI). Del Salmo la liturgia ci propone le prime due strofe che sono appunto incentrate sui simboli della sete e della fame, mentre la terza strofa fa balenare un orizzonte oscuro, quello del giudizio divino sul male, in contrasto con la luminosità e la dolcezza del resto del Salmo.
2. Iniziamo, allora, la nostra meditazione col primo canto, quello della sete di Dio (cfr vv. 2-4). È l’alba, il sole sta sorgendo nel cielo terso della Terra Santa e l’orante comincia la sua giornata recandosi al tempio per cercare la luce di Dio. Egli ha bisogno di quell’incontro col Signore in modo quasi istintivo, si direbbe “fisico”. Come la terra arida è morta, finché non è irrigata dalla pioggia, e come nelle screpolature del terreno essa sembra una bocca assetata e riarsa, così il fedele anela a Dio per essere riempito di Lui e per potere così esistere in comunione con Lui.
Il profeta Geremia aveva già proclamato: il Signore è “sorgente d’acqua viva”, e aveva rimproverato il popolo per aver costruito “cisterne screpolate, che non tengono l’acqua” (2,13). Gesù stesso esclamerà ad alta voce: “Chi ha sete venga a me e beva, chi crede in me” (Gv 7,37-38). Nel pieno meriggio di un giorno assolato e silenzioso, promette alla donna samaritana: “Chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna” (Gv 4,14).
3. La preghiera del Salmo 62 s’intreccia, per questo tema, col canto di un altro stupendo Salmo, il 41: “Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente” (vv. 2-3). Ora, nella lingua dell’Antico Testamento, l’ebraico, “l’anima” è espressa con il termine nefesh, che in alcuni testi designa la “gola” e in molti altri si allarga ad indicare l’essere intero della persona. Colto in queste dimensioni, il vocabolo aiuta a comprendere quanto sia essenziale e profondo il bisogno di Dio; senza di lui vien meno il respiro e la stessa vita. Per questo il Salmista giunge a mettere in secondo piano la stessa esistenza fisica, qualora venga a mancare l’unione con Dio: “La tua grazia vale più della vita” (Sal 62,4). Anche nel Salmo 72 si ripeterà al Signore: “Fuori di te nulla bramo sulla terra. Vengono meno la mia carne e il mio cuore; ma la roccia del mio cuore è Dio, è Dio la mia sorte per sempre… Il mio bene è stare vicino a Dio” (vv. 25-28).
4. Dopo il canto della sete, ecco modularsi nelle parole del Salmista il canto della fame (cfr Sal 62,6-9). Probabilmente, con le immagini del “lauto convito” e della sazietà, l’orante rimanda a uno dei sacrifici che si celebravano nel tempio di Sion: quello cosiddetto “di comunione”, ossia un banchetto sacro in cui i fedeli mangiavano le carni delle vittime immolate. Un’altra necessità fondamentale della vita viene qui usata come simbolo della comunione con Dio: la fame è saziata quando si ascolta la Parola divina e si incontra il Signore. Infatti, “l’uomo non vive soltanto di pane, ma l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore” (Dt 8,3; cfr Mt 4,4). E qui il pensiero del cristiano corre a quel banchetto che Cristo ha imbandito l’ultima sera della sua vita terrena e il cui valore profondo aveva già spiegato nel discorso di Cafarnao: “La mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui” (Gv 6,55-56).
5.Attraverso il cibo mistico della comunione con Dio “l’anima si stringe” a Lui, come dichiara il Salmista. Ancora una volta, la parola “anima” evoca l’intero essere umano. Non per nulla si parla di un abbraccio, di uno stringersi quasi fisico: ormai Dio e uomo sono in piena comunione e sulle labbra della creatura non può che sbocciare la lode gioiosa e grata. Anche quando si è nella notte oscura, ci si sente protetti dalle ali di Dio, come l’arca dell’alleanza è coperta dalle ali dei cherubini. E allora fiorisce l’espressione estatica della gioia: “Esulto di gioia all’ombra delle tue ali”. La paura si dissolve, l’abbraccio non stringe il vuoto ma Dio stesso, la nostra mano s’intreccia con la forza della sua destra (cfr Sal 62,8-9).
6. In una lettura del Salmo alla luce del mistero pasquale, la sete e la fame che ci spingono verso Dio, trovano il loro appagamento in Cristo crocifisso e risorto, dal quale giunge a noi, mediante il dono dello Spirito e dei Sacramenti, la vita nuova e l’alimento che la sostiene.
Ce lo ricorda san Giovanni Crisostomo, che commentando l’annotazione giovannea: dal fianco “uscì sangue e acqua” (cfr Gv 19,34), afferma: “Quel sangue e quell’acqua sono simboli del Battesimo e dei Misteri”, cioè dell’Eucaristia. E conclude: “Vedete come Cristo congiunse a se stesso la sposa? Vedete con quale cibo nutre tutti noi? È dallo stesso cibo che siamo stati formati e veniamo nutriti. Infatti come la donna nutre colui che ha generato con il proprio sangue e latte, così anche Cristo nutre continuamente col proprio sangue colui che egli stesso ha generato” (Omelia III rivolta ai neofiti, 16-19 passim: SC 50 bis, 160-162).

