Archive pour juillet, 2014

BENEDETTO XVI : SAN BONAVENTURA – 15 LUGLIO

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20100303_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 3 marzo 2010

SAN BONAVENTURA – 15 LUGLIO

(tre catechesi la seconda, link:

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20100310_it.html

la terza

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20100317_it.html

Cari fratelli e sorelle,

quest’oggi vorrei parlare di san Bonaventura da Bagnoregio. Vi confido che, nel proporvi questo argomento, avverto una certa nostalgia, perché ripenso alle ricerche che, da giovane studioso, ho condotto proprio su questo autore, a me particolarmente caro. La sua conoscenza ha inciso non poco nella mia formazione. Con molta gioia qualche mese fa mi sono recato in pellegrinaggio al suo luogo natio, Bagnoregio, una cittadina italiana, nel Lazio, che ne custodisce con venerazione la memoria.
Nato probabilmente nel 1217 e morto nel 1274, egli visse nel XIII secolo, un’epoca in cui la fede cristiana, penetrata profondamente nella cultura e nella società dell’Europa, ispirò imperiture opere nel campo della letteratura, delle arti visive, della filosofia e della teologia. Tra le grandi figure cristiane che contribuirono alla composizione di questa armonia tra fede e cultura si staglia appunto Bonaventura, uomo di azione e di contemplazione, di profonda pietà e di prudenza nel governo.
Si chiamava Giovanni da Fidanza. Un episodio che accadde quando era ancora ragazzo segnò profondamente la sua vita, come egli stesso racconta. Era stato colpito da una grave malattia e neppure suo padre, che era medico, sperava ormai di salvarlo dalla morte. Sua madre, allora, ricorse all’intercessione di san Francesco d’Assisi, da poco canonizzato. E Giovanni guarì.
La figura del Poverello di Assisi gli divenne ancora più familiare qualche anno dopo, quando si trovava a Parigi, dove si era recato per i suoi studi. Aveva ottenuto il diploma di Maestro d’Arti, che potremmo paragonare a quello di un prestigioso Liceo dei nostri tempi. A quel punto, come tanti giovani del passato e anche di oggi, Giovanni si pose una domanda cruciale: “Che cosa devo fare della mia vita?”. Affascinato dalla testimonianza di fervore e radicalità evangelica dei Frati Minori, che erano giunti a Parigi nel 1219, Giovanni bussò alle porte del Convento francescano di quella città, e chiese di essere accolto nella grande famiglia dei discepoli di san Francesco. Molti anni dopo, egli spiegò le ragioni della sua scelta: in san Francesco e nel movimento da lui iniziato ravvisava l’azione di Cristo. Scriveva così in una lettera indirizzata ad un altro frate: “Confesso davanti a Dio che la ragione che mi ha fatto amare di più la vita del beato Francesco è che essa assomiglia agli inizi e alla crescita della Chiesa. La Chiesa cominciò con semplici pescatori, e si arricchì in seguito di dottori molto illustri e sapienti; la religione del beato Francesco non è stata stabilita dalla prudenza degli uomini, ma da Cristo” (Epistula de tribus quaestionibus ad magistrum innominatum, in Opere di San Bonaventura. Introduzione generale, Roma 1990, p. 29).
Pertanto, intorno all’anno 1243 Giovanni vestì il saio francescano e assunse il nome di Bonaventura. Venne subito indirizzato agli studi, e frequentò la Facoltà di Teologia dell’Università di Parigi, seguendo un insieme di corsi molto impegnativi. Conseguì i vari titoli richiesti dalla carriera accademica, quelli di “baccelliere biblico” e di “baccelliere sentenziario”. Così Bonaventura studiò a fondo la Sacra Scrittura, le Sentenze di Pietro Lombardo, il manuale di teologia di quel tempo, e i più importanti autori di teologia e, a contatto con i maestri e gli studenti che affluivano a Parigi da tutta l’Europa, maturò una propria riflessione personale e una sensibilità spirituale di grande valore che, nel corso degli anni successivi, seppe trasfondere nelle sue opere e nei suoi sermoni, diventando così uno dei teologi più importanti della storia della Chiesa. È significativo ricordare il titolo della tesi che egli difese per essere abilitato all’insegnamento della teologia, la licentia ubique docendi, come si diceva allora. La sua dissertazione aveva come titolo Questioni sulla conoscenza di Cristo. Questo argomento mostra il ruolo centrale che Cristo ebbe sempre nella vita e nell’insegnamento di Bonaventura. Possiamo dire senz’altro che tutto il suo pensiero fu profondamente cristocentrico.
In quegli anni a Parigi, la città di adozione di Bonaventura, divampava una violenta polemica contro i Frati Minori di san Francesco d’Assisi e i Frati Predicatori di san Domenico di Guzman. Si contestava il loro diritto di insegnare nell’Università, e si metteva in dubbio persino l’autenticità della loro vita consacrata. Certamente, i cambiamenti introdotti dagli Ordini Mendicanti nel modo di intendere la vita religiosa, di cui ho parlato nelle catechesi precedenti, erano talmente innovativi che non tutti riuscivano a comprenderli. Si aggiungevano poi, come qualche volta accade anche tra persone sinceramente religiose, motivi di debolezza umana, come l’invidia e la gelosia. Bonaventura, anche se circondato dall’opposizione degli altri maestri universitari, aveva già iniziato a insegnare presso la cattedra di teologia dei Francescani e, per rispondere a chi contestava gli Ordini Mendicanti, compose uno scritto intitolato La perfezione evangelica. In questo scritto dimostra come gli Ordini Mendicanti, in specie i Frati Minori, praticando i voti di povertà, di castità e di obbedienza, seguivano i consigli del Vangelo stesso. Al di là di queste circostanze storiche, l’insegnamento fornito da Bonaventura in questa sua opera e nella sua vita rimane sempre attuale: la Chiesa è resa più luminosa e bella dalla fedeltà alla vocazione di quei suoi figli e di quelle sue figlie che non solo mettono in pratica i precetti evangelici ma, per la grazia di Dio, sono chiamati ad osservarne i consigli e testimoniano così, con il loro stile di vita povero, casto e obbediente, che il Vangelo è sorgente di gioia e di perfezione.
Il conflitto fu acquietato, almeno per un certo tempo, e, per intervento personale del Papa Alessandro IV, nel 1257, Bonaventura fu riconosciuto ufficialmente come dottore e maestro dell’Università parigina. Tuttavia egli dovette rinunciare a questo prestigioso incarico, perché in quello stesso anno il Capitolo generale dell’Ordine lo elesse Ministro generale.
Svolse questo incarico per diciassette anni con saggezza e dedizione, visitando le province, scrivendo ai fratelli, intervenendo talvolta con una certa severità per eliminare abusi. Quando Bonaventura iniziò questo servizio, l’Ordine dei Frati Minori si era sviluppato in modo prodigioso: erano più di 30.000 i Frati sparsi in tutto l’Occidente con presenze missionarie nell’Africa del Nord, in Medio Oriente, e anche a Pechino. Occorreva consolidare questa espansione e soprattutto conferirle, in piena fedeltà al carisma di Francesco, unità di azione e di spirito. Infatti, tra i seguaci del santo di Assisi si registravano diversi modi di interpretarne il messaggio ed esisteva realmente il rischio di una frattura interna. Per evitare questo pericolo, il Capitolo generale dell’Ordine a Narbona, nel 1260, accettò e ratificò un testo proposto da Bonaventura, in cui si raccoglievano e si unificavano le norme che regolavano la vita quotidiana dei Frati minori. Bonaventura intuiva, tuttavia, che le disposizioni legislative, per quanto ispirate a saggezza e moderazione, non erano sufficienti ad assicurare la comunione dello spirito e dei cuori. Bisognava condividere gli stessi ideali e le stesse motivazioni. Per questo motivo, Bonaventura volle presentare l’autentico carisma di Francesco, la sua vita ed il suo insegnamento. Raccolse, perciò, con grande zelo documenti riguardanti il Poverello e ascoltò con attenzione i ricordi di coloro che avevano conosciuto direttamente Francesco. Ne nacque una biografia, storicamente ben fondata, del santo di Assisi, intitolata Legenda Maior, redatta anche in forma più succinta, e chiamata perciò Legenda minor. La parola latina, a differenza di quella italiana, non indica un frutto della fantasia, ma, al contrario, “Legenda” significa un testo autorevole, “da leggersi” ufficialmente. Infatti, il Capitolo generale dei Frati Minori del 1263, riunitosi a Pisa, riconobbe nella biografia di san Bonaventura il ritratto più fedele del Fondatore e questa divenne, così, la biografia ufficiale del Santo.
Qual è l’immagine di san Francesco che emerge dal cuore e dalla penna del suo figlio devoto e successore, san Bonaventura? Il punto essenziale: Francesco è un alter Christus, un uomo che ha cercato appassionatamente Cristo. Nell’amore che spinge all’imitazione, egli si è conformato interamente a Lui. Bonaventura additava questo ideale vivo a tutti i seguaci di Francesco. Questo ideale, valido per ogni cristiano, ieri, oggi, sempre, è stato indicato come programma anche per la Chiesa del Terzo Millennio dal mio Predecessore, il Venerabile Giovanni Paolo II. Tale programma, egli scriveva nella Lettera Novo Millennio ineunte, si incentra “in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste” (n. 29).
Nel 1273 la vita di san Bonaventura conobbe un altro cambiamento. Il Papa Gregorio X lo volle consacrare Vescovo e nominare Cardinale. Gli chiese anche di preparare un importantissimo evento ecclesiale: il II Concilio Ecumenico di Lione, che aveva come scopo il ristabilimento della comunione tra la Chiesa Latina e quella Greca. Egli si dedicò a questo compito con diligenza, ma non riuscì a vedere la conclusione di quell’assise ecumenica, perché morì durante il suo svolgimento. Un anonimo notaio pontificio compose un elogio di Bonaventura, che ci offre un ritratto conclusivo di questo grande santo ed eccellente teologo: “Uomo buono, affabile, pio e misericordioso, colmo di virtù, amato da Dio e dagli uomini… Dio infatti gli aveva donato una tale grazia, che tutti coloro che lo vedevano erano pervasi da un amore che il cuore non poteva celare” (cfr J.G. Bougerol, Bonaventura, in A. Vauchez (a cura), Storia dei santi e della santità cristiana. Vol. VI. L’epoca del rinnovamento evangelico, Milano 1991, p. 91).
Raccogliamo l’eredità di questo santo Dottore della Chiesa, che ci ricorda il senso della nostra vita con le seguenti parole: “Sulla terra… possiamo contemplare l’immensità divina mediante il ragionamento e l’ammirazione; nella patria celeste, invece, mediante la visione, quando saremo fatti simili a Dio, e mediante l’estasi … entreremo nel gaudio di Dio” (La conoscenza di Cristo, q. 6, conclusione, in Opere di San Bonaventura. Opuscoli Teologici /1, Roma 1993, p. 187).

