Archive pour juillet, 2014

I BABILONESI

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I BABILONESI

La civiltà babilonese lega le proprie origini ed il proprio splendore alla città di Babilonia, che letteralmente significa « porta del Dio », sulla cui fondazione aleggiano svariate ipotesi, secondo quanto ci hanno tramandato le fonti storiche più accreditate: Erodoto, Diodoro Siculo, Strabone, Flavio, Berosso, vari libri della Bibbia e testi cuneiformi babilonesi. La città di Babilonia è citata già intorno al 1500 a.C., quando nell’area mesopotamica gli ittiti fecero la loro prima comparsa. Una delle ipotesi fa risalire la fondazione della città ad un’ignota regina Nitocris. Un’altra vuole che la regina Semiramide, illuminata consorte del re Nino, primo re assiro, verso il 900 a.C., abbia fatto erigere o ampliare ed abbellire questa città, bagnata dall’Eufrate, per offuscare in parte il prestigio del marito. Il primo re di Babilonia citato dalle fonti è Nabonassar, vissuto tra il 747 a.C. ed il 734 a.C., che poi ha dovuto lasciare il posto all’egemonia assira, iniziata con il re Tiglat Pileser III, che mosse guerra anche contro i caldei. Il nome della città è comunque legato al grande re Nabucodonosor II, ispiratore tra l’altro del Nabucco di Giuseppe Verdi, che ha regnato dal 605 a.C. al 562 a.C.. La Mesopotamia, per la sua fertilità, ricchezza di prodotti e abbondanza di acque, è stata sempre una terra che ha attratto varie popolazioni. Lungo il corso del Tigri e dell’Eufrate hanno prosperato diverse civiltà, portando cultura e scienza in questa regione. Già intorno al 3600 a.C., risiedeva una popolazione, conosciuta come « gente di Obeid », pacifica e abbastanza progredita. Successivamente nel 3500 a.C., dall’Asia centrale migrarono i Sumeri, occupando la parte meridionale della Mesopotamia. Mentre questi si stabiliscono a ridosso della zona costiera del Golfo Persico, fondando una città sacra come Nippur, lungo il mare, in una regione paludosa, che prenderà il nome di Caldea, si stabiliranno i Caldei, originari delle regioni del Sinai o dall’Arabia e grandi conoscitori della magia. E’ dimostrato che questo popolo ebbe rapporti molto stretti con gli egizi, i quali appresero arti esoteriche, scienze astronomiche e modelli religiosi. In questo periodo viene fondata la grande e splendida città di Ur dei Caldei, ricca dei famosi Zikurrat, da cui sembra sia originario Abramo. Entrambi i popoli portarono conoscenze astrologiche, matematiche ed un protosistema legislativo. Trasmettono ai loro successori mesopotamici una profonda tradizione religiosa che sarà ripresa dai babilonesi. Ad est della Caldea, invece, c’è il territorio dell’Elam con capitale Susa, il cui popolo sarà sempre in lotta con gli assiri e diventerà alleato dei babilonesi. Essi gestiranno il controllo della Persia sud-occidentale per diverso tempo e saranno protagonisti della storia babilonese. Dunque, la bassa mesopotamia si compone della Caldea a sud, lungo il mare sul Golfo Persico; dell’Elam, ad est; del Sumer, a nord della Caldea, tra le città di Ur e Nippur. Più a sud, proprio sulla costa a ridosso della Caldea, nella parte meridionale dell’attuale Kuwait viene fondato il Paese del Mare, il cui popolo è di origine araba. In questo contesto, a nord di Sumer, si inserisce una popolazione di origine semita, il cui re, Sargon (da cui Sargonidi o Accadi), fondò la città di Accad che acquisì più importanza di Ur. I sargonidi effettuarono delle scorrerie anche in Anatolia ed in Iran, distruggendo alcune città protoittite e protoiraniche. Questa civiltà sopravviverà nel « regno di Akkad », da cui, in effetti, avrà origine il popolo babilonese. Tra il 2300 ed il 2000 a.C. gli Amorrei provenirono dalla regione impervia del Sinai verso la Mesopotamia, sconfiggendo i sargonidi e dando i natali ad Hammurabi, famoso per le tavole delle leggi, dalla cui dinastia proverranno i fondatori di Babilonia. Questa popolazione si stabilirà nella mesopotamia occidentale a sud della Siria. Da questa civiltà derivò anche quella degli Aramei, che si insediarono prevalentemente nel regno di Giuda. E’ a loro che si deve l’origine della lingua aramaica, diffusa presso tutti i popoli semiti. Successivamente, a nord di questa regione, si insediò il popolo dei Mitanni, di cui si ricorda il re Tushratta che aveva contatti con i regnanti egiziani ed ittiti. Questo popolo trae origine dagli Hurriti, provenienti dalle regioni caucasiche che avevano come centro principale la città di Urartu, che diede origine al regno di Urartu, corrispondente all’attuale Armenia. Gli urarti conobbero un periodo di dominazione della regione corrispondente al nord dell’Iran e conservarono sempre una propria indipendenza, favoriti anche dalla conformazione geografica del territorio, ricco di montagne e vallate fertili. Intorno al 1700 a.C. gli hurriti sottomisero un po’ tutta la mesopotamia ed invasero anche il regno anatolico degli Ittiti. Dagli hurriti hanno avuto probabilmente origine gli Hyksos, popolazione che conquistò l’Egitto e sotto la quale gli ebrei si trasferirono sul delta del Nilo. Le fonti storiche ci raccontano del popolo dei Cassiti, di origine asiatica, provenienti dalle montagne nord-iraniche e paragonabili ai barbari di età romana, che intorno al 1700 a.C. si stabilirono approssimativamente nell’area corrispondente all’Assiria e al nord di Babilonia, ingaggiando diverse lotte con il grande Hammurabi. Essi ebbero anche un periodo di dominazione nella regione babilonese, detto « dinastie di età cassita », che andò dal 1530 a.C. al 1080 a.C. ed ebbe come re: Agumkakrime, Karaindas, Kurigalzu I e II, Burnaburias II. Tale popolo venne sconfitto dagli elamiti, che, in segno di vittoria, portarono la statua del dio Marduk da Babilonia a Susa. Successivamente saranno gli assiri a riprendere il potere nella regione ed a riportare il dio babilonese nella sua dimora abituale. Intorno all’anno 1500 a.C., saranno gli Ittiti a controllare la parte nord-occidentale della mesopotamia, conquistando il regno dei mitanni ed ingaggiando una lotta contro gli assiri, nella quale cercarono di coinvolgere anche i babilonesi. Rimangono comunque in vita diverse tribù caldee, che delimiteranno il territorio della Caldea: Bit – Amukani, Bit – Dakkuri, Bit – Jakin, Bit – Sha’alla, Bit – Shilani, Larak. Il termine Bit sta ad indicare l’espressione « gente di… ». Queste tribù, che erano governate dagli sceicchi e che non hanno avuto mai uno spirito unitario, troveranno il loro rappresentante in Merodach Baladan, eroe e re caldeo, che muoverà più volte guerra all’Assiria tra il 721 a.C. ed il 703 a.C., contribuendo alla nascita della civiltà babilonese. La regione mesopotamica è chiusa al nord dal regno caucasico, con capitale Urartu, abitato da popolazioni di origine scita. Ad est della mesopotamia si erge la Media, con capitale Ectabana, la quale manterrà un’indipendenza dal 728 a.C. al 550 a.C.. Essa, alleandosi con Babilonia, segnerà la fine del regno assiro. Da controllore della Persia, passerà a controllata. Tra il regno di Akkad e quello dell’Urartu-Arameo, nell’884 a.C., fiorisce la civiltà assira, che tramonterà verso il 609 a.C.. Tale cultura, basata sull’imperialismo, sulla conquista e sulle arti belliche, troverà il suo fondatore in Assurnasirpal II e vivrà il suo splendore dal 722 a.C. al 627 a.C., sotto diversi re: Sargon II, Sennacherib, Asarhaddon, Assurbanipal. Questi contribuiranno alla formazione dell’impero assiro, comprendente: Fenicia, Egitto, Israele, regno di Akkad, Aramei, paese del mare e regno di Babilonia. L’Elam e la Caldea manterranno la loro indipendenza, quest’ultima, in particolare, grazie al re Merodach Baladan. Sotto questa civiltà sorgeranno le città di Assur e di Ninive, che diventerà famosa in tutto il mondo conosciuto. L’Assiria effettuerà una serie di scorrerie nell’altopiani iranico ed avrà una sorta di protettorato nei confronti di Babilonia, considerato luogo sacro e patria degli dei. Alcuni re assiri si proclamarono anche re di Babilonia, assumendo due nomi, uno come re di Assiria ed uno come sovrano babilonese. Tutto questo durò fino al 626 a.C., quando Nabopalassar, padre di Nabucodonosor, con l’aiuto di Medi, Elamiti, Aramei e Caldei conquistò l’Assiria. Egli riuscì ad unificare le tribù caldee e si alleò con i diversi popoli limitrofi. Nel 614 a.C. prese Assur, mentre nel 612 a.C. il re medio Ciassarre prese Ninive: l’Assiria divenne possedimento della Media. Il re babilonese riuscì dove non erano riusciti i regnanti assiri, accecati da una mentalità imperialista e non curanti del pericolo che potevano rappresentare i popoli vicini ancora non sottomessi: i Frigi ed i Lidi a nord, i Medi ad est, i Caldei e gli Elamiti a sud ed i Cimmeri (popolazione celto-scita) ad ovest. L’unico modo per gestire questi pericoli era l’alleanza ed il buon governo e questa politica riuscì molto bene alla cultura babilonese. Per anni si è pensato che i babilonesi fossero caldei, ma in realtà, non è così. Sicuramente da questi hanno ereditato conoscenze religiose e culturali.

Attività La posizione geografica del regno di Babilonia, nonché le ricchezze naturali (due fiumi, ricca vegetazione, pascoli fiorenti), favorirono i commerci con i popoli vicini, in particolare con le Indie ed il prosperare di attività agricole e di pastorizia. Numerose furono le eredità prese dai Sumeri. Furono grandi conoscitori dell’astrologia: inventarono un calendario che non si discosta molto da quello impiegato attualmente, individuarono tutte le costellazioni, identificarono la cometa di Halley. Grandi matematici, risolvevano equazioni algebriche di terzo grado e sistemi vari, nonché impostarono il teorema di Talete. Eseguivano calcoli complicati nel campo dell’ingegneria edile. Grandi ingegneri, realizzarono città, templi e palazzi a Babilonia, dove il tempio più famosi erano quelli di Etemenanki ed Esagila, rivestiti d’oro, Borsippa, sede dell’accademia, Kuta, Kish, Larsa, Marad, Bas e Sippar. Babilonia era così bella che conquistò non solo Ciro il Grande, ma anche Alessandro Magno. Tutti la consideravano « l’ombelico del mondo », centro di arte e di cultura. Un esempio è dato dalla maestosa porta di Ishtar, tutta decorata da mattoni policromi, dalla via della processione, dalla torre di Babele, dall’oro che rivestiva i templi ed i palazzi, dai Giardini Pensili, considerati una delle sette meraviglie del mondo, realizzati per la regina Amitis, moglie di Nabucodonosor, figlia del re medio Ciassarre, al fine di ricordarle il verde della sua terra. Nel campo toponomastico, descrivevano in dettaglio tutte le loro opere con piante e calcoli minuziosi: esistono tantissimi reperti con descrizioni dettagliata di alcune zone di Babilonia. Utilizzarono per la scrittura il codice « lineare B » adottato dai Cretesi, implementandolo con la scrittura cuneiforme. Produssero tantissimi libri: ne sono prova i reperti trovati nelle varie biblioteche. Inventarono le Cronache, molto attendibili ed oggettive, in cui venivano riportate le notizie salienti del periodo. Tra queste le informazioni di carattere bellico avevano poca rilevanza, a differenza degli assiri. Questo dimostra che i babilonesi non davano molta importanza alla guerra, piuttosto alla religione ed alla cultura. Dal punto di vista militare avevano grossi eserciti, che si avvalevano del carro da guerra, introdotto dai sumeri e perfezionato dagli assiri, e di macchine da guerra utilizzate per assediare le città.