LO SFOGO DI GEREMIA – GER.20,7-18

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LO SFOGO DI GEREMIA – GER.20,7-18

Dal libro del profeta Geremia (20,7-18)
7) Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso.
Sono diventato oggetto di scherno ogni giorno; ognuno si fa beffe di me.
8) Quando parlo, devo gridare, devo proclamare: «Violenza! Oppressione!».
Così la parola del Signore è diventata per me motivo di obbrobrio e di scherno ogni giorno. 9) Mi dicevo: «Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!».
Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa;
mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo.
10) ‘Sentivo le insinuazioni di molti: «Terrore all’intorno! Denunciatelo e lo denunceremo». Tutti i miei amici spiavano la mia caduta: «Forse si lascerà trarre in inganno, così noi prevarremo su di lui, ci prenderemo la nostra vendetta».
11) “Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso, per questo i miei persecutori
cadranno e non potranno prevalere; saranno molto confusi perché non riusciranno, la loro vergogna sarà eterna e incancellabile.
12) Signore degli eserciti, che provi il giusto e scruti il cuore e la mente, possa io vedere la tua vendetta su di essi; poiché a te ho affidato la mia causa!
13) Cantate inni al Signore, lodate il Signore, perché ha liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori. 14) Maledetto il giorno in cui nacqui; il giorno in cui mia madre mi diede alla luce non sia mai benedetto.
15) Maledetto l’uomo che portò la notizia a mio padre, dicendo: «Ti è nato un figlio maschio», colmandolo di gioia.
16) Quell’uomo sia come le città che il Signore ha demolito senza compassione.
Ascolti grida al mattino e rumori di guerra a mezzogiorno,
17) perché non mi fece morire nel grembo materno; mia madre sarebbe stata la mia tomba e il suo grembo gravido per sempre.
18) Perché mai sono uscito dal seno materno per vedere tormenti e dolore
e per finire i miei giorni nella vergogna?

Ambientazione
•Il profeta Geremia nasce attorno al 650 a.C., poiché era un figlio tanto atteso, gli venne dato il nome di Géremia che significa: «Jahvè ha liberato il grembo». Nel 626 a.C. il giovane impacciato e timido riceve la vocazione profetica che lo inserisce nel mondo turbolento della vita sociale e religiosa.
•Nel suo libro troviamo alcuni capitoli che ci descrivono il suo dramma interiore, una specie di «confessione» che ci rivela una personalità sensibilissima e fortemente emotiva le cui espressioni sfiorano talvolta l’imprecazione della disperazione.
•Egli vive il dramma di una persona affezionata alla sua patria, alla sua religione, alla vita semplice e pulita, mentre si vede costretto dalla sua missione a fare la voce della Cassandra, ad essere scomunicato, perseguitato dai suoi stessi concittadini e denunciato perfino da amici e parenti. Egli fu chiamato a rinunciare perfino ad una famiglia propria, a vivere da solitario circondato di odio, quasi maledetto da Dio. La sua vita è un segno di contraddizione, tanto che perfino la sua vocazione subisce una profonda crisi contrassegnata da un’estenuante ricerca del perché. Perché Dio comanda ad un uomo di dire cose che nessuno vuole ascoltare? Perché gli empi prosperano e perché i traditori sono tranquilli?
•Il brano che ci viene proposto segue la carcerazione durante la quale Geremia era stato flagellato e tenuto prigioniero legato ai ceppi in prigione. Uscendo, lancia la sua terribile invettiva contro il sacerdote del tempio che lo aveva fatto imprigionare, ma subito dopo accusa anche il Signore di averlo sedotto e maledice il giorno della propria nascita!