Publié dans:Papa Benedetto XVI, Santi |on 14 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

FIUMI D’ACQUA VIVA SGORGHERANNO DAL SUO SENO

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FIUMI D’ACQUA VIVA SGORGHERANNO DAL SUO SENO

Se vi è in noi il desiderio di affidare allo Spirito Santo l’azione di rinnovare la nostra vita spirituale, non possiamo non approfondire, in verità, la conoscenza, della terza persona della Santissima Trinità. Rimanere nell’ignoranza riguardo alla Persona dello Spirito Santo, non soltanto ci limita in un vero e ortodosso cammino spirituale, ma ci impedisce, ancora di più, di vivere una fede viva, efficace ed evangelizzatrice:
non basta invocarlo, piuttosto dobbiamo permettergli di agire nella nostra vita, lasciarci guidare da Lui:

« Chi ha sete venga a me e beva, chi crede in me, (come dice la scrittura) fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno » (Gv 7,37).

Spesso si corre il rischio di spiritualizzare o distorcere a nostro uso e consumo l’azione dello Spirito Santo, come del resto avviene anche per la figura del Padre e di suo figlio, nostro Signore Gesù Cristo. Lo Spirito Santo è colui che spezza e corregge la visione di Dio nel nostro cuore e nella nostra mente. E’ lo Spirito Santo che rende continua e viva nella Chiesa la vita di Gesù e rende viva nel credente la coscienza che Gesù è il figlio di Dio ed è il Signore.
Lo Spirito Santo è quel collirio che ci dà la capacità di correggere e vedere con esattezza Dio: « Lo Spirito Santo vi guiderà alla verità tutta intera » (Gv 16,13).Non possiamo testimoniare che Gesù è veramente il Signore della nostra vita se non sotto l’azione dello Spirito come ci ricorda San Paolo nella lettera ai Corinzi al capitolo 12 versetto 3: « Fratelli nessuno può dire Gesù è il Signore se non sotto l’azione dello Spirito Santo ». A questo punto poniamoci alcune domande: « Riusciamo ad essere testimoni di Cristo nei vari ambiti dove siamo chiamati a svolgere i nostri servizi? Meglio ancora: i bambini, gli adolescenti, i giovani, le famiglie, le persone insomma alle quali siamo chiamati ad essere un punto di riferimento nelle varie realtà della nostra parrocchia, quando ci vedono, vedono in noi solo una persona oppure un testimone di Gesù, vedono soltanto se abbiamo i capelli neri, biondi, castani, come siamo vestiti, oppure vedono in noi delle persone talmente innamorate di Dio al punto da voler assomigliare in tutto al Figlio?
Traspare dalla nostra vita, dai nostri modi di fare, di parlare, di essere che non abbiamo scelto un’ideologia o aderito a delle nozioni, ma ad una persona: Gesù!
Osservandoci, sono colti dal desiderio e dalla nostalgia di conoscere il Signore e di innamorarsi di Lui?
Guardandoci nasce in loro il desiderio che nasceva nel cuore di coloro che incontravano i discepoli del Messia al punto che li supplicavano dicendo: « Vogliamo venire con voi! » Siamo innamorati pazzamente di Cristo? Siamo suoi testimoni credibili? Vi leggo un brano preso dalla « Esortazione apostolica di Sua Santità Paolo VI » al punto 41 dal titolo « La testimonianza della vita »: « … per la Chiesa, la testimonianza di una vita autenticamente cristiana, abbandonata in Dio… , è il primo mezzo di evangelizzazione. «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, – dicevamo lo scorso anno a un gruppo di laici – o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni» (67). È dunque mediante la sua condotta, mediante la sua vita, che la Chiesa evangelizzerà innanzitutto il mondo, vale a dire mediante la sua testimonianza vissuta di fedeltà al Signore Gesù, di povertà e di distacco, di libertà di fronte ai poteri di questo mondo, in una parola, di santità. »
Capiamo, quindi, quanto sia importante, specialmente in questi tempi, essere veri con noi stessi per essere veri con Dio, Lui sa già che non siamo perfetti, che non siamo infallibili, che non siamo senza peccato e che mai lo saremo su questa terra; ma sa anche cosa siamo in grado di fare: Dio ci conosce meglio di noi stessi e sa benissimo che può fidarsi di noi, credere in noi, contare su di noi.
Dio conta su di te e sa anche che non lo deluderai perché sei il suo « figlio prediletto »! Ognuno di noi è il suo « figlio prediletto »! La nostra testimonianza di vita nel servizio che svolgiamo non è quindi un optional, ma è l’essenza del nostro servire, è ciò che lo caratterizza completamente, è come diceva Paolo VI « … il primo mezzo di evangelizzazione ». A questo punto dobbiamo ricordarci che non possiamo testimoniare, dicevamo poco fa, che Gesù è veramente il Signore della nostra vita se non sotto l’azione dello Spirito e ricordavamo cosa dice San Paolo nella lettera ai Corinzi al capitolo 12 versetto 3: « Fratelli nessuno può dire Gesù è il Signore se non sotto l’azione dello Spirito Santo ».
A tutti è capitato di osservare qualche volta la scena di un’auto in panne con dentro l’autista e dietro una o due persone che spingono faticosamente, cercando inutilmente di imprimere all’auto la velocità necessaria per partire. Ci si ferma, si asciuga il sudore, e ci si rimette a spingere… Poi improvvisamente, un rumore, il motore si mette in moto, l’auto va, e quelli che spingevano si rialzano con un sospiro di sollievo. È un’immagine di ciò che avviene nella vita cristiana. Si va avanti a forza di spinte, con fatica, senza grandi progressi. E pensare che abbiamo a disposizione un motore potentissimo (« la potenza dall’alto »!) che aspetta solo di essere messo in moto.
La festa di Pentecoste dovrebbe aiutarci a scoprire questo motore e come si fa a metterlo in azione.
Il segreto per sperimentare quella che Giovanni XXIII chiamava « una nuova Pentecoste » si chiama preghiera. È lì che scocca la « scintilla » che accende il motore! Gesù ha promesso che il Padre celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono (Lc 11, 13). Chiedere, dunque!
La liturgia di Pentecoste ci offre espressioni magnifiche, con la centenaria sequenza, per farlo: « Vieni, Santo Spirito…Vieni, padre dei poveri, vieni datore dei doni, vieni luce dei cuori. Nella fatica riposo, nella calura riparo, nel pianto conforto. Vieni , Santo Spirito! »
Prima di scoprire chi è questo motore e come si fa a metterlo in azione, diventa importante chiedersi: chi sono io e quanto valgo? Ragioniamo ovviamente in termini spirituali e non carnali. C’è stato un evento straordinario nella nostra vita che ci definisce come niente e mai potrà farlo; qual è questo evento? Se ben pensaimo arriviamo alla conclusione inevitabile che questo evento irripetibile ed unico, potente ed umile c’è: è Il battesimo!
Cosa ho ricevuto nel battesimo? Cosa sono diventato grazie al battesimo? Che doni mi sono stati affidati nel battesimo? Abbiamo mai utilizzato i doni che il Signore ci ha messo nelle mani il giorno del battesimo? Viviamo da battezzati? Siamo pienamente consapevoli di ciò che abbiamo ricevuto nel nostro spirito, di ciò che siamo diventati e delle nostre immense potenzialità in quanto « figli di Dio »? Oppure dobbiamo parlare di un « sacramento legato », cioè di un sacramento nel quale il suo frutto rimane vincolato, non usufruito, per mancanza di certe condizioni che ne impediscono l’efficacia?
Questo succede perché i sacramenti non sono riti magici che agiscono meccanicamente, all’insaputa dell’uomo, o prescindendo da ogni collaborazione. La loro efficacia è frutto di una sinergia o collaborazione, tra l’onnipotenza divina (la grazia dello Spirito Santo) e la libertà umana, perché come dice S. Agostino: « Chi ti ha creato senza il tuo concorso, non ti salva senza la tua collaborazione ». Ancora meglio, il frutto del sacramento dipende tutto dalla grazia divina; solo che essa non agisce senza il consenso e l’apporto della creatura. Dio si comporta come lo sposo che non impone il suo amore per forza, ma che attende il « sì » libero della sposa.
Nel sacramento del battesimo vi sono due protagonisti: il primo è rappresentato da tutto ciò che è opera della grazia divina e dalla volontà del Cristo, il secondo è rappresentato dalla libertà dell’uomo, dalle sue disposizioni. Il primo protagonista opera sempre, è immancabile nel sacramento, mentre il secondo dipende dalla volontà e dall’apporto dell’uomo. La parte che Dio compie sempre riguarda: la remissione dei peccati, il dono delle virtù teologali (fede, speranza e carità) e il dono meraviglioso che fa all’uomo facendolo diventare figlio di Dio; tutto questo avviene grazie all’efficace azione dello Spirito Santo.
Vi racconto un’altra storia: all’inizio del secolo una famiglia del sud Italia emigra negli Stati Uniti.
Non avendo abbastanza denaro per pagarsi i pasti al ristorante, portano con sé il vitto per il viaggio: pane e formaggio. Col passare dei giorni e delle settimane il pane diventa raffermo e il formaggio ammuffito; il figlio a un certo punto non ne può più e non fa che piangere. I genitori tirano fuori allora i pochi spiccioli rimasti e glieli danno perché si goda un bel pasto al ristorante. Il figlio va, mangia e torna dai genitori tutto in lacrime. « Come, abbiamo speso tutto per pagarti un bel pranzo e tu ancora piangi? » « Piango perché ho scoperto che un pranzo al giorno al ristorante era compreso nel prezzo, e noi abbiamo mangiato tutto il tempo pane e formaggio! ».
Molti cristiani fanno la traversata della vita a « pane e formaggio », senza gioia, senza entusiasmo, quando potrebbero, spiritualmente parlando, godere ogni giorno di ogni « ben di Dio ».
Il battesimo è veramente quel sacramento che ci farebbe vivere ogni giorno con ogni « ben di Dio » a nostra completa disposizione, è quel « tutto compreso » del quale però non abbiamo ancora preso piena consapevolezza.
Il battesimo è davvero un ricchissimo pacco-dono che abbiamo ricevuto al momento della nostra nascita in Dio. Ma è un pacco-dono ancora sigillato: siamo ricchi perché lo possediamo, ma non sappiamo ancora di possederlo e cosa possediamo; parafrasando una parola di Giovanni, potremmo dire: « Noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che siamo non è stato ancora rivelato » (1Gv 3,2). Ecco perché diciamo che, nella maggioranza dei cristiani, il battesimo è un sacramento « legato »!
Questa è la parte del primo protagonista, è la parte di Dio. Ma in cosa consiste la parte del secondo protagonista, dell’uomo? Consiste nella fede! « Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo » (Mc 16,16): accanto al battesimo c’è dunque la fede dell’uomo. « A quanti però l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome » (Gv 1,12).
Il battesimo è una perla perché esso è il frutto del sangue di Cristo.
Ecco che si realizza quel brano del vangelo che abbiamo già ascoltato: « Chi ha sete venga a me e beva, chi crede in me, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno » (Gv 7,37).
Ci viene richiesta la Fede, quella con la « F » maiuscola!
Quella fatta di preghiera e opere, di abbandono e carità instancabile. Quella fatta di perdono ricevuto e di perdono donato. Nel nome e nella grazia di Cristo. Ecco il motivo per il quale siamo qui riuniti nel pomeriggio della solennità di Pentecoste, siamo qui per chiedere al Padre per mezzo di Gesù una « nuova e consapevole effusione » di Spirito Santo su ognuno di noi affinché possiamo far rivivere il nostro battesimo. Non un qualcosa in più ma, piuttosto, un dono che accenda tutto l’immenso tesoro a noi già donato.
E’ giusto spiegare questa « nuova effusione » in riferimento al battesimo, è altrettanto vero che essa fa rivivere anche la prima comunione, la cresima, l’ordinazione sacerdotale o episcopale, la professione religiosa, il matrimonio. In sintesi tutte le grazie e i carismi ricevuti nella nostra vita vengono rivitalizzati e rinnovati. Se vogliamo usare un’immagine, permettiamo allo Spirito Santo di levarvi la polvere che vi si è posata sopra e che non permetteva a queste grazie, a questi doni, a questi sacramenti di splendere in tutta la loro bellezza e lucentezza. E’ davvero la grazia di una nuova Pentecoste.
La definizione che più si avvicina alla realtà è che l’effusione è un evento spirituale. Un evento nel senso che qualcosa avviene, che lascia il segno, che crea una novità in una vita; ma un evento spirituale: spirituale perché avviene nello spirito, cioè nell’interiorità dell’uomo e gli altri possono benissimo non accorgersi di nulla; spirituale, soprattutto perché esso è opera dello Spirito Santo.
Ma una cosa è certa: questa sera scenderà ancora una volta su ognuno di noi, come nel giorno di Pentecoste di duemila anni fa quando Maria e gli apostoli erano riuniti nel cenacolo in preghiera, come lo siamo noi adesso. E come loro, anche noi usciremo da questa Chiesa diversi, da come ne siamo entrati, sicuramente rinnovati interiormente grazie a quello Spirito Santo che abita in noi dal giorno del nostro battesimo e che fa di noi « tempio santo dello Spirito di Dio »!
Lasciamoci fare da Dio; poniamo in Lui e nel Suo agire ogni fiducia.
Vorrei concludere questo intervento con un bel testo dell’apostolo Paolo, del quale stiamo celebrando il giubileo, che parla proprio della riviviscenza, cioè del far rivivere il dono di Dio. Ascoltiamolo come un invito rivolto a ciascuno di noi: « Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno Spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza » (2 Tm 1,6-7).

