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Le lacrime di San Pietro

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GIOVANNI PAOLO II – SALMO 62, 2-9: L’ANIMA ASSETATA DEL SIGNORE

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GIOVANNI PAOLO II – SALMO 62, 2-9: L’ANIMA ASSETATA DEL SIGNORE

(LODI DOMENICA 1ª SETTIMANA)

terza Catechesi di SS. Giovanni Paolo II su i Salmi e i Cantici delle Lodi, (mercoledì 25 aprile 2001)

1. Il Salmo 62, sul quale oggi ci fermiamo a riflettere, è il Salmo dell’amore mistico, che celebra l’adesione totale a Dio, partendo da un anelito quasi fisico e raggiungendo la sua pienezza in un abbraccio intimo e perenne. La preghiera si fa desiderio, sete e fame, perché coinvolge anima e corpo.
Come scrive santa Teresa d’Avila, “la sete esprime il desiderio di una cosa, ma un desiderio talmente intenso che noi moriamo se ne restiamo privi” (Cammino di perfezione, c. XXI). Del Salmo la liturgia ci propone le prime due strofe che sono appunto incentrate sui simboli della sete e della fame, mentre la terza strofa fa balenare un orizzonte oscuro, quello del giudizio divino sul male, in contrasto con la luminosità e la dolcezza del resto del Salmo.
2. Iniziamo, allora, la nostra meditazione col primo canto, quello della sete di Dio (cfr vv. 2-4). È l’alba, il sole sta sorgendo nel cielo terso della Terra Santa e l’orante comincia la sua giornata recandosi al tempio per cercare la luce di Dio. Egli ha bisogno di quell’incontro col Signore in modo quasi istintivo, si direbbe “fisico”. Come la terra arida è morta, finché non è irrigata dalla pioggia, e come nelle screpolature del terreno essa sembra una bocca assetata e riarsa, così il fedele anela a Dio per essere riempito di Lui e per potere così esistere in comunione con Lui.
Il profeta Geremia aveva già proclamato: il Signore è “sorgente d’acqua viva”, e aveva rimproverato il popolo per aver costruito “cisterne screpolate, che non tengono l’acqua” (2,13). Gesù stesso esclamerà ad alta voce: “Chi ha sete venga a me e beva, chi crede in me” (Gv 7,37-38). Nel pieno meriggio di un giorno assolato e silenzioso, promette alla donna samaritana: “Chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna” (Gv 4,14).
3. La preghiera del Salmo 62 s’intreccia, per questo tema, col canto di un altro stupendo Salmo, il 41: “Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente” (vv. 2-3). Ora, nella lingua dell’Antico Testamento, l’ebraico, “l’anima” è espressa con il termine nefesh, che in alcuni testi designa la “gola” e in molti altri si allarga ad indicare l’essere intero della persona. Colto in queste dimensioni, il vocabolo aiuta a comprendere quanto sia essenziale e profondo il bisogno di Dio; senza di lui vien meno il respiro e la stessa vita. Per questo il Salmista giunge a mettere in secondo piano la stessa esistenza fisica, qualora venga a mancare l’unione con Dio: “La tua grazia vale più della vita” (Sal 62,4). Anche nel Salmo 72 si ripeterà al Signore: “Fuori di te nulla bramo sulla terra. Vengono meno la mia carne e il mio cuore; ma la roccia del mio cuore è Dio, è Dio la mia sorte per sempre… Il mio bene è stare vicino a Dio” (vv. 25-28).
4. Dopo il canto della sete, ecco modularsi nelle parole del Salmista il canto della fame (cfr Sal 62,6-9). Probabilmente, con le immagini del “lauto convito” e della sazietà, l’orante rimanda a uno dei sacrifici che si celebravano nel tempio di Sion: quello cosiddetto “di comunione”, ossia un banchetto sacro in cui i fedeli mangiavano le carni delle vittime immolate. Un’altra necessità fondamentale della vita viene qui usata come simbolo della comunione con Dio: la fame è saziata quando si ascolta la Parola divina e si incontra il Signore. Infatti, “l’uomo non vive soltanto di pane, ma l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore” (Dt 8,3; cfr Mt 4,4). E qui il pensiero del cristiano corre a quel banchetto che Cristo ha imbandito l’ultima sera della sua vita terrena e il cui valore profondo aveva già spiegato nel discorso di Cafarnao: “La mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui” (Gv 6,55-56).
5.Attraverso il cibo mistico della comunione con Dio “l’anima si stringe” a Lui, come dichiara il Salmista. Ancora una volta, la parola “anima” evoca l’intero essere umano. Non per nulla si parla di un abbraccio, di uno stringersi quasi fisico: ormai Dio e uomo sono in piena comunione e sulle labbra della creatura non può che sbocciare la lode gioiosa e grata. Anche quando si è nella notte oscura, ci si sente protetti dalle ali di Dio, come l’arca dell’alleanza è coperta dalle ali dei cherubini. E allora fiorisce l’espressione estatica della gioia: “Esulto di gioia all’ombra delle tue ali”. La paura si dissolve, l’abbraccio non stringe il vuoto ma Dio stesso, la nostra mano s’intreccia con la forza della sua destra (cfr Sal 62,8-9).
6. In una lettura del Salmo alla luce del mistero pasquale, la sete e la fame che ci spingono verso Dio, trovano il loro appagamento in Cristo crocifisso e risorto, dal quale giunge a noi, mediante il dono dello Spirito e dei Sacramenti, la vita nuova e l’alimento che la sostiene.
Ce lo ricorda san Giovanni Crisostomo, che commentando l’annotazione giovannea: dal fianco “uscì sangue e acqua” (cfr Gv 19,34), afferma: “Quel sangue e quell’acqua sono simboli del Battesimo e dei Misteri”, cioè dell’Eucaristia. E conclude: “Vedete come Cristo congiunse a se stesso la sposa? Vedete con quale cibo nutre tutti noi? È dallo stesso cibo che siamo stati formati e veniamo nutriti. Infatti come la donna nutre colui che ha generato con il proprio sangue e latte, così anche Cristo nutre continuamente col proprio sangue colui che egli stesso ha generato” (Omelia III rivolta ai neofiti, 16-19 passim: SC 50 bis, 160-162).

LO SFOGO DI GEREMIA – GER.20,7-18

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LO SFOGO DI GEREMIA – GER.20,7-18

Dal libro del profeta Geremia (20,7-18)
7) Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso.
Sono diventato oggetto di scherno ogni giorno; ognuno si fa beffe di me.
8) Quando parlo, devo gridare, devo proclamare: «Violenza! Oppressione!».
Così la parola del Signore è diventata per me motivo di obbrobrio e di scherno ogni giorno. 9) Mi dicevo: «Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!».
Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa;
mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo.
10) ‘Sentivo le insinuazioni di molti: «Terrore all’intorno! Denunciatelo e lo denunceremo». Tutti i miei amici spiavano la mia caduta: «Forse si lascerà trarre in inganno, così noi prevarremo su di lui, ci prenderemo la nostra vendetta».
11) “Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso, per questo i miei persecutori
cadranno e non potranno prevalere; saranno molto confusi perché non riusciranno, la loro vergogna sarà eterna e incancellabile.
12) Signore degli eserciti, che provi il giusto e scruti il cuore e la mente, possa io vedere la tua vendetta su di essi; poiché a te ho affidato la mia causa!
13) Cantate inni al Signore, lodate il Signore, perché ha liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori. 14) Maledetto il giorno in cui nacqui; il giorno in cui mia madre mi diede alla luce non sia mai benedetto.
15) Maledetto l’uomo che portò la notizia a mio padre, dicendo: «Ti è nato un figlio maschio», colmandolo di gioia.
16) Quell’uomo sia come le città che il Signore ha demolito senza compassione.
Ascolti grida al mattino e rumori di guerra a mezzogiorno,
17) perché non mi fece morire nel grembo materno; mia madre sarebbe stata la mia tomba e il suo grembo gravido per sempre.
18) Perché mai sono uscito dal seno materno per vedere tormenti e dolore
e per finire i miei giorni nella vergogna?