Società Esistevano una classe regale ed una sacerdotale. Quest’ultima deteneva il controllo su latifondi terrieri e beneficiava dei relativi proventi. Parallelamente vi era anche una classe borghese, risultato dei fiorenti commerci babilonesi. Poco si conosce della condizione femminile e del resto della popolazione. Il tenore di vita era comunque medio alto. Ciò è testimoniato dall’opulenza delle città e dalla presenza di diversi schiavi. Ciascuna città era ben fortificata, basti pensare alle possenti mura di Babilonia. Nabucodonosor, tra l’altro, fece erigere un vallo al confine con la Media, a nord del suo regno, per prevenire eventuali attacchi.

Religione I babilonesi avevano una religione politeista, avente origini orientali. Essi furono molto abili ad impiegare la loro religione per fini politici, facendo diventare Babilonia luogo sacro di spiritualità ed origine del tutto. Attraverso documenti, vengono rielaborati tutti i testi sacri dei sumeri, modificando la realtà, per esaltare il mito di Babilonia, vista come « porta di Dio ». Il mito sumerico di Gilgamesh e quello di Atramhasis vengono rivisitati. Il primo mito si ricollega ad un re sumero vissuto ad Uruk intorno al 2700 a.C., che sperimenta l’esperienza della mortalità umana e compie un viaggio verso la conoscenza perfetta. Tra le sue imprese, Gilgamesh avrebbe ucciso un toro divino, inviato sulla terra dalla dea Ishtar, che opprimeva il proprio popolo. Il secondo mito, invece, richiama il diluvio universale. Secondo la tradizione sumerica, An sovrintendeva tutto ed il cielo, Enlil ed Enki, suoi figli, regnavano rispettivamente sulla terra e sugli abissi. Il primo aveva più potere del fratello, che aveva come figlio Marduk. An crea gli altri dei per lavorare sulla terra, al fine di poter mangiare, ma questi si rifiutano, perché troppo faticoso. Quindi crea l’uomo che rifiuta anche esso di lavorare. Qui si inserisce il mito biblico del paradiso terrestre e della cacciata da parte dell’uomo e della donna. La prima modifica babilonese al testo sacro sta nel fatto che, a questo punto, Enlil propone di mandare sulla terra la pestilenza ed il diluvio per punire la ribellione umana, ma Enki facendo salvare Atramhasis su un’arca. Nell’altro testo sacro babilonese del Enuma Elish si descrive la lotta tra Enlil, geloso del salvataggio dell’uomo, ed Enki. Per vendicarsi, ordina a Tiamat, essere vivente dei mari, invincibile, di generare dei mostri e comandare su tutti gli dei, ma Marduk, figlio, di Enki, lo uccide e riceve in compenso la supremazia su tutti gli dei. Praticamente, attraverso la rivisitazione di questi miti, i sacerdoti babilonesi sostituiscono l’importanza di Enlil, venerato presso i sumeri, con quella di Enki, sacro ai babilonesi, da cui ne consegue una sacralità per il figlio, il dio Marduk. La sacra città sumerica di Eridu, consacrata al dio Enlil, è equiparata integralmente a Babilonia, città sacra ad Enki. Il cuore della religione si sposta da Ur e Nippur a Babilonia, Borsippa e Kuta, al punto che anche gli assiri veneravano gli dei babilonesi, considerandoli come i più grandi ed eccelsi. Nel regno assiro, infatti, si pensava che Ninive fosse il centro politico e Babilonia quello religioso. Dietro questo processo sicuramente c’è una stretta cooperazione con i caldei. Fu questa « rivoluzione » religiosa a decretare il prestigio di Babilonia che in più parti era rappresentata come il centro del mondo e la porta verso il dio Marduk. La grandezza della cultura babilonese sta anche nella produzione di questo modello religioso che segnò le basi del prestigio del proprio popolo e di una filosofia di pensiero, accettata da molte culture orientali. Gli stessi re di Babilonia non si definivano re, a differenza degli assiri, ma pastori di popoli, amministratore della giustizia e servitori degli dei e lo stesso Ciro il Grande, per annettere la città ed il suo impero alla Persia, si proclamò servo di Marduk. Ogni anno a Babilonia si celebrava la festa del Nuovo Anno. Il mito della rinascita è sempre presente nelle religioni orientali. Solo il re poteva cominciare la festa ed era accompagnato dai sacerdoti. Ad un certo punto della festa il gran sacerdote schiaffeggiava il re, per ricordargli di essere umano: se questi piangeva, il dio Marduk concedeva all’impero un anno prosperoso, altrimenti vi erano dei presagi nefasti. Esisteva una trinità babilonese: Marduk, Ishtar e Nabu. Il primo è il padre di tutti. Ishtar richiama il mito fenicio di Balaat e presso i sumeri era venerata come Innin, presso gli Egizi come Iside. Essa era la gran madre di tutti, simboleggiava colei che dava calore, fertilità e sicurezza all’uomo. Nabu era il figlio di Marduk ed era molto vicino all’uomo. Era colui che accompagnava la processione nella festa dell’Anno Nuovo, segno di rinascita e purificazione, che avveniva con l’aiuto di Ishtar. Accanto a questa triade c’erano altre divinità, tra cui si ricorda: Ninurta, che aveva un tempio dedicato a Babilonia e che vegliava sulla città di Borsippa, Nergal, protettore della città di Kuta, Ninrag, protettore del vulcano, Anu, che vegliava sul cielo, Annunaki, protettore della volta celeste ed illuminato da Anu, Igigi, legato al ciclo perpetuo del sorgere e del tramontare.

Sviluppo Il regno di Babilonia conobbe il suo splendore con Nabopalassar, come già detto, che nel 626 a.C., unì le tribù caldee, si alleò con i vari regni limitrofi, nonché con la Media e mosse guerra all’Assiria. Probabilmente egli stesso era un caldeo e per questo fu accettato da tutti. Proseguì le gesta di Merodach Baladan, ricordato da tutti i caldei. Nel 614 a.C. e nel 612 a.C. caddero Assur e Ninive e, dopo la capitolazione della nuova capitale Harran nel 610 a.C., l’Assiria fu divisa tra medi e babilonesi. Nabonassar fa eseguire opere di ammodernamento nelle varie città, non assoggetta i vari popoli, ma li considera alleati, in quanto non si ritiene re, ma pastore di popoli, infine, getta le basi per la fondazione di un impero. In particolare nella località di Karkemish, in Siria, nel 606 a.C., con l’aiuto del figlio Nabucodonosor, sconfigge gli egiziani, che si erano coalizzati con Israele e Fenicia. Da questo momento gran parte del medio oriente è sotto il controllo babilonese, anche se dovranno essere combattute altre guerre e dovranno passare altri anni. Si arriverà al 601 a.C., quando gli egiziani abbandoneranno definitivamente l’area siro-palestinese. A questo punto si sviluppano le vie dei commerci e si forma sempre più ricchezza, con conseguenze positive per l’urbanizzazione ed anche per la cultura babilonese. Dal 605 a.C. al 562 a.C. regnerà Nabucodonosor II, dipinto dai testi biblici come lucifero, in quanto responsabile della deportazione ebrea a Babilonia. A questo proposito, aggiungiamo che la stessa città ci viene rappresentata come un luogo di peccato e degno di distruzione, in base alle profezie di Isaia e Geremia. A Babilonia si associa l’episodio biblico della Torre di Babele, in cui Dio porta tra gli uomini la confusione (da cui il termine babele), per evitare la costruzione della torre che li avvicini alla divinità. Queste mmagini ci fanno capire che sicuramente all’epoca Babilonia rivestiva un ruolo fondamentale tra le città del mondo. Tra l’altro rappresentava il cuore della religione orientale, per cui metterlo in cattiva luce significava anche contrapporre una religione monoteista ad una politeista di origini scite. Nabucodonosor fonderà un impero che va dall’Egitto alla Persia, attraverso la Palestina e la Siria, dalla Lidia (Asia Minore) al Golfo Persico. Controllerà la Media, in qualità di sposo della figlia del re Ciassarre ed, in qualità di garante di un accordo di pace tra quest’ultima e la Lidia, controllerà anche la stessa Lidia. Questo regno sarà ricchissimo e famoso per la cultura e la scienza. Il re babilonese non sottometteva i popoli conquistati, ma lasciava ai re locali al comando ed al popolo i propri usi e costumi. Realizzò un apparato burocratico saldo ed efficiente, basato su collaboratori (gli equivalenti dei ministri) retti e fedeli. Si avvaleva di controllori per monitorare la periferia e controllava anche le attività economiche legate alle proprietà terriere della classe sacerdotale. In poco tempo portò ordine in una situazione caotica, ove comandava solo chi aveva ricchezze. Tuttavia, nel suo regno, l’inflazione era abbastanza alta. Anche la giustizia fu ben amministrata, ribaltando completamente la precedente situazione gestita da una classe ristretta di ricchi. A tale proposito si raccontano casi di condanna esemplare con pene dure, al fine di fornire un monito per chi voleva ripristinare la precedente situazione caotica. Molto religioso, non mancava di partecipare alla festa del nuovo anno. Diffuse e rafforzò il culto del dio Marduk: egli non si proclamava re, ma pastore di popoli, servo degli dei. Circa l’episodio della deportazione degli ebrei bisogna considerare alcuni aspetti. Nel 609 a.C. il re Giosia, simpatizzante per i babilonesi oppure mosso verso l’indipendeza del suo piccolo regno, si oppone all’avanzata degli egiziani, guidati dal faraone Nicho II, corso in aiuto degli assiri, e muore presso Megiddo. Gli egiziani instaureranno in Israele un re anti-babilonese e formeranno una lega con siriani, palestinesi, fenici ed ebrei. Questo esercito sarà poi sconfitto dai babilonesi, come già detto, presso Karkemish. Nel 593 a.C. Gerusalemme, guidata ancora dai filo-egiziani, legati al faraone Psametico II, è assediata dai babilonesi. Il re Joachin, dopo aver resistito, fa atto di sottomissione, ma viene fatto prigioniero e portato a Babilonia con altri notabili ebrei. Tutti verranno trattati bene me riceveranno uno stipendio, in base a quanto è indicato nel racconto di Susanna. Nabucodonosor non nomina un re a lui fedele, ma consente a Sedecia di salire al potere, lasciato ad Israele ampia libertà. Nel 587 a.C., nonostante Geremia invitasse il suo popolo alla sottomissione babilonese, c’è una nuova rivolta assieme ai fenici e agli abitanti di Edom. La punizione è esemplare: Sedecia viene portato a Babilonia con la sua famiglia e viene accecato, ne vengono uccisi i figli e vengono deportati circa 5.000 abitanti, tutti artigiani, fabbri, commercianti, che faranno la loro fortuna a Babilonia, sviluppando grandi attività economiche. Inoltre fu proprio a Babilonia che cominciano ad essere composti i primi libri della Bibbia. Gerusalemme subisce alcune devastazioni, ma rimane comunque popolata e governata da Ghedalia, nobile giudeo. Considerati i tempi, Nabucodonosor si comportò in modo magnanimo, anche perché non si impose come tiranno, e non vi fu una deportazione di massa del popolo. Gli ebrei faranno ritorno a casa solo verso 550 a.C., quando Ciro il Grande, annettendo Babilonia alla Persia, pronunciò un editto in tale direzione. Alcuni ebrei rimarranno nella città mesopotamica perché avevano delle considerevoli attività economiche e commerciali. Dal 562 a.C. al 556 a.C. ci saranno tre re babilonesi che si succederanno, alcuni come figli e discendenti diretti di Nabucodonosor, altri come usurpatori: Amel Marduk (562-560) figlio del grande re, che restituirà la libertà al re giudeo Joachin, come simbolo della non continuità della politica paterna; Neriglissar (560-556) suocero di Nabucodonosor, fa un colpo di tasto in cui muore il re, taglia completamente con la politica del passato, fa opere di abbellimento a Babilonia e Sippar, compie un’incursione militare in Cilicia, comunque mina all’unità del paese mettendo in cattiva luce il grande re; Labashi Marduk (556) figlio di Neriglissar, va al potere bambino e perde subito il potere. Nabucodonosor, alla sua morte, aveva preso coscienza che la sua dinastia non avrebbe regnato a lungo. Dal 556 a.C. al 539 a.C. regnerà Nabonedo, ultimo re babilonese, salito al potere con un colpo di stato, proveniente dall’Assiria, dalla città di Harran. La storia ce lo tramanda come un re incapace, appassionato di archeologia. Oggi sappiamo che fu vittima di una propaganda effettuata dai persiani, con l’appoggio dei sacerdoti babilonesi, al fine di conquistare il regno senza effettuare guerre. Sostituì la triade divina dei babilonesi con Sin–Shamash–Ishtar, legata ad un culto lunare e più cara agli assiri. Questo non fu motivato solo dalla sua origine, ma anche dal fatto che, accorgendosi del potere sempre più forte dei persiani, voleva ricercare alleati verso ovest. In tal senso, siglò un accordo con Lidia, Sparta ed Egitto. A questo punto è necessario fare un passo indietro. Nel 700 a.C. la Persia era divisa in due regioni (Parsumash e Parsa) ed era sotto il dominio della Media. Nel 600 a.C. il re medio Ciassarre riunifica le due regioni, affidando il regno a Cambise che sposerà la figlia di Astiage, nuovo re di Media, e si insedierà nella prima capitale persiana Pasargade. Successivamente venne costruita Persepoli, che diventerà sempre di più la vera capitale persiana. Da questa unione nascerà Ciro II il Grande che governerà dal 559 a.C. al 529 a.C., inventando il modello delle satrapie, che gli consentì di costruire un grande impero (Egitto, Anatolia, Mesopotamia, Arabia, Persia). Secondo una leggenda, nata per esaltare la grandezza di Ciro II, Astiage ebbe un sogno nel quale si vedeva ucciso da un giovane re, per cui fece dei tentativi per eliminare il giovane futuro re persiano, senza riuscirci. Verso il 550 a.C. Ciro II si allea con Nabonedo (non sembra sicuro) ed insieme prendono la Media. I babilonesi occupano l’Assiria ed i persiani il resto del regno. Successivamente Ciro II invade la Lidia ed insegue il re Creso fino a Sardi, conquistando l’intero regno. In questo modo Ciro II impedisce a Nabonedo di mettere in pratica l’alleanza precedentemente ricordata e comincia a circondare Babilonia. Il re babilonese fu l’unico che aveva capito il pericolo persiano. Le vie del commercio verso l’India sono sotto il controllo persiano e l’inflazione a Babilonia arriva al 400%. Si raccontano diversi episodi di carestia. Nabonedo abbandona Babilonia e si reca in Arabia, dove la popolazione locale non lo vedeva di buon occhio. Lo scopo di questo viaggio fu quello di trovare altre vie di commercio per riportare ricchezza al proprio paese. E’ in questo periodo che viene individua la famosa via delle spezie. L’economia babilonese si risolleva. Nel frattempo Ciro II trama con i religiosi babilonesi. Nabonedo appare come il traditore, colui che ha dissacrato il nome del dio Marduk, sostituendolo con altre divinità. Alla luce di quanto esposto in precedenza, il re babilonese appare come un incompreso più che un traditore. Il frutto della propaganda fu la cacciata di Nabonedo e l’acclamazione di Ciro II a nuovo re: la Persia si era impossessata di Babilonia senza combattere. Come discorso di insediamento il re persiano si proclamò « nuovo figlio del dio Marduk », richiamandosi alla propaganda da lui attuata segretamente. Restituì la libertà agli ebrei nel famoso editto e si impadronì della Siria, Palestina, Israele ed Egitto. L’impero persiano fu molto vasto e ricco. I persiani rispettarono la bellezza di Babilonia, facendole vivere un secondo splendore con Cambise II e Dario I. Sotto questi sovrani ci furono diverse rivolte a Babilonia i cui capi presero il nome di Nabucodonosor, a ricordo del mito trasmesso dal leggendario re al suo popolo. Queste rivolte furono sedate, senza violente ripercussioni per la città. Serse I, in seguito alle sconfitte con la Grecia, impose tasse ai babilonesi, che si ribellarono di nuovo. Babilonia fu messa al sacco. Artaserse I continuò nella politica repressiva del padre. Comunque Babilonia continuò ad avere un certo prestigio ed una determinata importanza. Nel 331 a.C. Alessandro Magno entra a Babilonia e ne rimane affascinato e la proclama capitale del suo nuovo impero. Vengono eseguiti lavori di ammodernamento. A Babilonia verranno celebrati i funerali di Efestione, amico di Alessandro morto ad Ectabana. Lo stesso Alessandro morirà nella città mesopotamica nel 323 a.C. Dunque Babilonia fu la città di tre grandi: Nabucodonosor, Ciro ed Alessandro. I diadochi successivi continuarono a dare splendore alla città, fino all’avvento di Seleuco prima ed Antioco poi che fecero costruire una nuova città: Seleucia. Nel 275 a.C. fu emanato un editto in base al quale tutti i babilonesi dovevano lasciare la città e recarsi nella nuova. Ma la città continuò a vivere perché non fu abbandonata da tutti. Gli stessi diadochi si impegnarono per fare opere di ricostruzione. Verso il 100 a.C. la diadochia seleucide entra in guerra con i Parti, popolo situato ad oriente della Persia, e la città fu abbandonata. Nel 116 d.C. Traiano svernò a Babilonia, ma ormai era diventata un cumulo di macerie. Dunque solo molti secoli dopo si realizzarono le profezie di Isaia, di Daniele e di Geremia sulla distruzione della città, che per secoli venne considerato il centro culturale e politico del mondo. La distruzione morale fu poi continuata dai padri della chiesa, tra Origene e S.Agostino, che la rappresentarono come simbolo del male. Essi ripresero la tradizione iniziata nell’Apocalisse di San Giovanni.