Amen!
Alleluja!

A. Ridolfi

La Parabola del Seminatore

La Parabola del Seminatore dans immagini sacre pilda-mantuitorului

http://christianorthodox.wordpress.com/2009/10/page/2/

Publié dans:immagini sacre |on 11 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

METTERSI IN ASCOLTO DELLA PAROLA – OMELIA XV DOMENICA DEL T.O.

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/32020.html

padre Antonio Rungi

METTERSI IN ASCOLTO DELLA PAROLA

Viviamo in un mondo, dove tutti vogliono parlare e solo pochi sanno ascoltare. In realtà dovrebbe essere il contrario. Ascoltare molto e parlare poco, perché le nostre parole spesso sono vuote ed insignificanti o addirittura fanno disastri, offendono, mistificano e creano seri problemi di comunicazione interpersonale.
Al centro della liturgia odierna c’è appunto l’importanza dell’ascolto della parola di Dio, dell’efficacia della stessa e dei frutti che produce in modo diversificato in chi è disponibile a lasciarsi toccare nel cuore da questa parola.
Partendo dalla prima lettura, tratta dal profeta Isaia, cogliamo in essa tutta l’importanza ed il valore della parola assimilata alla pioggia che cade dal cielo e che irriga e fa germogliare ogni cosa. Quanto più è predisposta e dissodata ed accogliente questa terra, che è il cuore e la mente dell’uomo, tanto più la parola di Dio fa effetto e produce frutti, espressi in opere di bene e di santità.
Le varie immagini tratte dalla natura e dall’ambiente di vita quotidiana ci aiutano a capire, secondo quando scrive il profeta Isaia, come bisogna rapportarsi alla Parola di Dio, che esce dalla sua bocca e non vi ritorna senza aver prodotto ciò per cui l’ha inviata. Qui è chiaro il riferimento alla Parola di Dio per eccellenza, che è Gesù Cristo, il Verbo Incarnato che viene in questo mondo e salva l’uomo dalla schiavitù del peccato, per poi ritornare al Padre, dove aver ultimato la sua missione di redentore e salvatore. In questa Parola dobbiamo riscoprire il valore e il significato di ogni altra parola di Dio o dell’uomo. Nella misura in cui ci confrontiamo con Cristo, parola di Dio rivelata a noi, noi possiamo comprendere il linguaggio stesso di Dio, che è il linguaggio dell’amore, della misericordia e del perdono.
Per questa parola, che ci ha preso il cuore e la vita, bisogna sapere soffrire ed accettare ogni cosa nella nostra esistenza terrena, senza mai abbattersi, scoraggiarsi, demotivarsi; ma guardando avanti nel segno di questa parola che è vita, gioia, speranza e risurrezione. Se non avessimo fiducia nella parola del Signore, ogni cosa che facciamo come cristiani perderebbe di senso e prospettiva. E’ proprio questa fiducia nella parola del Signore che ci fa operare, agire, sperare e soffrire per amore e con amore, come Cristo ha fatto per noi.
L’apostolo Paolo sottolinea questo aspetto nel brano della seconda lettura di questa domenica, tratto dalla celebre Lettera ai Romani. Nel tempo noi gemiamo, soffriamo, patiamo, ma in questo nostro tempo che il Signore ha consegnato nella consistenza e nella qualità a ciascuno di noi, noi costruiamo quello che sarà il senza tempo, sarà l’eternità, sarà Dio per sempre con noi e per noi. Infatti, « noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo ». E’ questa visione di beatitudine piena e definitiva che predispone il nostro cuore ad accogliere la parola e in nome di questa parola affrontare ogni prova della vita.
In questa logica di accoglienza si comprende benissimo la bellissima ed espressiva parabola detta da Gesù in persona ai tanti suoi amici fedeli che lo seguivano. E’ la parabola del Seminatore. Gesù siede e spiega. La gente è sulla spiaggia ed ascolta. Quale migliore ambiente per rivivere questa parola, oggi, in tempo di ferie estive, per chi se le può permettere, che fare una catechesi in riva al mare, come Gesù osava fare. Catechesi fatte bene, con la calma, nel silenzio, nel raccoglimento. Erano altri tempi, altre spiagge, altri ascoltatori quelli del tempo di Gesù. Oggi le nostre spiagge sono ben altra cosa che luoghi di ascolto della natura e della voce di Dio e dei fratelli. Sono spiagge che svuotano l’esistenza umana perché la riempiono di cose materiali e la svuotano di Dio e della sua parola di vita.
Vorrei che ognuno, a conclusione dell’itinerario spirituale compiuto oggi ascoltando le tre letture bibliche ed il salmo responsoriale, facesse un bell’esame di coscienza. Tra chi mi collocherei oggi tra gli esempi che Gesù esamina e pone come metro di paragone per accogliere in modo più o meno ampio e duraturo la sua parola? Siamo la strada, siamo il terreno sassoso, siamo rovi, siamo il terreno buono? In base alla nostra attuale condizione spirituale possiamo dare la nostra risposta. Anzi nel rileggere la nostra vita e la nostra storia ed esperienza di fede possiamo rispondere con maggiore cognizione di causa e precisione. Forse spesso siamo stati tra coloro che hanno solo ascoltato, ma mai messo in pratica; qualche volta abbiamo ascoltato e messo in pratica. Forse raramente abbiamo ascoltato e messo in pratica dando i massimi frutti, compatibili con la nostra persona e la nostra fragilità.
Ecco il cammino della parola chiede a tutti noi, fratelli e sorelle, una vera conversione, un cambiamento di rotta, una cambiamento di mentalità che è possibile nella misura in cui ascoltiamo Gesù, la Chiesa, il Papa, i Vescovi, i nostri pastori e non ascoltiamo noi stessi, pensando che noi e soltanto noi siamo fonte di verità e coerenza massima nelle nostre attività, fossero anche quelle più eccelse in campo spirituale ed ecclesiale.
Signore donaci l’umiltà del cuore per capire i nostri sbagli e rettificare la nostra vita sulla tua parola di vita. Continua a seminare nella nostra vita la gioia e la speranza che va oltre i confini del tempo e si colloca nella gioia eterna del santo Paradiso. Amen.

