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6 LUGLIO 2014 | 14A DOMENICA – LECTIO DIVINA : MT 11,25-30

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6 LUGLIO 2014 | 14A DOMENICA A – T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

LECTIO DIVINA : MT 11,25-30

Di fronte all’incredulità della maggioranza, Gesù si sente lusingato per la fede che ha trovato nei pochi che hanno osato accogliere il suo messaggio senza scandalizzarsi di lui. Essi sono la ragione della preghiera di Gesù; ed in lei Gesù svela il suo segreto più intimo: il Dio della gente semplice, il Dio che ritiene opportuno fare saggio il semplice ed intenditore l’ignorante, è il Padre di Gesù. Perché ci fu gente semplice, attorno a Gesù, tanto semplice che non si scandalizzava di lui, Gesù poté proclamarsi come il Figlio di Dio riconoscente verso suo Padre. Dietro l’azione di grazie, il Figlio si offre a quella gente semplice come il suo riposo, la riparazione e lo sfogo che i discepoli trovano nel suo maestro non si deve all’assenza di imposizioni né alla scarsità di insegnamento; il magistero di Gesù è leggero, perché Gesù è mite; e sopportabile il suo carico, perché ha un cuore umile. È, dunque, un carico ed un sollievo per i suoi; Gesù non libera dall’obbedienza né dalla croce i suoi discepoli; ma si impegna a non far pesare l’essere ubbidienti e darà sollievo il caricarsi della croce.

In quel tempo, Gesù disse: « Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero »

1. LEGGERE : capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice Benché gli evangelisti ci ricordino che Gesù pregava frequentemente, poche volte ci hanno trasmesso il contenuto della sua preghiera. Per questo motivo è tanto prezioso il nostro breve testo; in esso troviamo non solo le parole ed i sentimenti coi quali Gesù, pregando, si dirigeva al nostro Dio, suo Padre; sentiamo anche un invito a condividere il riposo e l’insegnamento, diretto a tutti quelli che si sentono stanchi ed affaticati. Questa preghiera tanto consolatrice ha, ciò nonostante, un motivo concreto. Gesù si mise a dire questa preghiera quando, durante il suo ministero pubblico, notò che solo pochi, gente semplice che lo seguiva, stavano accettando Dio ed aprivano le loro vite al suo volere. Questo piccolo ‘trionfo’ nella sua attività come evangelizzatore riempì il cuore di Gesù di allegria e la sua bocca di preghiere. Per i buoni Gesù non lo era troppo; ed ai saggi non sembrava loro sufficientemente abile: solo gli umili gli diedero credito, seppero stimarlo e si sentirono di seguirlo. E per coloro che l’accompagnavano fu maestro di preghiera e sicuro riposo. La preghiera ha tre parti, ben differenziate. Incomincia con una ‘eucaristia’: Gesù si dice grato con suo Padre, perché si è manifestato ai piccoli. Ringrazia, dunque, per il successo della sua missione, la quale è già un notevole insegnamento. Inoltre, fa capire che, in realtà, è stato suo Padre che si è rallegrato nel farsi capire dai piccoli. Simile preferenza di Dio è motivo dell’azione di grazie di Gesù e tale gratitudine lo salva dal doversi sentire defraudato dall’esito avuto nella sua missione personale. In realtà, la seconda affermazione di Gesù è, più che una autentica orazione, è una confessione personale. Gesù si dice Figlio, con tanta semplicità e chiarezza. Riconosce che la sua missione, fare conoscere il Padre, è dono che gli è stato fatto. Curiosa, inoltre, la formulazione: nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo. Per conoscere Dio Padre, è necessario imparare dal Figlio. La terza affermazione è un invito o meglio una promessa. Si lascia la preghiera e l’autoconfessione e si passa all’esortazione. Il suo destinatario non è il Padre che si fa conoscere dal Figlio, né il Figlio che fa conoscere il Padre bensì coloro che ascoltandolo si sappiano bisognosi di sollievo e di riposo. Ma, e non smette di essere sorprendente, Gesù impone due compiti e ricorre a due imperativi – prendete ed imparate – prima di dare per compiuta la sua promessa (troverete riposo). Il discepolo può se è molto semplice e si sente molto stanco, per sentire sollievo, dovrà, oltre ad imparare del suo maestro, caricare il suo giogo. E per sopportabile che sia, è ad un giogo che bisogna sottomettersi; e anche se leggero, non smette di essere un giogo ciò che dovrà portare.

2 – MEDITARE : Applicare quello che dice il testo alla vita Di fronte all’incredulità ed alla indifferenza della maggioranza, Gesù si sente lusingato per la fede che ha trovato nei pochi che hanno accolto il suo messaggio senza scandalizzarsi di lui. Essi sono la ragione della preghiera di Gesù. In lei Gesù svela il suo segreto più intimo: il Dio della gente semplice, il Dio che ritiene opportuno fare saggio l’ingenuo e sapiente l’ignorante, è il Padre di Gesù. Perché ci fu gente semplice, attorno a Gesù, tanto semplice da non scandalizzarsi di lui, Gesù poté esprimersi come il Figlio di Dio che era e sentirsi riconoscente con suo Padre. Credenti senza molte luci, gente che conta poco, discepoli del mucchio, furono quelli che un giorno diedero voce e temi alla preghiera di Gesù. Sapendosi accettato nella sua persona e nel suo insegnamento, Gesù fece loro sapere la sua preghiera ed in lei scoprì il suo mistero personale; lodò suo Padre e benedisse il suo volere. Avremmo potuto desiderare noi una maggiore influenza su Gesù? Chi riconosce Gesù fa che Gesù sia riconoscente col suo Dio; chi accetta Gesù lo trasforma in orante grato verso Dio; chi non si scandalizza di lui, l’obbliga a proclamarsi figlio di Dio. Dovrebbe bastare a noi che Gesù si sente felice di essere accettato dalla gente, benché sia tanto semplice e senza meriti come siamo noi. Dovremmo sforzarci che egli sia conosciuto ed apprezzato, senza dover cercare noi riconoscimento e stima. Basterebbe solo questo perché, di nuovo, fossimo noi la causa della sua gioia e della sua preghiera. Come quei primi discepoli, dei quali non sappiamo il nome e con poche notizie, possiamo noi restituire a Gesù la fiducia in sé stesso ed in Dio, se ci impegniamo a seguirlo senza scandalizzarci di lui, ad imparare vicino a lui senza cercare altri maestri, ad ubbidire solo a lui senza servire altri signori. Non esige grandi cose, né un’intelligenza eccezionale né sufficiente ricchezza: gli basta quello che siamo. Non mi sembra, certamente, troppo alto il prezzo da pagare per ciò, se è sufficiente che, rimanendo semplici e poveri, mettiamo in lui la nostra speranza. Dopo avere pregato, Gesù invita quelli che l’hanno accettato, che si sentono bene con lui, a rinfrancare le forze ed alleviare le pene, mentre lo seguono da vicino. Desidera fare di quanti l’accolsero senza riserve, dei discepoli senza fatiche; vuole che imparino da lui a riposarsi dalle fatiche: perché conoscono chi è, sono degni di diventare Amici suoi. Ma non nasconde che, vicino a lui, le difficoltà non spariscono. Gesù non inganna le persone che lo seguono, per molto semplici che siano: parla loro di un giogo e di un carico. Non abbasserà, dunque, il livello delle sue esigenze né allevierà il suo peso; la riparazione e lo sfogo che i discepoli trovano nel loro maestro non si deve all’assenza di imposizioni né al suo insegnamento leggero. Il magistero di Gesù è lieve perché Gesù è mite, e sopportabile il suo carico perché ha un cuore umile. È, dunque, un carico ed un sollievo per i suoi; Gesù non libera dall’obbedienza né dalla croce i suoi discepoli, solamente promette loro che non soccomberanno davanti alle sue esigenze e che non peserà loro di essere ubbidienti né di portare la propria croce. E dà la ragione. È un maestro umile, all’altezza dei più semplici; un insegnante misericordioso che non perde la pazienza quando si perdono di vista i suoi insegnamenti. Il discepolo di Gesù sa che lo è, se impara da lui quanto Dio vuole bene ad ognuno, se conosce la volontà di Dio come guida della sua vita; non si libera, dunque, dallo sforzo dell’apprendistato né dal dovere della pratica. Ma perché Gesù è un maestro dal cuore compassionevole, il suo discepolo può riposare tranquillo, perfino quando non ha saputo ripetere quello che ha imparato né vivere ciò che ha conosciuto. Le viscere di misericordia del Maestro impediscono il discepolo che fallisce di sentirsi fallito: Gesù non ci vuole bene perché siamo buoni, ci vuole migliori di quanto riusciamo ad essere; non dispera di noi, e continua a darci più di quanto gli diamo, più di quanto possiamo, più… Ma, siccome ci vuole svisceratamente bene, con un cuore che si affligge per la nostra miseria, non si scoraggia di noi, se non siamo riusciti ad essere buoni; né ci respinge per non essere arrivati ad essere migliori. In Gesù abbiamo, dunque, un maestro che ci è offerto a chiedere sempre più di noi, perché gli interessiamo sempre un po’ di più; ma che non lascerà di volerci bene, solo perché non siamo riusciti a vivere secondo il suo volere. La sua povertà è la nostra migliore garanzia: essere discepolo di Gesù è difficile, ma non penoso; può arrivare ad essere pesante, ma mai opprimente. Se perfino i discepoli disubbidienti trovano accoglienza e riparazione, che cosa non otterranno quanti si sforzano per seguirlo più da vicino? La fatica e la stanchezza non sono mai ragione per abbandonarlo; al contrario chi si sente stanco o affaticato è, precisamente lui che ha ricevuto l’invito di Gesù. Non bisogna dimenticarlo. Se per paura del carico o per paura del suo giogo, non lo seguiamo, continueremo a sentire la fatica e l’ingiustizia della vita: Gesù è gioia e riposo solo per quanti lo hanno come maestro mite ed umile. Che cosa aspettiamo a sceglierlo come unico Maestro e Signore?

JUAN JOSE BARTOLOME sdb,

Verrocchio, San Tommaso Apostolo, Firenze

Verrocchio, San Tommaso Apostolo, Firenze dans immagini sacre saint-thomas-the-apostle-06

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Publié dans:immagini sacre |on 3 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

SAN TOMMASO APOSTOLO – 3 LUGLIO

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SAN TOMMASO APOSTOLO

3 LUGLIO

PALESTINA – INDIA MERIDIONALE (?), PRIMO SECOLO DELL’ÈRA CRISTIANA

Chiamato da Gesù tra i Dodici. Si presenta al capitolo 11 di Giovanni quando il Maestro decide di tornare in Giudea per andare a Betania, dove è morto il suo amico Lazzaro. I discepoli temono i rischi, ma Gesù ha deciso: si va. E qui si fa sentire la voce di Tommaso, obbediente e pessimistica: «Andiamo anche noi a morire con lui», deciso a non abbandonare Gesù. Facciamo torto a Tommaso ricordando solo il suo momento famoso di incredulità. Lui è ben altro che un seguace tiepido. Ma credere non gli è facile, e non vuol fingere che lo sia. Dice le sue difficoltà, si mostra com’è, ci somiglia, ci aiuta. Dopo la morte del Signore, sentendo parlare di risurrezione «solo da loro», esige di toccare con mano. Quando però, otto giorni dopo, Gesù viene e lo invita a controllare esclamerà: «Mio Signore e mio Dio!», come nessuno finora aveva mai fatto. A metà del VI secolo, un mercante egiziano scrive di aver trovato nell’India meridionale gruppi inaspettati di cristiani e di aver saputo che il Vangelo fu portato ai loro avi da Tommaso apostolo. (Avvenire)