Ambientazione
•Il profeta Geremia nasce attorno al 650 a.C., poiché era un figlio tanto atteso, gli venne dato il nome di Géremia che significa: «Jahvè ha liberato il grembo». Nel 626 a.C. il giovane impacciato e timido riceve la vocazione profetica che lo inserisce nel mondo turbolento della vita sociale e religiosa.
•Nel suo libro troviamo alcuni capitoli che ci descrivono il suo dramma interiore, una specie di «confessione» che ci rivela una personalità sensibilissima e fortemente emotiva le cui espressioni sfiorano talvolta l’imprecazione della disperazione.
•Egli vive il dramma di una persona affezionata alla sua patria, alla sua religione, alla vita semplice e pulita, mentre si vede costretto dalla sua missione a fare la voce della Cassandra, ad essere scomunicato, perseguitato dai suoi stessi concittadini e denunciato perfino da amici e parenti. Egli fu chiamato a rinunciare perfino ad una famiglia propria, a vivere da solitario circondato di odio, quasi maledetto da Dio. La sua vita è un segno di contraddizione, tanto che perfino la sua vocazione subisce una profonda crisi contrassegnata da un’estenuante ricerca del perché. Perché Dio comanda ad un uomo di dire cose che nessuno vuole ascoltare? Perché gli empi prosperano e perché i traditori sono tranquilli?
•Il brano che ci viene proposto segue la carcerazione durante la quale Geremia era stato flagellato e tenuto prigioniero legato ai ceppi in prigione. Uscendo, lancia la sua terribile invettiva contro il sacerdote del tempio che lo aveva fatto imprigionare, ma subito dopo accusa anche il Signore di averlo sedotto e maledice il giorno della propria nascita!

La struttura del brano
— Confessione – denuncia contro Dio seduttore (vv. 7-8);
— Descrizione del tormento interiore (v. 9);
— Motivo dello sconforto ed esaudimento della supplica (vv.10-13);
— Maledizione del giorno della propria nascita (vv. 14-18).

I dettagli del racconto
— Confessione – denuncia contro Dio seduttore (vv. 7-8) v. 7: Dio si è comportato con Geremia come un uomo che inganna una donna attraendola per impadronirsi di lei e possederla. Rasentando la bestemmia, il profeta accusa Dio di vigliaccheria, per averlo attratto con inganno facendogli credere una cosa per l’altra! E dopo essersi fidato del Signore egli si trova disilluso. Il ministero profetico gli ha portato solo obbrobrio e disprezzo, come conseguenza degli annunci e della predicazione. Coloro che lo sentono se ne fanno beffe.
v. 8: Le grida del profeta: «Violenza ed oppressione», sono l’equivalente del nostro: «Aiuto!». La missione profetica gli ha creato nemici dai quali il profeta sembra di non essere in grado di difendersi da solo e per questo ogni giorno è costretto a chiedere aiuto.
— Descrizione del tormento interiore (v. 9)
v. 9: La tentazione di rinunciare è fortissima. Anche il profeta giunge alla decisione di non profetizzare più, ossia di rinunciare ad obbedire al Signore. Tuttavia, la Parola di Dio accolta nel suo cuore sprigiona un fuoco incontenibile che tocca ogni fibra del suo essere (= ossa) e che brucia ogni determinazione, anche la più risoluta. La Parola di Dio appare un incendio incontenibile.
— Motivo dello sconforto ed esaudimento della supplica (vv.10-13)
v. 10: Con linguaggio simile a quello dei salmi di lamentazione il profeta descrive anzitutto la congiura scatenata contro di lui, facendo terra bruciata. L’attesa di coloro che attendono una denuncia qualsiasi per scatenarsi ed accanirsi a loro volta. Perfino gli amici lo hanno abbandonato e spiano la sua vita in attesa di vederlo cadere in disgrazia per approfittare della sua debolezza e vendicarsi.
v. 11: Pur nella convinzione di essere stato sedotto da Dio, il profeta sa di non essere da lui abbandonato e vede già la sconfitta di coloro che lo perseguitano. Saranno essi a cadere, a patire la confusione e a subire una vergogna incancellabile.
V.12: Dopo aver rinfacciato a Dio la sua slealtà, ora il profeta lo invoca quale giudice e vendicatore dei giusti.
V.13: Rifacendosi alle prove già superate in passato il profeta invita i suoi lettori a lodare Dio perché lo ha liberato dalle mani dei malfattori, donandoci in questo modo una magnifica preghiera di lamento, di fiducia e di ringraziamento che al di là delle espressioni formali ci permette di sondare le angosce interiori del vero profeta.
— Maledizione del giorno della propria nascita (vv. 14-18)
v. 14: La pausa di refrigerio apportata dalla preghiera non lenisce la profonda ferita; la sofferenza e lo spasimo non accennano a diminuire, forse acuite anche in prossimità dell’ormai inevitabile catastrofe nazionale contro la quale aveva tenacemente ma inutilmente combattuto. Di fronte a tanta amarezza, il profeta preferirebbe non essere mai nato e nella sua esacerbazione maledice il giorno della propria nascita.
vv. 15-18: Nella maledizione del giorno della nascita il profeta coinvolge anche l’uomo, che secondo le usanze del tempo, portava al padre del nascituro l’annuncio dell’avvenimento. L’uomo che portò a suo padre Chelkia trepidante la sospirata buona novella (in ebraico suona come «evangelo») di un maschio continuatore della stirpe paterna, viene maledetto al pari di una città distrutta e fumante, come tante di quelle che gli eserciti di Nabucodonosor lasciavano dietro di sé nella loro temibile avanzata.
In questa riflessione emerge perfino il rammarico di non essere stato soffocato dalle levatrici prima ancora di uscire dal grembo materno e di non aver avuto in esso la propria bara! La vita del profeta trova qui una sintesi drammatica: dalla nascita alla morte, un’intera esistenza condotta fra dolori, tormenti e vergogna!

La parola chiave
La parola chiave di questo brano potrebbe essere colta nel versetto 9, dove il profeta rivela il suo dramma interiore. Egli si sente diviso tra il desiderio di non pensare più al Signore e l’amore insopprimibile verso di lui: «Mi dicevo: “Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!”. Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo».

Che cosa dice di Dio
•Il Signore entrando nella vita di Geremia la sconvolge. Lo
chiama ad una vocazione senza avvisarlo circa quello che in-contrerà nell’esplicare la sua missione. E il profeta accetta di vivere con fedeltà anche una missione scomoda. Quando il Signore chiama non è tenuto a spiegarsi e a rivelarci tutti i suoi piani. Cosicché il rapporto di chi è chiamato con lui è sempre di obbedienza, mai invece concordato: il capostipite di questa tipologia religiosa è nientemeno che Abramo.
•Per il fatto di attirare a sé il profeta per affidargli una missione che lo fa soffrire e che talvolta lo lascia solo, Dio viene descritto con l’immagine ardita del seduttore e in altre occasioni viene chiamato addirittura: «torrente infido». Agli occhi del profeta Dio appare inaffidabile, proprio come dichiara il serpente nel racconto del peccato originale.
•Pare essere soprattutto la debolezza della Parola di Dio il vero motivo della sofferenza del profeta. Egli deve pronunciare oracoli, deve richiamare alla fede persone che non vogliono ascoltare la Parola di Dio, cosicché il profeta si trova con una minaccia che non scuote le coscienze, con una parola che non incute né timore né rispetto. Quella parola che aveva fatto breccia in modo così violento nel suo cuore, sembra una freccia spuntata quando viene rivolta all’uditorio e ai fedeli in genere. Dio, che chiede obbedienza e sacrificio dal suo profeta, sembra rivelarsi quasi incapace di difenderlo nelle insidie.