La struttura del brano
— Confessione – denuncia contro Dio seduttore (vv. 7-8);
— Descrizione del tormento interiore (v. 9);
— Motivo dello sconforto ed esaudimento della supplica (vv.10-13);
— Maledizione del giorno della propria nascita (vv. 14-18).

I dettagli del racconto
— Confessione – denuncia contro Dio seduttore (vv. 7-8) v. 7: Dio si è comportato con Geremia come un uomo che inganna una donna attraendola per impadronirsi di lei e possederla. Rasentando la bestemmia, il profeta accusa Dio di vigliaccheria, per averlo attratto con inganno facendogli credere una cosa per l’altra! E dopo essersi fidato del Signore egli si trova disilluso. Il ministero profetico gli ha portato solo obbrobrio e disprezzo, come conseguenza degli annunci e della predicazione. Coloro che lo sentono se ne fanno beffe.
v. 8: Le grida del profeta: «Violenza ed oppressione», sono l’equivalente del nostro: «Aiuto!». La missione profetica gli ha creato nemici dai quali il profeta sembra di non essere in grado di difendersi da solo e per questo ogni giorno è costretto a chiedere aiuto.
— Descrizione del tormento interiore (v. 9)
v. 9: La tentazione di rinunciare è fortissima. Anche il profeta giunge alla decisione di non profetizzare più, ossia di rinunciare ad obbedire al Signore. Tuttavia, la Parola di Dio accolta nel suo cuore sprigiona un fuoco incontenibile che tocca ogni fibra del suo essere (= ossa) e che brucia ogni determinazione, anche la più risoluta. La Parola di Dio appare un incendio incontenibile.
— Motivo dello sconforto ed esaudimento della supplica (vv.10-13)
v. 10: Con linguaggio simile a quello dei salmi di lamentazione il profeta descrive anzitutto la congiura scatenata contro di lui, facendo terra bruciata. L’attesa di coloro che attendono una denuncia qualsiasi per scatenarsi ed accanirsi a loro volta. Perfino gli amici lo hanno abbandonato e spiano la sua vita in attesa di vederlo cadere in disgrazia per approfittare della sua debolezza e vendicarsi.
v. 11: Pur nella convinzione di essere stato sedotto da Dio, il profeta sa di non essere da lui abbandonato e vede già la sconfitta di coloro che lo perseguitano. Saranno essi a cadere, a patire la confusione e a subire una vergogna incancellabile.
V.12: Dopo aver rinfacciato a Dio la sua slealtà, ora il profeta lo invoca quale giudice e vendicatore dei giusti.
V.13: Rifacendosi alle prove già superate in passato il profeta invita i suoi lettori a lodare Dio perché lo ha liberato dalle mani dei malfattori, donandoci in questo modo una magnifica preghiera di lamento, di fiducia e di ringraziamento che al di là delle espressioni formali ci permette di sondare le angosce interiori del vero profeta.
— Maledizione del giorno della propria nascita (vv. 14-18)
v. 14: La pausa di refrigerio apportata dalla preghiera non lenisce la profonda ferita; la sofferenza e lo spasimo non accennano a diminuire, forse acuite anche in prossimità dell’ormai inevitabile catastrofe nazionale contro la quale aveva tenacemente ma inutilmente combattuto. Di fronte a tanta amarezza, il profeta preferirebbe non essere mai nato e nella sua esacerbazione maledice il giorno della propria nascita.
vv. 15-18: Nella maledizione del giorno della nascita il profeta coinvolge anche l’uomo, che secondo le usanze del tempo, portava al padre del nascituro l’annuncio dell’avvenimento. L’uomo che portò a suo padre Chelkia trepidante la sospirata buona novella (in ebraico suona come «evangelo») di un maschio continuatore della stirpe paterna, viene maledetto al pari di una città distrutta e fumante, come tante di quelle che gli eserciti di Nabucodonosor lasciavano dietro di sé nella loro temibile avanzata.
In questa riflessione emerge perfino il rammarico di non essere stato soffocato dalle levatrici prima ancora di uscire dal grembo materno e di non aver avuto in esso la propria bara! La vita del profeta trova qui una sintesi drammatica: dalla nascita alla morte, un’intera esistenza condotta fra dolori, tormenti e vergogna!