Patronato: Architetti
Etimologia: Tommaso = gemello, dall’ebraico

Emblema: Lancia
Martirologio Romano: Festa di san Tommaso, Apostolo, il quale non credette agli altri discepoli che gli annunciavano la resurrezione di Gesù, ma, quando lui stesso gli mostrò il costato trafitto, esclamò: «Mio Signore e mio Dio». E con questa stessa fede si ritiene abbia portato la parola del Vangelo tra i popoli dell’India.
Lo incontriamo tra gli Apostoli, senza nulla sapere della sua storia precedente. Il suo nome, in aramaico, significa “gemello”. Ci sono ignoti luogo di nascita e mestiere. Il Vangelo di Giovanni, al capitolo 11, ci fa sentire subito la sua voce, non proprio entusiasta. Gesù ha lasciato la Giudea, diventata pericolosa: ma all’improvviso decide di ritornarci, andando a Betania, dove è morto il suo amico Lazzaro. I discepoli trovano che è rischioso, ma Gesù ha deciso: si va. E qui si fa sentire la voce di Tommaso, obbediente e pessimistica: « Andiamo anche noi a morire con lui ». E’ sicuro che la cosa finirà male; tuttavia non abbandona Gesù: preferisce condividere la sua disgrazia, anche brontolando.
Facciamo torto a Tommaso ricordando solo il suo momento famoso di incredulità dopo la risurrezione. Lui è ben altro che un seguace tiepido. Ma credere non gli è facile, e non vuol fingere che lo sia. Dice le sue difficoltà, si mostra com’è, ci somiglia, ci aiuta. Eccolo all’ultima Cena (Giovanni 14), stavolta come interrogante un po’ disorientato. Gesù sta per andare al Getsemani e dice che va a preparare per tutti un posto nella casa del Padre, soggiungendo: « E del luogo dove io vado voi conoscete la via ». Obietta subito Tommaso, candido e confuso: « Signore, non sappiamo dove vai, e come possiamo conoscere la via? ». Scolaro un po’ duro di testa, ma sempre schietto, quando non capisce una cosa lo dice. E Gesù riassume per lui tutto l’insegnamento: « Io sono la via, la verità e la vita ». Ora arriviamo alla sua uscita più clamorosa, che gli resterà appiccicata per sempre, e troppo severamente. Giovanni, capitolo 20: Gesù è risorto; è apparso ai discepoli, tra i quali non c’era Tommaso. E lui, sentendo parlare di risurrezione “solo da loro”, esige di toccare con mano. E’ a loro che parla, non a Gesù. E Gesù viene, otto giorni dopo, lo invita a “controllare”… Ed ecco che Tommaso, il pignolo, vola fulmineo ed entusiasta alla conclusione, chiamando Gesù: “Mio Signore e mio Dio!”, come nessuno finora aveva mai fatto. E quasi gli suggerisce quella promessa per tutti, in tutti i tempi: « Beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno ».
Tommaso è ancora citato da Giovanni al capitolo 21 durante l’apparizione di Gesù al lago di Tiberiade. Gli Atti (capitolo 1) lo nominano dopo l’Ascensione. Poi più nulla: ignoriamo quando e dove sia morto. Alcuni testi attribuiti a lui (anche un “Vangelo”) non sono ritenuti attendibili. A metà del VI secolo, il mercante egiziano Cosma Indicopleuste scrive di aver trovato nell’India meridionale gruppi inaspettati di cristiani; e di aver saputo che il Vangelo fu portato ai loro avi da Tommaso apostolo. Sono i “Tommaso-cristiani”, comunità sempre vive nel XX secolo, ma di differenti appartenenze: al cattolicesimo, a Chiese protestanti e a riti cristiano-orientali.

Autore: Domenico Agasso

Publié dans:SANTI APOSTOLI |on 3 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

PIETRO E LE PIETRE DELLA CITTÀ ETERNA – DEL CARDINALE PAUL POUPARD

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PIETRO E LE PIETRE DELLA CITTÀ ETERNA