Publié dans:DOMENICA: COMMENTI BIBLICI |on 11 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

13 LUGLIO 2014 | 15A DOMENICA A – LECTIO DIVINA : MT 13,1-23

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/01-annoA/Anno_A-2014/5-Ordinario-A-2014/Omelie/15a-Domenica-A/03-15aDomenica-A-2014-JB.htm

13 LUGLIO 2014 | 15A DOMENICA A – T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

LECTIO DIVINA : MT 13,1-23

Stretto dalla moltitudine che si accalcava per ascoltarlo, Gesù propone loro una parabola, meglio, dirige loro un discorso a base di sette parabole (13,1-52). La prima, più lunga ed articolata, è seguita, caso insolito, da una spiegazione. Nella sua missione di evangelizzatore Gesù ha conosciuto già l’entusiasmo iniziale della gente (4,17-11,1) ed un progressivo rifiuto da parte dei farisei (11,2-12,50). La parabola tematizza la sua esperienza di predicatore e riflette le sue più intime convinzioni. L’immagine della semina è appropriata per rivelare una delle leggi segrete del Regno, il potere nascosto ma efficace della Parola di Dio; con lei Gesù vuole mettere i suoi uditori davanti alle proprie responsabilità: non basta ascoltare, bisogna dare frutti. Accogliere l’insegnamento non è sufficiente, se dopo non lo si vive; rispondergli bene e seguirlo più da vicino non è meritorio. L’ascolto di Dio che non sfocia in obbedienza è sforzo inutile.

1 Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. 2Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia. 3Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse:
« Ecco il seminatore uscì a seminare. 4Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. 5Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, 6 ma quando spuntò il sole fu bruciata e, come non avendo radici, seccò. 7 Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. 8Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. 9Chi ha orecchi, ascolti ».
10 Gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero:
« Perché a loro parli con parabole? »
11 Egli rispose loro:
« Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. 12Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. 13Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono. 14Così si compie per loro la profezia di Isaia che dice:
« Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. 15Porchè il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca ».
16 Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. 17In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!
18 Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore.
19 Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. 20Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, 21ma non ha in se radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno.
22 Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. 23Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno ».
1. LEGGERE : capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
Il Gesù che sceglie la parabola come strumento di insegnamento è come uno sperimentato evangelizzatore che ha conosciuto trionfi e fallimenti. Con la similitudine della semina pretende di spiegare la natura del Regno di Dio e le leggi che dirigono la sua istallazione; lascia vedere, inoltre, le sue proprie convinzioni: dice come si espande il regno e perché trova tanta difficoltà. Le sue parole sono una seria avvertenza per i suoi uditori e, contemporaneamente, un chiaro messaggio di speranza.
Gesù normalmente non commenta le sue parabole; lascia che siano esse ad interrogare i suoi uditori. Qui, eccezionalmente, aggiunge un doppio commento, che prova che quanto sta dicendo è di grande importanza. In realtà, la spiegazione che dà va diretta solo ai suoi discepoli. Ha due parti: un severo giudizio teologico ed un chiarimento allegorico. In primo luogo, e rispondendo ad una logica domanda dei suoi discepoli, giustifica il suo discorso in parabole ricorrendo alla Scrittura; la ragione che adduce è più sorprendente ancora che il suo modo di parlare: affinché sentendo…, non sentano né capiscano! Un popolo che si chiude all’ascolto di Dio non merita un’evangelizzazione diafana e convincente. Chi non cerca conversione deve essere ostacolato loro di capire. Sentire la necessità di essere salvato è requisito affinché si aprano occhi e cuore al vangelo predicato. Non basta essere uditore per arrivare ad essere credente come non basta essere figli di profeti per entrare nel regno; chi chiude occhi e cuore a Cristo si esclude dal regno di Dio.
In un secondo momento, Gesù spiega la parabola, e minuziosamente, solo a coloro, i discepoli, che sono felici perché vedono e sentono. Accompagnare Gesù li rende felici, più che gli stessi profeti che sperarono di vedere quello che essi stanno contemplando. Individua in primo luogo le difficoltà che trova il seme per essere accolto e crescere. Non nascono dal rifiuto; qui tutti ricevono il seme, ma o se lo lasciano rubare o lo trascurano. Richiama l’attenzione la generosità, o la semplicioneria, del seminatore al quale non sembra male sprecare seme spargendolo dove poco o niente può germinare. Segnala, dopo, la diversa fertilità di coloro che accolgono la parola e la curano. Neanche in un campo buono lo stesso grano fruttifica in forma identica; affinché ci sia frutto, il terreno deve essere preparato; ma i risultati non dipendono dalla propria preparazione. La fortuna di sentirlo, ed il rischio di non accettarlo, sta oggi alla nostra portata; ma ciò non basta: se non c’è frutto, è inutile la semina e lo sforzo dello stesso Dio, di Gesù in persona; una grave responsabilità per chi sa che la Parola di Dio è alimento della sua vita.
2 – MEDITARE : Applicare quello che dice il testo alla vita
Noi che ascoltiamo frequentemente il vangelo dovremmo sentirci provocati da quella seria avvertenza e confortati per la gradita promessa che le parole di Gesù implicano: la semina arriva a tutti, ma non si è altrettanto preparati; gli ostacoli che ognuno mette all’entrare di Dio nella propria vita, sono tanto differenti come differenti sono i suoi modi. Ogni uditore rivaleggia nella sua opposizione a Dio che gli parla; ma le ragioni della sua resistenza sono sempre uniche, esclusive; nascono, come nella parabola, dalle circostanze concrete in cui ognuno vive. Per questo motivo, perfino nel migliore dei campi, e lo sanno molto bene gli agricoltori, i frutti sono disuguali; la preparazione previa, uguale per tutti, non assicura un risultato finale identico. Benché sia necessaria la buona disposizione, la fertilità del campo non dipende dal grano: la Parola di Dio ha bisogno di accoglienza e di attenzioni; ma sarà la sua potenza, e non la capacità di quanti la sentono, ciò che produrrà frutti nella vita del credente.
Come il seminatore che, contemporaneamente al grano, mette la sua speranza nel campo che semina, così ha fatto il nostro Dio con noi, quando ci ha diretto la sua parola. Perfino prima che noi opponiamo ogni resistenza immaginabile, Dio si è fidato di noi, mettendo il suo amore alla nostra portata, seminando la sua parola nella nostra vita. Dovrebbe spaventarci questo spreco di illusione, questa capacità di fidarsi che Dio ha mostrato con noi, prima ancora che potessimo sentirci preoccupati per la risposta che avremmo dato a Lui. La speranza che ha avuto in noi, la fiducia che ha avuto quando ci ha considerati degni della sua parola e delle sue esigenze, dovrebbe commuoverci. Come non meravigliarsi di un Dio che continua a seminare in noi, senza scoraggiarsi per lo scarso frutto che gli rendiamo? Senza lasciarci sorprendere dall’illusione che diamo al Dio seminatore, nonostante la nostra incapacità, non ci sentiremo arricchiti per la sua semina né incitati a dare frutto.
Ci sapremo interlocutori di Dio, oggetto delle sue attenzioni, quando ci sentiamo obbligati a rispondergli, e finché ci sforziamo ad ubbidirgli. Chi ascolta la Parola di Dio, dunque, dovrebbe sentirsi lusingato per essere stato scelto come interlocutore del suo Dio, prima di sapersi impegnato a rispondergli. Una delle forme più efficaci di sentirsi voluto bene da Dio è, senza dubbio, il sapersi richiesto da Lui a comportarsi come Lui vuole: se non importassimo a Dio, Egli non avrebbe nessun interesse per noi. Che esca al nostro incontro, come il seminatore che ci consideri meritevoli della sua Parola, come il campo del seme, deve convincerci che ci prende ancora in considerazione che conta ancora su di noi. Essere uditore della Parola di Dio significa, prima di tutto, essere intimo di Dio.
Ma il seme seminato, la Parola di Dio ascoltata, più che un privilegio immeritato, è una responsabilità da coltivare. Come un campo non appena arato può essere sterile allo sforzo del seminatore, così noi possiamo lasciare inutilizzata in mille modi la Parola che Dio ha ritenuto opportuno comunicarci: lasciandoci rubare da chiunque quanto Dio ha messo nel nostro cuore, ostacolando Dio di piantare radici nella nostra vita, soffocando le sue esigenze coi nostri desideri ed illusioni, preoccupandoci più di quello che non abbiamo ancora che di quanto Dio ci ha già promesso, disinteressandoci per ottenere con le nostre proprie forze quello che Dio vuole darci con la sua grazia, preferendo una vita facile senza Dio ad un Dio che rende difficile la nostra vita, convertendo la sua parola in suono inutile e le sue attenzioni in affetto sprecato.
Non faremmo bene se, oggi stesso, e alla presenza di quel Dio ostinato a seminare la sua vita e la sua parola nei nostri cuori, ci chiedessimo quali ostacoli, in concreto, Egli sta trovando nella nostra vita: che cosa è ciò che, non essendo Lui, merita da noi maggiori attenzioni? chi ha le nostre migliori attenzioni quotidiane? chi occupa il nostro cuore? Cos’è ciò che dà senso alle nostre vite? Solo se individuiamo da dove viene il nostro imborghesimento, il nostro torpore, la nostra resistenza, potremo convertirci all’ascolto di Dio ed arrivare all’obbedienza.
Lo stesso campo e lo stesso seme seminato, nota Gesù, non danno identico frutto. Se ciò non disturba l’agricoltore, non dovrebbe essere un problema per nessuno: Dio dà per scontato che tutti devono dare frutto, benché sa che non tutti hanno la stessa generosità. Chi fa tesoro di ciò che Dio gli dice, di quanto Dio vuole da lui, deve sentirsi incoraggiato, al sapere che Dio non gli esige il massimo, purché dia qualcosa di quanto ha ricevuto. La speranza che Dio ha messo in chi ha voluto fare il suo interlocutore ed amico, perché conosce la sua volontà, non diminuisce, se non si riesce a dare tutto quanto Egli si fosse prefissato. Chi ci ha dato tanta fiducia da darci la sua parola e proporci la sua volontà, ha lunga pazienza e spera sempre da noi qualcosa di più oggi di quanto gli demmo ieri. Dio vuole da noi il meglio, non si accontenta che siamo già buoni; perché ci ama molto, spera molto da noi. E come ci ama sempre meglio, spera che domani saremo migliori di quanto lo fummo oggi.
Essere stato, come il campo seminato, causa del lavoro, motivo dell’interesse di Dio, ingrandisce la nostra responsabilità; come l’agricoltore, Dio spera da noi dei frutti. Chiudersi alla speranza che Dio ha posto su di noi, ci escluderebbe dal suo regno: Dio può perderci, se non utilizziamo la sua fatica; ma noi non perderemmo il nostro Dio; la nostra sarebbe – senza dubbio – una perdita maggiore.
Come per quella moltitudine che sentì per la prima volta Gesù parlare del Dio seminatore, la fortuna di ascoltare Dio ed il rischio di non accettarlo sono uguali: se non diamo frutto, rendiamo vana la speranza di Dio ed il suo lavoro e sterile la nostra vita e, quello che è peggiore, inutile il nostro Dio. Non sarà questa la ragione perché, dopo tanti anni di ascolto di Gesù la gente non vede in noi niente di nuovo, alcun frutto, degno di Dio? Se ci rallegriamo molto perché Dio ci vuole bene, perché ci cura tanto, responsabilizziamoci, una volta per tutte, e rendiamo realtà quanto Egli vuole da noi. Solo così saremo sicuri delle attenzioni del Dio che non cessa di seminare, e di sperare, in noi

