Murillo, San Pietro

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BRANO BIBLICO SCELTO : ROMANI 11,33-36
33 O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!
34 « Infatti, chi mai ha potuto conoscereil pensiero del Signore? O chi mai è stato suo consigliere? 35 O chi gli ha dato qualcosa per primo, si che abbia a riceverne il contraccambio? ». 36 Poiché da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Amen.
COMMENTO
Romani 11,33-36
Inno alla sapienza di Dio
Nella terza parte della lettera ai Romani (cc. 9-11) Paolo ha dato la sua spiegazione, ispirata alle Scritture, del mistero di Israele, concludendo che alla fine anche tutto il popolo eletto sarà salvato. Al termine di questa riflessione Paolo eleva un inno di lode a Dio, che è riportato nel testo liturgico. Il brano si apre con la lode (v. 33), prosegue con due citazioni bibliche (vv. 34-35) e termina con una ulteriore esaltazione di Dio (v. 36).
La lode iniziale è espressa da Paolo con due esclamazioni ispirate dalla riflessione sul mistero di Dio a cui ha appena accennato (cfr. v. 25): «O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!» (v. 33). Con la prima di queste due esclamazioni egli esalta la grandezza di Dio come creatore. La profondità riguarda tre aspetti: la sua «ricchezza» (ploutos), che consiste nelle risorse inesauribili della sua potenza, la sua «sapienza» (sophia), che è l’attributo manifestato da Dio nella creazione, la sua «scienza» (gnôsis) che è la conoscenza intima e diretta che Dio ha di tutte le realtà create. Ma è possibile che si Paolo attribuisca a Dio una ricchezza che è tanto più profonda in quanto ha come oggetto la sapienza e la conoscenza. Con la seconda esclamazione Paolo esalta Dio come colui che conduce gli esseri umani alla salvezza: i suoi «giudizi» (krimata, decisioni) sono insondabili e le sue «vie» (hodoi), cioè le sue scelte, sono inaccessibili: l’uomo può vedere solo gli effetti delle decisioni divine, ma le sue scelte profonde sono al di fuori della sua portata.
Per motivare il carattere trascendente e misterioso di Dio Paolo si pone poi tre domande che formula con le parole stesse della Scrittura. Per le prime due egli utilizza letteralmente, secondo la traduzione dei LXX, un passo del Secondo Isaia in cui si dice: «Chi ha conosciuto (ebr.: diretto) il pensiero (ebr.: Spirito) del Signore e chi mai è stato suo consigliere (per istruirlo)?» (Is 40,13; cfr. Ger 23,18) (v. 34). Questo testo si riferisce al decreto con cui il re persiano Ciro ha decretato il ritorno nella loro terra dei giudei esuli in Babilonia: questa svolta era umanamente inconcepibile, ma ciò che l’uomo non poteva neppure immaginare, e tanto meno suggerire, Dio lo ha compiuto di sua spontanea iniziativa. È significativa nella traduzione greca la sostituzione dello «Spirito» di JHWH con il suo «pensiero» (noun), che esprime più direttamente la sua attività decisionale.