 

SS. Paolo, Aquila e Priscilla

SS. Paolo, Aquila e Priscilla dans immagini sacre SS%20Paolo%20priscilla%20e%20Aquila%202

http://www.andreasfigulus.com/Italiano/Galleria/Arte%20sacra/Paolo%20Priscilla%20Aquila.htm

Publié dans:immagini sacre |on 8 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI – 8 LUGLIO SS. AQUILA E PRISCILLA

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2007/documents/hf_ben-xvi_aud_20070207_it.html  

BENEDETTO XVI – 8 LUGLIO SS. AQUILA E PRISCILLA

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 7 febbraio 2007

Saluto ai pellegrini presenti nella Basilica Vaticana convenuti dalle Diocesi della Lombardia, in occasione della Visita “ad Limina Apostolorum” dei Vescovi Lombardi:

Cari fratelli e sorelle delle Diocesi Lombarde! Saluto anzitutto voi, cari Fratelli nell’Episcopato, convenuti a Roma per la Visita ad Limina Apostolorum. Con voi saluto i fedeli che vi accompagnano in questo significativo momento di intensa comunione con il Successore di Pietro. La Chiesa che vive in Lombardia, e qui rappresentata in tutte le sue componenti, ha un ruolo importante da continuare a svolgere nella società lombarda: annunciare e testimoniare il Vangelo in ogni suo ambito, specialmente dove emergono i tratti negativi di una cultura consumistica ed edonistica, del secolarismo e dell’individualismo, dove si registrano antiche e nuove forme di povertà con segnali preoccupanti del disagio giovanile e fenomeni di violenza e di criminalità. Se le Istituzioni e le varie agenzie educative sembrano talora attraversare momenti di difficoltà, non mancano, però, grandi risorse ideali e morali nel vostro popolo, ricco di nobili tradizioni familiari e religiose. Ho visto nel colloquio con voi, cari Fratelli nell’Episcopato, come la Chiesa in Lombardia è realmente una Chiesa viva, ricca del dinamismo della fede e anche di spirito missionario, capace e decisa a trasmettere la fiaccola della fede alle future generazioni e al mondo del nostro tempo. Vi sono grato per questo dinamismo della fede, che vive proprio nelle Diocesi della Lombardia. Vasto è il vostro campo d’azione. Si tratta, da una parte, di difendere e promuovere la cultura della vita umana e della legalità, dall’altra è necessaria una sempre più coerente conversione a Cristo personale e comunitaria. Per crescere infatti nella fedeltà all’uomo, creato a immagine e somiglianza del Creatore, occorre con coerenza penetrare più intimamente nel mistero di Cristo e diffonderne il messaggio di salvezza. Dobbiamo fare di tutto per conoscere sempre meglio la figura di Gesù, per avere di Lui una conoscenza non soltanto «di seconda mano», ma una conoscenza attraverso l’incontro nella preghiera, nella liturgia, nell’amore per il prossimo. E’ un impegno certamente difficile, ma sono di conforto le parole del Signore: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20). È con noi il Signore, anche oggi, domani, fino alla fine del mondo! Si intensifichi, pertanto, la vostra testimonianza evangelica perchè in ogni ambiente i cristiani, guidati dallo Spirito Santo che dimora nella Chiesa e nei cuori dei fedeli come in un tempio (cfr.1 Cor 3, 16-17), siano segni vivi della speranza soprannaturale. Il nostro tempo, con tante angosce e problemi, ha bisogno di speranza. E la nostra speranza viene proprio dalla promessa del Signore e dalla sua presenza. Vi incoraggio, cari Vescovi, a guidare l’alacre popolo lombardo su tale cammino, contando in ogni situazione sull’indefettibile assistenza divina. Andiamo avanti con l’aiuto del Signore in questa direzione!