JUAN JOSE BARTOLOME sdb,

San Benedetto da Norcia, affresco di Subiaco

San Benedetto da Norcia, affresco di Subiaco dans immagini sacre 800px-Benedikt_von_Nursia_20020817

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Publié dans:immagini sacre |on 10 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

UN PAESE DEVASTATO DAI BARBARI (Tratto da “San Benedetto- Uomo di Dio” di A. de Vogüé)

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UN PAESE DEVASTATO DAI BARBARI

Tratto da “San Benedetto- Uomo di Dio” di A. de Vogüé O.S.B. – Ed. San Paolo

La fine di un impero
Dall’anno 410, quando Roma era stata conquistata per la prima volta dai Visigoti, l’impero romano d’Occidente sopravviveva miseramente. Avendo per capitale Ravenna, città costiera circondata da paludi e difficile da espugnare, resisteva bene o male alle invasioni dei barbari che occupavano gran parte dei suoi territori. Alla fine, qualche anno prima della nascita di Benedetto, aveva cessato di esistere. Nel 476 il giovane Romolo Augustolo, ultimo imperatore in carica, cedette il posto a un soldato germanico, Odoacre, proclamato re dalla truppa. Da molto tempo Germani appartenenti a diverse popolazioni esercitavano nello Stato, e soprattutto nell’esercito, alte funzioni. Ormai lo stesso potere supremo sarebbe stato nelle mani di uno di questi stranieri.
L’arrivo dei Goti
Capo degli Eruli, Odoacre fu soppiantato, meno di vent’anni dopo, da un Goto. Questi, il re Teodorico, arrivò in Italia con il suo popolo nel 488, riportò vittoria su vittoria e finì per impadronirsi di Ravenna dopo un lungo assedio. La nuova dominazione barbara sarebbe durata più di una generazione. Dopo aver regnato a Ravenna per trentatré anni (493-526), Teodorico ebbe per successori suo nipote Atalarico (526-534) e poi il figlio di sua sorella Teodato (534-536). t solo sotto quest’ultimo che cominciò, nel 535, la riconquista dell’Italia da parte dell’impero romano d’Oriente.
Una piccola età dell’oro?
Il regno di Teodorico, che corrisponde alla giovinezza di san Benedetto, non fu per l’Italia un tempo di sciagura, tutt’altro. Analfabeta, si dice, incapace di firmare i suoi decreti, il re aveva nondimeno ricevuto una certa istruzione, perché gli Ostrogoti erano al servizio dell’imperatore d’Oriente ed era stato egli stesso allevato a Costantinopoli. Ammirando la civiltà romana, era solito dire: « Un cattivo Romano imita i Goti, un buon Goto imita i Romani ». Si circondò dunque di ministri e di consiglieri latini, mantenne le tradizioni amministrative di Roma e lasciò che gli Italiani si governassero da soli, mentre gli Ostrogoti, sottomessi alle proprie leggi, coesistevano pacificamente con quelli senza immischiarsi nei loro affari.
Sotto questo principe insieme energico e liberale, l’Italia prosperò. All’esterno gli Ostrogoti estesero il loro dominio annettendo a ovest la Provenza e spingendosi a est verso il Danubio. All’interno regnavano l’ordine e la sicurezza. Non si chiudevano neanche più le porte delle città. La notte ognuno poteva andare e venire tranquillamente come di giorno. La vita non era cara: « Sessanta staia di grano per un pezzo d’oro, trenta anfore di vino per un solo pezzo d’oro! », esclama un cronista meravigliato. Notevoli opere d’arte, come i battisteri e certi mosaici di Ravenna, testimoniano ancora questa prosperità.
Un regno che finisce nel sangue
Alla fine di questo grande regno, sfortunatamente, le cose si guastarono. Invecchiando, Teodorico divenne duro e sospettoso. Tumulti causati dall’opposizione tra giudei e cristiani, tanto a Roma che a Ravenna, furono repressi con severità. Soprattutto, il re si lasciò persuadere da alcuni invidiosi che molti Romani eminenti complottavano contro di lui con l’imperatore d’Oriente. Uno dei ministri, il patrizio Boezio, fu arrestato, torturato e messo a morte malgrado la sua innocenza affermata in modo commovente negli scritti dalla prigione. Il nobile Simmaco, suocero di Boezio, fu a sua volta giustiziato. Un’altra vittima illustre fu il papa Giovanni I. Obbligato da Teodorico a recarsi a Costantinopoli per chiedere all’imperatore, contro i suoi stessi sentimenti, di revocare delle decisioni sfavorevoli all’eresia ariana, ritornò senza aver ottenuto quello che chiedeva e fu accolto così male a Ravenna che morì qualche giorno più tardi.
Lo stesso Teodorico doveva morire poco dopo. Le violenze dei suoi ultimi tre anni avevano in parte cancellato il ricordo delle cose buone che aveva operato. Si vedeva nella sua morte un castigo del cielo, meritato per aver decretato ultimamente la confisca di chiese cattoliche a vantaggio degli ariani. Secondo altri, sarebbe stato atterrito, al momento del suo ultimo pasto, dalla vista di una testa di pesce che gli ricordò improvvisamente quella di Simmaco. Alla fine del secolo, i Dialoghi di san Gregorio riferirono la visione di un santo eremita, secondo la quale il re defunto, condotto dal patrizio Simmaco e dal papa Giovanni fu gettato nel cratere dello Stromboli.
L’Europa divisa
Questi fatti e queste leggende lasciano intravedere la duplice tensione di cui soffriva l’Italia di quei tempi. Alla contrapposizione delle razze si aggiungeva quella delle religioni. Infatti il cattolicesimo dei Romani non era condiviso dai barbari, la cui conversione al cristianesimo, molte generazioni prima, era avvenuta ad opera di missionari ariani. Così l’eresia di Ario, che negava che il Figlio fosse della stessa natura del Padre, era sopravvissuta alle condanne dei grandi concili di Nicea (325) e di Costantinopoli (381). Per di più era diventata, nella maggior parte dei paesi d’Occidente, la religione degli occupanti e dei loro sovrani, padroni del potere. Terribili persecuzioni avevano imperversato nell’Africa del Nord, conquistata dai Vandali, e gravi difficoltà pesavano ancora sulla Chiesa di Spagna, sottomessa ai Visigoti. L’Italia, nel VI secolo, ebbe la sua parte di queste prove, sia a causa degli Ostrogoti contemporanei di Benedetto sia dei Longobardi, che dettero tanta preoccupazione a Gregorio.
La fortuna della Francia
In quest’Occidente politicamente e religiosamente lacerato, la Gallia – si può già dire la Francia – rappresenta una fortunata eccezione, una speranza. Molto più tardiva di quella degli altri barbari, la conversione dei Franchi e del loro re Clodoveo li aveva portati non all’arianesimo ma alla Chiesa cattolica. Pur restando sotto troppi aspetti vicino al paganesimo, questo popolo non si contrapponeva più, sul piano religioso, alla popolazione romanizzata del Paese che occupava. Quando la dinastia merovingia si fu annessa l’antico regno ariano dei Burgundi, le regioni del sudovest occupate dai Visigoti di Spagna, e la Provenza che apparteneva agli Ostrogoti d’Italia, si vide realizzare, sin da prima della metà del VI secolo, l’unità materiale e morale della Francia, tenuto conto del suo frazionamento in molti Stati in equilibrio instabile, come l’Austrasia e la Neustria.
Un’Italia lacerata
Meno fortunato, il regno goto d’Italia soffriva una profonda divisione che gli impedì di unificarsi. Se, malgrado l’intelligenza e l’apertura di Teodorico, la fusione dei Romani e dei Germani non si operò, è in buona parte perché i due popoli non condividevano la stessa fede. L’interminabile guerra con Bisanzio che doveva mettere fine alla dominazione ostrogota (535-553) rovinò subito la fragile unità del regno, dove l’aggressore bizantino trovava connivenze spontanee presso i Romani cattolici, eredi dello stesso passato e adepti della stessa religione.
Fin lì tolleranti, i Goti ariani risentirono la sorda minaccia che era per loro il cattolicesimo degli Italiani e la loro reazione fu a volte violenta. Benedetto vide passare a Montecassino un guerriero barbaro di nome Zalla, che brutalizzava i contadini, ma malmenava con particolare ferocia i consacrati della Chiesa cattolica: « Chiunque gli capitava tra le mani, chierico o monaco che fosse », scrive Gregorio, « lo spediva senza complimenti al Creatore ».
Facili inizi di una guerra atroce
La guerra tra Goti e Bizantini, che gli Italiani avrebbero potuto vivere come una felice liberazione, costituì al contrario una catastrofe che causò più sofferenze e rovine di due secoli d’invasioni. Eppure era cominciata bene. I primi cinque anni (535-540) furono costellati di vittorie per i « Romani » (Greci) di Bisanzio che riportarono un trionfo quasi completo. Arrivando dall’Africa del Nord che aveva appena riconquistata, il generale Belisario occupò la Sicilia senza colpo ferire e attraversò l’Italia del Sud fino a Napoli, ì cui abitanti, malgrado la guarnigione di Goti, gli aprirono le porte. Presto, con la stessa facilità, Belisario s’impossessò di Roma, mentre i Goti, appena rimessisi dalla sorpresa che aveva loro causato l’invasione, rifluivano verso Ravenna. Questo primo successo fu tanto più notevole in quanto l’esercito bizantino era numericamente insignificante in rapporto all’avversario: i cinquemila uomini comandati da Belisario avevano di fronte delle forze dieci volte più numerose.
Tuttavia l’audacia del capo romano rischiò di costargli cara. Una mobilitazione generale dei Goti, agli ordini del re Vitige, portò davanti a Roma un’orda enorme che assediò la città custodita dal piccolo esercito bizantino. Ma quell’assedio, che durò un anno intero (marzo 537-538), fu un nuovo scacco per i barbari, incapaci di espugnare la città d’assalto o anche di bloccarla completamente. L’arrivo di rinforzi mandati da Costantinopoli, insieme alla penuria in cui si trovavano gli assedianti a causa della loro cattiva organizzazione, persuase Vitige a chiedere una tregua e a battere in ritirata.