UNA RIFLESSIONE DEL PRESIDENTE DEL PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA CULTURA

DEL CARDINALE PAUL POUPARD

Non so se ci sia qualche impertinenza nella domanda «Roma è al centro del mondo?». Ma so che ci sono tanti modi pertinenti di rispondere. Io da parte mia lo farò partendo da un’affermazione di Madame Swetchine, l’amica di Lacordaire, lui stesso amico di un sacerdote francese oggi piuttosto dimenticato, l’abbé Louis Bautain.
Madame Swetchine, Lacordaire, Bautain Ascoltiamo Madame Swetchine: «Roma è la regina delle città, è un mondo assolutamente diverso da tutto quello che abbiamo incontrato altrove; le sue bellezze e i suoi contrasti sono di un ordine tanto elevato che niente ad essi ci prepara, niente potrebbe farne presagire né prevedere l’effetto. Qui le idee diventano grandi, qui i sentimenti diventano più religiosi, il cuore si placa. Vi sono compresenti tutte le epoche della storia, separate e distinte, e sembra che ognuna abbia voluto imprimere il proprio carattere ai suoi monumenti, avere un orizzonte che sia il suo, e per così dire, un’atmosfera particolare… La bellezza non è forse eterna come la verità? Quale stretto legame dunque tra la religione e l’arte!». E l’ortodossa convertita ricompare quando fa questa constatazione: «Una delle prove della verità del cattolicesimo è che risponde così bene alla natura esclusiva del nostro cuore. Le altre Chiese credono di semplificare la religione, di renderla più accessibile, più accettabile, estendendo a ogni comunione le promesse fatte dal suo divino Autore, ed è un ben strano disconoscimento dei nostri bisogni autentici. Più una regola è positiva, esclusiva, austera, esigente, più è attraente per noi, grazie a quel vago istinto che ci fa intravedere quanto la nostra mobilità abbia bisogno di essere fermata, la nostra debolezza di essere sostenuta, il nostro pensiero ricondotto e orientato. Nessuno si appassionerà mai a una religione che dice che le altre la equivalgono, e il Dio geloso lo sapeva bene. Dal momento in cui una cosa non è, non dico solo la migliore, ma l’unica completamente buona, perché scegliere, preferire, concentrarsi, e non lasciar frazionare il suo omaggio e il suo amore?».
Questo testo di Madame Swetchine trovato quasi per caso mi ha invitato a rileggere delle pagine che, con il fervore del giovane romano che allora ero, proponevo ai lettori di La vie spirituelle nel novembre del 1961, su Lacordaire, Bautain e Madame Swetchine. Al centro vi è Roma, dove l’abbé Bautain, filosofo di Strasburgo, viene denunciato dal suo vescovo per fideismo.
Lacordaire gli scrive, il 1° febbraio 1838: «Una condanna di Roma resta per sempre nella storia, la sua infallibilità ne garantisce il destino eterno. Invece la condanna di un vescovo non ha lo stesso destino, né la stessa solidità…». Presenta così alla sua corrispondente monsignor le Pappe de Trévern: «L’anziano vescovo di Strasburgo evidentemente è un gallicano esagerato, molto meno colpito da quel che c’è di falso in Bautain che da quel che c’è di vero… Nessuno più di me dà valore alla purezza della dottrina e direi che ogni giorno ne divento più geloso, per me stesso; ma la carità nel considerare le dottrine è il contrappeso assolutamente necessario dell’inflessibilità teologica. Ci si muove da veri cristiani se si cerca la verità e non l’errore in una dottrina, e si fa ogni sforzo fino al sangue per trovarcela, come si coglie una rosa attraverso le spine. Chi fa d’ogni erba un fascio del pensiero di un uomo, di un uomo sincero, costui è un fariseo, l’unica razza di uomini che sia stata maledetta da Gesù Cristo. C’è forse un Padre della Chiesa che non abbia opinioni e anche errori? Getteremo i loro scritti dalla finestra affinché l’oceano della verità sia più puro? L’uomo che combatte per Dio è un essere sacro, e fino al giorno di una condanna manifesta bisogna considerare il suo pensiero con cuore amico».
E il 1° febbraio 1840, in un’altra lettera alla sua corrispondente, Lacordaire aggiunge: «Nel 1838, quando ero a Metz, fui avvertito che si cercava di mandarlo a Roma, l’ultimo rifugio di coloro che sbagliano contro la durezza di quelli che non sbagliano mai… Lo convinsi ad andare a Roma. Partì, fu ben accolto, tornò incantato da Roma…»1.
Ho pubblicato molto tempo fa il Journal romain de l’abbé Louis Bautain (1838) (Il diario romano del 1838 dell’abbé Bautain) che ripercorre quella storia oggi dimenticata. Ho voluto ricordarla, cosa che ho fatto nel mio Rome-Pèlerinage2, perché per tanti pellegrini del passato e di oggi il pellegrinaggio a Roma è soprattutto la preghiera nella Basilica di San Pietro, in un cammino di fede verso il magistero vivo della Chiesa che, secondo le promesse fatte da Cristo a Pietro, prosegue nella persona del suo successore, il papa. È una grazia del pellegrinaggio a Roma l’adesione rinnovata a Pietro, il cui successore resta garante della verità del Vangelo, in mezzo alla confusione del secolo.
Bautain scrive, la sera stessa del suo arrivo, nel suo diario, il 28 febbraio 1838: «Infine partimmo… Eravamo molto impazienti di veder apparire la grande città, nonostante la fatica della notte passata e delle precedenti ci avesse prostrati; all’improvviso, arrivati su un’altura, il vetturino ci gridò facendoci segno con il suo frustino: “Roma!”. Vedemmo infatti, nella foschia del mattino, la cupola di San Pietro e in un momento essa fece come apparire ai nostri occhi tutta Roma, antica e moderna, Roma maestra del mondo, sia per la forza che per lo spirito. Dovemmo salire e scendere non pochi avvallamenti, dopo quell’apparizione, e infine vedemmo da vicino San Pietro e il Vaticano, e fu la prima cosa di Roma che vedemmo entrando dalla porta di Civitavecchia che è sul di dietro, tanto che sembra di entrare nel Vaticano stesso. Così quello che abbiamo visto di Roma, fin dall’inizio, è stato quello che unicamente eravamo venuti a cercare, cioè San Pietro e il Vaticano»3.
LA VOCAZIONE DI ROMA Così, mi sembra, si chiarisce la risposta da dare alla domanda: «Roma è al centro del mondo?». Perché questa parola “centro” può essere intesa in tanti sensi: centro di attrazione o centro di irradiazione?
Se lo si intende come centro di attrazione o di irradiazione, nel mondo, bisogna sapere se si pensa al papa o alla Curia. Sappiamo che le due cose non si confondono, la seconda è al servizio del primo. Bisogna d’altro canto distinguere l’aspetto religioso, l’aspetto morale e l’aspetto politico delle cose. La risposta non sarà la stessa a seconda che si consideri l’uno o l’altro aspetto.
Se si guarda alla cosiddetta opinione comune e ci si sforza di giudicare di conseguenza questa opinione comune alla luce di quello che la Chiesa pensa di sé stessa, mi sembra che si sia in presenza di due concezioni ugualmente false di Roma e della Santa Sede. Una concezione tende a minimizzare indebitamente il ruolo di Roma come centro di attrazione o di irradiazione considerandola una semplice Chiesa tra altre. In opposizione a questa concezione che minimizza, ce n’è un’altra che tende a esagerare, in un certo senso, il suo ruolo, assimilandola più o meno formalmente a un “potere”, ignorando quello che la Chiesa ha detto di sé stessa al Concilio in materia di libertà religiosa4.
Mi sembra che Roma, ed è la sua propria vocazione, vorrebbe essere considerata come testimone principale – e la Chiesa attraverso di lei –, come testimone di Cristo vivente, morto e risorto, testimone qualificata come nessun altro in base alla missione data a Pietro da Cristo. Questa testimonianza ha in Roma un’espressione straordinariamente autentica per coloro che credono e anche per alcuni di coloro che non credono. Roma, allora, come centro della Chiesa può e deve accettare di avere una responsabilità universale e missionaria, qualsiasi siano le debolezze connaturate a ogni collaborazione umana all’opera di Dio.
L’Urbs
Mi sembra che questa sia la vocazione di Roma, cosa che spiega in qualche modo il fascino di Roma. Perché la città di Roma dopo due millenni esercita un vero fascino in tutto il mondo, tanto che la si è potuta chiamare “la Città” e basta: “l’Urbs”. È alla città e al mondo, Urbi et orbi, che il Santo Padre dà la sua benedizione solenne dall’alto della loggia della Basilica di San Pietro, davanti a quella piazza meravigliosa che porta il nome dell’apostolo fondatore. I telespettatori non smettono di guardarla, sperando di fare davvero, un giorno, il pellegrinaggio a Roma. Perché se tutte le strade portano a Roma, è ancora più vero aggiungere, oggi, che riportano là il viaggiatore abbagliato, il pellegrino desideroso di rifare i passi degli apostoli, di pregare nelle grandi basiliche, di partecipare al fervore di un popolo multicolore, la cui fede si ravviva cantando con il successore di Pietro il Credo cattolico.
Inestinguibile Roma! Inestinguibile Roma! La si è potuta chiamare capitale della civiltà e del diritto, dell’arte e della storia, Roma delle pietre e dei secoli inestricabilmente mescolati tra loro, Roma sotterranea delle catacombe, Roma costruita sulla sepoltura di Pietro scoperta in Vaticano, edificata sul martirio degli apostoli, ma anche sulle macerie dei templi pagani e delle città antiche, Roma moderna, infine, piena del fruscio di tanti ricordi e del rumore delle grandi arterie, o degli stretti vicoli di Trastevere, Roma delle chiese e dei conventi, Roma delle università e dei collegi, Roma dei pellegrini, con la folla che calpesta, settimana dopo settimana, il sagrato di San Pietro, sotto le finestre del papa.
Come diceva Giovanni Paolo II il 25 aprile 1979, per l’anniversario della fondazione di Roma, questa data non segna solo l’inizio di una successione di generazioni umane che hanno abitato la città. È anche un inizio per nazioni e popoli lontani che sanno di avere un legame di unità particolare con la tradizione culturale latina in ciò che essa ha di più profondo.
Gli apostoli del Vangelo, e in primo luogo Pietro di Galilea e Paolo di Tarso, sono venuti a Roma e vi hanno impiantato la Chiesa. È così che nella capitale del mondo antico ha cominciato a esistere la Sede dei successori di Pietro, dei vescovi di Roma. Ciò che era cristiano si è radicato in ciò che era pagano e, dopo essersi sviluppato nell’humus romano, ha cominciato a crescere con nuova forza. Qui il successore di Pietro è l’erede di quella missione universale che la Provvidenza ha inscritto nel libro della storia della Città eterna.
Pietro e le pietre Regina della storia, festa delle arti, delizia degli occhi e gioia del cuore, Roma è per il pellegrino il centro vivo e visibile dell’unità della Chiesa cattolica, fecondato dal martirio degli apostoli, irrigato da secoli di fede, illuminato dalla presenza del successore di Pietro. Che voi arriviate dall’aeroporto di Fiumicino, dalla stazione Termini o dall’autostrada del Sole piena di macchine, avrete in voi la stessa preoccupazione, brucerete dello stesso ardente desiderio: vedere San Pietro e il Santo Padre. Per il pellegrino che viene a Roma infatti il messaggio delle pietre del passato si coniuga con i volti dell’oggi di Dio, in una viva testimonianza di fede. Egli non visita soltanto luoghi prestigiosi carichi di storia millenaria, ma prende posto entro una schiera di testimoni, e pone i suoi passi, insieme con i suoi contemporanei di tutto il mondo, sulle orme di coloro che, attraverso le epoche, l’hanno preceduto. Continuità vivente nel tempo e nello spazio, la Chiesa che i cristiani formano si ritrova a Roma in una secolare catena.
Membri di tante comunità sparse tra i popoli, i cristiani, a Roma, scoprono di colpo la loro unità profonda di popolo di Dio raccolto intorno alla tomba di Pietro e al suo successore vivente, in Vaticano. L’enorme capitale del mondo antico infatti è stata scelta dagli apostoli perché volevano impiantare il Vangelo nel cuore stesso dell’Impero. Venuti a Roma per annunciarvi la fede in Cristo risorto, Pietro e Paolo vi hanno trovato la morte. Il loro martirio vi ha radicato la Chiesa. Secondo l’antico detto: il sangue dei martiri è seme dei cristiani. E fin dai primi secoli i cristiani, spinti da un sentimento incontenibile, si sono messi in movimento verso le tombe dei santi apostoli, per professarvi la loro fede, in continuità vivente con i loro padri e in unione stretta con il vescovo di Roma.
San Pietro e il Santo Padre Roma come pellegrinaggio non è affatto una terra straniera cui ci si accosta per una visita effimera, decisa in fretta e subito dimenticata. Non è neanche un santuario circoscritto, limitato a un’apparizione lontana. È l’Urbe tutta intera che è la patria dei fedeli cattolici, e anche di tanti cristiani, da più di duemila anni. Il tempo, che altrove si dissolve nella storia, qui si radica nella durata. Mentre in un pellegrinaggio a un luogo in cui si è manifestata la Vergine Maria o un santo la continuità consiste nella sola fedeltà a tale messaggio Roma si affermò nel tempo, che essa ha riempito della sua presenza e della sua azione. Pietro e Paolo, martiri, sono sepolti qui. Sulle loro tombe si innalzano due basiliche. Le catacombe serbano le tracce dei vivi e dei morti dei primi secoli. Ma i pellegrini non si limitano a frequentare dei luoghi. A Roma incontrano il vicario di Cristo, successore di Pietro. Tra Pietro e le pietre non c’è antagonismo ma complementarità.
Cosa andate a fare a Roma? Un pellegrinaggio alle basiliche? O a vedere il papa? Perché dire “o”, quando evidentemente si tratta di una “e” che bisogna dire e fare! Questa è la singolarità di Roma come pellegrinaggio: luoghi e uomini che non si possono separare, perché tutto li unisce. Il pellegrino va verso piazza San Pietro per pregare nella Basilica di San Pietro e per vedere il Santo Padre. Videre Petrum: questa antica esclamazione di fede scaturisce dalle profondità dei secoli, è il passo credente che unisce Pietro a Giovanni Paolo II, l’uno e l’altro, l’uno dopo l’altro destinatari della promessa inaudita di Cristo: «Tu sei Pietro, e su questa pietra costruirò la mia Chiesa». Si tratta proprio di un passo di fede, animato dalla certezza che inabita il poeta: «E noi siamo caduti nella rete di Pietro. Perché è Gesù che l’aveva gettata per noi» (Charles Péguy).
Da Pietro a Karol Pietro è venuto a Roma. È stato il suo primo vescovo. E dopo la sua morte il vescovo di Roma gli succede nella sua carica di pastore, responsabile in primo grado del collegio dei vescovi di cui lui è il primo: chiave di volta – e la volta sono loro – della Chiesa sparsa attraverso il tempo e lo spazio, diffusa ai quattro angoli dell’universo, in cammino verso la patria eterna. Città di Dio al cuore della città degli uomini, dei quali vorrebbe essere l’anima, la Chiesa di Gesù Cristo non è affatto un conglomerato informe, ma un organismo strutturato. Le sue strutture visibili sono foriere dell’invisibile ed essenziale nervatura spirituale di grazia, di cui il Signore è la fonte e lo Spirito il canale. Saldamente mischiato ai suoi fratelli di ogni razza e ogni lingua, il pellegrino in visita a Roma, in questa città prende meglio coscienza che cammina dal tempo verso l’eternità. Perché l’eternità vi ha già lasciato la sua traccia. Il tempo può anche disfare le pietre lungo il corso dei secoli, Pietro, lui, è sempre vivo, da Simone di Galilea a Karol di Cracovia, anche lui venuto da lontano, per meglio portarci lontano, nella barca della Chiesa, al vento dello Spirito.
Il pellegrino che visita degli edifici materiali, segno e custodia di una realtà spirituale, non li avvicina così come un turista scopre un’opera d’arte. È un credente che pone i suoi passi su quelli di generazioni che l’hanno preceduto, dalle quali ha ricevuto, insieme alla chiesa dove viene a pregare, la fede che anima la sua preghiera. Per questo, il cuore del pellegrinaggio a Roma è l’incontro e la benedizione ricevuta dal successore di Pietro. È la grazia propria dell’udienza nella quale ogni mercoledì il Santo Padre si rivolge ai pellegrini, come testimone della fede e interprete autorizzato del Vangelo, così come la grazia della recita con loro, ogni domenica, dell’Angelus.
La vocazione di Roma è di confermarli nella fede affinché la vivano su tutte le strade della Chiesa e del mondo, in mezzo agli uomini, su tutte le strade che sono le strade di Cristo, secondo la bella immagine di Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica Redemptor hominis.
Come non pensare che tra tutte quelle strade Roma è privilegiata, grazie alla continuità di una tradizione di cui l’Urbe è depositaria. Il successore di Pietro non è un mitico disco volante caduto dal cielo di Polonia sulle rive del Tevere. Non è un nuovo Melchisedec, senza padre né madre né genealogia. Come dice il suo nome, è un successore. La sua persona si identifica con la sua funzione… Questa, erede del Vangelo e segnata dal peso della storia, si inscrive nei due millenni che hanno riempito la città di Roma, innalzando il suo divenire nella città degli uomini al destino di Città di Dio. Chiesa incarnata, la Chiesa di Roma non è senza macchia, non è dura e pura come un’utopia, la cui sola qualità reale sarebbe il non esistere. Invece essa esiste, con i suoi tratti segnati così fortemente dal tempo e dallo spazio, dagli uomini e dalle loro costruzioni di pietra. Così, la vocazione di Roma è l’incarnazione della fede, con gli apostoli Pietro e Paolo e i milioni di credenti che sono venuti a pregare sulle loro tombe e ad abbeverarcisi nella fede.