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AQUILA E PRISCILLA

Cari fratelli e sorelle, facendo un nuovo passo in questa sorta di galleria di ritratti dei primi testimoni della fede cristiana, che abbiamo iniziato alcune settimane fa, prendiamo oggi in considerazione una coppia di sposi. Si tratta dei coniugi Priscilla e Aquila, che si collocano nell’orbita dei numerosi collaboratori gravitanti intorno all’apostolo Paolo, ai quali avevo già brevemente accennato mercoledì scorso. In base alle notizie in nostro possesso, questa coppia di coniugi svolse un ruolo molto attivo al tempo delle origini post-pasquali della Chiesa. I nomi di Aquila e Priscilla sono latini, ma l’uomo e la donna che li portano erano di origine ebraica. Almeno Aquila, però, proveniva geograficamente dalla diaspora dell’Anatolia settentrionale, che si affaccia sul Mar Nero – nell’attuale Turchia -, mentre Priscilla, il cui nome si trova a volte abbreviato in Prisca, era probabilmente un’ebrea proveniente da Roma (cfr At 18,2). È comunque da Roma che essi erano giunti a Corinto, dove Paolo li incontrò all’inizio degli anni ’50; là egli si associò ad essi poiché, come ci racconta Luca, esercitavano lo stesso mestiere di fabbricatori di tende o tendoni per uso domestico, e fu accolto addirittura nella loro casa (cfr At 18,3). Il motivo della loro venuta a Corinto era stata la decisione dell’imperatore Claudio di cacciare da Roma i Giudei residenti nell’Urbe. Lo storico romano Svetonio ci dice su questo avvenimento che aveva espulso gli Ebrei perché “provocavano tumulti a motivo di un certo Cresto” (cfr “Vite dei dodici Cesari, Claudio”, 25). Si vede che non conosceva bene il nome — invece di Cristo scrive “Cresto” — e aveva un’idea solo molto confusa di quanto era avvenuto. In ogni caso, c’erano delle discordie all’interno della comunità ebraica intorno alla questione se Gesù fosse il Cristo. E questi problemi erano per l’imperatore il motivo per espellere semplicemente tutti gli Ebrei da Roma. Se ne deduce che i due coniugi avevano abbracciato la fede cristiana già a Roma negli anni ’40, e ora avevano trovato in Paolo qualcuno che non solo condivideva con loro questa fede — che Gesù è il Cristo — ma che era anche apostolo, chiamato personalmente dal Signore Risorto. Quindi, il primo incontro è a Corinto, dove lo accolgono nella casa e lavorano insieme nella fabbricazione di tende. In un secondo tempo, essi si trasferirono in Asia Minore, a Efeso. Là ebbero una parte determinante nel completare la formazione cristiana del giudeo alessandrino Apollo, di cui abbiamo parlato mercoledì scorso. Poiché egli conosceva solo sommariamente la fede cristiana, «Priscilla e Aquila lo ascoltarono, poi lo presero con sé e gli esposero con maggiore accuratezza la via di Dio» (At 18,26). Quando da Efeso l’apostolo Paolo scrive la sua Prima Lettera ai Corinzi, insieme ai propri saluti manda esplicitamente anche quelli di «Aquila e Prisca, con la comunità che si raduna nella loro casa» (16,19). Veniamo così a sapere del ruolo importantissimo che questa coppia svolse nell’ambito della Chiesa primitiva: quello cioè di accogliere nella propria casa il gruppo dei cristiani locali, quando essi si radunavano per ascoltare la Parola di Dio e per celebrare l’Eucaristia. È proprio quel tipo di adunanza che è detto in greco “ekklesìa” – la parola latina è “ecclesia”, quella italiana “chiesa” – che vuol dire convocazione, assemblea, adunanza. Nella casa di Aquila e Priscilla, quindi, si riunisce la Chiesa, la convocazione di Cristo, che celebra qui i sacri Misteri. E così possiamo vedere la nascita proprio della realtà della Chiesa nelle case dei credenti. I cristiani, infatti, fin verso il secolo III non avevano propri luoghi di culto: tali furono, in un primo tempo, le sinagoghe ebraiche, fin quando l’originaria simbiosi tra Antico e Nuovo Testamento si è sciolta e la Chiesa delle Genti fu costretta a darsi una propria identità, sempre profondamente radicata nell’Antico Testamento. Poi, dopo questa “rottura”, si riuniscono nelle case i cristiani, che diventano così “Chiesa”. E infine, nel III secolo, nascono veri e propri edifici di culto cristiano. Ma qui, nella prima metà del I secolo e nel II secolo, le case dei cristiani diventano vera e propria “chiesa”. Come ho detto, si leggono insieme le Sacre Scritture e si celebra l’Eucaristia. Così avveniva, per esempio, a Corinto, dove Paolo menziona un certo «Gaio, che ospita me e tutta la comunità» (Rm 16,23), o a Laodicea, dove la comunità si radunava nella casa di una certa Ninfa (cfr Col 4,15), o a Colossi, dove il raduno avveniva nella casa di un certo Archippo (cfr Fm 2). Tornati successivamente a Roma, Aquila e Priscilla continuarono a svolgere questa preziosissima funzione anche nella capitale dell’Impero. Infatti Paolo, scrivendo ai Romani, manda questo preciso saluto: «Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù; per salvarmi la vita essi hanno rischiato la loro testa, e ad essi non io soltanto sono grato, ma tutte le Chiese dei Gentili; salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa» (Rm 16,3-5). Quale straordinario elogio dei due coniugi in queste parole! E a tesserlo è nientemeno che l’apostolo Paolo. Egli riconosce esplicitamente in loro due veri e importanti collaboratori del suo apostolato. Il riferimento al fatto di avere rischiato la vita per lui va collegato probabilmente ad interventi in suo favore durante qualche sua prigionia, forse nella stessa Efeso (cfr At 19,23; 1 Cor 15,32; 2 Cor 1,8-9). E che alla propria gratitudine Paolo associ addirittura quella di tutte le Chiese delle Genti, pur considerando l’espressione forse alquanto iperbolica, lascia intuire quanto vasto sia stato il loro raggio d’azione e, comunque, il loro influsso a vantaggio del Vangelo. La tradizione agiografica posteriore ha conferito un rilievo tutto particolare a Priscilla, anche se resta il problema di una sua identificazione con un’altra Priscilla martire. In ogni caso, qui a Roma abbiamo sia una chiesa dedicata a Santa Prisca sull’Aventino sia le Catacombe di Priscilla sulla Via Salaria. In questo modo si perpetua la memoria di una donna, che è stata sicuramente una persona attiva e di molto valore nella storia del cristianesimo romano. Una cosa è certa: insieme alla gratitudine di quelle prime Chiese, di cui parla san Paolo, ci deve essere anche la nostra, poiché grazie alla fede e all’impegno apostolico di fedeli laici, di famiglie, di sposi come Priscilla e Aquila il cristianesimo è giunto alla nostra generazione. Poteva crescere non solo grazie agli Apostoli che lo annunciavano. Per radicarsi nella terra del popolo, per svilupparsi vivamente, era necessario l’impegno di queste famiglie, di questi sposi, di queste comunità cristiane, di fedeli laici che hanno offerto l’“humus” alla crescita della fede. E sempre, solo così cresce la Chiesa. In particolare, questa coppia dimostra quanto sia importante l’azione degli sposi cristiani. Quando essi sono sorretti dalla fede e da una forte spiritualità, diventa naturale un loro impegno coraggioso per la Chiesa e nella Chiesa. La quotidiana comunanza della loro vita si prolunga e in qualche modo si sublima nell’assunzione di una comune responsabilità a favore del Corpo mistico di Cristo, foss’anche di una piccola parte di esso. Così era nella prima generazione e così sarà spesso. Un’ulteriore lezione non trascurabile possiamo trarre dal loro esempio: ogni casa può trasformarsi in una piccola chiesa. Non soltanto nel senso che in essa deve regnare il tipico amore cristiano fatto di altruismo e di reciproca cura, ma ancor più nel senso che tutta la vita familiare, in base alla fede, è chiamata a ruotare intorno all’unica signoria di Gesù Cristo. Non a caso nella Lettera agli Efesini Paolo paragona il rapporto matrimoniale alla comunione sponsale che intercorre tra Cristo e la Chiesa (cfr Ef 5,25-33). Anzi, potremmo ritenere che l’Apostolo indirettamente moduli la vita della Chiesa intera su quella della famiglia. E la Chiesa, in realtà, è la famiglia di Dio. Onoriamo perciò Aquila e Priscilla come modelli di una vita coniugale responsabilmente impegnata a servizio di tutta la comunità cristiana. E troviamo in loro il modello della Chiesa, famiglia di Dio per tutti i tempi.

 

Publié dans:Papa Benedetto XVI, San Paolo, Santi |on 8 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

ANCHE L’ANTICO TESTAMENTO CONOSCE BEATITUDINI : « BEATO CHI TROVA IN DIO LA SUA FORZA! »

http://www.atma-o-jibon.org/italiano/don_doglio32.htm

ANCHE L’ANTICO TESTAMENTO CONOSCE BEATITUDINI : « BEATO CHI TROVA IN DIO LA SUA FORZA! »

Introduzione

Abbiamo concluso il discorso sulle beatitudini proclamate da Gesù, però vogliamo completare il nostro corso dando un’occhiata anche ad altri testi biblici dove compaiono delle beatitudini. Dedichiamo questo incontro alle beatitudini dell’Antico Testamento; i prossimi saranno invece dedicati alle beatitudini presenti nel Nuovo Testamento e l’ultima, in modo specifico, alle beatitudini dell’Apocalisse. Nell’Antico Testamento si incontrano oltre cinquanta espressioni di beatitudine, quindi, se dovessimo passarle in rassegna tutte, saremmo costretti a fare un lungo elenco di frasi. Allora scelgo come strada quella di raccogliere queste citazioni sotto alcuni titoli e di vedere, per ogni titolo o argomento generale, un esempio, scegliendoli tutti dal Libro dei Salmi. Possiamo così cogliere l’occasione per rileggere insieme alcuni salmi e vedere come, attraverso la formula della beatitudine, l’Antico Testamento ci presenti un’indicazione del modo di essere di Dio e dei valori che vengono trasmessi dalla predicazione.

Beato chi ha Dio per Signore Possiamo iniziare allora da un primo capitolo. Una beatitudine fondamentale nell’Antico Testamento è quella che può essere ridotta alla formula seguente: « Beato chi ha Dio per Signore! ». Come nel caso di Gesù, le beatitudini anche nell’Antico Testamento sono delle dimostrazioni di felicità, delle « congratulazioni », o meglio, delle indicazioni di una strada per la felicità ovvero per la realizzazione della persona umana. « Beato chi ha Dio per Signore! » significa allora che la relazione con il Signore in quanto Dio è fonte di felicità. Noi usiamo il termine « Signore » per tradurre il nome proprio di Dio come si è rivelato nell’Antico Testamento, cioè « Yahweh », termine che abitualmente non traduciamo e non conserviamo, ma sostituiamo con « Signore ». Ogni volta che troviamo la parola « Signore » nell’Antico Testamento sappiamo che fa riferimento al nome proprio di Dio.

Allora, non « qualunque Dio va bene », ma « Beato chi ha per Dio Yahweh ». È un’idea del popolo di Israele che, prima di arrivare alla negazione dell’esistenza delle altre divinità, arriva alla consapevolezza che quel Dio che si è rivelato al popolo di Israele è la strada della felicità: « Beato chi ha incontrato quel Dio, perché è lui che garantisce una situazione buona ». Pensiamo allora come esempio il salmo 33. È un salmo che celebra come inno la provvidenza di Dio, celebra il Signore perché regge la storia e la creazione: « Il Signore annulla i disegni delle nazioni, rende vani i progetti dei popoli. Ma il piano del Signore sussiste per sempre, i pensieri del suo cuore per tutte le generazioni » (Sal 33, 10÷11). Dio ha un progetto, ha un piano che vale per tutti i popoli e, mentre i progetti dei grandi e dei potenti della terra vengono vanificati, i progetti di Dio sussistono « perché egli parla e tutto è fatto, comanda e tutto esiste » (Sal 33, 9), « dalla parola del Signore furono fatti i cieli, dal soffio della sua bocca ogni loro schiera » (Sal 33, 6). Parola e Spirito, dalla parola del Signore, dal soffio, dal respiro, dallo Spirito di Dio è stato creato l’universo: il Padre, il Figlio e lo Spirito creatori dell’universo, i pensieri del cuore di Dio durano per sempre, il progetto del Signore è eterno; allora, dopo aver detto questo, l’autore del salmo esplode in un’affermazione di entusiasmo: « Beata la nazione il cui Dio è il Signore, il popolo che si è scelto come erede » (Sal 33, 12). Israele celebra la propria beatitudine in quanto nazione: « Beata la nazione che è stata scelta dal Signore ». Eppure noi, rileggendo questi testi in un’ottica cristiana, ampliamo l’orizzonte di Israele, ci sentiamo noi partecipi di questa nazione e applichiamo tranquillamente a noi questa beatitudine: siamo noi quella nazione – non intesa in senso civile, politico, amministrativo, ma in senso religioso -, siamo noi quel popolo fortunato, beato, perché « scelto ». È interessante il contesto comunitario, non individualista: non tanto « io », ma « noi », noi popolo scelto da Dio, beati noi! Sentiamo la beatitudine dell’essere popolo che Dio si è scelto? Proviamo a porre questo nostro ragionare anche come un possibile esame di coscienza, una revisione di vita all’interno del nostro cammino quaresimale. Abbiamo coscienza di essere popolo scelto da Dio, di appartenere a lui? Abbiamo coscienza che il fatto di essere stati scelti e di appartenere a lui è fonte della nostra gioia? Beati noi perché apparteniamo a lui, creatore e Signore dell’universo: « Dal luogo della sua dimora scruta tutti gli abitanti della terra, lui che, solo, ha plasmato il loro cuore e comprende tutte le loro opere » (Sal 33, 14÷15). Per la seconda volta torna la parola « cuore » che, nel linguaggio biblico, non è inteso come la sede dell’affetto, ma piuttosto dell’intelligenza, è il centro della persona: « I pensieri del suo cuore durano in eterno », il cuore di Dio ha progettato, egli ha creato i cuori di ciascuno – il testo latino diceva: « singillatim », uno per uno, singolarmente – è lui l’origine della nostra persona. Il salmo termina con una terza ricorrenza della parola « cuore »: « In lui gioisce il nostro cuore e confidiamo nel suo santo nome. Signore, sia su di noi la tua grazia, perché in te speriamo » (Sal 33, 21÷22). « Il nostro cuore gioisce in lui » è un altro modo per esprimere questa beatitudine di appartenere al Signore: lui ha creato la nostra persona e la nostra persona trova la propria gioia in lui. Questo è il senso della beatitudine.