Per la terza domanda Paolo si serve invece di un difficile testo ricavato dal libro di Giobbe (Gb 41,3). Letteralmente nel TM si dice: «Chi mi ha fatto un anticipo ch’io debba rimborsare? Tutto ciò che c’è sotto il cielo mi appartiene». Nel contesto, in cui si parla della forza del Leviatan, questa frase non ha senso. Nei LXX perciò il testo viene così tradotto: «Non temi perché è stata fatta una preparazione da me? Poiché chi c’è che mi resista?». La CEI, accogliendo una lettura diversa del testo, traduce: «Chi mai lo ha assalito e si è salvato? Nessuno sotto tutto il cielo». Abbandonando la traduzione greca da lui comunemente utilizzata, Paolo si rifà chiaramente al TM, traducendolo in questo modo: «O chi gli ha dato qualcosa per primo, sì che abbia a riceverne il contraccambio?» (v. 35). Anche qui si attende una risposta negativa: nessuno può pensare neppure lontanamente di aver dato qualcosa a Dio e pretendere così che Dio sia debitore nei suoi confronti. Dio è totalmente al di sopra e al di fuori della portata di ogni sua creatura. Un passo dell’Apocalisse di Baruc esprime un pensiero analogo a quello delle tre domande poste da Paolo: «Ma chi, Signore, mio Signore, comprenderà il tuo giudizio? O chi investigherà la profondità della tua via? O chi calcolerà la gravità del tuo sentiero? O chi potrà calcolare la tua incomprensibile intelligenza? O chi mai tra i nati (di donna) troverà il principio o il compimento della tua sapienza?» (2Bar 14,8-9).
Alle tre domande fa seguito una piccola professione di fede in forma innica (dossologia) in cui si dice: «Poiché da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose » (v. 36a). In queste parole riecheggia un testo attribuito a Marco Aurelio, il quale, rivolgendosi alla Natura esclama: «Tutte le cose sono da te, in te e per te (ek sy panta, en soi panta, eis se panta)». Questa formula ha un chiaro significato panteistico. Ma Paolo, pur utilizzandola, si ispira alla teologia biblica della creazione. Anzitutto Dio è presentato come il principio supremo dal quale tutte le cose hanno origine (ex autou); egli è anche la causa strumentale, cioè colui per mezzo del quale (di’autou) tutte le cose sono state fatte (creazione); infine egli è la meta verso cui gli esseri umani devono orientarsi (eis auton) per trovare il significato della loro vita (salvezza). Questa dossologia si avvicina al genere dell’«elogio della Sapienza», nel quale si afferma che per mezzo della Sapienza tutte le cose vengono da Dio e a lui ritornano (cfr. Pr 8,22-36; Sir 24,1-22; Sap. 7,22-30); nel NT questo genere letterario è utilizzato a volte in chiave cristologica (cfr. 1Cor 8,6; Gv 1,1-14; Col 1,15-20). Qui invece Dio campeggia sovrano sia nel campo sia della creazione che della salvezza. La dossologia termina con la formula «A lui la gloria nei secoli. Amen» (v. 36b) con la quale a Dio solo viene attribuita la lode da parte di tutte le creature.
Linee interpretative
Il mistero di Israele offre a Paolo lo spunto per mettere a fuoco il mistero di Dio, così come era sentito e vissuto nella religione israelitica. Proprio per la sua santità e trascendenza Dio non solo non può essere visto dalle sue creature, ma neppure può essere rappresentato con immagini o invocato con il suo nome. Dio resta il totalmente altro, che nessuno può conoscere o definire. Di lui l’uomo può parlare solo per analogia, cioè facendo ricorso a un linguaggio fortemente metaforico e simbolico, subito negando però che le immagini usate possano dire qualcosa di oggettivo riguardo a Dio. Perciò nessuno può pretendere di ottenere qualcosa da lui o chiamarlo in causa se non l’ottiene. Nonostante ciò Dio è la causa da cui ha avuto origine il genere umano e il fine a cui ciascuno deve tendere se vuole dare un senso alla propria vita e ottenere così la salvezza. Questo modo di pensare mette Dio al di fuori e al di sopra di ogni meschina strumentalizzazione. Di fronte a lui l’uomo non può che inchinarsi, riconoscendo in lui il proprio limite, e al tempo stesso la possibilità di superare se stesso e di proiettarsi verso l’infinito.