Come diceva Giovanni Paolo II il 4 luglio 1979, dopo aver celebrato per la prima volta a Roma la festa dei santi apostoli Pietro e Paolo: «Come è eloquente l’altare, al centro della Basilica, sul quale il successore di Pietro celebra l’eucaristia pensando che è così vicino all’altare in cui Pietro ha fatto, sulla croce, il sacrificio della sua vita in unione con quello, sul Calvario, di Cristo crocifisso e risorto».
Guardare e capire Davanti a tanti tesori accumulati non mancano le critiche che si scandalizzano di questo mecenatismo, mentre ci sono tante povertà che gridano vendetta. Non si può riscrivere la storia, e oggi capiamo difficilmente il comportamento dei papi del Rinascimento. Paolo VI, inaugurando la nuova sala delle udienze, la Sala Nervi, il 30 giugno 1971, dichiarò che essa «non esprime alcun orgoglio monumentale o vanità ornamentale, ma che l’audacia propria dell’arte cristiana è quella di esprimersi in termini grandi e maestosi». Ma anche tanto tempo prima, quando era sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Montini si era espresso in questi termini, che io dedico, quarant’anni dopo, ai pellegrini di oggi: «Fascino, reverenza, stupore o semplice curiosità, o ancora diffidenza prudente guidano i passi del moderno romeo che non si è potuto sottrarre alla visita d’obbligo e che sente, in sé stesso, il bisogno di guardare e capire.
Guardare e capire: forse qui è la differenza psicologica tra la visita alla Città del Vaticano e quella a un altro grande monumento dell’antichità, il Foro romano, le Piramidi, il Partenone, i resti di Ninive o della civiltà degli Incas. Questi basta guardarli; qui bisogna anche capire. Perché qui c’è qualcosa di indefinibilmente presente, qualcosa che richiama alla riflessione, che esige un incontro, che impone uno sforzo interiore, una sintesi spirituale.
Perché il Vaticano non è solo un insieme di edifici monumentali che possono interessare l’artista; né soltanto un magnifico segno dei secoli passati che possono interessare lo storico; nemmeno soltanto uno scrigno che trabocca di tesori bibliografici e archeologici che possono interessare l’erudito; neppure il museo noto per i capolavori sublimi che possono interessare il turista; né soltanto, infine, il tempio sacro del martirio dell’apostolo Pietro che può interessare il fedele. Il Vaticano non è solo il passato; è la casa del papa, di un’autorità sempre viva e attiva».
IL MESSAGGIO DELLA CITTà ETERNA Come la voce di Cristo sulle acque tempestose del lago di Tiberiade, quella del suo vicario Giovanni Paolo II risuona con potenza e sbaraglia tanto i vecchi slogan come le nuove ideologie: «Non abbiate paura, aprite, spalancate le porte a Cristo. Alla sua potenza che salva, aprite le frontiere degli Stati, i sistemi economici e politici, i terreni immensi della cultura, della civiltà, dello sviluppo. Non abbiate paura… Lasciate che Cristo parli all’uomo. Lui solo ha parole di vita, sì, di vita eterna».
Questo è il messaggio di Roma, straordinario incrocio di popoli e di civiltà. Pietro non ha avuto paura, con Paolo, di venire qui a piantare la croce nel cuore di quell’Impero unificato e potente. L’unità politica e linguistica, la centralizzazione amministrativa saranno, da Roma, carte preziose per la diffusione del Vangelo a partire dalla capitale del mondo antico. Proprio quando stava per essere cancellata dalla storia, questo la rese la Città eterna. Dopo il declino dell’Impero d’Occidente e l’allontanamento dell’Impero d’Oriente, senza paura Roma si lega alla nuova Europa che sta laboriosamente sorgendo. Nell’anno 800 il Papa vi incorona Carlo Magno imperatore d’Occidente. Dopo la tempesta del saeculum ferreum, Roma diventa il cuore della difesa cattolica contro il frazionismo delle eresie. Lo sfavillio del Barocco attesta qui in modo tutto particolare la gioia della fede dopo la tempesta, la gioia della fede e la gioia della vita, che sono una cosa sola. Facendoci scoprire queste tappe successive di un’arte sempre in simbiosi con il suo tempo, la lezione di Roma non è forse di consolidare in noi il senso dell’universale, di ricordarci la nostra vocazione cattolica?
Roma ha sempre praticato con successo l’assimilazione. La comunità cristiana ci stette benissimo per tre secoli parlando il greco, e sarà lo stesso dopo col latino. Celebrerà bene nelle case private delle origini così come nelle grandi basiliche di Costantino. «Dove vi riunite?», veniva chiesto a Giustino. E il filosofo cristiano rispondeva semplicemente: «Dove si può».
Questa è la lezione di Roma. Non è dall’esterno ma dall’interno che si convertono il mondo e la società. I cristiani ne traggono senza problemi i loro usi, quando non hanno nulla di reprensibile. I cristiani di Roma hanno adottato anche per i loro edifici di culto lo schema delle basiliche pagane. E si può trovare la rappresentazione del dio sole nel mosaico che decora il soffitto di un cubicolo, peraltro cristiano perché la scena di Giona ne orna una delle pareti. A Santa Prisca e a Santo Stefano Rotondo la chiesa è inscritta all’interno del mitreo preesistente, mentre sotto San Clemente si vede che la chiesa cristiana del IV secolo è accanto al mitreo privato. Più tardi le spoglie dell’antichità orneranno i santuari cristiani e decoreranno i loro accessi: colonne di marmo di templi pagani diventate supporti di chiese cristiane, obelischi egiziani sormontati dalla croce di Cristo.
È l’Urbe tutta intera che è la patria dei fedeli cattolici, e anche di tanti cristiani, da più di duemila anni. Il tempo, che altrove si dissolve nella storia, qui si radica nella durata. Mentre in un pellegrinaggio a un luogo in cui si è manifestata la Vergine Maria o un santo la continuità consiste nella sola fedeltà a tale messaggio Roma si affermò nel tempo che essa ha riempito della sua presenza e della sua azione…
Il culto dei martiri Roma, con i primi apostoli Pietro e Paolo, poi con Ignazio, Giustino, Tolomeo, Lucio, il patrizio Apollonio, e tanti altri rimasti anonimi, è diventata un martirologio vivente. Nella città che era l’epicentro del mondo, il sangue dei martiri è seme di cristiani. La prestigiosa comunità dei Romani, già attraente per l’apostolo Paolo, è diventata una nuova terra santa, segnata dal sangue dei martiri. «Presiedendo nella carità e nella fraternità», come scrive Ignazio nella sua lettera ai Romani, irradia la sua luce in tutto l’Impero.
È il culto dei martiri in verità che ha creato il pellegrinaggio e contribuito a fare di Roma una città santa, che progressivamente si è organizzata per ricevere i pellegrini e rendere ai martiri un culto degno della loro fama. San Girolamo scrive: «Dove si accorre come a Roma nelle chiese e sulle tombe dei martiri con tanto zelo e in così tanti? Dobbiamo lodare la fede del popolo romano». E sant’Ambrogio descrive la festa dei santi Pietro e Paolo celebrata il 29 giugno: «Eserciti serrati percorrono le vie di una città così grande. Su tre vie diverse (al Vaticano, sull’Ostiense e sulla via Appia) si celebra la festa dei santi martiri. Sembra che avanzi il mondo intero».
All’inizio del V secolo Prudenzio scrive: «Dalle porte di Alba escono lunghe processioni che formano bianche linee nella campagna. L’abitante degli Abruzzi e il contadino dell’Etruria arrivano insieme. Ecco il feroce Sannita, l’abitante della superba Capua. Ecco anche il popolo di Nola» … Nola, di cui il vescovo Paolino scrive: «Così, Nola, ti fai tutta bella a immagine di Roma». Il vescovo letterato fa anche lui il pellegrinaggio almeno una volta l’anno per la festa dei santi Pietro e Paolo.
Il pellegrinaggio Il pellegrinaggio a Roma è innanzitutto un obbligo tradizionale per tutti i vescovi. Già il concilio di Roma, nel 743, sotto papa Zaccaria, menziona la visita ad limina apostolorum come tradizionale, e ne rinnova l’obbligo. Dopo secoli in cui l’usanza si era indebolita, Sisto V, con la costituzione apostolica Romanus pontifex del 20 dicembre 1585, ne rinnova l’obbligo e ne stabilisce la frequenza. Ogni vescovo ormai ha un doppio obbligo: andare a venerare le tombe dei santi apostoli ed esporre al papa la situazione della sua diocesi.
Nell’Angelus del 9 settembre 1979 Giovanni Paolo II spiegava ai pellegrini il significato di queste visite ad limina: «In occasione della nostra comune preghiera dell’Angelus di mezzogiorno, voglio oggi riferirmi all’antichissima tradizione della visita alla Sede degli apostoli, ad limina apostolorum. Tra tutti i pellegrini che venendo a Roma manifestano la loro fedeltà a questa tradizione, i vescovi del mondo intero meritano un’attenzione speciale. Perché attraverso la loro visita alla Sede degli apostoli essi esprimono il legame con Pietro, che unisce la Chiesa su tutta la terra. Venendo a Roma ogni cinque anni, portano qui, in un certo senso, tutte le Chiese, cioè le diocesi che, tramite il loro ministero episcopale e nello stesso tempo tramite l’unione con la Sede di Pietro, si mantengono nella comunità cattolica della Chiesa universale. Insieme alla loro visita alla Sede apostolica i vescovi portano a Roma anche le notizie sulla vita delle Chiese di cui sono i pastori, sul progresso dell’opera di evangelizzazione, sulle gioie e le difficoltà degli uomini e dei popoli tra i quali essi compiono la loro missione».
I pellegrini hanno un doppio scopo: vedere il papa e andare a pregare nelle grandi chiese e basiliche, e soprattutto a San Pietro. Costruita con grandi spese, la più grande basilica della cristianità è testimone di un lungo impegno e di una rara perseveranza, in onore di Pietro e, insieme, dei suoi successori. La Basilica di San Pietro è infatti il duplice e medesimo simbolo della fede nella missione affidata da Cristo a Pietro e della venerazione di tutti i cristiani, pastori e fedeli, per il suo successore, il vescovo di Roma. Obbedienza e rispetto si coniugano in uno stesso omaggio al pescatore di Galilea e al papa di Roma, la cui funzione, radicata sulla tomba dell’apostolo, si irradia, come la gloria del Bernini, su tutta la cristianità.
I santi Roma è una calamita anche per i santi. Non solo i fondatori di ordini religiosi, ma anche i santi del popolo, i più popolari, come Benedetto Labre. Seminarista, certosino, poi trappista a Sept-Fons, venne a Roma verso il 1771 per pregare e vi rimase, vagabondo barbone e mendicante. Miracolo di Roma! Questa città, di cui san Bernardo aveva fustigato il lusso e la potenza con parole di fuoco e Gioacchino di Bellay aveva criticato la vanità cortigiana, capì senza esitazioni quello straccione pieno di parassiti, lo ammirò e lo amò nella sua povertà silenziosa e nella sua preghiera ieratica. Quando venne annunciata la sua morte, il 16 aprile 1783, tutta la città si riversò in Santa Maria ai Monti. Vennero tagliati i suoi stracci per farne reliquie. I suoi funerali, il giorno di Pasqua, furono un trionfo. La truppa che sorvegliava la chiesa venne spazzata via dalla folla.
Poi, nel XIX secolo, ci fu una spinta continua verso Roma di tutta la cristianità, a cominciare dalla Francia, dove il gallicanesimo si stava lentamente trasformando in ultramontanismo. La rivoluzione aveva perseguitato la Chiesa. Napoleone aveva umiliato il papa. Ma il padre umiliato, secondo la bella espressione di Claudel, divenne oggetto di una intensa venerazione. Davanti ai crolli successivi dei regimi più solidi, il papato e Roma sembravano ormai come la roccia salda sulla quale appoggiarsi nella tempesta. È nota l’avventura dei pellegrini della libertà con Lamennais. Tanti altri, meno famosi, giunsero pellegrini a Roma e vi attinsero, con un amore rinnovato della Chiesa, una convinzione profonda, la stessa del «Tu sei Pietro, e su questa pietra costruirò la mia Chiesa».
Come, anche se ben diversi nella loro psicologia e nei loro orientamenti, ma uniti nelle stesse motivazioni, dom Guéranger, restauratore benedettino di Solesmes in Francia, e Lacordaire, che vi ristabilì i Frati Predicatori. Conosciamo il celebre ritratto di Théodore Chassériau che lo raffigura l’indomani della sua professione religiosa, il 12 aprile 1840, nel chiostro romano di Santa Sabina. O come anche Teresa di Lisieux e Charles de Foucauld, i «due fari che la mano di Dio ha acceso alle soglie del secolo atomico», secondo l’intensa espressione di padre Congar.
Madeleine Delbrêl Più vicina a noi, Madeleine Delbrêl, convertita dall’ateismo e testimone dell’amore di Dio nel cuore della città di Ivry, pagana e marxista, un giorno del maggio 1952 sente il bisogno imperioso di venire a Roma a pregare sulla tomba di san Pietro. Le si obietta che la cosa costa un po’ di più di un’ora di preghiera. E lei dichiara al suo gruppo scettico che ci andrà, se il prezzo del viaggio le fosse arrivato in maniera inattesa…, cosa che avviene, sotto forma di un biglietto vincente della lotteria nazionale offertole da un’amica latinoamericana! A prezzo di due giorni e due notti di treno, trascorre la sua giornata di dodici ore in preghiera a San Pietro: «Davanti all’altare papale e sulla tomba di san Pietro, ho pregato col cuore perduto… e soprattutto per perdere il cuore. Non ho riflettuto né chiesto “lumi”, non ero là per quello. Eppure tante cose mi si sono imposte e restano in me. Innanzitutto: Gesù ha detto a Pietro: “Tu sei Pietro e su questa pietra costruirò la mia Chiesa”. Lui doveva diventare una pietra e la Chiesa doveva essere costruita. Gesù che ha parlato tanto della potenza dello Spirito, della sua vitalità, quando ha parlato della Chiesa ha detto che l’avrebbe costruita su quell’uomo che sarebbe diventato come una pietra. È Cristo che ha pensato che la Chiesa non sia solo qualcosa di vivente, ma qualcosa di costruito. Secondo: ho scoperto i vescovi… Ho scoperto durante il mio viaggio, e a Roma, l’immensa importanza dei vescovi nella fede e nella vita della Chiesa. “Vi renderò pescatori di uomini”. Mi è sembrato che di fronte a quella che chiamiamo autorità noi agiamo a volte come dei feticisti, a volte come dei liberali. Noi siamo sotto il regime delle autorizzazioni, non dell’autorità. Quando si parla dell’obbedienza dei santi non si capisce, credo, quanto essa sia vicina, nel corpo della Chiesa, a quella lotta interna degli organismi viventi, nei quali l’unità si realizza attraverso delle attività, delle opposizioni. Infine ho anche pensato che, se Giovanni era “il discepolo che Gesù amava”, è a Pietro che Gesù ha chiesto: “Tu mi ami?”, ed è stato dopo le sue affermazioni d’amore che gli ha affidato il gregge. Ha detto anche tutto ciò che c’era da amare: “Quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me”.
Mi è stato evidente quanto occorrerebbe che la Chiesa gerarchica fosse conosciuta dagli uomini, da tutti gli uomini, come uno che li ama. Pietro: una pietra a cui si chiede di amare. Ho capito quanto amore bisognerebbe far passare in tutti i segni della Chiesa»5.
Conclusione Concludo. Roma è al centro del mondo? La risposta è scontata per il pellegrino in visita a Roma, da dovunque venga: non si sente forse a casa in questa città universale?
E poi lo splendere del suo sole, la purezza del suo cielo, il fulgore delle sue opere d’arte, il fascino dei suoi quartieri, il tratto pittoresco dei suoi abitanti, un non so che vi attira e commuove, vi trattiene dal partire e vi spinge a tornare. Ci sono delle città che si visitano, dei tesori che si contemplano, dei posti che bisogna aver visto. Roma non si guarda dall’esterno, ma si penetra dall’interno. Non ci si stanca di tornare in piazza San Pietro, di andare a pregare nella sua cripta, di scendere alle catacombe, di andare al Colosseo, di risalire ai Santi Quattro Coronati, di riscendere verso San Clemente, di fermarsi ancora alla Maddalena, di tornare a Santa Sabina. Sempre e dovunque ci sono dei pellegrini e dei romani che conversano o pregano, gli uni e gli altri davvero a casa, a casa del buon Dio, come si diceva ad Angers quando ero piccolo. Alcuni sono più sensibili allo scintillio dei mosaici, altri allo splendore dei marmi, altri alla luce folgorante di Caravaggio. Tutti sono emozionati dal candore degli affreschi primitivi, dove un’inezia di materia diventa messaggera dello Spirito che la anima, e di quell’acqua viva che mormora in noi, dopo sant’Ignazio, da Roma: vieni dal Padre.
Da Pietro e Paolo a Giovanni Paolo II, il genio della Roma cristiana ha assunto l’eredità della Roma pagana. I templi convertiti in chiese, con le colonne che diventano supporto nuovo, e Santa Maria eretta sopra il tempio di Minerva. Ben lungi dall’essere come squassato da tanto splendore, il pellegrino qui scopre il messaggio di Pietro inscritto nelle pietre delle basiliche e incarnato nei santi. Ognuno si trova al suo posto in seno al popolo di Dio, non cacciato al margine in qualche stretta cappella o respinto in qualche oscura cripta, ma proprio al suo posto, in piena luce, nella navata grande, davanti alla confessione dell’Apostolo, il cui sangue versato attesta la salvezza che Cristo ha portato a tutti gli uomini. Segnato dall’impronta di Roma, il cristiano si ritrova cattolico.
Con il peso della storia, la Roma dei papi e dei santi ci ricorda che le cose spirituali sono anche carnali e che il Vangelo si inscrive nel cuore della città degli uomini per avviarli dal tempo all’eternità, alla Città di Dio.
Quindi, alla domanda se Roma è al centro del mondo, rispondo senza esitazione: sì, per condurlo a Dio.