La parola chiave
La parola chiave di questo brano potrebbe essere colta nel versetto 9, dove il profeta rivela il suo dramma interiore. Egli si sente diviso tra il desiderio di non pensare più al Signore e l’amore insopprimibile verso di lui: «Mi dicevo: “Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!”. Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo».

Che cosa dice di Dio
•Il Signore entrando nella vita di Geremia la sconvolge. Lo
chiama ad una vocazione senza avvisarlo circa quello che in-contrerà nell’esplicare la sua missione. E il profeta accetta di vivere con fedeltà anche una missione scomoda. Quando il Signore chiama non è tenuto a spiegarsi e a rivelarci tutti i suoi piani. Cosicché il rapporto di chi è chiamato con lui è sempre di obbedienza, mai invece concordato: il capostipite di questa tipologia religiosa è nientemeno che Abramo.
•Per il fatto di attirare a sé il profeta per affidargli una missione che lo fa soffrire e che talvolta lo lascia solo, Dio viene descritto con l’immagine ardita del seduttore e in altre occasioni viene chiamato addirittura: «torrente infido». Agli occhi del profeta Dio appare inaffidabile, proprio come dichiara il serpente nel racconto del peccato originale.
•Pare essere soprattutto la debolezza della Parola di Dio il vero motivo della sofferenza del profeta. Egli deve pronunciare oracoli, deve richiamare alla fede persone che non vogliono ascoltare la Parola di Dio, cosicché il profeta si trova con una minaccia che non scuote le coscienze, con una parola che non incute né timore né rispetto. Quella parola che aveva fatto breccia in modo così violento nel suo cuore, sembra una freccia spuntata quando viene rivolta all’uditorio e ai fedeli in genere. Dio, che chiede obbedienza e sacrificio dal suo profeta, sembra rivelarsi quasi incapace di difenderlo nelle insidie.

Che cosa dice di Geremia e di noi
•Il profeta obbediente non teme di gridare la propria delusione sul comportamento «inaffidabile» di Dio. E’ importante sottolineare la crisi del profeta. Forte ed intensa appare la sua preghiera-accusa nei confronti di Dio. Geremia che aveva accettato la missione e che ad essa aveva legato tutta la sua vita, con altrettanta franchezza e libertà apostrofa Dio. Anzi gli rivela perfino la sua decisione di non pensare più a lui e, solo perché incapace di attuare la sua decisione, ritorna sui suoi passi. E bella questa preghiera schietta e libera, che lo fa sentire vicino ad ogni persona che vive un rapporto difficile con Dio.
•L’ acme della crisi arriva al «tedium vitae» che sfocia nella disperazione, quando il profeta dichiara che avrebbe preferito non essere mai nato e maledice il giorno in cui egli vide la luce. L’obbedienza a Dio gli ha fatto perdere il gusto di vivere, quasi anticipo di quella terribile agonia nell’orto del Getsemani. Tuttavia, mentre il Signore Gesù cammina sereno verso Gerusalemme e la sua passione, il profeta sembra sperimentare solo l’amarezza e la fatica dell’obbedienza.
•La preghiera esprime bene la fiducia nel Dio vendicatore, ma sembra fermarsi lì: all’autore resta la magra consolazione di vedere che Dio rende giustizia dei suoi nemici, ma non gli restituisce la gioia di vivere. In tutto ciò questa pagina di Geremia descrive una vicenda in cui la fede obbedienziale appare la porta stretta da valicare, la strada in salita da percorrere, ed in ogni caso tutt’altro che una relazione consolatoria.