Questo Dio misterioso e nascosto non è però del tutto irraggiungibile, in quanto egli ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza. Quindi è proprio e solo nell’altro essere umano che l’uomo può trovare la vera immagine di Dio. Ciò avviene quando l’individuo si rende contro che l’altro rappresenta il limite invalicabile dei propri desideri e dei propri egoismi. Il riconoscimento dell’alterità e della trascendenza di ogni essere umano sta alla base della possibilità di stabilire con tutti rapporti di solidarietà e di amore. È qui che trova la sua fonte e la sua ragione di essere il precetto che impone di amare il prossimo come se stessi: se uno non scopre fino in fondo l’alterità dell’altro vi potrà essere forse nei suoi confronti un atteggiamento di pietà, ma non di amore. Non per nulla nella religione israelitica si afferma il principio, sfociato poi nel cristianesimo, secondo cui l’amore verso Dio non può attuarsi se non mediante l’amore per i propri simili.
24 AGOSTO 2014 | 21A DOMENICA A – T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO
LECTIO DIVINA :MT 16,13-20
Il vangelo ci ha appena ricordato uno dei momenti più importanti di tutto il ministero pubblico di Gesù che, contemporaneamente, costituì un vissuto incancellabile per quanti lo seguivano più da vicino. Dopo un periodo sufficiente di convivenza coi suoi discepoli che l’avevano accompagnato mentre predicava il Regno di Dio ed avevano presenziato ai portenti che faceva, Gesù si allontana dalla gente e rimane da solo coi suoi seguaci più vicini. Lontano da quanto possa distrarli, Gesù si interessa di sapere quello che dice la gente di Lui e che loro stessi pensano. Non è semplice curiosità quella che spinse Gesù a fare una simile domanda, ma la sua intenzione era di obbligare i suoi a che prendessero partito per lui e pubblicamente proclamassero chi era per loro e che cosa si aspettavano da lui seguendolo. Chiunque vuole essere discepolo di Gesù finisce sempre per sentirsi obbligato di definirsi definendolo: a Gesù non basta che lo si segua da vicino, è necessario che lo si conosca in realtà e che lo si proclami senza complessi.
In quel tempo, 13giunto nella regione di Cesarea di Filipo, Gesù domandò ai suoi discepoli:
« Chi dice la gente che sia il Figlio dell’uomo? »
14 Essi risposero: « Alcuni Giovanni Battista, altri Elia, altri Geremia o uno dei profeti. »
15 Egli domandò loro: « E voi, chi dite che io sia? »
16 Simon Pietro prese la parola e disse: « Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivo. »
17 Gesù gli rispose: « Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli.
18 E io ti dico: Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa.
19 A te darò le chiavi del regno dei cieli; tutto ciò che legherai sulla terra, sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra, sarà sciolto nei cieli. »
20 E comandò ai discepoli di non dire a nessuno che egli era il Cristo
1. LEGGERE : capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
Conosciuto già un certo fallimento nella sua missione personale (Mt 13,53-58; 15,1-9; 16,1-4) Gesù si concentra sui suoi seguaci. Per riuscire in una maggiore intimità, lascia la Galilea e le moltitudini. Durante il tragitto verso Cesarea di Filippo, Gesù provoca i suoi discepoli affinché si dichiarino. Il testo è la cronaca di una conversazione iniziata e sostenuta da Gesù con le sue domande. Non cammina con chiunque: vuole sapere quello che dice la gente di lui, e così prepara la vera questione: chi è egli per loro?
Nella loro risposta i discepoli rispondono su quello che si dice di Gesù; nonostante la pluralità di personaggi con i quali viene paragonato, il popolo lo vede come profeta. Curiosamente, Gesù non reagisce davanti a quello che ascolta; non sembra interessargli molto la confusione regnante tra la gente, perché rinnova la domanda diretta ai suoi interlocutori. Dietro tanta convivenza ed ascolto, dietro tanti portenti visti e tanto insegnamento specifico, chi è per essi Gesù? L’interesse di Gesù per l’opinione dei suoi discepoli lo incuriosisce: non gli basta avere con essi una vita di intimità condivisa, è arrivato il momento della confessione pubblica; il compagno di strada si deve fare pubblico testimone.