Beato chi si fida del Signore Sempre in questa direzione possiamo aprire un nuovo capitolo e prendere come modello un’altra espressione: « Beato chi si fida del Signore! ». È la beatitudine della fede, è una formulazione con cui si riconosce che il Signore è l’origine e il fine della nostra esistenza, e l’atto di fiducia con cui la persona si affida a lui è fonte di felicità. Prendiamo come esempio il salmo 84 che contiene ben tre espressioni di beatitudine. È un canto di pellegrinaggio e, tra l’altro, questa riflessione può tornare utile anche per sviluppare quello che abbiamo detto la volta scorsa a proposito del Giubileo, perché una delle opere caratteristiche del Giubileo è il pellegrinaggio. Questo salmo ci dà la dimensione corretta del pellegrinaggio soprattutto in ottica cristiana, non semplicemente come lo spostamento fisico verso un luogo preciso. Noi rileggiamo il salmo 84 in una dimensione spirituale, mentre l’antico autore lo ha composto proprio in una dimensione fisica e spaziale. L’autore è innamorato di Gerusalemme e celebra la beatitudine di chi abita in Gerusalemme – forse è un levita che abita in campagna in qualche villaggio – e inizia così: « Quanto sono amabili le tue dimore, Signore degli eserciti! L’anima mia languisce e brama gli atri del Signore. Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente » (Sal 84, 2÷4). Il desiderio profondo di questa persona è l’incontro con il Signore ed ha un’idea fisica di questo incontro, pensa che gli atri del Signore, i cortili del tempio, quegli ambienti del culto a Gerusalemme siano il luogo privilegiato dell’incontro, ha una grande voglia di andare lì e quasi guarda con invidia quel passero o quella rondine che ha potuto fare il nido in qualche angolo del tempio: « Anche il passero trova la casa, la rondine il nido, dove porre i suoi piccoli, presso i tuoi altari, Signore degli eserciti, mio re e mio Dio » (Sal 84, 4). Ed ecco che esplodono le beatitudini: « Beato chi abita la tua casa: sempre canta le tue lodi! » (Sal 84, 5). In senso letterale l’autore dice: « Beato chi abita a Gerusalemme, beato chi fa servizio continuo nel tempio ». Probabilmente egli, come levita di campagna, ritiene fortunato il suo collega che invece fa servizio proprio nella sede centrale. Subito dopo aggiunge un’altra beatitudine: « Beato chi trova in te la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggio » (Sal 84, 6). Se uno non può abitare a Gerusalemme, e nel tempio, può almeno decidere di andare a Gerusalemme; allora, fortunato chi abita là, fortunato chi decide di andare là. L’autore pensa proprio in senso fisico a questo pellegrinaggio, ma noi no, noi rileggiamo questo testo in un’altra dimensione: il tempio del Signore non esiste più, la Gerusalemme di oggi è una città semplicemente di ricordo, ma per noi è città santa come memoria però non riteniamo che Dio abiti lì piuttosto che altrove. Allora, la beatitudine di chi abita la casa del Signore non riguarda gli abitanti di Gerusalemme o i leviti del tempio, che non ci sono più. La casa del Signore « abitata » da qualcuno è, in senso spirituale, la comunione con lui: per noi diventa beato « chi trova in te la sua dimora, chi vive con te, chi sta in comunione di vita, chi ti è vicino ». E non riteniamo affatto che il viaggio a Gerusalemme sia oggetto così desiderato e amabile, è un’esperienza positiva ma non è il senso del salmo: la beatitudine non sta nell’andare in pellegrinaggio in Terra Santa, sta nel decidere il « santo viaggio ». Ma il « santo viaggio » qual è? Non certo un viaggio organizzato o fatto con i nostri sistemi turistici: il « santo viaggio » è la nostra vita, è l’impostazione della nostra vita, è uno stile di vita. « Beato chi trova in te la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggio »: è un’espressione bellissima, viene celebrata la felicità di chi trova la propria forza in Dio, forza per decidere un viaggio, un viaggio santo, la forza per impostare la propria vita al seguito del Signore, alla ricerca del Signore. Il testo originale contiene l’idea della salita, anche perché Gerusalemme si trova in alto e da qualunque parte si inizi il viaggio si sale sempre per andare a Gerusalemme. Il testo latino traduceva così: « Beatus qui posuit in corde suo ascensiones », beato chi ha preso la decisione di salire, di intraprendere le ascensioni, le salite. Noi adoperiamo la parola « ascesi » proprio nel senso di salita, di impegno di miglioramento, di crescita. Il « santo viaggio » allora è questo desiderio ardente di una vita che migliori, di una comunione col Signore che cresca. Leggevo proprio oggi un passo di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori in cui dice, più o meno: « Nella nostra vita terrena aspiriamo ad avere di più ed a stare meglio, ma quando parliamo del Paradiso la maggior parte di noi si dice soddisfatta semplicemente di entrarci e di stare anche solo in un cantuccio; sarebbe molto meglio accontentarci di niente qui ed aspirare ad avere un bel posto, ampio e spazioso, in paradiso ». È che ci preoccupiamo poco – diceva il santo moralista – del tesoro che ci aspetta. Porre nel proprio cuore le ascensioni, le salite significa desiderare il miglioramento. Pensate un po’ a certe situazioni anche difficili in cui ci possiamo trovare: possiamo avere dei nemici, può capitare di avere a che fare con qualche persona che ci ha fatto del male o che in qualche modo ci dia fastidio; istintivamente non riusciamo a volerle bene, non riusciamo magari neanche a perdonarla. Ma il problema credo che sia qui: desideriamo riuscirci? Istintivamente mi sta antipatica, mi dà fastidio, non riesco a tollerarla, ma « desidero » diventare capace di amare anche quella persona così antipatica e nemica? Sta qui porre nel proprio cuore la salita: ho voglia di salire? E, di conseguenza, chiedo al Signore la forza e l’aiuto per essere capace di fare ciò che non riesco a fare? Se sono malato mi viene facilissimo chiedere di guarire. Se sono peccatore, ovvero non riesco a fare il bene che il Signore mi chiede, mi viene da chiedere l’aiuto per riuscire a farlo? Oppure mi accontento di dire semplicemente che non ci riesco e che non ce la faccio? Credo che questo sia un punto nodale e decisivo: porre nel proprio cuore il desiderio di salire, di migliorare, di riuscire a fare quello che istintivamente non riesco, è fonte di beatitudine. « Beato chi trova in te la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggio » è molto di più che andare a Gerusalemme. « Passando per la valle del pianto la cambia in una sorgente » (Sal 84, 7). Chi trova in Dio la propria forza e decide questa salita diventa capace di trasformare la valle del pianto in una sorgente. « Cresce lungo il cammino il suo vigore » (Sal 86, 8). Sembrerebbe un’espressione strana, perché in genere durante il cammino ci si affatica, più si cammina e più ci si stanca, verso la fine non se ne può più: abbiamo esperienza, ad esempio, di una camminata in montagna, quando si arriva si è contenti di essere arrivati perché si è stanchi morti. Qui invece è un cammino diverso: « Cresce lungo il cammino il suo vigore », più cammina e più si riposa, più sale e più acquista energia. Non è un discorso fisico, è la dimensione del nostro impegno spirituale: più cammini e più sali, più acquisti forza di salire e voglia di salire. È un aspetto della beatitudine del pellegrino: in questo senso parliamo del Giubileo come di un pellegrinaggio, questa è la beatitudine del pellegrino, dell’ »homo viator », dell’uomo naturalmente in via come persona in divenire, che si sta facendo, si sta formando, sta diventando veramente uomo, sta crescendo in umanità, sta diventando « figlio » di Dio. « Sole e scudo è il Signore Dio; il Signore concede grazia e gloria, non rifiuta il bene a chi cammina con rettitudine. Signore degli eserciti, beato l’uomo che in te confida » (Sal 84, 12÷13). Terza beatitudine, ridice la stessa cosa con altre parole: « Beato chi confida in te, chi trova in te la sua forza, colui che si fida di te e desidera con tutte le sue forze di compiere il tuo progetto ».

Beato chi osserva la legge, beato chi fa del bene Passiamo ad un’altra beatitudine dell’Antico Testamento, che potremmo indicare come la beatitudine di chi opera la legge, di chi la osserva. Troviamo un esempio significativo di questa beatitudine nel salmo 112. Si tratta di un salmo « alfabetico »: se lo cercate nella Bibbia troverete che prima del salmo ci sono le lettere dell’alfabeto ebraico. Si tratta di uno schema poetico un po’ artificioso: l’autore mette innanzitutto l’alfabeto, scritto una lettera sotto l’altra, quindi, essendo le lettere dell’alfabeto ebraico ventidue, prevede ventidue versi ognuno dei quali inizia con una lettera diversa dell’alfabeto, in ordine. Provate un po’ a immaginarlo in italiano: è un elemento che costringe la vena poetica e diventa una formula artistica che contiene l’abc della religiosità. Dal momento che « beato » in ebraico inizia con la prima lettera dell’alfabeto, « aleph », molto spesso i salmi di questo genere iniziano proprio con la formula « beato ». Non solo, ma c’è un gioco di parole: « Beato l’uomo che (…) » in ebraico si dice « ashré aish asher » e diventa una formula ritmica che si ricorda a memoria e che ritorna in molte formule. Il salmo 112 inizia con: « Ashré aish asher », « Beato l’uomo che teme il Signore e trova grande gioia nei suoi comandamenti » (Sal 112, 1) e, più avanti, « Felice l’uomo pietoso che dà in prestito, amministra i suoi beni con giustizia » (Sal 112, 5). Qui la beatitudine è letta in una chiave di morale, di condotta buona: « Beato chi teme il Signore, beato chi trova grande gioia nei suoi comandamenti » – « In mandatis eius cupit nimis » – ha proprio un desiderio, quasi eccessivo, ha una passione per i precetti del Signore; « Beato l’uomo appassionato della legge », al punto da viverla seriamente, concretamente in tutto quello che fa. « Beato l’uomo pietoso, misericordioso – noi diremmo « generoso » – che dà in prestito e amministra i suoi beni con giustizia »; « beatitudine » diventa quindi sinonimo di « giustizia ». Riconoscete facilmente in queste formule dell’Antico Testamento anche delle idee che ricorrono nelle beatitudini di Gesù, possiamo in qualche modo riportarle tutte lì. La novità di Gesù non sta tanto nelle formule della beatitudine quanto nelle cause, cioè nell’annuncio dell’intervento di Dio a favore dell’uomo. Abbiamo detto con insistenza che l’elemento importante delle beatitudini è la causa: « Perché vostro è il regno dei cieli », questo è importante, l’importante è il regno, è la presenza del regno, è il fatto che Dio, Re e Signore onnipotente, sia dalla vostra parte; mentre nell’Antico Testamento c’è ancora l’idea dell’autosufficienza dell’uomo: l’uomo buono, l’uomo generoso, l’uomo che dà in prestito, l’uomo giusto, l’uomo che fa il bene è fortunato perché è giusto. Questo tipo di impostazione rischia di degenerare nella visione dei farisei, cioè in quell’ottica di autosufficienza per cui sono beato in quanto sono bravo: fonte della mia felicità è la mia onestà.

Il Vangelo di Gesù supera questa impostazione. Prendendo un altro esempio di salmo di questo tipo possiamo leggere il primo salmo, proprio quello che apre tutto il libro e presenta quasi la storia divisa in due parti. « Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli stolti; ma si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte » (Sal 1, 1÷2): beato chi studia la Bibbia, beato chi legge la sua parola e la medita giorno e notte. « Sarà come albero piantato lungo corsi d’acqua, che darà frutto a suo tempo e le sue foglie non cadranno mai; riusciranno tutte le sue opere » (Sal 1, 3): la beatitudine dell’uomo che medita la legge è finalizzata a portare frutto, sa quel che deve fare e a suo tempo lo farà. « Non così, non così gli empi: ma come pula che il vento disperde; perciò non reggeranno gli empi nel giudizio, né i peccatori nell’assemblea dei giusti. Il Signore veglia sul cammino dei giusti, ma la via degli empi andrà in rovina »(Sal 1, 4÷6): è il grande quadro di contrapposizione fra il giusto e l’empio, fra l’uomo devoto e l’uomo che crede di fare da sé, che va per la propria strada. Il Salterio si apre proprio con la parola « beato », la prima parola di tutti i salmi è « beato »: beato l’uomo che si compiace nella legge del Signore, che trova il proprio piacere nella volontà di Dio.