Riflessioni
•La pagina di Geremia riguarda innanzitutto coloro che nella Chiesa, oggi, hanno il compito di predicare. Importa ricordarlo anche ai fedeli, affinché possano comprendere le eventuali crisi vocazionali. Questa pagina, infatti, sembra dire che il sacerdote, lungi dall’essere protetto, talvolta è invece esposto alla crisi non da motivazioni esterne, ma anzitutto dalla stessa dinamica della sua missione, che lo espone
all’incomprensione, alla delusione alla tentazione di non pensare più a Dio. Si era impegnato a servire il Signore, fidandosi di lui. E ad un tratto si accorge che quella Parola è debole, non ha il successo assicurato, viene contestata, non ha il potere di compiere miracoli e di cambiare le situazioni. La gente un po’ lo ascolta, e un po’ lo deride, non tiene conto della sua predicazione, lasciandolo deluso e frustrato.

L’esperienza di Geremia non riguarda solamente coloro che hanno una missione simile a quella del profeta, ma riguarda anche tutti coloro che accettano la parola del Signore, che si fidano e che poi si trovano delusi da un Dio seduttore.
Capita dunque anche a noi.
Pensiamo a coloro che accolgono la yocazione alla paternità e alla maternità con chiara motivazione cristiana e poi sperimentano l’insufficienza del loro esempio, l’abbandono di Dio, il tra-viamento dei figli. Dov’è, si chiedono, la potenza della fede?
A che giova l’aver seguito gli insegnamenti della Chiesa?

•Impariamo che, se talvolta la parola del Signore è consolatrice, e lenisce i nostri guai, tante altre volte essa assomiglia ad una spada a doppio taglio che penetra nel nostro cuore e nella nostra vita. A Dio si viene dunque primariamente perché è Dio e non per cercare consolazioni improbabili e comunque non garantite.
La sofferenza ha purificato la fede del profeta. Questa purifica anche la nostra, perché il dramma del profeta non sta tanto nel sentirsi tradito da Dio, quanto piuttosto nel sentirsi attratto ed innamorato da un Dio che lo seduce e poi lo fa soffrire.
Egli non riesce a dimenticare questo Dio, che diventa per lui un tormento.
•Queste confessioni di Geremia ci richiamano infine alla debolezza della Parola incarnata, alla debolezza di Betlemme e del Golgota. Un richiamo che non ci convince mai pienamente e la tentazione è sempre pronta ad affacciarsi provocandoci: perché il Signore non distrugge i nemici, perché non dà alla sua Chiesa la forza, la gloria, le possibilità economiche, le possibilità di avere successo nei mass media? Perché i cristiani debbono lottare contro difficoltà di ogni tipo?
Gesù risponde: Perché in questo modo io ho rivelato il Padre. Questa debolezza è una caratteristica del ministero della missione ed è espressa molto bene nella realtà più povera e più inerme che ci sia: l’Eucaristia. Non c’è nulla di più debole, di più incapace ad agire, di più passivo del pane, del vino, dell’Eucaristia; eppure in essa Dio compie il massimo della rivelazione del suo amore.
Scrive il Cardinale Martini: «Forse non ci basterà una vita per comprendere appieno la lezione; noi tendiamo ad attribuire al nostro ministero e alla Chiesa un certo prestigio e potere mondano: certamente il Signore ci darà delle soddisfazioni umane, ma dobbiamo sapere che la Chiesa è maggiormente se stessa là dove è più simile al Cristo di Betlemme, al Cristo della croce, al Cristo dell’ Eucaristia, cioè alla voce debole e fedele di Geremia».
•Un ultimo insegnamento cogliamo infine tutti noi, preti e fe-
deli, da questa pagina. Quando la Parola ci viene a mancare,
quando è debole in noi che siamo afferrati dallo scoraggiamento e dallo sconforto, noi siamo sempre servi del Signore e le sofferenze che sperimentiamo ci rendono simili all’agnello mansueto.
Non è dunque contrario alla vocazione sacerdotale o matrimo-
niale avvertire stanchezza, disgusto, disagio, ripugnanza, debolezza; se apriamo gli occhi, ci accorgiamo che proprio in tali condizioni è davvero presente il Signore.