E Pietro confessa quello che il Padre gli ha messo nel cuore: definendo Gesù per quello che significa per Dio, il suo Messia e suo Figlio, fa suo il punto di vista di Dio, accetta la sua opzione. Benedicendolo, Gesù riconosce che la sua fede non è merito suo ma grazia concessa da Dio. Pietro non conosce Gesù perché ha convissuto con lui, bensì perché Dio glielo ha concesso rivelandogli la sua identità. E Gesù riconosce che questo uomo, beato perché premiato, può essere pietra e base di un nuovo popolo credente: non smetterà di essere debole per ciò, ma merita la fiducia, perché si è dichiarato per Gesù, vedendolo alla luce di Dio e non alla misura dei suoi desideri o sentimenti. Il potere nel cielo, l’autorità sulla terra, l’ottiene chi accetta che Gesù è Dio, e come Dio desidera: la fede è ben motivata quando si vede tutto, Gesù compreso, secondo Dio. Solo una fede che viene concessa può essere base e fondamento pietra angolare della fede comunitaria.
2 – MEDITARE : Applicare quello che dice il testo alla vita
Prima di chiedere la loro opinione personale, Gesù vuole sapere dai suoi discepoli che cosa è quello che la gente sta dicendo su di lui. Non sappiamo che cosa portò Gesù ad informarsi sulle dicerie che la sua missione aveva svegliato tra il popolo. Il fatto è che volle conoscerlo dalla bocca dei suoi prossimi. In questo modo, li obbligava ad interessarsi di quanto, sul maestro, pensava il popolo. Il discepolo di Gesù che vuole vivere tutta la vita vicino a lui, non deve disinteressarsi di quanto il mondo pensi sul suo Maestro: vivere occupati nella sequela non ci dispensa di preoccuparci di quello che Gesù significa per gli altri.
Prova del nostro interesse per Gesù è l’interesse che mostriamo nel sapere se la gente condivide il nostro entusiasmo per lui. Difficilmente dimostreremmo che le nostre convinzioni e la nostra fede sono sentite e sincere, se non ci preoccupa che il mondo non si informi su Gesù, né ci faccia male che non sia conosciuto quanto basta o non è amato tanto quanto lo facciamo noi. Rimanere contenti perché, vivendo oggi in una società interessata sempre meno per il nostro Signore, riusciamo, e non è poco, a conservare intatta la nostra fede in Lui, non è sufficiente; avrebbe poco valore per noi il Gesù che seguiamo, se non ci preoccupasse che sono meno i suoi discepoli o che pochi l’apprezzano come noi.
Con la sua domanda, in realtà, Gesù preparava ancora i suoi discepoli per una sfida più decisiva. Non interessava molto a Gesù quello che pensassero i suoi contemporanei di lui; cercava, piuttosto, di preparare i suoi seguaci davanti alla questione decisiva: chi era egli per loro? L’interesse di Gesù per l’opinione dei suoi è autentico e la risposta improrogabile: devono proclamare pubblicamente quello che in gran segreto tante volte hanno pensato. Finalmente devono arrischiarsi a dire quello che tante volte hanno sentito in privato. Gesù non si accontenta che loro abbiano seguito e condiviso il suo lavoro e la sua intimità. La sequela di Gesù non è mai tema privato che compete solo alla coscienza del discepolo e che accade nella più stretta intimità: senza professione pubblica, senza dire ad alta voce quello che sa il cuore, nessun discepolo supera la prova. Il compagno di Gesù deve farsi suo testimone; l’intimo di Cristo, il suo predicatore.