Belisario proseguì dunque la sua campagna. Due anni dopo essa finì con la presa di Ravenna, dove Vitige capitolò con il suo esercito (540). La sorte dell’Italia sembrava allora segnata: senza dubbio sarebbe passata tutta sotto il controllo dell’imperatore Giustiniano, che da Costantinopoli dirigeva questa riconquista dei territori romani d’Occidente occupati dai barbari. Contro ogni aspettativa, tuttavia, la situazione si capovolse, la guerra riprese e fu solo alla fine di dodici terribili anni che terminò (541-553).
L’intervento di Totila
La causa di questa disgrazia fu duplice. Da una parte Belisario era stato richiamato a Costantinopoli, dall’altra i Goti trovarono un capo idoneo che li portò molto vicino alla vittoria. Mentre Belisario era accolto trionfalmente nella capitale imperiale, i capi bizantini che restarono in Italia pensavano più ai loro interessi personali che a quello dell’impero e non andavano d’accordo. Avidi di arricchirsi a spese del Paese conquistato, indisposero la popolazione romana che contemporaneamente cominciava a essere spremuta dal fisco bizantino. La disaffezione che ne seguì fu messa a profitto dai Goti, alcuni contingenti dei quali, a nord del Po, erano restati sotto le armi. Rialzarono la testa, tentarono alcuni colpi di mano che riuscirono e presto, dopo due tentativi sfortunati, scelsero per re un guerriero di grande valore, Totila, che avrebbe risanato i loro affari.
Molto velocemente, infatti, questo grande capitano, passando all’offensiva da ogni parte, s’assicurò il dominio delle operazioni, mentre i mediocri generali di Bisanzio, incapaci di mettersi d’accordo, si rinchiusero ognuno per proprio conto in qualche piazzaforte. Assediate ed espugnate una dopo l’altra, queste città avrebbero finito per ridursi a Ravenna e a qualche porto da una parte e dall’altra di questa, malgrado i molteplici invii di rinforzi bizantini che riuscirono solo a ritardare il disastro.
Carestie, massacri, deportazioni
Gli orrori di questa guerra prolungata ci sono noti attraverso lo storico greco Procopio, un ufficiale che assisteva Belisario e che ha lasciato una narrazione dettagliata delle operazioni. Ci furono carestie spaventose, non solo nelle città assediate, ma addirittura in intere regioni, devastate dai combattenti. La popolazione delle campagne vi morì a decine di migliaia, sia a causa della carestia stessa che delle epidemie che aveva originato. Troveremo tracce di questa miseria nella vita di Benedetto.
Un’altra causa di mortalità per la popolazione civile furono le rappresaglie cui si abbandonarono i Goti sotto Totila in certe città riconquistate. A Milano, tutti gli uomini a partire dai quindici anni – e non ce n’erano meno di trecentomila secondo Procopio – furono passati a fil di spada, mentre le donne erano date come schiave ai Burgundi, alleati dei Goti A Tivoli, non lontano da Subiaco dove Benedetto aveva cominciato la sua vita monastica, gli abitanti furono tutti uccisi senza distinzione e in modo talmente orribile che Procopio rifiutò di raccontarlo per non lasciare alla posterità il ricordo di simili crimini.
Roma non conobbe tali massacri, ma soffrì anch’essa crudelmente. Cambiò mano cinque volte. Una di queste vicissitudini fu particolarmente drammatica: Totila abbatté una parte delle mura e voleva distruggere tutta la città, come avevano fatto i Goti a Milano. Lasciatosi commuovere, s’accontentò di deportare la popolazione, così che la città restò completamente vuota per parecchie settimane.
Una lotta senza ideale
Uno degli aspetti più desolanti di questa lotta è l’assenza di livello morale nei due campi, in particolare dal lato romano. L’esercito bizantino è composto di mercenari, per la maggior parte di origine barbara, che non sono animati da alcun patriottismo. Spesso malpagati dall’amministrazione, si risarciscono con i propri mezzi, o offrono perfino i loro servizi al nemico. Defezioni e tradimenti non sono rari.
Da parte loro, i Goti non fanno che difendere un Paese occupato di recente, dove non hanno radici. Abbiamo appena descritto le loro crudeltà. Per essere re giusti, tuttavia, bisogna prendere atto di una reale preoccupazione di umanità in Totila, di cui diede prova in particolare alla presa di Napoli. Troppo spesso brutale, questo barbaro aveva tuttavia il senso della giustizia e un certo « timor di Dio », come dice san Benedetto. Anche moralmente oltre che militarmente, i capi bizantini erano lungi dal valerlo. Il solo Belisario, nel campo romano, appare essere una grande figura d’uomo onesto quanto di condottiero di uomini.
Una religione senza Cristo
Romani o Goti, cattolici o ariani, questi soldati che si uccidono a vicenda sono quasi tutti cristiani. Senza pretendere di giudicarne il cristianesimo, che conosciamo male, si può almeno interrogare in proposito l’unico testimone che ci parla di loro: lo storico Procopio. Secondo questo autore, nei due eserciti esiste un certo sentimento religioso, ma Cristo e il suo vangelo sono assenti. Il Dio di cui Procopio parla – raramente – è l’arbitro della lotta. Punisce l’ingiustizia con la sconfitta. Il comprensibile interesse dei combattenti consiste dunque nel non irritarlo con violazioni troppo flagranti dei diritto.
Questo Dio degli eserciti è pregato? Di atti religiosi non si parla quasi mai. In compenso, Procopio parla molte volte di presagi, buoni o cattivi, che sono ansiosamente raccolti prima delle battaglie. Sotto la penna del nostro storico, la parola « destino » ricorre spesso, più sovente dello stesso nome di Dio. Questo destino è una fatalità irresistibile, contro la quale gli uomini si dimenano invano. Le sorti della lotta, che così frequentemente finisce con un risultato opposto a quello previsto, si spiegano con questa potenza invisibile, ma non cieca, che conduce il gioco e che si identifica con il volere divino.
Benedetto non sarà un Severino
Questa credenza riguardo al destino è quella del vecchio paganesimo greco-latino, appena influenzato dalla Bibbia. Una religione di combattenti, che si giocano la vita a ogni battaglia. Quanto al messaggi cristiano, invano se ne cercano le tracce. In qualche occasione un uomo di Chiesa, vescovo o diacono, si segnala per un’azione diplomatica o un intervento umanitario. Ma i monaci, allora così numerosi, non appaiono una sola volta. Tra i soldati dei sovrani di quaggiù e quelli di « Cristo Signore, vero Re », come lo chiama Benedetto, sembra stendersi un abisso. Come la Regola benedettina non fa la minima allusione alla politica e agli eventi, neanche le Guerre gotiche di Procopio proferiscono parola sui monasteri e sui loro santi. I due mondi s’ignorano a vicenda.
Per farli comunicare ci sarebbe voluto un profeta come il monaco Severino, che nel secolo precedente aveva segnato profondamente le relazioni tra Romani e barbari in quella regione tra le più agitate che era allora il Norico (l’attuale Austria). Innamorato della solitudine, dell’austerità, della preghiera, questo santo aveva tuttavia brillato sulla sfortunata popolazione romana, che difendeva spiritualmente e materialmente, come pure sugli invasori, ai quali imponeva rispetto. Questo fondatore di una comunità monastica, le cui ossa dopo la morte furono trasferite a Napoli, aveva straordinariamente consolato il popolo cristiano e addolcito per lui i tormenti dell’invasione.
Monaco e fondatore di monasteri come Severino, Benedetto avrebbe potuto esercitare un ruolo analogo nella vita pubblica dell’Italia contemporanea. Non fu affatto così. Malgrado alcuni incontri con i Goti – libererà un contadino maltrattato da Zalla, addolcirà la crudeltà di Totila – la sua vita trascorrerà fuori del tempo politico, lontano dalla storia. Complicata in modo diverso da quella del Norico, la situazione dell’Italia forse non si prestava a un’azione profetica come quella di Severino. E poi il carisma di Benedetto non era quello del profeta che annuncia giorno per giorno il disegno divino, ma dell’educatore che prepara l’avvenire. E’ vivendo e scrivendo la sua Regola che quest’uomo di Dio lavorerà per i suoi fratelli del futuro, sia barbari che romani, non solo sul posto, ma addirittura ben oltre le frontiere dell’Italia in rovina.
La fine della guerra
Verso il 550, questo Paese spossato da quindici anni di guerra sembrava perduto per i Bizantini. All’infuori di alcune piazzeforti che essi conservavano sulla costa, tutta l’Italia era nelle mani di Totila e dei suoi alleati franchi. Di nuovo, tuttavia, la fortuna cambiò campo. Deciso infine a pagarne il costo, l’imperatore Giustiniano preparava la riconquista definitiva. Questa fu opera di un grande esercito comandato dall’armeno Narsete. Al largo di Ancona, la flotta dei Goti fu prima annientata da quella di Bisanzio (551). Poi il loro esercito subì la stessa sorte nella battaglia di Tagina, dove Totila fu ucciso (552). Quando gli ultimi contingenti barbari, rifugiati a Cuma, capitolarono e un’invasione di Franchi fu respinta, (553), tutta la penisola fece ritorno all’impero romano dal quale era staccata, di fatto se non di diritto da tre quarti di secolo.
Questa conclusione della lotta era meno felice d quanto non sembrasse. In realtà, i « Romani » che riprendevano il potere non erano quelli di Roma ma di Costantinopoli. Per gli Italiani, quei Greci non erano meno stranieri dei Goti della vigilia. La loro fiscalità oppressiva avrebbe pesato sul Paese devastato. Perfino sul piano religioso, l’orizzonte non era senza nuvole. Se l’arianesimo era scomparso con i Goti, con gli Orientali si ponevano altri problemi dogmatici. Male accettati dalle diocesi dell’Italia del Nord i decreti del concilio di Costantinopoli (553) concernenti la fede in Cristo causarono uno scisma che si protrasse per molte generazioni.