22A DOMENICA – OMELIA DI APPROFONDIMENTO: MT 16,21-27

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31 AGOSTO 2014 | 22A DOMENICA A – T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

LECTIO DIVINA : MT 16,21-27

La croce continua ad essere la prova da superare dal discepolo di Cristo. Anche se ha passato molto tempo alla sua sequela, per quanto sia entusiasmato di lui, per quanto sappia su di lui e per quanto lo ami, il discepolo autentico non smette di sentire autentica ripugnanza ad accettare la croce nella sua vita. Curiosamente, quel ripudio della croce lo autentica come discepolo, è la ‘sua’ prova. Il vangelo ce lo ricorda oggi; con ciò vuole dirci che non dovremmo sorprenderci troppo se, davanti al dolore ingiustificato o di fronte alla morte, sempre ingiusta, ci ribelliamo; neanche Pietro, il più coraggioso dei suoi discepoli, si sentiva disposto ad accettare che la croce fosse la sorte fissata dal suo Signore. La risposta di Gesù a Pietro ci mette in guardia sul rischio che corriamo quando lasciamo che ci vinca la resistenza ad accettare la croce: chi la rifiuta perde anche Cristo.
In quel tempo,
21 Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, i sommi sacerdoti e gli scribi, essere ucciso e resuscitare il terzo giorno.
22 Pietro lo portò in disparte e si mise a riprenderlo:
- Dio non voglia, Signore! Questo non ti accadrà mai. »
23 Gesù si voltò e disse a Pietro:
- »Togliti dalla mia vista, Satana, perché mi sei di inciampo; tu pensi secondo gli uomini, non secondo Dio. »
24Allora disse Gesù ai suoi discepoli:
- »Chi vuol venire con me rinneghi se stesso prenda la sua croce e mi segua.
25 Se uno vuole salvare la sua vita, la perderà; ma colui che la perda a causa mia la troverà.
26 Che cosa serve all’uomo guadagnare il mondo intero, se perde la sua vita? 0 che cosa potrà dare per recuperarla?
27 Perché il Figlio dell’uomo verrà tra i suoi angeli, con la gloria del Padre suo, ed allora renderà ad ognuno secondo la sua condotta. »
1. LEGGERE : capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
Il passaggio evangelico non è comprensibile se non si tiene conto del suo contesto immediato: Gesù menziona per la prima volta ai suoi discepoli la croce, dopo essere riuscito ad essere riconosciuto come Cristo e figlio di Dio. L’annuncio della necessaria passione è l’insegnamento per i seguaci credenti. Primo bisogna sapere, per rivelazione gratuita di Dio, chi è Gesù e, solo dopo, si saprà come dovrà essere. Solo ai credenti beati, come lo fu Pietro, Gesù confida la sua sorte.
Nel progetto narrativo di Matteo la scena della confessione di Pietro ed il primo annuncio della passione apre una nuova tappa: d’ora in poi, Gesù si dedicherà con maggiore intensità all’istruzione dei suoi discepoli (16,21-20,34), pretendendo di convincerli che il suo riconoscente messianismo passa obbligatoriamente per l’accettazione del rifiuto del popolo e la morte in croce.
Di nuovo è Pietro che, facendosi portavoce dei discepoli, espressa pubblicamente la resistenza più netta. Appena credente beato, si rifiuta chiaramente di accettare quell’annuncio: amava troppo il suo signore ed era tanto radicato nella fede del suo popolo che aspettava un messia onnipotente e non poteva accettare il nuovo insegnamento del maestro messia ed osò rimproverarlo in privato, e, con evidente delicatezza.
Gesù reagì senza sfumature, con violenza inusitata: a nessun altro, né al più feroce nemico discepolo, lo chiama Satana, in tutto il vangelo. E l’aveva appena chiamato beato, per essere stato credente! Meno male che, di seguito, si capisce: con la sua ‘buona volontà’ si sta opponendo alla volontà del suo Dio; il suo vero amore, ma mal guidato, sta servendo da ‘scandalo’: Gesù non pensa di inciampare dove ha inciampato Pietro, perché egli sa che pensa come Dio. Per non disubbidire a Dio, Gesù è capace di licenziare il primo che credette in lui.
La lezione non finisce con Pietro. Dirigendosi a tutti, per la prima volta nel vangelo, Gesù fa della sequela una opzione. Tutto era incominciato con un ordine di Gesù: seguitemi (4,19); seppero a chi seguire, ma non sapevano verso dove. Quando glielo annuncia, dà libertà al seguace: chi vuol venire con me (16,24). La sequela diventa libera quando il discepolo di Gesù arriva a conoscere la meta: convivere con chi cammina verso la croce impone la croce come modo di vita.
Gesù risponde a Pietro che si era opposto che il ‘suo’ messia soffrisse, annunciando che non solo lui, ma anche chi lo segue, avrà lo stesso destino. La croce non è opzionale per il seguace del Crocefisso; è opzionale il seguirlo. Ed aggiunge tre argomenti, di diversa natura, per dare forza alla sua affermazione: i due primi sono di tipo sapienziale: consegnare la vita non è perderla; la vita si perde, se si vuole salvarla; nessun bene assicura la vita: la vita è il bene più prezioso, perché non ha prezzo. L’ultima espressione esprime una convinzione di fede: chi deve affrontare ancora un giudizio, non è libero di fare quello che gli piace; il Signore che deve venire, deciderà sulla nostra sorte come noi abbiamo deciso sulla nostra; ratificherà la nostra opzione: solo chi porta liberamente la sua croce sarà riconosciuto come vero discepolo.