Che cosa dice di Geremia e di noi
•Il profeta obbediente non teme di gridare la propria delusione sul comportamento «inaffidabile» di Dio. E’ importante sottolineare la crisi del profeta. Forte ed intensa appare la sua preghiera-accusa nei confronti di Dio. Geremia che aveva accettato la missione e che ad essa aveva legato tutta la sua vita, con altrettanta franchezza e libertà apostrofa Dio. Anzi gli rivela perfino la sua decisione di non pensare più a lui e, solo perché incapace di attuare la sua decisione, ritorna sui suoi passi. E bella questa preghiera schietta e libera, che lo fa sentire vicino ad ogni persona che vive un rapporto difficile con Dio.
•L’ acme della crisi arriva al «tedium vitae» che sfocia nella disperazione, quando il profeta dichiara che avrebbe preferito non essere mai nato e maledice il giorno in cui egli vide la luce. L’obbedienza a Dio gli ha fatto perdere il gusto di vivere, quasi anticipo di quella terribile agonia nell’orto del Getsemani. Tuttavia, mentre il Signore Gesù cammina sereno verso Gerusalemme e la sua passione, il profeta sembra sperimentare solo l’amarezza e la fatica dell’obbedienza.
•La preghiera esprime bene la fiducia nel Dio vendicatore, ma sembra fermarsi lì: all’autore resta la magra consolazione di vedere che Dio rende giustizia dei suoi nemici, ma non gli restituisce la gioia di vivere. In tutto ciò questa pagina di Geremia descrive una vicenda in cui la fede obbedienziale appare la porta stretta da valicare, la strada in salita da percorrere, ed in ogni caso tutt’altro che una relazione consolatoria.

Riflessioni
•La pagina di Geremia riguarda innanzitutto coloro che nella Chiesa, oggi, hanno il compito di predicare. Importa ricordarlo anche ai fedeli, affinché possano comprendere le eventuali crisi vocazionali. Questa pagina, infatti, sembra dire che il sacerdote, lungi dall’essere protetto, talvolta è invece esposto alla crisi non da motivazioni esterne, ma anzitutto dalla stessa dinamica della sua missione, che lo espone
all’incomprensione, alla delusione alla tentazione di non pensare più a Dio. Si era impegnato a servire il Signore, fidandosi di lui. E ad un tratto si accorge che quella Parola è debole, non ha il successo assicurato, viene contestata, non ha il potere di compiere miracoli e di cambiare le situazioni. La gente un po’ lo ascolta, e un po’ lo deride, non tiene conto della sua predicazione, lasciandolo deluso e frustrato.

L’esperienza di Geremia non riguarda solamente coloro che hanno una missione simile a quella del profeta, ma riguarda anche tutti coloro che accettano la parola del Signore, che si fidano e che poi si trovano delusi da un Dio seduttore.
Capita dunque anche a noi.
Pensiamo a coloro che accolgono la yocazione alla paternità e alla maternità con chiara motivazione cristiana e poi sperimentano l’insufficienza del loro esempio, l’abbandono di Dio, il tra-viamento dei figli. Dov’è, si chiedono, la potenza della fede?
A che giova l’aver seguito gli insegnamenti della Chiesa?

•Impariamo che, se talvolta la parola del Signore è consolatrice, e lenisce i nostri guai, tante altre volte essa assomiglia ad una spada a doppio taglio che penetra nel nostro cuore e nella nostra vita. A Dio si viene dunque primariamente perché è Dio e non per cercare consolazioni improbabili e comunque non garantite.
La sofferenza ha purificato la fede del profeta. Questa purifica anche la nostra, perché il dramma del profeta non sta tanto nel sentirsi tradito da Dio, quanto piuttosto nel sentirsi attratto ed innamorato da un Dio che lo seduce e poi lo fa soffrire.
Egli non riesce a dimenticare questo Dio, che diventa per lui un tormento.
•Queste confessioni di Geremia ci richiamano infine alla debolezza della Parola incarnata, alla debolezza di Betlemme e del Golgota. Un richiamo che non ci convince mai pienamente e la tentazione è sempre pronta ad affacciarsi provocandoci: perché il Signore non distrugge i nemici, perché non dà alla sua Chiesa la forza, la gloria, le possibilità economiche, le possibilità di avere successo nei mass media? Perché i cristiani debbono lottare contro difficoltà di ogni tipo?
Gesù risponde: Perché in questo modo io ho rivelato il Padre. Questa debolezza è una caratteristica del ministero della missione ed è espressa molto bene nella realtà più povera e più inerme che ci sia: l’Eucaristia. Non c’è nulla di più debole, di più incapace ad agire, di più passivo del pane, del vino, dell’Eucaristia; eppure in essa Dio compie il massimo della rivelazione del suo amore.
Scrive il Cardinale Martini: «Forse non ci basterà una vita per comprendere appieno la lezione; noi tendiamo ad attribuire al nostro ministero e alla Chiesa un certo prestigio e potere mondano: certamente il Signore ci darà delle soddisfazioni umane, ma dobbiamo sapere che la Chiesa è maggiormente se stessa là dove è più simile al Cristo di Betlemme, al Cristo della croce, al Cristo dell’ Eucaristia, cioè alla voce debole e fedele di Geremia».
•Un ultimo insegnamento cogliamo infine tutti noi, preti e fe-
deli, da questa pagina. Quando la Parola ci viene a mancare,
quando è debole in noi che siamo afferrati dallo scoraggiamento e dallo sconforto, noi siamo sempre servi del Signore e le sofferenze che sperimentiamo ci rendono simili all’agnello mansueto.
Non è dunque contrario alla vocazione sacerdotale o matrimo-
niale avvertire stanchezza, disgusto, disagio, ripugnanza, debolezza; se apriamo gli occhi, ci accorgiamo che proprio in tali condizioni è davvero presente il Signore.

22A DOMENICA – OMELIA DI APPROFONDIMENTO: MT 16,21-27

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31 AGOSTO 2014 | 22A DOMENICA A – T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