Non basta, dunque, alimentare buoni sentimenti senza opere che li manifestino. Bisogna dire quello che si pensa e pubblicare quello che si vive; non sono le intenzioni buone quelle che fanno il buon discepolo, bensì la sua vita fatta messaggio. Gesù non sopporta nelle sue compagnia persone che non si definiscono che non optano per lui che non sanno chi è o non osano farlo in pubblico. Egli stesso continua oggi a sfidare tutti quelli che desiderano essere suoi discepoli; egli è colui che vuole sapere da noi stessi la nostra opinione. Se ancora non abbiamo sentito quella domanda di Gesù, se non ce l’ha fatta ancora, è probabile che non ci abbia considerati ancora come i suoi seguaci più vicini: in realtà, la fece solo a chi lo seguiva da vicino e dagli inizi.
Dovremmo augurarci di sentire oggi di nuovo la domanda di Gesù: se non ci siamo visti mai obbligati a prendere posizione davanti a lui, chissà è perché non siamo stati sufficientemente vicini a lui affinché potesse dirigerci la sua parola. Recuperiamo il tempo perduto; basterebbe che ci sentiamo interpellati da Gesù. Chi è egli realmente per noi? Cosa significa, in concreto, nel quotidiano, nelle nostre vite? Dipenderà da quello che gli rispondiamo pubblicamente, davanti agli altri e, specialmente, alla sua presenza, affinché, come a Pietro, ci consideri degni di lui e beati perché il Padre si degna di rivelarci i suoi segreti.
Confessare Gesù non è semplicemente dire l’opinione che ci siamo fatti di lui e neanche confessare la fede che riceviamo dai nostri genitori; accettandolo come Cristo e Figlio di Dio, Pietro non proclamò quello che sentiva per Gesù, ma quello che Dio voleva. Pietro non espresse il suo pensiero personale, disse quello che Dio gli aveva messo nel suo cuore. Credere in Cristo Gesù suppone, dunque, fare nostro il punto di vista di Dio, vedere Gesù come Dio stesso lo vede, sentire per lui quello che Dio sente, contemplarlo alla sua luce ed amarlo come Dio vuole. Non è legittimo che ci immaginiamo Gesù alla misura dei nostri desideri ed in conformità alla nostra necessità; non sarebbe quello il Gesù autentico, il vero figlio di Dio: confessare Cristo è accettarlo come Dio lo volle. Un Gesù modellato secondo le nostre preferenze non starebbe all’altezza delle preferenze divine: Gesù, il Messia, il Figlio di Dio, è sempre molto meglio di quanto noi avremmo potuto desiderare. Ma, per sperimentarlo, bisogna accettarlo realmente è, come Dio ce lo diede.
Solo i discepoli che, come Pietro a Cesarea, vedono e proclamano Gesù come Dio lo ha rivelato a loro, saranno chiamati ad essere pietra e fondamento della fede per gli altri. Il credente ha assicurato il potere nel cielo e gode di autorità sulla terra, ogni volta che fonda la sua esistenza in Cristo Gesù, il Figlio di Dio. Nel suo interesse per conoscere la nostra opinione su di lui, Gesù si interessa di sapere se l’abbiamo accettato come Dio ce lo ha mostrato, come suo Figlio e nostro Cristo. Se oggi trovasse tra noi un credente così, lo proclamerebbe beato e gli confiderebbe di nuovo la missione di essere pietra e base della fede degli altri. Siamo chiamati a proclamare senza complessi la nostra fede; non è il mondo che ce lo chiede, ma il nostro stesso Signore. E tutti siamo così chiamati ad essere, come Pietro, roccia della fede e pilastro della fedeltà dei nostri fratelli.
Sentiamoci spinti da Gesù a dirgli che cosa rappresenta per noi. Beato chi, tra di noi lo confessa come Dio lo vede: niente si dovrà invidiare a Pietro! La sua ‘missione’, essere fondamento ed appoggio della fedeltà degli altri, sta a portata di quanti riescono a proclamare la loro fede in Gesù, Messia e Figlio di Dio. È la nostra opportunità, perché non approfittarne?
JUAN JOSE BARTOLOME sdb,