2 – MEDITARE : Applicare quello che dice il testo alla vita
Pietro, per avere proclamato Gesù Messia e Figlio di Dio, era appena stato proclamato beato: base della fede dei suoi fratelli, era chiamato ad essere anche amministratore del perdono divino. Essere stato il primo a riconoscere il suo Signore, lo fece meritevole della promessa di Gesù. Dovrebbe farci riflettere che questo discepolo beato – così lo chiamò lo stesso Gesù – subito dopo, si rifiutasse di accettare la morte prossima del suo Signore in una croce. Per Pietro era inconcepibile – perché no? – chi era l’eletto di Dio non poteva cadere nelle mani dei suoi nemici: l’idea che si era fatto del suo Signore gli impediva di accettare il piano di Dio; l’amore che sentiva per lui lo impossibilitava a pensare che dovesse soffrire. L’opposizione di Pietro non poteva non essere bene intenzionata: non si opponeva di soffrire lui, bensì alla sofferenza del suo maestro.
Ma, rifiutandosi di accettare che il suo Signore avrebbe sofferto e sarebbe morto in croce un giorno, lo portava, senza saperlo, al rifiuto di accettare Dio e il suo volere. E Gesù non dubitò di correggerlo severamente e pubblicamente: chi non accetta quello che Dio vuole, rifiuta di sentirsi voluto bene da Dio. Non si conferma come figlio chi fugge dalla sofferenza bensì chi realizza la volontà del Padre. La croce è ‘la fortuna’ dei figli di Dio: opporsi, significa opporsi a Dio stesso. Allontanare la croce dalla propria vita significa perdere la strada verso Dio.
Certamente, non ci dovrebbe stupire che anche noi, come Pietro, ci rifiutiamo con tanta frequenza di accettare le strade di Dio. Se il portavoce dei discepoli, il suo primo rappresentante e la sua testa, resisté a Gesù perché non compisse il suo destino, non è strano che noi, discepoli più mediocri, sentiamo tanta ripugnanza ad accettare la croce. In fondo, come Pietro, anche noi ci facciamo un’idea di Dio, di come è e di come deve essere, che sta ostacolandoci ad accettarlo realmente come è e come vuole comportarsi con noi. Siccome ci immaginiamo di sapere quello che Dio vuole da noi, ci sorprende oltremodo che ci chieda qualcosa di diverso. I credenti spesso soccombiamo alla tentazione di credere di conoscere Dio; e quando realmente si è fatto conoscere, non lo riusciamo a riconoscere come il nostro Dio. Se per noi Dio è strano, se ci risulta strano il suo comportamento, è perché abbiamo familiarizzato con la nostra idea di Lui e normalmente ci afferriamo alla nostra immagine che abbiamo di Lui per non dovere fare la sua volontà.
Evitiamo così, senza renderci conto, con le migliori intenzioni, di trovarci col Dio vero. Riusciamo solo ad avere un’idea di un Dio che vive nella nostra fantasia, un Dio che non inquieta né ci fa male. Quando, come a Pietro, ci costa realmente accettare quello che Dio ci chiede, come Dio ci vuole, allora staremo davanti al Dio vivo, il Dio che ci salva dai nostri propri interessi e ci libera delle sue false immagini. Accettare Dio come è, suppone sempre rinunciare a capirlo del tutto. Rinunciare ad immaginarcelo come meglio ci sembra ed invece, per accettarlo, vuole che lo accogliamo come realmente è per noi. Un Dio che non ci libera dalle immagini con le quali ce lo rappresentiamo, con le illusioni che ci facciamo quando lo seguiamo, ci condannerebbe a seguire le nostre ombre: non è degno di fede il Dio che non è più grande dei nostri desideri, un Dio che sostiene la nostra immaginazione.