LECTIO DIVINA : MT 16,21-27

La croce continua ad essere la prova da superare dal discepolo di Cristo. Anche se ha passato molto tempo alla sua sequela, per quanto sia entusiasmato di lui, per quanto sappia su di lui e per quanto lo ami, il discepolo autentico non smette di sentire autentica ripugnanza ad accettare la croce nella sua vita. Curiosamente, quel ripudio della croce lo autentica come discepolo, è la ‘sua’ prova. Il vangelo ce lo ricorda oggi; con ciò vuole dirci che non dovremmo sorprenderci troppo se, davanti al dolore ingiustificato o di fronte alla morte, sempre ingiusta, ci ribelliamo; neanche Pietro, il più coraggioso dei suoi discepoli, si sentiva disposto ad accettare che la croce fosse la sorte fissata dal suo Signore. La risposta di Gesù a Pietro ci mette in guardia sul rischio che corriamo quando lasciamo che ci vinca la resistenza ad accettare la croce: chi la rifiuta perde anche Cristo.
In quel tempo,
21 Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, i sommi sacerdoti e gli scribi, essere ucciso e resuscitare il terzo giorno.
22 Pietro lo portò in disparte e si mise a riprenderlo:
- Dio non voglia, Signore! Questo non ti accadrà mai. »
23 Gesù si voltò e disse a Pietro:
- »Togliti dalla mia vista, Satana, perché mi sei di inciampo; tu pensi secondo gli uomini, non secondo Dio. »
24Allora disse Gesù ai suoi discepoli:
- »Chi vuol venire con me rinneghi se stesso prenda la sua croce e mi segua.
25 Se uno vuole salvare la sua vita, la perderà; ma colui che la perda a causa mia la troverà.
26 Che cosa serve all’uomo guadagnare il mondo intero, se perde la sua vita? 0 che cosa potrà dare per recuperarla?
27 Perché il Figlio dell’uomo verrà tra i suoi angeli, con la gloria del Padre suo, ed allora renderà ad ognuno secondo la sua condotta. »
1. LEGGERE : capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
Il passaggio evangelico non è comprensibile se non si tiene conto del suo contesto immediato: Gesù menziona per la prima volta ai suoi discepoli la croce, dopo essere riuscito ad essere riconosciuto come Cristo e figlio di Dio. L’annuncio della necessaria passione è l’insegnamento per i seguaci credenti. Primo bisogna sapere, per rivelazione gratuita di Dio, chi è Gesù e, solo dopo, si saprà come dovrà essere. Solo ai credenti beati, come lo fu Pietro, Gesù confida la sua sorte.
Nel progetto narrativo di Matteo la scena della confessione di Pietro ed il primo annuncio della passione apre una nuova tappa: d’ora in poi, Gesù si dedicherà con maggiore intensità all’istruzione dei suoi discepoli (16,21-20,34), pretendendo di convincerli che il suo riconoscente messianismo passa obbligatoriamente per l’accettazione del rifiuto del popolo e la morte in croce.
Di nuovo è Pietro che, facendosi portavoce dei discepoli, espressa pubblicamente la resistenza più netta. Appena credente beato, si rifiuta chiaramente di accettare quell’annuncio: amava troppo il suo signore ed era tanto radicato nella fede del suo popolo che aspettava un messia onnipotente e non poteva accettare il nuovo insegnamento del maestro messia ed osò rimproverarlo in privato, e, con evidente delicatezza.
Gesù reagì senza sfumature, con violenza inusitata: a nessun altro, né al più feroce nemico discepolo, lo chiama Satana, in tutto il vangelo. E l’aveva appena chiamato beato, per essere stato credente! Meno male che, di seguito, si capisce: con la sua ‘buona volontà’ si sta opponendo alla volontà del suo Dio; il suo vero amore, ma mal guidato, sta servendo da ‘scandalo’: Gesù non pensa di inciampare dove ha inciampato Pietro, perché egli sa che pensa come Dio. Per non disubbidire a Dio, Gesù è capace di licenziare il primo che credette in lui.
La lezione non finisce con Pietro. Dirigendosi a tutti, per la prima volta nel vangelo, Gesù fa della sequela una opzione. Tutto era incominciato con un ordine di Gesù: seguitemi (4,19); seppero a chi seguire, ma non sapevano verso dove. Quando glielo annuncia, dà libertà al seguace: chi vuol venire con me (16,24). La sequela diventa libera quando il discepolo di Gesù arriva a conoscere la meta: convivere con chi cammina verso la croce impone la croce come modo di vita.
Gesù risponde a Pietro che si era opposto che il ‘suo’ messia soffrisse, annunciando che non solo lui, ma anche chi lo segue, avrà lo stesso destino. La croce non è opzionale per il seguace del Crocefisso; è opzionale il seguirlo. Ed aggiunge tre argomenti, di diversa natura, per dare forza alla sua affermazione: i due primi sono di tipo sapienziale: consegnare la vita non è perderla; la vita si perde, se si vuole salvarla; nessun bene assicura la vita: la vita è il bene più prezioso, perché non ha prezzo. L’ultima espressione esprime una convinzione di fede: chi deve affrontare ancora un giudizio, non è libero di fare quello che gli piace; il Signore che deve venire, deciderà sulla nostra sorte come noi abbiamo deciso sulla nostra; ratificherà la nostra opzione: solo chi porta liberamente la sua croce sarà riconosciuto come vero discepolo.

2 – MEDITARE : Applicare quello che dice il testo alla vita
Pietro, per avere proclamato Gesù Messia e Figlio di Dio, era appena stato proclamato beato: base della fede dei suoi fratelli, era chiamato ad essere anche amministratore del perdono divino. Essere stato il primo a riconoscere il suo Signore, lo fece meritevole della promessa di Gesù. Dovrebbe farci riflettere che questo discepolo beato – così lo chiamò lo stesso Gesù – subito dopo, si rifiutasse di accettare la morte prossima del suo Signore in una croce. Per Pietro era inconcepibile – perché no? – chi era l’eletto di Dio non poteva cadere nelle mani dei suoi nemici: l’idea che si era fatto del suo Signore gli impediva di accettare il piano di Dio; l’amore che sentiva per lui lo impossibilitava a pensare che dovesse soffrire. L’opposizione di Pietro non poteva non essere bene intenzionata: non si opponeva di soffrire lui, bensì alla sofferenza del suo maestro.
Ma, rifiutandosi di accettare che il suo Signore avrebbe sofferto e sarebbe morto in croce un giorno, lo portava, senza saperlo, al rifiuto di accettare Dio e il suo volere. E Gesù non dubitò di correggerlo severamente e pubblicamente: chi non accetta quello che Dio vuole, rifiuta di sentirsi voluto bene da Dio. Non si conferma come figlio chi fugge dalla sofferenza bensì chi realizza la volontà del Padre. La croce è ‘la fortuna’ dei figli di Dio: opporsi, significa opporsi a Dio stesso. Allontanare la croce dalla propria vita significa perdere la strada verso Dio.
Certamente, non ci dovrebbe stupire che anche noi, come Pietro, ci rifiutiamo con tanta frequenza di accettare le strade di Dio. Se il portavoce dei discepoli, il suo primo rappresentante e la sua testa, resisté a Gesù perché non compisse il suo destino, non è strano che noi, discepoli più mediocri, sentiamo tanta ripugnanza ad accettare la croce. In fondo, come Pietro, anche noi ci facciamo un’idea di Dio, di come è e di come deve essere, che sta ostacolandoci ad accettarlo realmente come è e come vuole comportarsi con noi. Siccome ci immaginiamo di sapere quello che Dio vuole da noi, ci sorprende oltremodo che ci chieda qualcosa di diverso. I credenti spesso soccombiamo alla tentazione di credere di conoscere Dio; e quando realmente si è fatto conoscere, non lo riusciamo a riconoscere come il nostro Dio. Se per noi Dio è strano, se ci risulta strano il suo comportamento, è perché abbiamo familiarizzato con la nostra idea di Lui e normalmente ci afferriamo alla nostra immagine che abbiamo di Lui per non dovere fare la sua volontà.
Evitiamo così, senza renderci conto, con le migliori intenzioni, di trovarci col Dio vero. Riusciamo solo ad avere un’idea di un Dio che vive nella nostra fantasia, un Dio che non inquieta né ci fa male. Quando, come a Pietro, ci costa realmente accettare quello che Dio ci chiede, come Dio ci vuole, allora staremo davanti al Dio vivo, il Dio che ci salva dai nostri propri interessi e ci libera delle sue false immagini. Accettare Dio come è, suppone sempre rinunciare a capirlo del tutto. Rinunciare ad immaginarcelo come meglio ci sembra ed invece, per accettarlo, vuole che lo accogliamo come realmente è per noi. Un Dio che non ci libera dalle immagini con le quali ce lo rappresentiamo, con le illusioni che ci facciamo quando lo seguiamo, ci condannerebbe a seguire le nostre ombre: non è degno di fede il Dio che non è più grande dei nostri desideri, un Dio che sostiene la nostra immaginazione.
Perché, come dovette imparare Pietro, questo Dio che sta dove noi non arriviamo, il Dio che non riusciamo a desiderare né immaginare, è il Padre di Gesù che segnalò la croce come destino finale della sua vita. E perché Gesù accettò una simile fine, che abbiamo la prova di cosa vuole Dio, più di quello che è ragionevole, molto più di quanto avremmo potuto immaginare. Non accettare la croce, per logico e giustificabile che ci sembri, supporrebbe perdere il Dio di Gesù. Questo è, né più né meno, il rischio che stiamo correndo, quando ci impegniamo a vivere una vita cristiana senza croce, quando non riusciamo a vedere la forza redentrice della vita che si sacrifica per gli altri. Vivere schivando la croce è vivere alle spalle al Dio di Gesù. E’, ce lo ha ricordato il vangelo, il rischio dei migliori discepoli di Gesù, quelli che sanno chi è, ma si rifiutano di accettare che sia secondo il volere di Dio.
Gesù giudicò severamente l’atteggiamento di Pietro, il suo rifiuto ad accettare la croce, è evidente nelle sue parole: il discepolo beato si trasforma in Satana, quello che meglio era arrivato a conoscerlo, nel suo peggiore nemico; per resistere a Gesù che voleva dare la sua vita, per ribellarsi di fronte al suo progetto, gli causa il più grave rimprovero e, soprattutto, il rimprovero dello stesso Dio. Perché pensa come un uomo, perché si lascia trasportare dal suo amore per il Maestro, sta smettendo di pensare come Dio e sta allontanandosi dal suo volere. Non volere quello che Dio progetta, non accettare la vita come Dio l’ha pensata, rifiutarsi di accettare il progetto di Dio, benché sia il migliore, ci fa nemici di Dio; non scandalizzarsi di Cristo crocifisso ci eviterebbe di tentare Dio.
Perché, non bisogna dimenticarlo, Pietro non si è opposto a portare la propria croce, si ribellava, piuttosto, al pensiero che Gesù, essendo Figlio di Dio, dovesse prenderla su di sé. Ma, con ciò e senza pretenderlo, si oppose frontalmente a Dio ed al suo volere: incominceremo a sentirci benvoluti da Dio, quando incominciamo ad accettare che nella croce di Cristo sta la nostra salvezza, solo in lei. Dio non ha migliore dimostrazione di quanto ci ha benvoluti che la croce di Cristo. E se tale è il destino del Figlio prediletto, non può essere migliore, non deve essere molto differente, quello che prepara ai suoi figli adottivi. Gesù lo disse chiaro: i suoi discepoli non hanno destino migliore del suo.
Che lo vogliamo o no, si diventa figli di Dio percorrendo il cammino della croce: non c’è altra alternativa. Ci sentiremo, finalmente, benvoluti da Dio senza misura, quando assumiamo la croce come Cristo. Figlio di Dio non è chi vuole esserlo, bensì chi si sente amato nella croce di Cristo. Accettare, dunque, la sua croce e le nostre, suppone accettare Dio come Padre. Per quanto ci costi capirlo, ci giochiamo tutto se non lo accettiamo. Tanto sul serio Gesù prese la croce come destino proprio e dei suoi discepoli che li lasciò liberi di seguirlo, perché non voleva essere accompagnato da chi non portasse, come lui, vicino a lui, la sua propria croce. Nessun vero seguace del crocefisso può sognare di uscirne indenne: la croce è il salario del discepolo di Cristo, il Figlio di Dio.