Una bella epoca
Non bisogna comunque essere troppo tetri. L’impero in seno al quale l’Italia rientrava non mancava di risorse materiali e culturali. Per molti riguardi il lungo regno di Giustiniano (527-565) fu un grande regno. Un edificio come la basilica di Santa Sofia d Costantinopoli, ammirata ancora al giorno d’oggi, testimonia questa grandezza. Su scala ridotta, San Vitale di Ravenna e i suoi mirabili mosaici lasciano in travedere ciò che l’Italia di allora ha ricevuto dai suoi maestri orientali.
In un altro campo, dove l’imperatore fu impegnato personalmente, si vide portare a termine una grande opera. Autore di numerose leggi civili e religiose, Giustiniano riunì in un « Codice » l’essenziale della legislazione precedente. Un po’ prima, e nella stessa Roma, il monaco Dionigi il Piccolo aveva fatto un lavoro analogo per le decisioni dei concili. Questi paralleli, civile ed ecclesiastico, aiutano a capire l’opera di san Benedetto che forse ne è stato ispirato. Anche lui condenserà in una sorta di codice le cose migliori della tradizione monastica.
Una nuova catastrofe: l’invasione longobarda
Giustiniano era appena morto che una terribile prova s’abbatte sull’Italia. Nel 567, dei barbari germanici, i Longobardi, penetrarono nella penisola dove continuarono ad avanzare fino alla fine del secolo e oltre. Opposti all’esercito imperiale, che difendeva palmo a palmo il suolo italiano, procedevano lentamente, causando devastazioni ancora più gravi di quelle della guerra dei Goti. Aggiungendo i suoi violenti effetti alla lenta decadenza che minava da tempo le città d’Italia, l’invasione longobarda assestò il colpo di grazia a un buon numero di vescovadi, che scomparvero.
Benché questa nuova catastrofe sia avvenuta dopo la morte di Benedetto, interessa la storia del nostro santo per due motivi. Prima di tutto, perché provocò la rovina del monastero che Benedetto aveva fondato e dove riposava il suo corpo: Montecassino. Con perspicacia profetica, un giorno Benedetto aveva presentito il dramma e pianto sulla distruzione della sua opera.
L’assedio di Roma
L’altra ragione per parlare qui dei Longobardi è che il biografo di Benedetto, san Gregorio, scrisse i suoi Dialoghi in una città assediata da questi barbari. Era la fine del 593, cioè l’inizio dell’anno amministrativo che cominciava, come i nostri anni scolastici di oggi, nel mese di settembre. Partendo da Pavia, la sua capitale, il re Agilulfo aveva marciato su Roma e stringeva la città da vicino. Dall’alto dei bastioni si assisteva a scene desolanti: i Romani dei dintorni erano massacrati o presi prigionieri. Angosciato, il vescovo doveva badare direttamente alla protezione delle sue pecorelle, assicurata bene o male dalla guarnigione bizantina.
Tuttavia l’assedio non portava solo queste dolorose preoccupazioni. Intercettando i corrieri, bloccava una delle principali occupazioni del vescovo di Roma: rispondere alle svariate richieste che, allora come oggi, affluivano da tutte le parti del mondo cristiano verso il successore di Pietro. Nel grande Registro dove i segretari del papa classificavano la sua corrispondenza mese per mese, si trova un buco significativo a gennaio, febbraio e marzo 594: per tutto quel primo trimestre, neanche una sola lettera!
Gregorio Magno e i suoi « Dialoghi »
Reso più libero da questa relativa inoperosità, Gregorio portò avanti l’impresa a cui pensava da molti mesi: raccontare i miracoli avvenuti in Italia da alcune generazioni. I sacerdoti del suo ambiente, in particolare il diacono Pietro, lo spingevano a mettere per iscritto quei fatti edificanti che fino ad allora erano conosciuti soltanto attraverso dei « sì dice ». Tali narrazioni, che avrebbero preso la forma di « dialoghi » con Pietro, avrebbero fatto del bene a tutti, autore e lettori. Avrebbero dimostrato come il Signore, lungi dall’abbandonare il suo popolo angosciato, aveva moltiplicato i suoi interventi miracolosi a favore dei santi. Niente poteva confortare maggiormente una popolazione sfortunata che sentire la presenza e la potenza del Dio vivente, visibilmente attento e propizio verso i suoi, come era stato ai giorni di Mosé e di Giosuè, dei giudici e dei profeti, di Cristo e degli Apostoli.
Allo stesso tempo, Gregorio era convinto che il racconto di questi miracoli sarebbe stato benefico per le anime, perché essi avrebbero attirato l’attenzione sui santi che ne erano stati gli strumenti o l’occasione. Predicare la parola di Dio non basta. Bisogna fornire esempi viventi, e questi fanno tanto più impressione quanto più sono ravvicinati nello spazio e nel tempo. Rivelare al pubblico i santi italiani di ieri, spesso appena conosciuti fuori della loro cerchia immediata, sarebbe servito a suscitare imitatori, a incoraggiare la preghiera e lo sforzo, a dare nuovo impulso alla vita cristiana.
San Benedetto tra i suoi simili
Però la maggior parte degli uomini di Dio che stavano per essere messi in scena avevano operato solo un piccolo numero di miracoli, spesso perfino uno soltanto. Gregorio, che conosceva una cinquantina di questi personaggi, riunì le loro storie nei Libri I e III dei Dialoghi. Tra questi due gruppi di figure minori, riservò tutto un Libro, il secondo, a un santo che aveva ai suoi occhi un prestigio senza pari e sul quale disponeva di un’abbondante documentazione: Benedetto, nato a Norcia, monaco a Subiaco, abate di Montecassino, morto una quarantina di anni prima.
Non si diventa santo per essere canonizzato, ma per piacere a Dio. Tuttavia la fortuna di Benedetto, se così si può dire, fu di essere scelto come eroe di una biografia completa dal miglior scrittore del suo secolo e uno dei più grandi papi che abbia mai avuto la Chiesa (è a lui che si deve in particolare la conversione dell’Inghilterra). Immaginiamo che Giovanni Paolo Il, tra due viaggi, trovi il tempo di scrivere la vita di un santo, per esempio di quel Massimiliano Kolbe che fu suo compatriota e morì cinquant’anni fa. Supponiamo che il nostro papa ci metta del talento e riesca a dare di quel religioso martire un’immagine insieme storicamente vera e spiritualmente vibrante, nella quale il popolo cristiano di oggi riconosca il suo ideale, riviva il suo dramma collettivo, senta passare la grazia di Dio. Tale fu la « fortuna » di san Benedetto.
La documentazione dei «Dialoghi»
Unica fonte che ci faccia conoscere la vita di Benedetto, il secondo libro dei Dialoghi poggia su un’affermazione seria: la testimonianza di quattro abati, che Gregorio cita all’inizio dell’opera. Due di loro, Costantino e Simplicio, furono i successori di Benedetto a Montecassino. Un altro, Valentiniano, un tempo monaco dello stesso monastero, era stato a lungo superiore di una comunità romana costituita vicino al Laterano, residenza dei papi. Quanto all’ultimo, Onorato, era ancora vivo e dirigeva i monaci di Subiaco.
Come leggere la « Vita » di Benedetto
Completato da altri due testimoni, questo gruppo d’informatori ha fornito abbondante materia che il narratore ha ordinato a modo suo e costellato di riflessioni spirituali spesso mirabili. Ma per leggere con profitto questa Vita, non bisogna cercarvi quello che i nostri gusti di persone moderne ci fanno istintivamente desiderare: un ritratto individuale che mostri una personalità originale e un destino particolare. Ciò che interessa Gregorio e i suoi contemporanei non è questa fisionomia singolare dell’uomo Benedetto, ma al contrario i tratti comuni che fanno di lui un santo ordinario, per così dire, un santo di modello corrente, in tutto simile ai grandi uomini di Dio della Bibbia.
Di questa figura dall’aspetto biblico, uno dei tratti più evidenziati è il dono dei miracoli. E’ un problema per noi, uomini del XX secolo, abituati dalla scienza moderna a escludere ogni infrazione alle « leggi » della natura. Eppure è nella linea della Scrittura e dei vangeli che i nostri padri nella fede credevano volentieri a questi fatti straordinari, nei quali si manifesta la potenza invisibile di Dio. Come l’insieme dei Dialoghi, la Vita di Benedetto racconta a ogni pagina qualche miracolo, ed è percorrendo questa collezione di prodigi che si scopre l’itinerario spirituale del santo.
Per un ecumenismo storico
Leggere la Vita di Benedetto, come stiamo per fare re, non è dunque far conoscenza solo con un personaggio eminente, modello di santità per tutti i tempi, ma anche con un’epoca passata della storia della Chiesa, un periodo del cristianesimo che non è quello presente. Il nostro arricchimento può essere grande, se ascoltiamo con rispetto e simpatia questa voce del passato che a volte ci sconcerta, ma che è tuttavia, lo sappiamo, quella di Cristo e del suo Spirito che parlano attraverso un’umanità scomparsa.
La rivelazione divina è immensa. Dispiegata attraverso verso il tempo, è afferrata da ogni generazione in modo originale, con rilievi e vuoti, accenti e sordine che variano da un secolo all’altro. Come l’ecumenismo di oggi ci rende attenti ai valori autenticamente cristiani che coltivano i nostri fratelli separati, allo stesso modo affronteremo questa Vita di san Benedetto, così lontana da noi nel tempo, in uno spirito d’ecumenismo storico, per scoprirvi, per la nostra edificazione di cristiani moderni, quella specie di fratelli separati che sono per noi i Padri.