Note
1 Paul Poupard, La charité de Lacordaire, homme d’Eglise, in La Vie Spirituelle, nov. 1961, pp. 530-543, poi in XIX siècle, siècle de grâces, Ed. S. O. S., Paris 1982, pp. 111-128.
2 Paul Poupard, Rome-Pèlerinage, nuova edizione in occasione dell’Anno Santo, D. D. B., Paris 1983.
3 Journal romain de l’abbé Louis Bautain (1838), curato da Paul Poupard, Edizioni di storia e letteratura, (Quaderni di cultura francese a cura della fondazione Primoli) Roma 1964, pp. 6-7.
4 Cfr. Paul Poupard, Le Concile Vatican II, Paris 1983, pp. 105-112.
5 Madeleine Delbrêl, Nous autres, gens des rues, presentazione di Jacques Loew, Paris 1966, pp. 138-139.

Maria ha sperimentato la dolcezza di Gesù

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LA SPERANZA TIENE L’UOMO IN CAMMINO – ENZO BIANCHI 2004

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LA SPERANZA TIENE L’UOMO IN CAMMINO – ENZO BIANCHI 2004

Ilario di Poitiers, nel suo Commento ai Salmi (118,15,7), riporta la domanda di molti che gridano ai cristiani: «Dov’è, cristiani, la vostra speranza?». Questa domanda deve essere assunta dai cristiani e dalle chiese di oggi come indirizzata direttamente a loro. Poco importa che in essa possano esservi toni di sufficienza o di scetticismo: il cristiano sa che per lui la speranza è una responsabilità! Di essa egli è chiamato a rispondere a chiunque gliene chieda conto (1 Pietro 3,15: «siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi chieda della speranza che è in voi»). Questa responsabilità oggi è drammatica ed è una delle sfide decisive della chiesa: è in grado di aprire orizzonti di senso? Sa vivere della speranza del Regno dischiusale dal Cristo? E sa donare speranza a vite concrete, aprire il futuro a esistenze personali, mostrare che valla pena di vivere e di morire per Cristo? Sa chiamare alla vita bella e felice, buona e piena perché abitata dalla speranza, sull’esempio della vita di Gesù di Nazaret??Queste domande non possono essere eluse, soprattutto oggi che gli orizzonti culturali mostrano una profonda asfitticità ed è difficile formulare speranze a lunga durata, capaci di reggere una vita. Nella «società dell’incertezza» (ben descritta da Zygmunt Bauman), nell’epoca posta sotto il segno della «fine» (di secolo, di millennio, della modernità, delle ideologie, della cristianità), nel tempo della frantumazione del tempo, in cui anche le poche speranze che si aprono faticosamente un varco nella storia sono irrimediabilmente di breve durata, non hanno tempo a consolidarsi, ma sono esposte a imminente smentita, suona ormai in modo drammatico la domanda: «Che cosa possiamo sperare?». E colpisce che l’insistenza sull’avvento del nuovo millennio si accompagni nella chiesa a questa paurosa incapacità di aprire varchi verso il futuro, di mostrare concrete e vivibili strade di speranza e di progettualità, di dare speranza e di essere presenza significativa soprattutto per coloro che nel futuro hanno il loro orizzonte prossimo: i giovani.?L’impressione è che oggi il nemico della speranza sia l’indifferenza, il non-senso o quanto meno l’irrilevanza del senso. La stessa insistenza della pastorale cattolica sulla carità e sul volontariato ha, oltre ai tanti aspetti positivi, anche l’aspetto del ripiegamento sul presente, sull’oggi, sull’azione da compiere nei confronti del bisognoso; il tutto all’interno di una scelta che è a tempo e può sempre essere ritirata, che non impegna il futuro. Di fronte a tutto questo si situa la domanda: «Dov’è, cristiani, la vostra speranza?». Perché la virtù teologale della speranza deve essere visibile, vissuta, trovare un dove, un luogo: altrimenti è illusione e retorica! Un bel testo di Agostino dice che «è solo la speranza che ci fa propriamente cristiani» (La città di Dio 6,9,5). Cioè, il cristiano non vive cose e realtà altre e nuove, ma sostanzia di un senso nuovo e altro le cose e le realtà, e anche tutti i rapporti. Né il problema è definire la speranza, ma viverla. Certo, possiamo dire che la speranza è «un’attiva lotta contro la disperazione» (G. Marcel), è «la capacità di un’attività intensa ma non ancora spesa» (E. Fromm), ma soprattutto è ciò che consente all’uomo di camminare sulla strada della vita, di essere uomo: non si può vivere senza sperare! Homo viator, spe erectus: è la speranza che tiene l’uomo in cammino, in posizione eretta, lo rende capace di futuro.?Il cristiano trova in Cristo la propria speranza («Cristo Gesù, nostra speranza», 1 Timoteo 1,1), cioè il senso ultimo che illumina tutte le realtà e le relazioni. In questo senso, la speranza cristiana è un potente serbatoio di energie spirituali, è elemento dinamizzante che si fonda sulla fede nel Cristo morto e risorto. La vittoria di Cristo sulla morte diviene la speranza del credente che il male e la morte, in tutte le forme in cui si possono presentare all’uomo, non hanno l’ultima parola. Il cristiano narra perciò la propria speranza con il perdono, attestando che il male commesso non ha il potere di chiudere il futuro di una vita; narra la speranza plasmando la sua presenza tra gli uomini sulla fede che l’evento pasquale esprime la volontà divina di salvezza di tutti gli uomini (1 Timoteo 2,4; 4,10; Tito 2,11); soprattutto narra la speranza vivendo la logica pasquale. Quella «logica» che consente al credente di vivere nella fraternità con persone che non lui ha scelto; che lo rende capace di amare anche il nemico, l’antipatico, colui che gli è ostile; che lo porta a vivere nella gioia e nella serenità anche le tribolazioni, le prove e le sofferenze; che lo guida al dono della vita, al martirio. Se dobbiamo vedere oggi nella chiesa delle autorevoli narrazioni della speranza cristiana è proprio alle situazioni di martirio e di persecuzione che dobbiamo guardare. Lì la speranza della vita eterna, della vita in Cristo oltre la morte, trova una sua misteriosa, inquietante, ma concretissima e convincente narrazione. Lì appare credibile ciò che ancora Agostino ha scritto: «La nostra vita, adesso, è speranza, poi sarà eternità» (Commento ai Salmi 103,4,17)

E. Bianchi, Le parole della spiritualità , Rizzoli, Milano 2004

 

L´EUROPA S´È SMARRITA. E GIOVANNI PAOLO II LE INSEGNA LA STRADA – di Sandro Magister

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/6958

L´EUROPA S´È SMARRITA. E GIOVANNI PAOLO II LE INSEGNA LA STRADA

Ecco i passaggi chiave delle istruzioni che il papa dà al Vecchio Continente. Accompagnate da una domanda inquietante: Il Figlio dell´Uomo, quando verrà, vi troverà la fede?

di Sandro Magister

ROMA – Ci sono voluti quasi quattro anni e 130 pagine di testo perché Giovanni Paolo II tirasse le conclusioni del sinodo dei vescovi del 1999 sull´Europa.
Queste conclusioni sono scritte nell´esortazione apostolica « Ecclesia in Europa », resa pubblica sabato 28 giugno e disponibile integralmente nel sito web del Vaticano.
In essa, il papa analizza la situazione della Chiesa in Europa alla luce dell´Apocalisse, il libro del Nuovo Testamento che «dischiude alla comunità credente il senso nascosto e profondo delle cose che accadono».
E come tra le sette Chiese dell´Apocalisse ve ne furono di povere di fede, lo stesso accade – dice il papa – per le Chiese dell´Europa d´oggi. Nel paragrafo 47 dell´ »Ecclesia in Europa » Giovanni Paolo II scrive preoccupato:
«´Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?´ (Lc 18, 8). La troverà su queste terre della nostra Europa di antica tradizione cristiana? È un interrogativo aperto che indica con lucidità la profondità e drammaticità di una delle sfide più serie che le nostre Chiese sono chiamate ad affrontare».
Giovanni Paolo II invita i cattolici d´Europa a «svegliarsi e rinvigorire ciò che sta per morire» (Ap 3,2) e dà le istruzioni perché «promuovano un nuovo annuncio del Vangelo».
Ma per la sua lunghezza, l´ »Ecclesia in Europa » rischia di essere letta da pochissimi. Eppure non mancano in essa passaggi che meritano attenzione. Qui di seguito ne sono riportati i principali, con tra parentesi quadra il numero del paragrafo da cui sono tratti.

SMARRIMENTO DELLA MEMORIA
[7] Il tempo che stiamo vivendo appare come una stagione di smarrimento. [...] È smarrimento della memoria e dell’eredità cristiane, accompagnato da una sorta di agnosticismo pratico e di indifferentismo religioso, per cui molti europei danno l’impressione di vivere senza retroterra spirituale e come degli eredi che hanno dilapidato il patrimonio loro consegnato dalla storia. Non meravigliano più di tanto, perciò, i tentativi di dare un volto all’Europa escludendone la eredità religiosa e, in particolare, la profonda anima cristiana, fondando i diritti dei popoli che la compongono senza innestarli nel tronco irrorato dalla linfa vitale del cristianesimo.

APOSTASIA SILENZIOSA
[9] Alla radice dello smarrimento della speranza sta il tentativo di far prevalere un’antropologia senza Dio e senza Cristo. Questo tipo di pensiero ha portato a considerare l’uomo come il centro assoluto della realtà, facendogli così artificiosamente occupare il posto di Dio e dimenticando che non è l’uomo che fa Dio ma Dio che fa l’uomo. L’aver dimenticato Dio ha portato ad abbandonare l’uomo, per cui non c’è da stupirsi se in questo contesto si è aperto un vastissimo spazio per il libero sviluppo del nichilismo in campo filosofico, del relativismo in campo gnoseologico e morale, del pragmatismo e finanche dell’edonismo cinico nella configurazione della vita quotidiana. La cultura europea dà l’impressione di una « apostasia silenziosa » da parte dell’uomo sazio che vive come se Dio non esistesse.

CULTURA DI MORTE
[9] In tale orizzonte, prendono corpo i tentativi, anche ultimamente ricorrenti, di presentare la cultura europea a prescindere dall’apporto del cristianesimo che ha segnato il suo sviluppo storico e la sua diffusione universale. Siamo di fronte all’emergere di una nuova cultura, in larga parte influenzata dai mass media, dalle caratteristiche e dai contenuti spesso in contrasto con il Vangelo e con la dignità della persona umana. Di tale cultura fa parte anche un sempre più diffuso agnosticismo religioso, connesso con un più profondo relativismo morale e giuridico, che affonda le sue radici nello smarrimento della verità dell’uomo come fondamento dei diritti inalienabili di ciascuno. I segni del venir meno della speranza talvolta si manifestano attraverso forme preoccupanti di ciò che si può chiamare una « cultura di morte ».

SPERANZE ARTIFICIALI
[10] Ma, come hanno sottolineato i padri sinodali, l’uomo non può vivere senza speranza: la sua vita sarebbe votata all’insignificanza e diventerebbe insopportabile. Spesso chi ha bisogno di speranza crede di poter trovar pace in realtà effimere e fragili. E così la speranza, ristretta in un ambito intramondano chiuso alla trascendenza, viene identificata, ad esempio, nel paradiso promesso dalla scienza e dalla tecnica, o in forme varie di messianismo, nella felicità di natura edonistica procurata dal consumismo o quella immaginaria e artificiale prodotta dalle sostanze stupefacenti, in alcune forme di millenarismo, nel fascino delle filosofie orientali, nella ricerca di forme di spiritualità esoteriche, nelle diverse correnti del New Age.