JUAN JOSE BARTOLOME sdb

Benedici il Signore anima mia (Salmo 104)

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PAPA FRANCESCO : LA CHIESA: 4. UNA E SANTA

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PAPA FRANCESCO

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 27 agosto 2014

LA CHIESA: 4. UNA E SANTA

Cari fratelli e sorelle, buongiorno.

Ogni volta che rinnoviamo la nostra professione di fede recitando il “Credo”, noi affermiamo che la Chiesa è «una» e «santa». È una, perché ha la sua origine in Dio Trinità, mistero di unità e di comunione piena. La Chiesa poi è santa, in quanto è fondata su Gesù Cristo, animata dal suo Santo Spirito, ricolmata del suo amore e della sua salvezza. Allo stesso tempo, però, è santa e composta di peccatori, tutti noi, peccatori, che facciamo esperienza ogni giorno delle nostre fragilità e delle nostre miserie. Allora, questa fede che professiamo ci spinge alla conversione, ad avere il coraggio di vivere quotidianamente l’unità e la santità, e se noi non siamo uniti, se non siamo santi, è perché non siamo fedeli a Gesù. Ma Lui, Gesù, non ci lascia soli, non abbandona la sua Chiesa! Lui cammina con noi, Lui ci capisce. Capisce le nostre debolezze, i nostri peccati, ci perdona, sempre che noi ci lasciamo perdonare. Lui è sempre con noi, aiutandoci a diventare meno peccatori, più santi, più uniti.
1. Il primo conforto ci viene dal fatto che Gesù ha pregato tanto per l’unità dei discepoli. È la preghiera dell’Ultima Cena, Gesù ha chiesto tanto: «Padre, che siano una cosa sola». Ha pregato per l’unità, e lo ha fatto proprio nell’imminenza della Passione, quando stava per offrire tutta la sua vita per noi. È quello che siamo invitati continuamente a rileggere e meditare, in una delle pagine più intense e commoventi del Vangelo di Giovanni, il capitolo diciassette (cfr vv. 11.21-23). Com’è bello sapere che il Signore, appena prima di morire, non si è preoccupato di sé stesso, ma ha pensato a noi! E nel suo dialogo accorato col Padre, ha pregato proprio perché possiamo essere una cosa sola con Lui e tra di noi. Ecco: con queste parole, Gesù si è fatto nostro intercessore presso il Padre, perché possiamo entrare anche noi nella piena comunione d’amore con Lui; allo stesso tempo, le affida a noi come suo testamento spirituale, perché l’unità possa diventare sempre di più la nota distintiva delle nostre comunità cristiane e la risposta più bella a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi, (cfr 1 Pt 3,15).
2. «Tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21). La Chiesa ha cercato fin dall’inizio di realizzare questo proposito che sta tanto a cuore a Gesù. Gli Atti degli Apostoli ci ricordano che i primi cristiani si distinguevano per il fatto di avere «un cuore solo e un’anima sola» (At 4,32); l’apostolo Paolo, poi, esortava le sue comunità a non dimenticare che sono «un solo corpo» (1 Cor 12,13). L’esperienza, però, ci dice che sono tanti i peccati contro l’unità. E non pensiamo solo agli scismi, pensiamo a mancanze molto comuni nelle nostre comunità, a peccati “parrocchiali”, a quei peccati nelle parrocchie. A volte, infatti, le nostre parrocchie, chiamate ad essere luoghi di condivisione e di comunione, sono tristemente segnate da invidie, gelosie, antipatie… E le chiacchiere sono alla portata di tutti. Quanto si chiacchiera nelle parrocchie! Questo non è buono. Ad esempio quando uno viene eletto presidente di quella associazione, si chiacchiera contro di lui. E se quell’altra viene eletta presidente della catechesi, le altre chiacchierano contro di lei. Ma, questa non è la Chiesa. Questo non si deve fare, non dobbiamo farlo! Bisogna chiedere al Signore la grazia di non farlo. Questo succede quando puntiamo ai primi posti; quando mettiamo al centro noi stessi, con le nostre ambizioni personali e i nostri modi di vedere le cose, e giudichiamo gli altri; quando guardiamo ai difetti dei fratelli, invece che alle loro doti; quando diamo più peso a quello che ci divide, invece che a quello che ci accomuna…
Una volta, nell’altra Diocesi che avevo prima, ho sentito un commento interessante e bello. Si parlava di un’anziana che per tutta la vita aveva lavorato in parrocchia, e una persona che la conosceva bene, ha detto: «Questa donna non ha mai sparlato, mai ha chiacchierato, sempre era un sorriso». Una donna così può essere canonizzata domani! Questo è un bell’esempio. E se guardiamo alla storia della Chiesa, quante divisioni fra noi cristiani. Anche adesso siamo divisi. Anche nella storia noi cristiani abbiamo fatto la guerra fra di noi per divisioni teologiche. Pensiamo a quella dei 30 anni. Ma, questo non è cristiano. Dobbiamo lavorare anche per l’unità di tutti i cristiani, andare sulla strada dell’unità che è quella che Gesù vuole e per cui ha pregato.
3. Di fronte a tutto questo, dobbiamo fare seriamente un esame di coscienza. In una comunità cristiana, la divisione è uno dei peccati più gravi, perché la rende segno non dell’opera di Dio, ma dell’opera del diavolo, il quale è per definizione colui che separa, che rovina i rapporti, che insinua pregiudizi… La divisione in una comunità cristiana, sia essa una scuola, una parrocchia, o un’associazione, è un peccato gravissimo, perché è opera del Diavolo. Dio, invece, vuole che cresciamo nella capacità di accoglierci, di perdonarci e di volerci bene, per assomigliare sempre di più a Lui che è comunione e amore. In questo sta la santità della Chiesa: nel riconoscersi ad immagine di Dio, ricolmata della sua misericordia e della sua grazia.
Cari amici, facciamo risuonare nel nostro cuore queste parole di Gesù: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). Chiediamo sinceramente perdono per tutte le volte in cui siamo stati occasione di divisione o di incomprensione all’interno delle nostre comunità, ben sapendo che non si giunge alla comunione se non attraverso una continua conversione. Che cos’è la conversione? È chiedere al Signore la grazia di non sparlare, di non criticare, di non chiacchierare, di volere bene a tutti. È una grazia che il Signore ci dà. Questo è convertire il cuore. E chiediamo che il tessuto quotidiano delle nostre relazioni possa diventare un riflesso sempre più bello e gioioso del rapporto tra Gesù e il Padre.