Beato l’uomo perdonato da Dio Andiamo avanti e troviamo un’altra beatitudine molto importante: « Beato l’uomo perdonato da Dio ». È un’idea che anticipa fortemente la buona notizia di Gesù e che troviamo, ad esempio, nel salmo 32 che inizia proprio con due formule di beatitudine: « Beato l’uomo a cui è rimessa la colpa e perdonato il peccato. Beato l’uomo a cui Dio non imputa alcun male e nel cui spirito non è inganno. Tacevo e si logoravano le mie ossa, mentre gemevo tutto il giorno. Giorno e notte pesava su di me la tua mano, come per arsura d’estate inaridiva il mio vigore. Ti ho manifestato il mio peccato, non ho tenuto nascosto il mio errore. Ho detto: «Confesserò al Signore le mie colpe» e tu hai rimesso la malizia del mio peccato » (Sal 32, 1÷5). È proprio un’anticipazione del sacramento della penitenza ed è la proclamazione della beatitudine dell’uomo che si riconosce peccatore perdonato. Il passo in avanti, rispetto alla precedente formula, è che il giusto non è tale per merito proprio, in modo autosufficiente, ma è cosciente del proprio peccato e della misericordia di Dio che lo ha trasformato: « Beato l’uomo a cui è rimessa la colpa ». San Paolo cita questo versetto nella lettera ai Romani al capitolo quarto, proprio come un’esemplificazione della sua dottrina sulla giustificazione per fede: ogni uomo è radicalmente segnato dal peccato e allora la beatitudine sta nel fatto di essere perdonato. Ma il perdono di Dio non è il colpo di spugna o il far finta che non sia successo niente, ma è l’intervento creatore che trasforma effettivamente l’uomo, che rende davvero il peccatore giusto. Allora la beatitudine sta nel fatto di sentire come il Signore in me, in noi, trasformi quella natura segnata dal peccato in una natura capace di fare il bene. Siamo sempre nell’ottica del « desiderare le salite » fidandosi del Signore.

Beato l’uomo « sapiente » Un altro modo è espresso dalla beatitudine del sapiente: in molti testi si dice che « Beato è il sapiente, beato l’uomo che ha trovato la sapienza ». Nel salmo 65 troviamo questa espressione: « Beato chi hai scelto e chiamato vicino, abiterà nei tuoi atri. Ci sazieremo dei beni della tua casa, della santità del tuo tempio » (Sal 65, 5). Vedete come siano espressioni molto simili a quelle che abbiamo già commentato a proposito del salmo 84: « Beato chi abita la tua casa, beato chi hai scelto e chiamato vicino ». Non è una questione fisica, come abitare nel tempio di Gerusalemme, è questione di comunione spirituale, di autentica condivisione di vita con il Signore; è quella sapienza di cui abbiamo parlato a proposito dei doni dello Spirito, come capacità di gustare, quella sapienza che è fondamentalmente connessa con la povertà di spirito, il riconoscimento del proprio peccato, della propria debolezza, della propria indegnità e l’affidamento al Signore con la sicurezza che l’essere con lui è fonte della felicità.

La beatitudine del dono dei figli Ancora, troviamo espressioni di beatitudine relativa alla famiglia. Nel salmo 127 si dice: « Dono del Signore sono i figli, e sua grazia il frutto del grembo. Come frecce in mano a un eroe sono i figli della giovinezza. Beato l’uomo che ne ha piena la faretra: non resterà confuso quando verrà a trattare alla porta con i propri nemici » (Sal 127, 3÷5). È la celebrazione della beatitudine umana dell’avere figli, dell’avere tanti figli « come frecce in mano ad un eroe » e la « faretra che contiene le frecce », se è piena, è fonte di beatitudine. È un modo per indicare anche nell’ambito della vita familiare la presenza di questa felicità, dono del Signore. Beatitudine è l’accoglienza dei doni del Signore, la capacità di accorgersi della sua presenza e del suo dono. Ancora, nel salmo 89 leggiamo questa beatitudine: « Beato il popolo che ti sa acclamare e cammina, o Signore, alla luce del tuo volto » (Sal 89, 16). Noi diremmo « beato chi sa pregare », cioè chi sa essere capace di lodare il Signore, di riconoscerlo, di ringraziarlo, di vivere con lui, di dialogare con lui. È una strada di felicità, ma è una risposta. Tante volte diciamo che la fede è un dono, chi non ce l’ha non l’ha ricevuto. In realtà dovremmo dire che la fede è l’incontro di chiamata e risposta: laddove alla chiamata c’è la risposta e insieme i due elementi si uniscono, lì c’è la fede. La fede è l’incontro di dono e di accoglienza: il dono, se è accolto, diventa fede: « Beato chi sa lodare, chi sa accogliere e ringraziare ».

Beato l’uomo che si oppone al male con tutte le sue forze C’è ancora un’espressione molto strana e difficile, e la prendo in considerazione proprio perché è tale. Nel salmo 137, quello di Babilonia, canto dell’esilio, si termina con questa preghiera terribile: « Figlia di Babilonia devastatrice, beato chi ti renderà quanto ci hai fatto. Beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sbatterà contro la pietra » (Sal 137, 8÷9). Sono beatitudini dell’Antico Testamento e nella nostra ottica suonano molto strane, suonano come desiderio di vendetta, di violenza tremenda anche contro i bambini della nazione nemica. È probabile che l’autore antico avesse in testa queste idee, ma non era il messaggio che Dio voleva trasmettere. Alla luce di Cristo noi siamo in grado di rileggere in altro modo questo testo, innanzitutto tenendo conto del fatto simbolico di Babilonia. Babilonia non è né una persona né una città, diventa un simbolo: è la città del male, è il male personificato. Allora la beatitudine è per coloro che si oppongono al male con tutte le forze, non al peccatore, ma al peccato. Beato chi combatte contro il peccato, non chi elimina il peccatore, beato chi elimina il peccato. « Beato chi afferra i tuoi piccoli e li sbatte contro la pietra ». Allora se Babilonia è il peccato, se è il male, chi sono i « piccoli » di Babilonia’? Potrebbero essere i peccati veniali, i piccoli peccati quotidiani, le piccole mancanze di tutti i giorni, le nostre inclinazioni al male, i nostri istinti legati al nostro carattere che portano verso certi comportamenti negativi. Possono essere le tentazioni o, come si dice nell’Atto di dolore, le occasioni prossime del peccato: sono situazioni piccole che possono crescere e che possono diventare grandi. Allora, beato chi prende queste piccole cose e « le sbatte contro la pietra » e la pietra è Cristo. Siamo sempre daccapo: « Beato chi trova in Dio la sua forza ed ha il desiderio profondo di salire, di migliorare, ed ha a cuore di combattere il male anche nelle piccole cose; di fronte a Cristo, sa distruggere e sa annientare anche le piccole inclinazioni al male ». Chi si fida del Signore e desidera imitarlo pienamente, questi è davvero beato: in questo sta la felicità, ci dice l’Antico Testamento, in perfetta sintonia con le beatitudini di Gesù.

Christ, detail from the 13th Century Deesis Mosaic in St Sophia

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LA VIA PULCHRITUDINIS NELLA PROSPETTIVA DEL SINODO SULLA FAMIGLIA

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LA BELLEZZA E L’ARTE COME STRUMENTI PASTORALI EFFICACI

LA VIA PULCHRITUDINIS NELLA PROSPETTIVA DEL SINODO SULLA FAMIGLIA

Roma, 07 Luglio 2014 (Zenit.org) Rodolfo Papa

Per poter educare al bene, è necessario educare al bello al fine di comprendere il vero. Per educare la famiglia c’è bisogno di ricorrere a principi fondativi forti; come ci indica costantemente Papa Francesco il vero, il bene ed il bello non posso essere disgiunti tra loro, e quindi è necessario pastoralmente promuoverne l’azione congiunta in ogni aspetto: formativo, educativo e catechetico. Nell’Instrumentum laboris (26 giugno 2014) del prossimo Sinodo dedicato alla Pastorale della famiglia di fronte alle nuove sfide, nel capitolo primo della seconda parte, nn. 50-60,  rintracciamo un interessante percorso. Si parte dalla responsabilità dei Pastori e dai doni carismatici, e si affronta il confronto con quanto nei vari continenti si è elaborato nella preparazione al matrimonio, nella pietà popolare, nella spiritualità familiare (cfr. in particolare nn. 52 e 53). Si delinea un interessante percorso pastorale: « Nonostante una certa disgregazione familiare, rimangono ancora significative la devozione mariana, le feste popolari, quelle dei santi del luogo, come momenti aggregativi della famiglia. Oltre alla preghiera del rosario, in alcune realtà è in uso l’Angelus; un certo valore mantiene la peregrinatio Mariae, il passaggio di un’icona o di una statua della Madonna da una famiglia ad un’altra, da una casa ad un’altra» (n. 57). Da questa analisi, si evidenzia l’importanza della testimonianza credibile: «Alcuni osservano che talvolta le comunità locali, i movimenti, i gruppi e le aggregazioni religiose possono correre il rischio di rimanere chiusi in dinamiche parrocchiali o aggregative troppo autoreferenziali. Per questo, è importante che tali realtà vivano l’intero orizzonte ecclesiale in chiave missionaria, così da evitare il pericolo della autoreferenza. Le famiglie appartenenti a queste comunità svolgono un apostolato vivo e hanno evangelizzato tante altre famiglie; i loro membri hanno offerto una testimonianza credibile della vita matrimoniale fedele, di stima reciproca e di unità, di apertura alla vita» (n. 58). L’ambito della testimonianza si configura come via pulchritudinis: «Un punto chiave per la promozione di una autentica ed incisiva pastorale familiare sembra essere ultimamente la testimonianza della coppia. Questo elemento è stato richiamato da tutte le risposte. Essenziale appare la testimonianza non solo di coerenza con i principi della famiglia cristiana, ma anche della bellezza e della gioia che dona l’accoglienza dell‘annuncio evangelico nel matrimonio e nella vita familiare. Anche nella pastorale familiare si sente il bisogno di percorrere la via pulchritudinis, ossia la via della testimonianza carica di attrattiva della famiglia vissuta alla luce del Vangelo e in costante unione con Dio. Si tratta di mostrare anche nella vita familiare che “credere in Lui e seguirlo non è solamente una cosa vera e giusta, ma anche bella, capace di colmare la vita di un nuovo splendore e di una gioia profonda, anche in mezzo alle prove (EG 167)”» (n. 59). Vediamo dunque che viene delineata una proposta pastorale integrata che abbia come metodo la via pulchritudinis. Per poter impostare tale pastorale, è necessario che si educhino alla bellezza i presbiteri, i consacrati e i laici, fornendo loro gli strumenti filosofici, teologici ed artistici utili per poter contemplare e riconoscere la vera bellezza. È necessario, quindi, promuovere contemporaneamente una azione educativa nei luoghi di formazione del clero, quali i seminari, le facoltà teologiche e le università pontificie, nella realizzazione di quanto proposto dalla Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II Sacrosanctum Concilium:  «I chierici, durante il corso filosofico e teologico, siano istruiti anche sulla storia e sullo sviluppo dell’arte sacra, come pure sui sani principi su cui devono fondarsi le opere dell’arte sacra, in modo che siano in grado di stimare e conservare i venerabili monumenti della Chiesa e di offrire consigli appropriati agli artisti nella realizzazione delle loro opere» (n. 129). Questa semplice raccomandazione può aprire al vastissimo discorso della bellezza, come conoscenza e rappresentazione della verità, temi di per sé implicati nella questione dell’arte sacra. La necessità di rieducare alla bellezza – discorso rilanciato da tutti i pontefici nel corso del XX secolo ed ora nel XXI – è un nodo cruciale nella formazione al bene e alla verità, soprattutto nella attuale epoca post-moderna, dove la secolarizzazione e la paganizzazione proprie della società dei consumi di massa, hanno contribuito alla disumanizzazione della vita dell’uomo e in modo speciale del matrimonio. La educazione alla bellezza implica innanzitutto una elaborazione filosofica in ordine allo sviluppo di un discorso sulla conoscenza e sulla rappresentazione della verità e del bene, collegati alla bellezza. Tenere insieme il vero, il bene e il bello è una azione fondamentale per la vita dell’uomo, per la conquista del senso delle cose e della loro finalità. L’educazione alla bellezza, ovvero al riconoscimento della presenza, dell’integrità, dell’ordine, della finalità, serve sia a gustare la bellezza delle composizioni artistiche, sia a gustare e apprezzare la vita morale dell’uomo, la bellezza delle relazioni umane, della interiorità spirituale e dunque della vita matrimoniale. Risulta utilissimo sviluppare, nelle chiese -negli oratori e nelle case delle varie comunità che raccolgono i laici-, interi cicli pittorici che mostrino esempi di vita coniugale tratti dalle vite dei santi e comunque dalle vite esemplari  di tutte le epoche e di tutti i continenti, per promuovere una azione pastorale caritativa di ordine spirituale, catechetico e morale: «si riconosce la speciale testimonianza data da quei coniugi che restano accanto al proprio consorte nonostante problemi e difficoltà» (n. 60) Si deve dunque passare da una educazione filosofica e teologica della bellezza ad una più direttamente artistica, perché si attui sul piano sociale e politico una visione capace di essere educatrice ed esemplare, affinché grazie alla bellezza si riesca a  contrastare la disumanizzazione delle deformazioni che la secolarizzazione ed il consumismo spesso producono. La bellezza è necessaria proprio là dove non si pensa possa esserlo, innanzitutto sul piano socio-politico della comunità contemporanea.