IL SECOLO DEI MARTIRI
[13]. Ma intendo attirare l’attenzione in particolare su alcuni segni emersi nella vita propriamente ecclesiale. Innanzitutto, con i padri sinodali, voglio riproporre a tutti, perché non sia mai dimenticato, quel grande segno di speranza costituito dai tanti testimoni della fede cristiana, vissuti nell’ultimo secolo, all’Est come all’Ovest. Essi hanno saputo far proprio il Vangelo in situazioni di ostilità e persecuzione, spesso fino alla prova suprema del sangue.
Questi testimoni, in particolare quanti tra di loro hanno affrontato la prova del martirio, sono un segno eloquente e grandioso, che ci è chiesto di contemplare e imitare. Essi ci attestano la vitalità della Chiesa; ci appaiono come una luce per la Chiesa e per l’umanità, perché hanno fatto risplendere nelle tenebre la luce di Cristo; in quanto appartenenti a diverse confessioni cristiane, risplendono anche come segno di speranza per il cammino ecumenico, nella certezza che il loro sangue è anche linfa di unità per la Chiesa.

IL BENE PIÙ PREZIOSO
[18] Dall’assemblea sinodale è emersa, chiara e appassionata, la certezza che la Chiesa ha da offrire all’Europa il bene più prezioso, che nessun altro può darle: è la fede in Gesù Cristo, fonte della speranza che non delude, dono che sta all’origine dell’unità spirituale e culturale dei popoli europei, e che ancora oggi e per il futuro può costituire un contributo essenziale del loro sviluppo e della loro integrazione. Sì, dopo venti secoli, la Chiesa si presenta all’inizio del terzo millennio con il medesimo annuncio di sempre, che costituisce il suo unico tesoro: Gesù Cristo è il Signore; in Lui, e in nessun altro, c’è salvezza ( At 4, 12).

EUROPA GIUDEOCRISTIANA
[19] Sono molteplici le radici ideali che hanno contribuito con la loro linfa al riconoscimento del valore della persona e della sua inalienabile dignità, del carattere sacro della vita umana e del ruolo centrale della famiglia, dell’importanza dell’istruzione e della libertà di pensiero, di parola, di religione, come pure alla tutela legale degli individui e dei gruppi, alla promozione della solidarietà e del bene comune, al riconoscimento della dignità del lavoro. Tali radici hanno favorito la sottomissione del potere politico alla legge e al rispetto dei diritti della persona e dei popoli. Occorre qui ricordare lo spirito della Grecia antica e della romanità, gli apporti dei popoli celtici, germanici, slavi, ugro-finnici, della cultura ebraica e del mondo islamico. Tuttavia si deve riconoscere che queste ispirazioni hanno storicamente trovato nella tradizione giudeo-cristiana una forza capace di armonizzarle, di consolidarle e di promuoverle. Si tratta di un fatto che non può essere ignorato; al contrario, nel processo della costruzione della « casa comune europea », occorre riconoscere che questo edificio si deve poggiare anche su valori che trovano nella tradizione cristiana la loro piena epifania. Il prenderne atto torna a vantaggio di tutti. [...]
[24] L’Europa è stata ampiamente e profondamente penetrata dal cristianesimo. Non c’è dubbio che, nella complessa storia dell’Europa, il cristianesimo rappresenti un elemento centrale e qualificante, consolidato sul saldo fondamento dell’eredità classica e dei molteplici contributi arrecati dagli svariati flussi etnico-culturali che si sono succeduti nei secoli. La fede cristiana ha plasmato la cultura del Continente e si è intrecciata in modo inestricabile con la sua storia, al punto che questa non sarebbe comprensibile se non si facesse riferimento alle vicende che hanno caratterizzato prima il grande periodo dell’evangelizzazione, e poi i lunghi secoli in cui il cristianesimo, pur nella dolorosa divisione tra Oriente ed Occidente, si è affermato come la religione degli Europei stessi. Anche nel periodo moderno e contemporaneo, quando l’unità religiosa è andata progressivamente frantumandosi sia per le ulteriori divisioni intercorse tra i cristiani sia per i processi di distacco della cultura dall’orizzonte della fede, il ruolo di quest’ultima ha continuato ad essere di non scarso rilievo.
[25] L’interesse che la Chiesa nutre per l’Europa nasce dalla sua stessa natura e missione. Lungo i secoli, infatti, la Chiesa ha avuto legami molto stretti con il nostro Continente, così che il volto spirituale dell’Europa si è andato formando grazie agli sforzi di grandi missionari, alla testimonianza di santi e di martiri, e all’opera assidua di monaci, religiosi e pastori. Dalla concezione biblica dell’uomo, l’Europa ha tratto il meglio della sua cultura umanistica, ha attinto ispirazione per le sue creazioni intellettuali ed artistiche, ha elaborato norme di diritto e, non per ultimo, ha promosso la dignità della persona, fonte di diritti inalienabili. In questo modo la Chiesa, in quanto depositaria del Vangelo, ha concorso a diffondere e a consolidare quei valori che hanno reso universale la cultura europea.
Memore di tutto ciò, la Chiesa di oggi avverte, con rinnovata responsabilità, l’urgenza di non disperdere questo prezioso patrimonio e di aiutare l’Europa a costruire se stessa rivitalizzando le radici cristiane che l’hanno originata.

NUOVA EVANGELIZZAZIONE
[45] Chiesa in Europa, la nuova evangelizzazione è il compito che ti attende! Sappi ritrovare l’entusiasmo dell’annuncio. [...] L’annuncio di Gesù, che è il Vangelo della speranza, sia il tuo vanto e la tua ragion d’essere. Continua con rinnovato ardore nello stesso spirito missionario che, lungo questi venti secoli e incominciando dalla predicazione degli apostoli Pietro e Paolo, ha animato tanti Santi e Sante, autentici evangelizzatori del continente europeo.

IL PRIMO ANNUNCIO
[46] In varie parti d’Europa c’è bisogno di un primo annuncio del Vangelo: cresce il numero delle persone non battezzate, sia per la notevole presenza di immigrati appartenenti ad altre religioni, sia perché anche figli di famiglie di tradizione cristiana non hanno ricevuto il Battesimo o a causa della dominazione comunista o a causa di una diffusa indifferenza religiosa.ÊDi fatto, l’Europa si colloca ormai tra quei luoghi tradizionalmente cristiani nei quali, oltre a una nuova evangelizzazione, in certi casi si impone una prima evangelizzazione.

ANALFABETI DELLA FEDE
[47] Ovunque, poi, c’è bisogno di un rinnovato annuncio anche per chi è già battezzato. Tanti europei contemporanei pensano di sapere che cos’è il cristianesimo, ma non lo conoscono realmente. Spesso addirittura gli elementi e le stesse nozioni fondamentali della fede non sono più noti. Molti battezzati vivono come se Cristo non esistesse.

CHIESA ED EBRAISMO
[55] Come per tutto l’impegno della nuova evangelizzazione, anche in ordine all’annuncio del Vangelo della speranza è necessario che si abbia a instaurare un profondo e intelligente dialogo interreligioso, in particolare con l’Ebraismo e con l’Islam. [...]ÊNell’esercitarsi in questo dialogo non si tratta di lasciarsi catturare da una mentalità indifferentista, largamente diffusa, purtroppo, anche tra cristiani, spesso radicata in visioni teologiche non corrette e improntata ad un relativismo religioso che porta a ritenere che « una religione vale l’altra ».
[56] Si tratta piuttosto di prendere più viva coscienza del rapporto che lega la Chiesa al popolo ebraico e del ruolo singolare di Israele nella storia della salvezza. [...]Occorre riconoscere le comuni radici che intercorrono tra il cristianesimo e il popolo ebraico, chiamato da Dio a un’alleanza che rimane irrevocabile (Rom 11, 29),Êavendo raggiunto la definitiva pienezza in Cristo.
È, quindi, necessario favorire il dialogo con l’ebraismo, sapendo che esso è di fondamentale importanza per l’autocoscienza cristiana e per il superamento delle divisioni tra le Chiese, e operare perché fiorisca una nuova primavera nelle relazioni reciproche. Ciò comporta che ogni comunità ecclesiale abbia ad esercitarsi, per quanto le circostanze lo permetteranno, nel dialogo e nella collaborazione con i credenti della religione ebraica. Tale esercizio implica, tra l’altro, che si faccia memoria della parte che i figli della Chiesa hanno potuto avere nella nascita e nella diffusione di un atteggiamento antisemita nella storia e di ciò si chieda perdono a Dio, favorendo in ogni modo incontri di riconciliazione e di amicizia con i figli di Israele.ÊSarà peraltro doveroso, in tale contesto, ricordare anche i non pochi cristiani che, a costo a volte della vita, hanno aiutato e salvato, soprattutto in periodi di persecuzione, questi loro « fratelli maggiori ».

CHIESA E ISLAM
[57] Si tratta pure di lasciarsi stimolare a una migliore conoscenza delle altre religioni, per poter instaurare un fraterno colloquio con le persone che aderiscono ad esse e vivono nell’Europa di oggi. In particolare, è importante un corretto rapporto con l’Islam. Esso, come è più volte emerso in questi anni nella coscienza dei vescovi europei, deve essere condotto con prudenza, con chiarezza di idee circa le sue possibilità e i suoi limiti, e con fiducia nel progetto di salvezza di Dio nei confronti di tutti i suoi figli.ÊÈ necessario, tra l’altro, avere coscienza del notevole divario tra la cultura europea, che ha profonde radici cristiane, e il pensiero musulmano.
A questo riguardo, è necessario preparare adeguatamente i cristiani che vivono a quotidiano contatto con i musulmani a conoscere in modo obiettivo l’Islam e a sapersi confrontare con esso; tale preparazione deve riguardare, in particolare, i seminaristi, i presbiteri e tutti gli operatori pastorali.

RECIPROCITÀ
[57] È peraltro comprensibile che la Chiesa, mentre chiede che le istituzioni europee abbiano a promuovere la libertà religiosa in Europa, abbia pure a ribadire che la reciprocità nel garantire la libertà religiosa sia osservata anche in Paesi di diversa tradizione religiosa, nei quali i cristiani sono minoranza.
In questo ambito, si comprende la sorpresa e il sentimento di frustrazione dei cristiani che accolgono, per esempio in Europa, dei credenti di altre religioni dando loro la possibilità di esercitare il loro culto, e che si vedono interdire l’esercizio del culto cristiano nei Paesi in cui questi credenti maggioritari hanno fatto della loro religione l’unica ammessa e promossa. La persona umana ha diritto alla libertà religiosa e tutti, in ogni parte del mondo, devono essere immuni dalla coercizione da parte di singoli, di gruppi sociali e di qualsivoglia potestà umana.

LITURGIA E MISTERO
[70] Alcuni sintomi rivelano un affievolimento del senso del mistero nelle stesse celebrazioni liturgiche, che ad esso dovrebbero introdurre. È, quindi, urgente che nella Chiesa si ravvivi l’autentico senso della liturgia.

PECCATO E SACRAMENTO DELLA RICONCILIAZIONE
[76] Con l’Eucaristia, anche il sacramento della Riconciliazione deve svolgere un ruolo fondamentale nel recupero della speranza: l’esperienza personale del perdono di Dio per ciascuno di noi è, infatti, fondamento essenziale di ogni speranza per il nostro futuro. Una delle radici della rassegnazione che assale molti oggi va ricercata nell’incapacità di riconoscersi peccatori e di lasciarsi perdonare, una incapacità spesso dovuta alla solitudine di chi, vivendo come se Dio non esistesse, non ha nessuno a cui chiedere perdono.
Perciò è necessario che nella Chiesa in Europa il sacramento della Riconciliazione venga rivitalizzato. Va ribadito, tuttavia, che la forma del Sacramento è la confessione personale dei peccati seguita dall’assoluzione individuale. Questo incontro tra il penitente e il sacerdote deve essere favorito, in qualsiasi forma prevista del rito del Sacramento. Di fronte alla diffusa perdita del senso del peccato e all’affermarsi di una mentalità segnata da relativismo e soggettivismo in campo morale, occorre che in ogni comunità ecclesiale si provveda a una seria formazione delle coscienze.ÊI padri sinodali hanno insistito perché si riconosca chiaramente la verità del peccato personale e la necessità del perdono personale di Dio tramite il ministero del sacerdote. Le assoluzioni collettive non sono un modo alternativo di amministrare il sacramento della Riconciliazione.