 

BENEDETTO XVI : SALMO 130 – CONFIDARE IN DIO COME IL BIMBO NELLA MADRE

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BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 10 agosto 2005

SALMO 130 – CONFIDARE IN DIO COME IL BIMBO NELLA MADRE

Vespri del Martedì della 3a Settimana

1. Abbiamo ascoltato solo poche parole, una trentina nell’originale ebraico del Salmo 130. Eppure sono parole intense, che svolgono un tema caro a tutta la letteratura religiosa: l’infanzia spirituale. Il pensiero corre subito in modo spontaneo a santa Teresa di Lisieux, alla sua «piccola via», al suo «restare piccola» per «essere tra le braccia di Gesù» (cfr Manoscritto «C», 2r°-3v°: Opere complete, Città del Vaticano 1997, pp. 235-236).
Al centro del Salmo, infatti, si staglia l’immagine di una madre col bambino, segno dell’amore tenero e materno di Dio, come si era già espresso il profeta Osea: «Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato… Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (Os 11,1.4).
2. Il Salmo si apre con la descrizione dell’atteggiamento antitetico rispetto a quello dell’infanzia, la quale è consapevole della propria fragilità, ma fiduciosa nell’aiuto degli altri. Di scena, nel Salmo, sono invece l’orgoglio del cuore, la superbia dello sguardo, le «cose grandi e superiori» (cfr Sal 130,1). È la rappresentazione della persona superba, che viene tratteggiata mediante vocaboli ebraici indicanti «altezzosità» ed «esaltazione», l’atteggiamento arrogante di chi guarda gli altri con senso di superiorità, ritenendoli inferiori a se stesso.
La grande tentazione del superbo, che vuol essere come Dio, arbitro del bene e del male (cfr Gn 3,5), è decisamente respinta dall’orante, il quale opta per la fiducia umile e spontanea nell’unico Signore.
3. Si passa, così, all’immagine indimenticabile del bambino e della madre. Il testo originario ebraico non parla di un neonato, bensì di un «bimbo svezzato» (Sal 130,2). Ora, è noto che nell’antico Vicino Oriente lo svezzamento ufficiale era collocato attorno ai tre anni e celebrato con una festa (cfr Gn 21,8; 1Sam 1,20-23; 2 Mac 7,27).
Il bambino, a cui il Salmista rimanda, è legato alla madre da un rapporto ormai più personale e intimo, non quindi dal mero contatto fisico e dalla necessità di cibo. Si tratta di un legame più cosciente, anche se sempre immediato e spontaneo. È questa la parabola ideale della vera «infanzia» dello spirito, che si abbandona a Dio non in modo cieco e automatico, ma sereno e responsabile.
4. A questo punto la professione di fiducia dell’orante si allarga a tutta la comunità: «Speri Israele nel Signore, ora e sempre» (Sal 130,3). La speranza sboccia ora in tutto il popolo, che riceve da Dio sicurezza, vita e pace, e si estende dal presente al futuro, «ora e sempre».
È facile continuare la preghiera facendo echeggiare altre voci del Salterio, ispirate alla stessa fiducia in Dio: «Al mio nascere tu mi hai raccolto, dal grembo di mia madre sei tu il mio Dio» (Sal 21,11). «Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto» (Sal 26, 10). «Sei tu, Signore, la mia speranza, la mia fiducia fin dalla mia giovinezza. Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno, dal seno di mia madre tu sei il mio sostegno» (Sal 70,5-6).
5. All’umile fiducia, come si è visto, si oppone la superbia. Uno scrittore cristiano del quarto-quinto secolo, Giovanni Cassiano, ammonisce i fedeli sulla gravità di questo vizio, che «distrugge tutte le virtù nel loro insieme e non prende di mira solamente i mediocri e i deboli, ma principalmente quelli che si sono posti al vertice con l’uso delle loro forze». Egli continua: «È questo il motivo per cui il beato Davide custodisce con tanta circospezione il suo cuore fino a osare di proclamare davanti a Colui al quale non sfuggivano certamente i segreti della sua coscienza: « Signore, non si inorgoglisce il mio cuore e non si leva con superbia il mio sguardo; non vado in cerca di cose grandi, superiori alle mie forze »… E tuttavia, ben conoscendo quanto sia difficile anche per i perfetti una tale custodia, egli non presume di appoggiarsi unicamente alle sue capacità, ma supplica con preghiere il Signore di aiutarlo per riuscire a evitare i dardi del nemico e a non restarne ferito: « Non mi raggiunga il piede orgoglioso » (Sal 35,12)» (Le istituzioni cenobitiche, XII,6, Abbazia di Praglia, Bresseo di Teolo – Padova 1989, p. 289).
Analogamente un anziano anonimo dei Padri del deserto ci ha tramandato questa dichiarazione, che riecheggia il Salmo 130: «Io non ho mai oltrepassato il mio rango per camminare più in alto, né mi sono mai turbato in caso di umiliazione, perché ogni mio pensiero era in questo: nel pregare il Signore che mi spogliasse dell’uomo vecchio» (I Padri del deserto. Detti, Roma 1980, p. 287).

Il battesimo di sant’Agostino in un affresco trecentesco, Padova

Il battesimo di sant’Agostino in un affresco trecentesco, Padova dans immagini sacre 91-04-012