Perché, come dovette imparare Pietro, questo Dio che sta dove noi non arriviamo, il Dio che non riusciamo a desiderare né immaginare, è il Padre di Gesù che segnalò la croce come destino finale della sua vita. E perché Gesù accettò una simile fine, che abbiamo la prova di cosa vuole Dio, più di quello che è ragionevole, molto più di quanto avremmo potuto immaginare. Non accettare la croce, per logico e giustificabile che ci sembri, supporrebbe perdere il Dio di Gesù. Questo è, né più né meno, il rischio che stiamo correndo, quando ci impegniamo a vivere una vita cristiana senza croce, quando non riusciamo a vedere la forza redentrice della vita che si sacrifica per gli altri. Vivere schivando la croce è vivere alle spalle al Dio di Gesù. E’, ce lo ha ricordato il vangelo, il rischio dei migliori discepoli di Gesù, quelli che sanno chi è, ma si rifiutano di accettare che sia secondo il volere di Dio.
Gesù giudicò severamente l’atteggiamento di Pietro, il suo rifiuto ad accettare la croce, è evidente nelle sue parole: il discepolo beato si trasforma in Satana, quello che meglio era arrivato a conoscerlo, nel suo peggiore nemico; per resistere a Gesù che voleva dare la sua vita, per ribellarsi di fronte al suo progetto, gli causa il più grave rimprovero e, soprattutto, il rimprovero dello stesso Dio. Perché pensa come un uomo, perché si lascia trasportare dal suo amore per il Maestro, sta smettendo di pensare come Dio e sta allontanandosi dal suo volere. Non volere quello che Dio progetta, non accettare la vita come Dio l’ha pensata, rifiutarsi di accettare il progetto di Dio, benché sia il migliore, ci fa nemici di Dio; non scandalizzarsi di Cristo crocifisso ci eviterebbe di tentare Dio.
Perché, non bisogna dimenticarlo, Pietro non si è opposto a portare la propria croce, si ribellava, piuttosto, al pensiero che Gesù, essendo Figlio di Dio, dovesse prenderla su di sé. Ma, con ciò e senza pretenderlo, si oppose frontalmente a Dio ed al suo volere: incominceremo a sentirci benvoluti da Dio, quando incominciamo ad accettare che nella croce di Cristo sta la nostra salvezza, solo in lei. Dio non ha migliore dimostrazione di quanto ci ha benvoluti che la croce di Cristo. E se tale è il destino del Figlio prediletto, non può essere migliore, non deve essere molto differente, quello che prepara ai suoi figli adottivi. Gesù lo disse chiaro: i suoi discepoli non hanno destino migliore del suo.
Che lo vogliamo o no, si diventa figli di Dio percorrendo il cammino della croce: non c’è altra alternativa. Ci sentiremo, finalmente, benvoluti da Dio senza misura, quando assumiamo la croce come Cristo. Figlio di Dio non è chi vuole esserlo, bensì chi si sente amato nella croce di Cristo. Accettare, dunque, la sua croce e le nostre, suppone accettare Dio come Padre. Per quanto ci costi capirlo, ci giochiamo tutto se non lo accettiamo. Tanto sul serio Gesù prese la croce come destino proprio e dei suoi discepoli che li lasciò liberi di seguirlo, perché non voleva essere accompagnato da chi non portasse, come lui, vicino a lui, la sua propria croce. Nessun vero seguace del crocefisso può sognare di uscirne indenne: la croce è il salario del discepolo di Cristo, il Figlio di Dio.

JUAN JOSE BARTOLOME sdb

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