FAMIGLIA E COPPIE DI FATTO
[90] La Chiesa in Europa, in ogni sua articolazione, deve riproporre con fedeltà la verità del matrimonio e della famiglia. [...] Non pochi fattori culturali, sociali e politici concorrono, infatti, a provocare una crisi sempre più evidente della famiglia. [...] Il valore dell’indissolubilità matrimoniale viene sempre più misconosciuto; si chiedono forme di riconoscimento legale delle convivenze di fatto, equiparandole ai matrimoni legittimi; non mancano tentativi di accettare modelli di coppia dove la differenza sessuale non risulta essenziale.

DIVORZIATI E RISPOSATI
[93] La Chiesa è chiamata a venire incontro, con bontà materna, anche a quelle situazioni matrimoniali nelle quali è facile venga meno la speranza. In particolare, di fronte a tante famiglie disfatte, la Chiesa si sente chiamata non ad esprimere un giudizio severo e distaccato, ma piuttosto ad immettere nelle pieghe di tanti drammi umani la luce della parola di Dio, accompagnata dalla testimonianza della sua misericordia. È questo lo spirito con cui la pastorale familiare cerca di farsi carico anche delle situazioni dei credenti che hanno divorziato e si sono risposati civilmente. Essi non sono esclusi dalla comunità; sono anzi invitati a partecipare alla sua vita, facendo un cammino di crescita nello spirito delle esigenze evangeliche. La Chiesa, senza tacere loro la verità del disordine morale oggettivo in cui si trovano e delle conseguenze che ne derivano per la pratica sacramentale, intende mostrare loro tutta la sua materna vicinanza.

ABORTO ED EUTANASIA
[95] Con il calo della natalità vanno ricordati altri segni che concorrono a configurare l’eclissi del valore della vita e a scatenare una specie di congiura contro di essa. Tra questi va tristemente annoverata, anzitutto, la diffusione dell’aborto, anche utilizzando preparati chimico-farmacologici che lo rendono possibile senza dover ricorrere al medico e sottraendolo a ogni forma di responsabilità sociale; ciò è favorito dalla presenza nell’ordinamento di molti Stati del Continente di legislazioni permissive di un gesto che rimane un abominevole delitto e costituisce sempre un disordine morale grave. Né si possono dimenticare gli attentati perpetrati attraverso interventi sugli embrioni umani che, pur mirando a scopi in sé legittimi, ne comportano inevitabilmente l’uccisione o mediante un utilizzo scorretto delle tecniche diagnostiche pre-natali, messe al servizio non di terapie precoci a volte possibili, ma di una mentalità eugenetica, che accetta l’aborto selettivo.
Va pure menzionata la tendenza, che si registra in alcune parti dell’Europa, a ritenere che possa essere permesso porre fine consapevolmente alla propria vita o a quella di un altro essere umano: di qui la diffusione dell’eutanasia mascherata, o attuata apertamente, per la quale non mancano richieste e tristi esempi di legalizzazione.

IMMIGRAZIONE
[101] È responsabilità delle autorità pubbliche esercitare il controllo dei flussi migratori in considerazione delle esigenze del bene comune. L’accoglienza deve sempre realizzarsi nel rispetto delle leggi e quindi coniugarsi, quando necessario, con la ferma repressione degli abusi.
[102] Occorre pure impegnarsi per individuare forme possibili di genuina integrazione degli immigrati legittimamente accolti nel tessuto sociale e culturale delle diverse nazioni europee. Essa esige che non si abbia a cedere all’indifferentismo circa i valori umani universali e che si abbia a salvaguardare il patrimonio culturale proprio di ogni nazione.

LA CHIESA NELLA NUOVA EUROPA
[114] Alle Istituzioni europee e ai singoli Stati dell’Europa chiedo insieme con i Padri Sinodali di riconoscere che un buon ordinamento della società deve radicarsi in autentici valori etici e civili il più possibile condivisi dai cittadini, osservando che tali valori sono patrimonio, in primo luogo, dei diversi corpi sociali. È importante che le Istituzioni e i singoli Stati riconoscano che, tra questi corpi sociali, vi sono anche le Chiese e le Comunità ecclesiali e le altre organizzazioni religiose. A maggior ragione, quando esistono già prima della fondazione delle nazioni europee, non sono riducibili a mere entità private, ma operano con uno specifico spessore istituzionale, che merita di essere preso in seria considerazione. Nello svolgimento dei loro compiti, le diverse istituzioni statali ed europee devono agire nella consapevolezza che i loro ordinamenti giuridici saranno pienamente rispettosi della democrazia, se prevederanno forme di sana collaborazioneÊcon le Chiese e le organizzazioni religiose.
Alla luce di quanto ho appena sottolineato, desidero ancora una volta rivolgermi ai redattori del futuro trattato costituzionale europeo, affinché in esso figuri un riferimento al patrimonio religioso e specialmente cristiano dell’Europa. Nel pieno rispetto della laicità delle istituzioni, mi auguro soprattutto che siano riconosciuti tre elementi complementari: il diritto delle Chiese e delle comunità religiose di organizzarsi liberamente, in conformità ai propri statuti e alle proprie convinzioni; il rispetto dell’identità specifica delle Confessioni religiose e la previsione di un dialogo strutturato fra l’Unione Europea e le Confessioni medesime; il rispetto dello statuto giuridico di cui le Chiese e le istituzioni religiose già godono in virtù delle legislazioni degli Stati membri dell’Unione. [...]
[116] Una e universale, pur presente nella molteplicità delle Chiese particolari, la Chiesa cattolica può offrire un contributo unico all’edificazione di un’Europa aperta al mondo. Dalla Chiesa cattolica, infatti, viene un modello di unità essenziale nella diversità delle espressioni culturali, la consapevolezza dell’appartenenza a una comunità universale che si radica ma non si estingue nelle comunità locali, il senso di quello che unisce aldilà di quello che distingue.
[117] Nelle relazioni con i pubblici poteri, la Chiesa non domanda un ritorno a forme di Stato confessionale. Allo stesso tempo, essa deplora ogni tipo di laicismo ideologico o di separazione ostile tra le istituzioni civili e le confessioni religiose.
Per parte sua, nella logica della sana collaborazione tra comunità ecclesiale e società politica, la Chiesa cattolica è convinta di poter dare un singolare contributo alla prospettiva dell’unificazione offrendo alle istituzioni europee, in continuità con la sua tradizione e in coerenza con le indicazioni della sua dottrina sociale, l’apporto di comunità credenti che cercano di realizzare l’impegno di umanizzazione della società a partire dal Vangelo vissuto nel segno della speranza. In quest’ottica, è necessaria una presenza di cristiani, adeguatamente formati e competenti, nelle varie istanze e Istituzioni europee, per concorrere, nel rispetto dei corretti dinamismi democratici e attraverso il confronto delle proposte, a delineare una convivenza europea sempre più rispettosa di ogni uomo e di ogni donna e, perciò, conforme al bene comune.

EUROPA, NON AVERE PAURA!
[120] L’Europa ha bisogno di un salto qualitativo nella presa di coscienza della sua eredità spirituale. Tale spinta non le può venire che da un rinnovato ascolto del Vangelo di Cristo. Tocca a tutti i cristiani impegnarsi per soddisfare questa fame e sete di vita.
Per questo, la Chiesa sente il dovere di rinnovare con vigore il messaggio di speranza affidatole da Dio e ripete all’Europa: « Il Signore tuo Dio in mezzo a te è un Salvatore potente! » (Sof 3, 17). Il suo invito alla speranza non si fonda su un’ideologia utopistica; è al contrario l’intramontabile messaggio della salvezza proclamato da Cristo (Mc 1, 15). Con l’autorità che le viene dal suo Signore, la Chiesa ripete all’Europa di oggi: Europa del terzo millennio « non lasciarti cadere le braccia! » (Sof 3, 16); non cedere allo scoraggiamento, non rassegnarti a modi di pensare e di vivere che non hanno futuro, perché non poggiano sulla salda certezza della Parola di Dio!
Riprendendo questo invito alla speranza, ancora oggi ripeto a te, Europa che sei all’inizio del terzo millennio: Ritorna te stessa, sii te stessa, riscopri le tue origini, ravviva le tue radici. Nel corso dei secoli, hai ricevuto il tesoro della fede cristiana. Esso fonda la tua vita sociale sui principi tratti dal Vangelo e se ne scorgono le tracce dentro le arti, la letteratura, il pensiero e la cultura delle tue nazioni. Ma questa eredità non appartiene soltanto al passato; essa è un progetto per l’avvenire da trasmettere alle generazioni future, poiché è la matrice della vita delle persone e dei popoli che hanno forgiato insieme il Continente europeo.
[121] Non temere! Il Vangelo non è contro di te, ma è a tuo favore. Lo conferma la constatazione che l’ispirazione cristiana può trasformare l’aggregazione politica, culturale ed economica in una convivenza nella quale tutti gli europei si sentano a casa propria e formino una famiglia di Nazioni, cui altre regioni del mondo possono fruttuosamente ispirarsi.Abbi fiducia! Nel Vangelo, che è Gesù, troverai la speranza solida e duratura a cui aspiri. È una speranza fondata sulla vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte. Questa vittoria Egli ha voluto che sia tua per la tua salvezza e la tua gioia.

IL SEGNO DELL´APOCALISSE
[122] La vicenda storica della Chiesa è accompagnata da segni che sono sotto gli occhi di tutti, ma che chiedono di essere interpretati. Tra questi l’Apocalisse pone il segno grandioso apparso nel cielo, che parla di lotta tra la donna e il drago.
La donna vestita di sole che, soffrendo, sta per partorire (Ap 12, 1-2) può essere vista come l’Israele dei profeti che genera il Messia « destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro » (Ap 12, 5; cfr Sal 2, 9). Ma è anche la Chiesa, popolo della nuova Alleanza, in balia della persecuzione e tuttavia protetta da Dio. Il drago è « il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra » (Ap 12, 9). La lotta è impari: sembra avvantaggiato il dragone, tanta è la sua tracotanza di fronte alla donna inerme e sofferente. In realtà ad essere vincitore è il figlio partorito dalla donna. In questa lotta c’è una certezza: il grande drago è già stato sconfitto, « fu precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli » (Ap 12, 9). Lo hanno vinto il Cristo, Dio fatto uomo, con la sua morte e risurrezione, e i martiri « per mezzo del sangue dell’Agnello e grazie alla testimonianza del loro martirio » (Ap 12, 11). E anche quando il drago continuerà nella sua opposizione, non c’è da temere, perché la sua sconfitta è già avvenuta.
[123] Questa è la certezza che anima la Chiesa nel suo cammino, mentre nella donna e nel drago rilegge la sua storia di sempre.

Le gioie soavi di Maria, tutte le felicità di Maria si concentrano nella contemplazione dele gioie di Gesù

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Publié dans:immagini sacre |on 1 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

DAL LIBRO DI BENEDETTO XVI « LA GIOIA DELLA FEDE »: ECCO UNA RIFLESSIONE SUL SENSO DELLA VITA ETERNA

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LA GIOIA DELLA FEDE

DAL LIBRO DI BENEDETTO XVI « LA GIOIA DELLA FEDE »: ECCO UNA RIFLESSIONE SUL SENSO DELLA VITA ETERNA

Dobbiamo adesso domandarci esplicitamente: la fede cristiana è anche per noi oggi una speranza che trasforma e sorregge la nostra vita?