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Rodolfo Papa, Esperto della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, docente di Storia delle teorie estetiche, Pontificia Università Urbaniana, Artista, Storico dell’arte, Accademico Ordinario Pontificio.

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GIOIA, FELICITÀ, STUPORE, SENTIMENTO E SGUARDO

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GIOIA, FELICITÀ, STUPORE, SENTIMENTO E SGUARDO

Il Ricordo  – Il pensiero di Alvise Diceva Orazio “Non sai quante cose ci sono in cielo”. E aveva sicuramente ragione ma come poterle individuare? Probabilmente consapevoli che la gioia ci viene dalla contemplazione e che la stessa è felicità e che la felicità è  poesia. Dunque è con ammirazione e  abbandono che noi contempliamo e  ritorniamo alla vita. E allora è fondamentale leggere e capire che la poesia è poesia, che il pensiero dura e la contemplazione si spegne, che ogni volta che qualcuno guarda qualcuno, si è pronti a rinascere un’altra volta. Capire inoltre come potrebbe la luce risplendere nell’occhio se l’occhio stesso non fosse luminoso? Capire che nel frammento c’è la vita, c’è l’Universo e che il frammento può essere un gesto, un suono, una voce o un profumo. E allora cerchiamo di capire il significato di alcune parole importanti nella collettiva comprensione della quotidianità come gioia, felicità, stupore, sentimento e sguardo. 

Gioia Cosa è la gioia se non una sensazione di piacere diffuso suscitato dall’appagamento  di un desiderio o dalla previsione di una condizione futura positiva? Da questo punto di vista la gioia si contrappone alla tristezza caratterizzata da una visione negativa del futuro. Quando le condizioni che provocano la gioia si verificano indipendentemente dalle azioni del soggetto, tale emozione è accompagnata da stupore. Se si prescinde dalla connotazione temporale che interviene nell’abituale definizione di gioia, allora questa figura assume i caratteri descritti da B. Spinoza in ordine all’accoglimento  della necessità del tutto. Motivo, questo, ripreso in modo più radicale da E. Severino (Destino della necessità- 1980 pagg. 594-595) per il quale “ come superamento della totalità della contraddizione del finito, il tutto è la gioia. La gioia è l’inconscio più profondo del mortale. 

Felicità E cosa è la felicità  se non  una condizione di benessere di rilevante intensità caratterizzata dall’assenza di insoddisfazione  e  del piacere connesso alla realizzazione di un desiderio? Nel suo nesso con il desiderio la felicità rivela il suo carattere circostanziale, cioè il suo legame  a condizioni di fatto complessive e transitorie da cui dipende anche la sua caducità. La felicità, oltre che al presente, può essere riferita al passato quando si associa ad uno stato trascorso, addolcito dal ricordo e reso estraneo dalla possibilità di venir contaminato da nuovi eventi, o al futuro come situazione limite, punto estremo della tensione che proietta l’uomo verso l’appagamento dei desideri e delle aspirazioni che accompagnano la sua vita. Accanto alla nozione di felicità come pura e semplice soddisfazione del desiderio è andata storicamente affermandosi una nozione che, connettendo la felicità alla virtù e alla saggezza, approda all’idea di una felicità collettiva, sociale e culturale, risultante dal giusto equilibrio tra desideri e dati di realtà, con conseguente analisi del sistema di piaceri e del loro funzionamento complessivo nell’ambito delle relazioni che legano l’uomo ai suoi simili. L’idea che la condizione umana esiga una dialettica di dolore, sforzo e impegno per far giungere a tale equilibrio, inserisce la nozione di felicità nello spazio teorico in cui si compenetrano pubblico e privato, politica e morale. Questo passaggio è così segnato  da S. Freud:  Se la civiltà impone sacrifici tanto grandi non solo alla sessualità ma anche all’aggressività dell’uomo, allora intendiamo meglio perché  l’uomo stenti a trovare  in essa la sua felicità. Di fatto l’uomo primordiale stava meglio perché ignorava qualsiasi restrizione alle proprie pulsioni. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L’uomo civile ha così barattato una parte della sua possibile felicità per un po’ di sicurezza”. 

Stupore Credo sia giusto definire lo stupore come uno stato psicopatologico caratterizzato da un rallentamento psicomotorio, da un pensiero improduttivo e da un comportamento passivo associato ad un donubilamento della coscienza ed a una inibizione delle capacità volitive. Lo stupore non costituisce una sindrome unitaria, ma la forma esteriore di diversi stati interiori come apatia, inibizione, angoscia, torpore, perplessità. Si manifesta nelle psicosi organiche, negli stati confusionali della schizofrenia, nelle depressioni endogene e nell’isteria. 

Sentimento Altro termine usato spesso e forse mai compreso bene per l’importanza che ognuno dovrebbe dare al significato  di questa risonanza affettiva meno intensa della passione e più duratura dell’emozione, con cui il soggetto vive i propri stati soggettivi e gli aspetti del mondo esterno.  Il sentimento è stato oggetto di analisi  e di considerazioni specifiche nell’ambito della psicologia del profondoNel campo della fenomenologia i contributi più significativi sono quelli di M. Scheler che partendo dal motivo pascaliano secondo cui “il cuore ha ragioni che la ragione non conosce”, rivendica uno specifico tratto conoscitivo della dimensione sentimentale che consiste nel modo di apprendere, acquisire atteggiarsi di fronte ad uno stato emotivo . Inoltre mentre lo stato emotivo ha un legame casuale con l’evento che ha prodotto, il sentimento è originariamente aperto al suo oggetto che è il valore dell’evento, per cui soffriamo di non poterci rallegrare quanto il valore dell’evento meriterebbe, o viceversa.  Prima di qualsiasi morale, religione e filosofia, il sentimento intuisce i valori che si distribuiscono in una scala promossa dai sentimenti connessi con la percezione come il piacere e il dolore, dai sentimenti vitali come la pienezza, il vuoto interiore, la tensione, dai sentimenti animici come l’amore l’odio, la gioia, la tristezza e sai sentimenti spirituali relativi al senso dell’esistenza e del mondo, come la speranza, la disperazione, la beatitudine, l’estasi. Anche M. Heidegger coglie nella situazione affettiva una caratteristica ontologica dell’esistenza umana in cui si esprime la tonalità emotiva con cui l’uomo è aperto al mondo. La situazione affettiva “non solo caratterizza ontologicamente l’Esserci ma, in virtù del suo aprire, assume una importanza metodica fondamentale per l’analitica esistenziale”. La situazione affettiva designa quel “trovarsi lì” dell’uomo nella sua apertura al mondo, che è una apertura sempre sentimentalmente determinata. Ciò che in sede ontologica designiamo con l’espressione “situazione emotiva” è anticamente noto nella quotidianità sotto il nome di tonalità emotiva , umore. 

Sguardo Infine nello sguardo vedo la forma più interessante e fondamentale di interazione tra gli esseri umani a partire dai primi stadi della vita. Quando, dopo poche settimane prende avvio la relazione madre-bambino. I segnali trasmessi dallo sguardo, pur essendo differenziati da cultura a cultura, esprimono il mondo delle emozioni e delle intenzioni, a partire da quelle più semplici, come le forme di avvicinamento, fino alle più complesse che danno espressione all’amore e all’odio. In ambito fenomenologico lo sguardo è stato considerato come la forma originaria dell’essere per altri in quel gioco della soggettività dove lo sguardo, come scrive J. P. Sartre è la fonte di ogni oggettivazione” prima di tutto, lo sguardo altrui come condizione necessaria alla mia obiettività , è distruzione di ogni obiettività per me. Lo sguardo altrui mi raggiunge attraverso il mondo e non è solamente trasformazione di me stesso ma metamorfosi totale del mondo. Io sono guardato in un mondo guardato. Lo sguardo altrui nega le mie distanze dagli oggetti e dispiega le sue distanze. Dallo sguardo Sartre fa discendere la vergogna, il pudore, lo spazio delle possibilità dell’esistenza, e l’essenza nascosta del potere.

Publié dans:meditazioni |on 7 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

Coronation of the Virgin, altar of the Charterhouse of Villeneuve-lès-Avignon.

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Publié dans:immagini sacre |on 4 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

COMMENTO A ROMANI 8,9.11-13

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Romani%208,9.11-13

COMMENTO A ROMANI 8,9.11-13

Fratelli, 9 voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. 11 E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. 12 Così dunque fratelli, noi siamo debitori, ma non verso la carne per vivere secondo la carne; 13 poiché se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete.  

COMMENTO Romani 8,9.11-13 La vita secondo lo Spirito Nella seconda sezione della lettera ai Romani (cc. 6-8) Paolo mostra come la proposta di una giustificazione che avviene solo per mezzo della fede non spiana la strada al peccato, anzi lo elimina definitivamente insieme a due altre realtà che hanno collaborato con esso, il peccato e la morte (cc. 6-7). Nel c. 8 egli affronta il tema della vita nuova che si apre a colui che è diventato giusto mediante la fede. A tal fine egli riprende e rielabora alcune delle intuizioni che aveva già anticipato in 5,1-11. Nel nuovo capitolo l’apostolo mostra anzitutto come sia ormai lo Spirito a guidare l’uomo giustificato (vv. 1-13) e prosegue mettendo in luce come lo Spirito stesso trasformi intimamente non solo il credente ma anche tutto l’universo (vv. 14-25). Infine spiega come l’amore divino faccia sì che il credente sia vincitore su tutte le forze ostili che tentano di impedirgli il conseguimento della gloria finale (vv. 26-39). La liturgia utilizza a più riprese questo capitolo, selezionandone diversamente i versetti. La parte qui riportata si limita agli ultimi versetti della prima parte. Secondo Paolo lo Spirito, infuso nel credente per mezzo del battesimo, ha reso possibile ciò che la legge non poteva raggiungere, in quanto ha reso il credente capace di compiere pienamente la volontà di Dio riassunta in un unico precetto (vv. 1-4), con riferimento al comandamento dell’amore (cfr. 13,8-10). L’apostolo mostra poi che, in seguito a ciò, l’umanità si divide in due campi opposti: da una parte vi sono quelli che sono «secondo la carne» e dall’altra quelli che sono «secondo lo Spirito». I primi si danno pensiero delle cose della carne, ma questo pensiero li porta alla morte, poiché così facendo essi si rivoltano contro Dio; quelli invece che sono secondo lo Spirito pensano alle cose dello Spirito, e questo pensiero è per loro fonte di vita e di pace. Paolo conclude che coloro che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio (cfr. vv. 5-8). A questo punto inizia il testo liturgico. Paolo si rivolge direttamente ai suoi interlocutori e li invita a considerare fino in fondo la nuova situazione in cui si trovano. Essi non sono più «nella carne», ma «nello Spirito», dal momento che questo stesso Spirito abita in loro. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene (v. 9). Lo Spirito di Dio quindi non è altro che lo Spirito di Cristo. Perciò proprio in forza dello Spirito che è in loro essi appartengono a Cristo. Ora però, se Cristo abita in loro, da una parte il loro corpo è morto a causa del peccato, dall’altra però in loro opera lo Spirito che è sorgente di vita in forza della giustizia (v. 10). Essi cioè restano soggetti alla morte, in quanto partecipi di questa umanità dominata dal peccato; ma in forza della giustizia che è stata loro conferita possiedono già la vita che è dono dello Spirito. Ora se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in loro, quello stesso che ha risuscitato Cristo dai morti, cioè Dio, «farà vivere i loro corpi mortali» mediante lo Spirito che dimora in loro (v. 11). In altre parole lo stesso Spirito, mediante il quale Dio ha risuscitato Gesù dai morti, darà una nuova vita anche a coloro nei quali, in forza della giustificazione, è venuto ad abitare. Il credente, pur vivendo ancora in una situazione contrassegnata dalla morte fisica, pregusta già mediante l’opera dello Spirito quella vita nuova e indefettibile di cui gode il Cristo risuscitato. L’apostolo infine, rivolgendosi di nuovo affettuosamente ai suoi interlocutori («fratelli»), afferma che noi siamo ancora debitori, non però verso la carne, per vivere secondo la carne (v. 12): egli dirà in seguito che l’unico debito del credente è l’amore vicendevole (cfr. Rm 13,8). Egli prosegue poi ricordando loro che, se vivono secondo la carne, andranno incontro alla morte; ma se con l’aiuto dello Spirito fanno morire le opere del corpo, vivranno (v. 13). Lo Spirito dà dunque la vera vita all’uomo, in quanto gli permette di liberarsi dai condizionamenti della carne, cioè di evitare il peccato che porta inevitabilmente alla morte.