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A. TRAPÈ: INTRODUZIONE A SANT’AGOSTINO : UOMO DI PREGHIERA

http://www.augustinus.it/vita/uomo/index.htm

A. TRAPÈ: INTRODUZIONE A SANT’AGOSTINO – L’UOMO

CAPITOLO SETTIMO

UOMO DI PREGHIERA

Contro la curiosità (che è ben altra cosa dalla studiosità) Agostino si munisce con il raccoglimento interiore, indispensabile per lo spirito di preghiera e per la contemplazione. L’interiorità agostiniana non è solo un principio di metafisica o un assioma di dottrina spirituale, ma è insieme un programma di vita contemplativa: il vescovo d’Ippona la pone al centro della formazione sua e dei suoi discepoli.  » Tu infatti – scrive all’amico Nebridio – puoi abitare piacevolmente anche in compagnia del tuo spirito; si richiede invece un grande sforzo perché essi (si riferisce a quelli che erano con sé a Tagaste) possano fare la stessa cosa  » 1. Già a Cassiciaco raccomandava ai giovani Licenzio e Trigenzio di  » abituarsi a vivere in se stessi  » 2. Quanto a sé, mise in atto questo proposito fino alle mète più alte. Si vedano le Confessioni sulla cura che aveva per vincere la curiosità ed evitare ogni benché minima distrazione. Si accusa di lasciarsi distogliere dall’attenzione a gravi pensieri quando, in campagna, passando s’imbatte in un cane che insegue una lepre o, in casa, si ferma a vedere un ragno che dà la caccia alle mosche avvolgendole nella sua rete. È vero che da questi piccoli fatti prende lo spunto per lodare il Signore, ma, conclude,  » altra cosa è rialzarsi subito, altra non cadere « .
E dopo la costatazione della propria debolezza, il gemito del dolore e la speranza:  » Di tali miserie è piena la mia vita, e l’unica mia speranza è riposta nella tua misericordia grande assai  » 3. Perciò supplica il Signore che lo liberi dalle distrazioni o, come egli dice, dal multiloquio, quello che soffre interiormente anche quando tace con il labbro.  » Liberami, o Dio, dal multiloquio, che è dentro nella mia anima, misera al tuo cospetto e fiduciosa nella tua misericordia; poiché io non taccio con i pensieri anche quando taccio con la lingua. E se i miei pensieri non fossero se non quelli che piacciono a te, non ti pregherei di liberarmi da questo multiloquio. Ma molti dei miei pensieri, tu lo sai, sono pensieri di uomini, cioè pensieri vani. Dammi almeno di non acconsentire ad essi e, quando mi dilettano, di respingerli, senza fermarmi in essi quasi sonnecchiando  » 4.
Sostenuto da questa brama di solitudine e di silenzio interiore, Agostino percorse tutti i gradi della vita di orazione fino alla contemplazione più alta. La preghiera divenne l’atteggiamento abituale della sua anima. Ne abbiamo uno splendido documento nelle Confessioni. Dedicava alla meditazione e alla preghiera metà della notte, la prima o la seconda parte, quando non dovesse occuparla a scrivere libri 5.  » Lo svegliarmi di notte s’era tramutato in consuetudine per il mio amore di raggiungere il vero. Se tali problemi mi assillavano, vi riflettevo sopra o durante la prima parte della notte o durante la seconda, comunque per circa una metà della notte  » 6. Un saggio di queste notturne meditazioni c’è restato nella preghiera che apre i Soliloqui, dove la foga degli affetti, il sentimento della colpa, il bisogno di liberazione e l’invocazione della grazia si uniscono alla più alta idea di Dio,  » sopra il quale non vi è nulla, fuori del quale nulla, senza il quale nulla « , e ne fanno una stupenda litania d’amore 7.
Del resto, avendo identificato la preghiera con il desiderio ( » Se desideri sempre, preghi sempre  » 8), aveva trovato il modo di fare di tutta la vita una preghiera, tanto più ardente quanto più il desiderio gli bruciava nel cuore. Il Signore, poi, vi aggiunse i doni altissimi della contemplazione. L’estasi di Ostia non è l’unico esempio 9. Intorno a questo mirabile brano di letteratura religiosa sono state mosse non poche discussioni a causa dello schema filosofico nel quale l’esperienza mistica viene narrata. Ma bisogna riconoscere che dentro uno schema antico v’è un’anima nuova, un’esperienza religiosa che, se non viene dall’alto, l’uomo, da solo o con gli aiuti ordinari della grazia, non può raggiungere. La presenza di Monica, che condivise con il suo Agostino quell’esperienza, c’impedisce di dare a quel brano un’interpretazione che lo racchiuda nell’ambito d’una meditazione filosofica.
Ci preme notare, inoltre, che il ricordo di quell’esperienza restò indelebile nell’animo di Agostino: ridiscendendo dalla regione della fecondità indeficiente, dove Dio pasce in eterno i beati con il pascolo della verità, aveva lasciate lassù, come prigioniere,  » le primizie dello spirito  » (Rom, 8, 27). Quell’esperienza e questo ricordo spiegano la commozione che lo investe e che traspira dalle sue parole ogni volta che parli di Dio: v’è in lui la nostalgia d’un bene gustato per un momento e a cui si ha fretta di tornare per sempre.
Ma l’esperienza di Ostia, abbiamo detto, non fu l’unica. Ce lo assicura egli stesso con un linguaggio trasparente.  » E talora, scrive nelle Confessioni, tu mi fai entrare in un sentimento quanto mai insolito, in una non so quale dolcezza, che se diventerà in me perfetta io non so dire che mai sarà, che non sarà certo questa vita. Ma il peso delle mie miserie mi fa ricadere nello stato usuale da cui mi sento riassorbire e trattenere: piango molto, ma la stretta non si allenta. Tanta forza ha il peso della consuetudine! Qui potrei stare e non voglio, lì vorrei stare e non posso: misero dall’una parte e dall’altra  » 10.

BENEDETTO XVI, 2008: SANT’AGOSTINO – 28 AGOSTO

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BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