È essa per noi «performativa» – un messaggio che plasma in modo nuovo la vita stessa, o è ormai soltanto «informazione» che, nel frattempo, abbiamo accantonata e che ci sembra superata da informazioni più recenti? Nella ricerca di una risposta vorrei partire dalla forma classica del dialogo con cui il rito del Battesimo esprimeva l’accoglienza del neonato nella comunità dei credenti e la sua rinascita in Cristo.
Il sacerdote chiedeva innanzitutto quale nome i genitori avevano scelto per il bambino, e continuava poi con la domanda: «Che cosa chiedi alla Chiesa?». Risposta: «La fede». «E che cosa ti dona la fede?»
Stando a questo dialogo, i genitori cercavano per il bambino l’accesso alla fede, la comunione con i credenti, perché vedevano nella fede la chiave per «la vita eterna».
Di fatto, oggi come ieri, di questo si tratta nel Battesimo, quando si diventa cristiani: non soltanto di un atto di socializzazione entro la comunità, non semplicemente di accoglienza nella Chiesa. I genitori si aspettano di più per il battezzando: si aspettano che la fede, di cui è parte la corporeità della Chiesa e dei suoi sacramenti, gli doni la vita – la vita eterna. Fede è sostanza della speranza. Ma allora sorge la domanda: Vogliamo noi davvero questo – vivere eternamente? Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo. Continuare a vivere in eterno – senza fine – appare più una condanna che un dono.
La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine – questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile. È precisamente questo che, per esempio, dice il Padre della Chiesa Ambrogio nel discorso funebre per il fratello defunto Satiro: «È vero che la morte non faceva parte della natura, ma fu resa realtà di natura; infatti Dio da principio non stabilì la morte, ma la diede quale rimedio. [...] A causa della trasgressione, la vita degli uomini cominciò ad essere miserevole nella fatica quotidiana e nel pianto insopportabile. Doveva essere posto un termine al male, affinché la morte restituisse ciò che la vita aveva perduto. L’immortalità è un peso piuttosto che un vantaggio, se non la illumina la grazia». Già prima Ambrogio aveva detto: «Non dev’essere pianta la morte, perché è causa di salvezza…». Qualunque cosa sant’Ambrogio intendesse dire precisamente con queste parole, è vero che l’eliminazione della morte o anche il suo rimando quasi illimitato metterebbe la terra e l’umanità in una condizione impossibile e non renderebbe neanche al singolo stesso un beneficio.
Ovviamente c’è una contraddizione nel nostro atteggiamento, che rimanda ad una contraddittorietà interiore della nostra stessa esistenza. Da una parte, non vogliamo morire; soprattutto chi ci ama non vuole che moriamo. Dall’altra, tuttavia, non desideriamo neppure di continuare ad esistere illimitatamente e anche la terra non è stata creata con questa prospettiva. Allora, che cosa vogliamo veramente? Questo paradosso del nostro stesso atteggiamento suscita una domanda più profonda: che cosa è, in realtà, la «vita»? E che cosa significa veramente «eternità»? Ci sono dei momenti in cui percepiamo all’improvviso: sì, sarebbe propriamente questo – la «vita» vera – così essa dovrebbe essere. A confronto, ciò che nella quotidianità chiamiamo «vita», in verità non lo è. Agostino, nella sua ampia lettera sulla preghiera indirizzata a Proba, una vedova romana benestante e madre di tre consoli, scrisse una volta: In fondo vogliamo una sola cosa – «la vita beata», la vita che è semplicemente vita, semplicemente «felicità». Non c’è, in fin dei conti, altro che chiediamo nella preghiera.
Verso nient’altro ci siamo incamminati – di questo solo si tratta.
Ma poi Agostino dice anche: guardando meglio, non sappiamo affatto che cosa in fondo desideriamo, che cosa vorremmo propriamente. Non conosciamo per nulla questa realtà; anche in quei momenti in cui pensiamo di toccarla non la raggiungiamo veramente. «Non sappiamo che cosa sia conveniente domandare», egli confessa con una parola di san Paolo (Rm 8,26). Ciò che sappiamo è solo che non è questo.
Tuttavia, nel non sapere sappiamo che questa realtà deve esistere. «C’è dunque in noi una, per così dire, dotta ignoranza» (docta ignorantia), egli scrive. Non sappiamo che cosa vorremmo veramente; non conosciamo questa «vera vita»; e tuttavia sappiamo, che deve esistere un qualcosa che noi non conosciamo e verso il quale ci sentiamo spinti. Penso che Agostino descriva lì in modo molto preciso e sempre valido la situazione essenziale dell’uomo, la situazione da cui provengono tutte le sue contraddizioni e le sue speranze. Desideriamo in qualche modo la vita stessa, quella vera, che non venga poi toccata neppure dalla morte; ma allo stesso tempo non conosciamo ciò verso cui ci sentiamo spinti. Non possiamo cessare di protenderci verso di esso e tuttavia sappiamo che tutto ciò che possiamo sperimentare o realizzare non è ciò che bramiamo. Questa «cosa» ignota è la vera «speranza» che ci spinge e il suo essere ignota è, al contempo, la causa di tutte le disperazioni come pure di tutti gli slanci positivi o distruttivi verso il mondo autentico e l’autentico uomo.
La parola «vita eterna» cerca di dare un nome a questa sconosciuta realtà conosciuta. Necessariamente è una parola insufficiente che crea confusione. «Eterno», infatti, suscita in noi l’idea dell’interminabile, e questo ci fa paura; «vita» ci fa pensare alla vita da noi conosciuta, che amiamo e non vogliamo perdere e che, tuttavia, è spesso allo stesso tempo più fatica che appagamento, cosicché mentre per un verso la desideriamo, per l’altro non la vogliamo. Possiamo soltanto cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della quale siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l’eternità non sia un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell’immergersi nell’oceano dell’infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più.
Possiamo soltanto cercare di pensare che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastità dell’essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia. Così lo esprime Gesù nel Vangelo di Giovanni: «Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia»
(16,22). Dobbiamo pensare in questa direzione, se vogliamo capire a che cosa mira la speranza cristiana, che cosa aspettiamo dalla fede, dal nostro essere con Cristo.

ALZATE GLI OCCHI AL CIELO (Don Bosco)

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=126985

ALZATE GLI OCCHI AL CIELO (Don Bosco)

Io piango nel rimirare la luna che da tanti secoli compare con regolarità a rischiarare le tenebre della notte, senza mai disobbedire agli ordini del Creatore, mentre io che sono tanto giovane, io che sono ragionevole l’ho disobbedito tante volte…

Se la conoscenza di Dio è fondamentale per poterlo amare, il modo più semplice per conoscerlo, che Don Bosco indica ai suoi ragazzi, è quello di scoprirne la bellezza attraverso la contemplazione del creato. La sua meditazione sembra risentire delle riflessioni di Mamma Margherita, quando aiutava i suoi bambini a vedere Dio nella natura che li circondava, a vedere l’amore di Dio creatore per le sue creature: «Se la notte era bella e il cielo stellato Mamma Margherita diceva: “È Dio che ha creato il mondo e ha messo lassù tante stelle”. Quando i prati erano pieni di fiori, mormorava: “Quante cose belle ha fatto il Signore per noi”» (Don Bosco, una biografia nuova, Elledici).
L’eco di questa esperienza di Dio, Don Bosco sembra trasmetterla nel libro di preghiera per i suoi ragazzi: «Alzate gli occhi, o figlioli miei, ed osservate quanto esiste nel cielo e sulla terra. Il sole, la luna, le stelle, l’aria, l’acqua, il fuoco sono tutte cose che un tempo non esistevano. Dio con la sua onnipotenza tutte le trasse dal niente creandole, e perciò si chiama Creatore».
Crediamo quanto mai opportuno educare i giovani alla contemplazione del creato nel quale si riflette la bellezza del Creatore. È il primo libro che i ragazzi e i giovani devono imparare a leggere. Dobbiamo chiedere loro di alzare gli occhi, che normalmente i ragazzi non usano per guardarsi intorno, e ammirare i panorami che la natura presenta. Aiutarli a vivere momenti intensi di preghiera, cioè di colloquio spontaneo con Lui, immergendo i loro occhi nella maestosità delle montagne con il candore delle loro nevi e dei ghiacciai, o il perdersi nell’orizzonte del mare, o nei colori variegati delle colline, o nella trasparenza dei laghi di montagna.
Sarebbe bello che i diversi movimenti ecologisti, che si presentano ai nostri giorni come i custodi del creato e di una certa etica di difesa della natura, aiutassero i loro membri a risalire al Creatore dell’universo e scoprissero la sua bellezza.
Questo primo invito alla contemplazione del creato doveva avere impressionato in particolare Michele Magone, questo povero tredicenne sbandato di Carmagnola, che incontra Don Bosco e tutto cambia nella sua giovane esistenza.
È già stato richiamato questo episodio della sua vita, avvenuto durante una delle famose passeggiate autunnali, quando Michele si trova ai Becchi, in una bella sera stellata di ottobre. I suoi compagni dormono sul fienile della casa di Giuseppe, mentre Michele è seduto a terra con le spalle appoggiate al muretto del cortile e fissa il cielo e piange. Don Bosco dalla sua cameretta lo sente e scende a consolarlo e gli domanda:
«– Che hai Magone? ti senti male? – Io piango nel rimirare la luna che da tanti secoli compare con regolarità a rischiarare le tenebre della notte, senza mai disobbedire agli ordini del Creatore, mentre io che sono tanto giovane, io che sono ragionevole, che avrei dovuto essere fedelissimo alle leggi del mio Dio, l’ho disobbedito tante volte e l’ho in mille modi offeso».
Veramente il peccato è il primo disastro ecologico che inquina il mondo ed è da tanti ignorato.
L’uomo capolavoro del creato
Continua Don Bosco: «Questo Dio, che sempre fu e sempre sarà, dopo aver creato le cose che nel cielo e nella terra si contengono, diede esistenza all’uomo, il quale di tutte le creature visibili è la più perfetta. Onde i nostri occhi, la bocca, la lingua, le orecchie, le mani, i piedi sono tutti doni del Signore».
Veramente l’uomo è il capolavoro del creato e il suo corpo sembra riassumere in sé tutte le meraviglie delle altre creature, esaltandone l’ordine e l’armonia. Che orrore dunque il pensare alle manipolazioni genetiche già sull’embrione umano e poi alle varie degradazioni dell’amore cui viene sottoposto il corpo umano.
Da questa riflessione sulla bellezza di Dio, che si manifesta nelle sue creature ed in particolare nell’uomo, nasce spontanea la necessità di educare i giovani a ringraziare per il dono della vita e a mai metterla in pericolo; ad apprezzare l’uso degli occhi che sono le finestre dell’anima e l’uso della lingua, questo piccolo membro che può diffondere tanto bene fino a manifestare le espressioni più alte dell’amore, o a fare tanto male. Così si può dire di tutti gli altri sensi, dei quali sentiamo la necessità specie quando vengono meno, mentre bisogna evitare di servirsene per operare il male.
Il gusto del bello
Abbiamo urgente, assoluto bisogno di recuperare il senso del bello nella nostra vita. La bellezza risulta essere una straordinaria forza che ci attira verso Dio, che è in sé armonia, bellezza, pienezza, verità.
Ci pare dunque doveroso aiutare i nostri giovani a ritrovare il gusto del bello attraverso all’ordine, alla pulizia, all’abito bello, indossato in particolare nel giorno del Signore, mentre una certa moda in questi decenni ha propagandato il brutto, a partire dall’abito sporco, strappato, scolorito, sensuale. È ora di reagire a queste mode che allontanano da Dio.
L’abito più bello è quello di un giovane abitato dalla grazia di Dio, con quegli occhi trasparenti come dei laghetti di montagna, nel quale si può vedere fino in fondo. Come è bello da riscoprire questo abito spirituale. Don Bosco è stato capace di rivestire di questo abito i suoi poveri ragazzi ricoperti di stracci. È l’abito dal quale traspare l’anima spirituale e tutta la sua vita interiore.
Chi salva l’anima salva tutto
Continua Don Bosco richiamando ai suoi giovani la creazione dell’uomo: «L’uomo si distingue da tutti gli altri animali specialmente perché è fornito di un’anima la quale pensa, ragiona, vuole e conosce ciò che è bene e ciò che è male.
Questa anima, essendo un puro spirito, non può morire col corpo; ma, quando questo sarà portato al sepolcro, essa andrà a cominciare un’altra vita, che non finirà più. Se fece bene, sarà sempre beata con Dio in Paradiso, dove godrà tutti i beni in eterno, se operò male, verrà punita con un terribile castigo nell’inferno dove patirà per sempre il fuoco e ogni sorta di pene.
Badate per altro, o miei figlioli, che noi siamo tutti creati per il Paradiso, e Dio, che è padre amoroso, condanna all’inferno soltanto chi se lo merita per i suoi peccati. Oh, quanto ci ama il Signore, e quanto desidera che noi facciamo buone opere per poterci poi rendere partecipi di quella grande felicità, che tiene a tutti preparata in eterno nel Cielo!»
La bellezza di Dio si riflette in particolare nell’uomo creato a sua immagine e somiglianza e noi lo vediamo soprattutto nella sua espressione spirituale che è l’anima. Don Bosco vedeva le meraviglie che Dio operava nei cuori di tanti animi buoni dei suoi giovani, mentre era angosciato davanti ai pericoli che potevano incontrare di perdersi. Anche di notte in sogno, combatteva per loro per la salvezza della loro anima. Ancora pochi mesi prima di morire scriveva su delle immagini: «Chi salva l’anima salva tutto, chi perde l’anima perde tutto».
Aiutava per questo i suoi ragazzi a meditare sulla vita oltre la morte e a pensare spesso al Paradiso e alla felicità eterna e alla possibilità di perderlo divenendo schiavi dei propri peccati, garanzia dell’inferno già in questa vita.
Quante persone colte, ricche e potenti non pensano mai alla vita oltre la morte, mentre fanno dei sacrifici esagerati per i beni di questo mondo. Per loro risuonano ancora le parole: «A che serve guadagnare il mondo, se uno perde la sua anima?»

Publié dans:meditazioni |on 1 juillet, 2014 |Pas de commentaires »
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