Linee interpretative Dio ha certamente delle aspettative nei confronti dell’uomo. Paolo le vede sintetizzate nell’unico comandamento che ha come oggetto l’amore del prossimo. Ma proprio questo comandamento non può essere attuato dall’uomo perché egli è soggetto al peccato, che si manifesta nel desiderio egoistico, di cui l’amore è esattamente il contrario. Perciò Paolo afferma che la salvezza non viene dalla promulgazione di una legge, per quanto giusta e santa essa possa essere. Per salvarsi l’uomo ha bisogno di un supplemento di grazia, che Dio infonde mediante lo Spirito, il dono per eccellenza di cui è dotato chi aderisce a Cristo mediante la fede. Di conseguenza solo il credente osserva pienamente la legge poiché lo Spirito opera ormai in lui e gli ispira una nuova mentalità e un nuovo modo di agire. Pur vivendo ancora in una carne mortale, egli è già partecipe di quella vita immortale che lo Spirito ha conferito a Cristo mediante la risurrezione e darà un giorno a tutti coloro che gli appartengono. Questa tesi, affermata con grande forza da Paolo contro tutte le accuse che gli venivano fatte dai suoi avversari, mette chiaramente in luce la dignità della persona umana. All’uomo, in quanto creatura dotata di ragione e di libertà, non conviene un agire imposto da una legge esterna, con le sue minacce e punizioni. L’uomo deve poter agire per una spinta interiore, che lo orienti al bene pur lasciandolo libero di fare le sue scelte. Lo Spirito svolge questo compito, in quando rendendo viva l’esperienza di Cristo nel suo cuore, può muovere l’uomo dall’interno e al tempo stesso garantisce la sua libertà. Perciò è solo lo Spirito che può guidare l’uomo a compiere liberamente la volontà di Dio e a vincere il peccato.  

COMMENTO A ZACCARIA 9,9-10

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COMMENTO A ZACCARIA 9,9-10

Così dice il Signore: 9 Esulta grandemente figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina.

10 Farà sparire i carri da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annunzierà la pace alle genti, il suo dominio sarà da mare a mare e dal fiume ai confini della terra.

COMMENTO Zaccaria 9,9-10 Il Messia umile e vittorioso Il libro di Zaccaria si divide in due sezioni, di cui solo la prima (cc. 1-8) raccoglie gli oracoli di questo profeta. La seconda sezione (cc. 9-14), diversa dalla prima per stile e contenuto, è attribuita invece un autore anonimo del tempo di Alessandro Magno: la sua interpretazione è resa difficile dall’accentuato simbolismo e dal cattivo stato del testo. Essa si divide in tre parti: nella prima parte si annunzia la venuta del regno di Dio, che coincide con il raduno dei giudei dispersi e con la caduta dei regni di questo mondo (9,1-11,3); nella seconda (11,4-14,21) si parla della liberazione di Gerusalemme mediante la sofferenza dei suoi rappresentanti, il buon pastore (11,4-16; 13,7-9) e colui che è stato trafitto (12,10-14); nella terza infine si annunzia che JHWH combatterà contro le nazioni e stabilirà su tutto il mondo la sua regalità (14,1-21). All’inizio della prima di queste tre parti si descrive lo straordinario effetto della parola di JHWH (9,1-8): come un potente esercito conquistatore essa percorre il regno di Siria e le città della Filistea e della Fenicia per fare di esse il suo popolo, dopo averle purificate dall’idolatria e averne fatto un’unica famiglia con Israele; su di esse JHWH vigilerà come una sentinella perché non gli siano poi nuovamente tolte. Al termine del brano iniziale si situa il testo liturgico, che si stacca dal precedente a motivo sia dello stile che del contenuto, anche se idealmente si collega con esso in quanto ambedue annunziano l’avvento dell’era messianica. Il profeta non si rivolge più alle città della Siria, Fenicia e Filistea, ma a Sion-Gerusalemme (v. 9a), per annunziare non una nuova conquista, ma la venuta del suo re salvatore (v. 9ab), non sulle nubi del cielo e nei fenomeni cosmici, ma cavalcando un giumento (v. 9b). La sua missione non è la guerra (v. 10a), ma la pace universale (v. 10b). Le parole e le immagini sono quelle usate dai profeti precedenti per annunziare il re messianico. Di nuovo c’è qui l’affermazione della solenne investitura regale del Messia in Gerusalemme in una fastosa celebrazione liturgica. Il testo si apre con un invito alla gioia: «Esulta grandemente figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme» (v. 9a). L’invito alla gioia più intensa, specialmente se rivolto agli abitanti di Gerusalemme, evoca una cerimonia liturgica in cui si solennizza la regalità divina (cfr. Is 65,18; 66,10; Ab 3,18). L’espressione «figlia di Sion» come la successiva «figlia di Gerusalemme» è un semitismo per indicare gli appartenenti alla collina di Sion, cioè gli abitanti di Gerusalemme. Anche il verbo «giubilare» evoca la circostanza di una solenne liturgia (cfr. Esd 3,13) nella quale si esprime la gioia dell’avvento della regalità di JHWH (cfr. Sal 47,2; 66,1; 95,1-2; 98,4.6). I profeti invitano alla gioia e al giubilo quando annunziano la manifestazione gloriosa di Dio nell’era messianica (cfr. Is 44,23; Sof 3,14; Gl 2,1). Il motivo del giubilo viene indicato subito dopo con questa espressione: «Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca su un asino, un puledro figlio d’asina» (v. 9b). La particella «ecco» indica che l’evento di cui si sta per parlare è imminente. L’espressione «a te viene il tuo re» indica che l’evento in questione è la venuta a Gerusalemme del Messia. Da dove egli venga non è indicato; la sua apparizione è immediata e misteriosa, come quella di JHWH stesso. Così le antiche profezie del messianismo reale davidico sempre più si colorano di elementi sovrumani, mentre sempre più d’altro canto va sbiadendosi il colore politico e storico del personaggio. Il primo attributo che caratterizza il Messia è la giustizia. Il giusto è colui che ha raggiunto la perfezione religiosa in quanto compie nella maniera più completa quello che Dio esige da lui, diventando per questo oggetto delle benedizioni divine (cfr. Dt 6,25; Pr 10,6). Sono modello dell’uomo giusto sia Noè (cfr. Gen 6,9; 7,1) che Abramo (Gen 15,6). La giustizia è un attributo del re (cfr. 1Sam, 24,18; 2Sam 4,11; 2Sam 23,3): a maggior ragione quindi il Messia è presentato come il giusto per eccellenza (cfr. Ger 23,5). Il Messia non è solo giusto, ma anche «vittorioso» (lett. salvatore). La salvezza, come la giustizia, è attribuita a JHWH dal Deuteroisaia (cfr. Is 45,21): secondo questo testo anche il Messia partecipa di questa prerogativa in quanto egli collabora all’opera di JHWH che gli conferisce la vittoria sui suoi nemici. Infine qusto re è «mite»: mentre i due primi attributi rivelano i suoi rapporti con JHWH, la mitezza indica il suo ateggiamento nei confronti degli uomini. Questo attributo è appare come una caratteristica di Mosè nei suoi rapporti con Miriam ed Aronne, invidiosi della sua condizione privilegiata(cfr. Nm 12,3). Come lui anche il re messianico, benché giusto e quindi particolarmente protetto da Dio, non si esalta né davanti a Dio né davanti agli uomini. Egli «cavalca sopra un asino»: mentre guerrieri valorosi e crudeli (cfr. Gr 6,23; 50,42), e anche Dio stesso (cfr. Ab 3,8), manifestano la loro dignità servendosi di cavalli, egli mostra la sua umiltà e mitezza cavalcando un asinello. Così aveva fatto Abigail davanti a David (cfr. 1Sam 25,20-43) e Davide stesso in fuga davanti al figlio Assalonne (cfr. 2Sam 16,2). Allo stesso modo il re messianico si presenta come una persona umile e semplice, e non come un re terreno o un guerriero vittorioso. Per le regole del parallelismo le due espressioni «asino» e «figlio di un’asina» si equivalgono. Al re che entra trionfalmente in Gerusalemme vengono attribuite due azioni parallele, una negativa e l’altra positiva. Prima di tutto egli «farà sparire i carri da Efraim e i cavalli da Gerusalemme» (v. 10a). Il nome Efraim è quello di uno dei due figli di Giuseppe e indica la tribù maggioritaria del Nord e quindi per metonimia tutto il regno di Israele in contrasto con il regno di Giuda, indicato con il nome della sua capitale, Gerusalemme. Sia in Israele che in Giuda gli farà dunque sparire tutti gli strumenti di guerra. Ciò significa che nell’era messianica non vi sarà più divisione fra il regno di Israele e quello di Giuda e il re messianico regnerà quindi su tutto Israele. Oltre a far scomparire carri da guerra e cavalli, il re spezzerà per sempre l’arco, l’arma ordinaria in dotazione all’esercito di Israele (cfr. Os 2,20; 1Cr 5,18; ecc.). In senso negativo si dice dunque che il Messia eliminerà la guerra per sempre. In senso positivo si afferma invece che il Messia «annunzierà la pace alle genti, il suo dominio sarà da mare a mare e dal fiume ai confini della terra» (v. 10b). La sua missione principale sarà quella di proclamare la pacificazione fra i popoli, come già avevano annunziato Isaia (cfr. Is 11,6) e Osea (cfr. Os 2,20). La sua missione pacificatrice si estenderà da un mare, il Mediterraneo, a un altro mare, il golfo Persico, e dal fiume, il Nilo, sino ai confini della terra: tutte e quattro le indicazioni geografiche, che ritornano anche nel Sal 72,8, indicano simbolicamente l’universalità del regno messianico.

Linee interpretative In questo testo si preannunzia la venuta del « Messia », la cui attesa si era diffusa nel periodo postesilico tra tutto il popolo giudaico. Egli viene presentato come un re che prende possesso delle due nazioni israelitiche, Israele e Giuda, che vengono nuovamente unite per formare l’unico popolo eletto; inoltre viene indicato come colui che stabilirà il dominio di Dio su tutto il mondo. Per mezzo suo si realizza dunque il regno universale di Dio. La caratteristica fondamentale di questo regno è la pace. Questa viene descritta, alla luce dell’ideologia tipica dell’antico Oriente, come l’eliminazione forzata dei conflitti mediante la vittoria di un re su tutti i regni vicini. Era questo il modo in cui si pensava di poter rappacificare le nazioni in lotta e creare nuove condizioni di vita per tutti. Di questo tipo era la pace imposta dai grandi imperi dell’antichità e soprattutto dai romani (pax romana). Pur ispirandosi a questa ideologia il testo di Zaccaria la supera decisamente. Il re Messia è presentato come una persona giusta e mite, cioè non violento. Ciò che gli compete non è tanto la vittoria sui nemici, come lascia intendere la traduzione CEI, quanto piuttosto la capacità di dare una salvezza che consiste non nel reprimere la violenza con la violenza, ma nel creare rapporti nuovi tra le nazioni e gli individui. Di conseguenza la pace che egli porta elimina alla radice la possibilità stessa di nuove violenze. Ciò è possibile perché egli è un giusto, e ispira il suo intervento alla giustizia, che consiste essenzialmente nell’osservanza della legge di Dio. Egli attua così la figura ideale del re, quale era descritta nella Scritture (cfr Dt 17,14-20). Mediante la sua umiltà e non violenza il Messia descritto da Zaccaria manifesta la vera immagine di Dio, che attua la sua salvezza non mediante il ricorso a minacce e castighi, ma muovendo il cuore delle persone perché colgano un ideale e si impegnino in esso con tutte le forze.

 

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