AULA PAOLO VI

MERCOLEDÌ, 9 GENNAIO 2008

SANT’AGOSTINO – 28 AGOSTO

I: LA VITA

Cari fratelli e sorelle,

dopo le festività natalizie, vorrei tornare alle meditazioni sui Padri della Chiesa e parlare oggi del più grande Padre della Chiesa latina, sant’Agostino: uomo di passione e di fede, di intelligenza altissima e di premura pastorale instancabile, questo grande Santo e Dottore della Chiesa è spesso conosciuto, almeno di fama, anche da chi ignora il cristianesimo o non ha consuetudine con esso, perché egli ha lasciato un’impronta profondissima nella vita culturale dell’Occidente e di tutto il mondo. Per la sua singolare rilevanza, sant’Agostino ha avuto un influsso larghissimo, e si potrebbe affermare, da una parte, che tutte le strade della letteratura latina cristiana portano a Ippona (oggi Annata, sulla costa algerina) – la città dell’Africa romana, di cui egli fu Vescovo dal 395 fino alla morte nel 430 – e, dall’altra, che da questo luogo si diramano molte altre strade del cristianesimo successivo e della stessa cultura occidentale.
Di rado una civiltà ha trovato uno spirito così grande, che sapesse accoglierne i valori ed esaltarne l’intrinseca ricchezza, inventando idee e forme di cui si sarebbero nutriti i posteri, come sottolineò anche Paolo VI: «Si può dire che tutto il pensiero dell’antichità confluisca nella sua opera e da essa derivino correnti di pensiero che pervadono tutta la tradizione dottrinale dei secoli successivi» (AAS, 62, 1970, p. 426). Agostino è inoltre il Padre della Chiesa che ha lasciato il maggior numero di opere. Il suo biografo Possidio dice: sembrava impossibile che un uomo potesse scrivere tante cose nella propria vita. Di queste diverse opere parleremo in un prossimo incontro. Oggi la nostra attenzione sarà riservata alla sua vita, che si ricostruisce bene dagli scritti, e in particolare dalle Confessioni, la straordinaria autobiografia spirituale, scritta a lode di Dio, che è la sua opera più famosa. E giustamente, perché sono proprio le Confessioni agostiniane, con la loro attenzione all’interiorità e alla psicologia, a costituire un modello unico nella letteratura occidentale (e non solo occidentale) anche non religiosa, fino alla modernità. Questa attenzione alla vita spirituale, al mistero dell’io, al mistero di Dio che si nasconde nell’io, è una cosa straordinaria, senza precedenti, e rimane per sempre, per così dire, un «vertice» spirituale.
Ma, per venire alla sua vita, Agostino nacque a Tagaste – nella provincia della Numidia, nell’Africa romana – il 13 novembre 354 da Patrizio, un pagano che poi divenne catecumeno, e da Monica, fervente cristiana. Questa donna appassionata, venerata come santa, esercitò sul figlio una grandissima influenza e lo educò nella fede cristiana. Agostino aveva anche ricevuto il sale, come segno dell’accoglienza nel catecumenato, e rimase sempre affascinato dalla figura di Gesù Cristo. Egli anzi dice di aver sempre amato Gesù, ma di essersi allontanato sempre più dalla fede ecclesiale, dalla pratica ecclesiale, come succede anche oggi per molti giovani.
Agostino aveva anche un fratello, Navigio, e una sorella, della quale ignoriamo il nome e che, rimasta vedova, fu poi a capo di un monastero femminile. Il ragazzo, di vivissima intelligenza, ricevette una buona educazione, anche se non fu sempre uno studente esemplare. Egli tuttavia studiò bene la grammatica, prima nella sua città natale, poi a Madaura, e dal 370 retorica a Cartagine, capitale dell’Africa romana: divenne un perfetto dominatore della lingua latina. Non arrivò però a maneggiare con altrettanto dominio il greco e non imparò il punico, parlato dai suoi conterranei. Proprio a Cartagine Agostino lesse per la prima volta l’Hortensius, uno scritto di Cicerone, poi andato perduto, che si colloca all’inizio del suo cammino verso la conversione. Il testo ciceroniano, infatti, svegliò in lui l’amore per la sapienza, come scriverà, ormai Vescovo, nelle Confessioni: «Quel libro cambiò davvero il mio modo di sentire», tanto che «all’improvviso perse valore ogni speranza vana e desideravo con un incredibile ardore del cuore l’immortalità della sapienza» (III,4,7).
Ma poiché era convinto che senza Gesù la verità non può dirsi effettivamente trovata, e perché in questo libro appassionante quel nome gli mancava, subito dopo averlo letto cominciò a leggere la Scrittura, la Bibbia. Ma ne rimase deluso. Non solo perché lo stile latino della traduzione della Sacra Scrittura era insufficiente, ma anche perché lo stesso contenuto gli apparve non soddisfacente. Nelle narrazioni della Scrittura su guerre e altre vicende umane non trovava l’altezza della filosofia, lo splendore di ricerca della verità che ad essa è proprio. Tuttavia non voleva vivere senza Dio, e così cercava una religione corrispondente al suo desiderio di verità e anche al suo desiderio di avvicinarsi a Gesù. Cadde così nella rete dei manichei, che si presentavano come cristiani e promettevano una religione totalmente razionale. Affermavano che il mondo è diviso in due principi: il bene e il male. E così si spiegherebbe tutta la complessità della storia umana. Anche la morale dualistica piaceva a sant’Agostino, perché comportava una morale molto alta per gli eletti: e a chi, come lui, vi aderiva era possibile una vita molto più adeguata alla situazione del tempo, specie per un uomo giovane. Si fece pertanto manicheo, convinto in quel momento di aver trovato la sintesi tra razionalità, ricerca della verità e amore di Gesù Cristo. Ed ebbe anche un vantaggio concreto per la sua vita: l’adesione ai manichei infatti apriva facili prospettive di carriera. Aderire a quella religione che contava tante personalità influenti gli permetteva di andare avanti nella sua carriera, oltre che continuare la relazione intrecciata con una donna. (Da questa donna ebbe un figlio, Adeodato, a lui carissimo, molto intelligente, che sarà poi presente nella preparazione al Battesimo presso il lago di Como, partecipando a quei Dialoghi che sant’Agostino ci ha trasmesso. Il ragazzo, purtroppo, morì prematuramente.) Agostino, a circa vent’anni già insegnante di grammatica nella sua città natale, tornò presto a Cartagine, dove divenne un brillante e celebrato maestro di retorica. Con il tempo, tuttavia, egli iniziò ad allontanarsi dalla fede dei manichei, che lo delusero proprio dal punto di vista intellettuale in quanto incapaci di risolvere i suoi dubbi, e si trasferì a Roma e poi a Milano, dove allora risiedeva la corte imperiale e dove aveva ottenuto un posto di prestigio grazie all’interessamento e alle raccomandazioni del prefetto di Roma, il pagano Simmaco, ostile al Vescovo di Milano sant’Ambrogio.
A Milano Agostino prese l’abitudine di ascoltare – inizialmente allo scopo di arricchire il suo bagaglio retorico – le bellissime prediche del Vescovo Ambrogio, che era stato rappresentante dell’imperatore per l’Italia settentrionale. Dalla parola del grande presule milanese il retore africano rimase affascinato, e non soltanto dalla sua retorica: soprattutto i contenuti toccarono sempre più il suo cuore. Il grande problema dell’Antico Testamento – la mancanza di bellezza retorica e di altezza filosofica – si risolse nelle prediche di sant’Ambrogio grazie all’interpretazione tipologica dell’Antico Testamento: Agostino capì che tutto l’Antico Testamento è un cammino verso Gesù Cristo. Così trovò la chiave per capire la bellezza, la profondità pure filosofica dell’Antico Testamento e capì tutta l’unità del mistero di Cristo nella storia e anche la sintesi tra filosofia, razionalità e fede nel Logos, in Cristo Verbo eterno che si è fatto carne.
In breve tempo Agostino si rese conto che la lettura allegorica della Scrittura e la filosofia neoplatonica coltivate dal Vescovo di Milano gli permettevano di risolvere le difficoltà intellettuali che, quando era più giovane, nel suo primo avvicinamento ai testi biblici gli erano sembrate insuperabili.
Alla lettura degli scritti dei filosofi Agostino fece così seguire quella rinnovata della Scrittura e soprattutto delle Lettere paoline. La conversione al cristianesimo, il 15 agosto 386, si collocò quindi al culmine di un lungo e tormentato itinerario interiore, del quale parleremo ancora in un’altra catechesi, e l’africano si trasferì nella campagna a nord di Milano, verso il lago di Como – con la madre Monica, il figlio Adeodato e un piccolo gruppo di amici – per prepararsi al Battesimo. Così, a trentadue anni, Agostino fu battezzato da Ambrogio il 24 aprile 387, durante la Veglia pasquale, nella Cattedrale di Milano.
Dopo il Battesimo, Agostino decise di tornare in Africa con gli amici, con l’idea di praticare una vita comune, di tipo monastico, al servizio di Dio. Ma a Ostia, in attesa di partire, la madre improvvisamente si ammalò e poco più tardi morì, straziando il cuore del figlio. Rientrato finalmente in patria, il convertito si stabilì a Ippona per fondarvi appunto un monastero. In questa città della costa africana, nonostante le sue resistenze, fu ordinato presbitero nel 391 e iniziò con alcuni compagni la vita monastica a cui da tempo pensava, dividendo il suo tempo tra la preghiera, lo studio e la predicazione. Egli voleva essere solo al servizio della verità, non si sentiva chiamato alla vita pastorale, ma poi capì che la chiamata di Dio era quella di essere Pastore tra gli altri, e così di offrire il dono della verità agli altri. A Ippona, quattro anni più tardi, nel 395, venne consacrato Vescovo. Continuando ad approfondire lo studio delle Scritture e dei testi della tradizione cristiana, Agostino fu un Vescovo esemplare nel suo instancabile impegno pastorale: predicava più volte la settimana ai suoi fedeli, sosteneva i poveri e gli orfani, curava la formazione del clero e l’organizzazione di monasteri femminili e maschili. In breve, l’antico retore si affermò come uno degli esponenti più importanti del cristianesimo di quel tempo: attivissimo nel governo della sua Diocesi – con notevoli risvolti anche civili – negli oltre trentacinque anni di episcopato, il Vescovo di Ippona esercitò infatti una vasta influenza nella guida della Chiesa cattolica dell’Africa romana e più in generale nel cristianesimo del suo tempo, fronteggiando tendenze religiose ed eresie tenaci e disgregatrici come il manicheismo, il donatismo e il pelagianesimo, che mettevano in pericolo la fede cristiana nel Dio unico e ricco di misericordia.
E a Dio si affidò Agostino ogni giorno, fino all’estremo della sua vita: colpito da febbre, mentre da quasi tre mesi la sua Ippona era assediata dai Vandali invasori, il Vescovo – racconta l’amico Possidio nella Vita di Agostino – chiese di trascrivere a grandi caratteri i Salmi penitenziali «e fece affiggere i fogli contro la parete, così che stando a letto durante la sua malattia li poteva vedere e leggere, e piangeva ininterrottamente a calde lacrime» (31,2). Così trascorsero gli ultimi giorni della vita di Agostino, che morì il 28 agosto 430, quando ancora non aveva compiuto 76 anni. Alle sue opere, al suo messaggio e alla sua vicenda interiore dedicheremo i prossimi incontri.

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