Publié dans:SAN BENEDETTO DA NORCIA |on 10 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

SAN BENEDETTO DA NORCIA ABATE, PATRONO D’EUROPA – 11 LUGLIO (E 21 MARZO)

http://www.santiebeati.it/dettaglio/21200

SAN BENEDETTO DA NORCIA ABATE, PATRONO D’EUROPA

11 LUGLIO (E 21 MARZO)

NORCIA (PERUGIA), CA. 480 – MONTECASSINO (FROSINONE), 21 MARZO 543/560

È il patriarca del monachesimo occidentale. Dopo un periodo di solitudine presso il sacro Speco di Subiaco, passò alla forma cenobitica prima a Subiaco, poi a Montecassino. La sua Regola, che riassume la tradizione monastica orientale adattandola con saggezza e discrezione al mondo latino, apre una via nuova alla civiltà europea dopo il declino di quella romana. In questa scuola di servizio del Signore hanno un ruolo determinante la lettura meditata della parola di Dio e la lode liturgica, alternata con i ritmi del lavoro in un clima intenso di carità fraterna e di servizio reciproco. Nel solco di San Benedetto sorsero nel continente europeo e nelle isole centri di preghiera, di cultura, di promozione umana, di ospitalità per i poveri e i pellegrini. Due secoli dopo la sua morte, saranno più di mille i monasteri guidati dalla sua Regola. Paolo VI lo proclamò patrono d’Europa (24 ottobre 1964). (Avvenire)

Patronato: Europa, Monaci, Speleologi, Architetti, Ingegneri
Etimologia: Benedetto = che augura il bene, dal latino
Emblema: Bastone pastorale, Coppa, Corvo imperiale

Martirologio Romano: Memoria di san Benedetto, abate, che, nato a Norcia in Umbria ed educato a Roma, iniziò a condurre vita eremitica nella regione di Subiaco, raccogliendo intorno a sé molti discepoli; spostatosi poi a Cassino, fondò qui il celebre monastero e scrisse la regola, che tanto si diffuse in ogni lugo da meritargli il titolo di patriarca dei monaci in Occidente. Si ritiene sia morto il 21 marzo.
(21 marzo: A Montecassino, anniversario della morte di san Benedetto, abate, la cui memoria si celebra l’11 luglio).
San Benedetto, Fondatore del monachesimo occidentale, e anche Patrono del mio pontificato. Comincio con una parola di san Gregorio Magno, che scrive di san Benedetto: “L’uomo di Dio che brillò su questa terra con tanti miracoli non rifulse meno per l’eloquenza con cui seppe esporre la sua dottrina” (Dial. II, 36). Queste parole il grande Papa scrisse nell’anno 592; il santo monaco era morto appena 50 anni prima ed era ancora vivo nella memoria della gente e soprattutto nel fiorente Ordine religioso da lui fondato. San Benedetto da Norcia con la sua vita e la sua opera ha esercitato un influsso fondamentale sullo sviluppo della civiltà e della cultura europea. La fonte più importante sulla vita di lui è il secondo libro dei Dialoghi di san Gregorio Magno. Non è una biografia nel senso classico. Secondo le idee del suo tempo, egli vuole illustrare mediante l’esempio di un uomo concreto – appunto di san Benedetto – l’ascesa alle vette della contemplazione, che può essere realizzata da chi si abbandona a Dio. Quindi ci dà un modello della vita umana come ascesa verso il vertice della perfezione. San Gregorio Magno racconta anche, in questo libro dei Dialoghi, di molti miracoli compiuti dal Santo, ed anche qui non vuole semplicemente raccontare qualche cosa di strano, ma dimostrare come Dio, ammonendo, aiutando e anche punendo, intervenga nelle concrete situazioni della vita dell’uomo. Vuole mostrare che Dio non è un’ipotesi lontana posta all’origine del mondo, ma è presente nella vita dell’uomo, di ogni uomo.
Questa prospettiva del “biografo” si spiega anche alla luce del contesto generale del suo tempo: a cavallo tra il V e il VI secolo il mondo era sconvolto da una tremenda crisi di valori e di istituzioni, causata dal crollo dell’Impero Romano, dall’invasione dei nuovi popoli e dalla decadenza dei costumi. Con la presentazione di san Benedetto come “astro luminoso”, Gregorio voleva indicare in questa situazione tremenda, proprio qui in questa città di Roma, la via d’uscita dalla “notte oscura della storia” (cfr Giovanni Paolo II, Insegnamenti, II/1, 1979, p. 1158). Di fatto, l’opera del Santo e, in modo particolare, la sua Regola si rivelarono apportatrici di un autentico fermento spirituale, che mutò nel corso dei secoli, ben al di là dei confini della sua Patria e del suo tempo, il volto dell’Europa, suscitando dopo la caduta dell’unità politica creata dall’impero romano una nuova unità spirituale e culturale, quella della fede cristiana condivisa dai popoli del continente. E’ nata proprio così la realtà che noi chiamiamo “Europa”.
La nascita di san Benedetto viene datata intorno all’anno 480. Proveniva, così dice san Gregorio, “ex provincia Nursiae” – dalla regione della Nursia. I suoi genitori benestanti lo mandarono per la sua formazione negli studi a Roma. Egli però non si fermò a lungo nella Città eterna. Come spiegazione pienamente credibile, Gregorio accenna al fatto che il giovane Benedetto era disgustato dallo stile di vita di molti suoi compagni di studi, che vivevano in modo dissoluto, e non voleva cadere negli stessi loro sbagli. Voleva piacere a Dio solo; “soli Deo placere desiderans” (II Dial., Prol 1). Così, ancora prima della conclusione dei suoi studi, Benedetto lasciò Roma e si ritirò nella solitudine dei monti ad est di Roma. Dopo un primo soggiorno nel villaggio di Effide (oggi: Affile), dove per un certo periodo si associò ad una “comunità religiosa” di monaci, si fece eremita nella non lontana Subiaco. Lì visse per tre anni completamente solo in una grotta che, a partire dall’Alto Medioevo, costituisce il “cuore” di un monastero benedettino chiamato “Sacro Speco”. Il periodo in Subiaco, un periodo di solitudine con Dio, fu per Benedetto un tempo di maturazione. Qui doveva sopportare e superare le tre tentazioni fondamentali di ogni essere umano: la tentazione dell’autoaffermazione e del desiderio di porre se stesso al centro, la tentazione della sensualità e, infine, la tentazione dell’ira e della vendetta. Era infatti convinzione di Benedetto che, solo dopo aver vinto queste tentazioni, egli avrebbe potuto dire agli altri una parola utile per le loro situazioni di bisogno. E così, riappacificata la sua anima, era in grado di controllare pienamente le pulsioni dell’io, per essere così un creatore di pace intorno a sé. Solo allora decise di fondare i primi suoi monasteri nella valle dell’Anio, vicino a Subiaco.
Nell’anno 529 Benedetto lasciò Subiaco per stabilirsi a Montecassino. Alcuni hanno spiegato questo trasferimento come una fuga davanti agli intrighi di un invidioso ecclesiastico locale. Ma questo tentativo di spiegazione si è rivelato poco convincente, giacché la morte improvvisa di lui non indusse Benedetto a ritornare (II Dial. 8). In realtà, questa decisione gli si impose perché era entrato in una nuova fase della sua maturazione interiore e della sua esperienza monastica. Secondo Gregorio Magno, l’esodo dalla remota valle dell’Anio verso il Monte Cassio – un’altura che, dominando la vasta pianura circostante, è visibile da lontano – riveste un carattere simbolico: la vita monastica nel nascondimento ha una sua ragion d’essere, ma un monastero ha anche una sua finalità pubblica nella vita della Chiesa e della società, deve dare visibilità alla fede come forza di vita. Di fatto, quando, il 21 marzo 547, Benedetto concluse la sua vita terrena, lasciò con la sua Regola e con la famiglia benedettina da lui fondata un patrimonio che ha portato nei secoli trascorsi e porta tuttora frutto in tutto il mondo.
Nell’intero secondo libro dei Dialoghi Gregorio ci illustra come la vita di san Benedetto fosse immersa in un’atmosfera di preghiera, fondamento portante della sua esistenza. Senza preghiera non c’è esperienza di Dio. Ma la spiritualità di Benedetto non era un’interiorità fuori dalla realtà. Nell’inquietudine e nella confusione del suo tempo, egli viveva sotto lo sguardo di Dio e proprio così non perse mai di vista i doveri della vita quotidiana e l’uomo con i suoi bisogni concreti. Vedendo Dio capì la realtà dell’uomo e la sua missione. Nella sua Regola egli qualifica la vita monastica “una scuola del servizio del Signore” (Prol. 45) e chiede ai suoi monaci che “all’Opera di Dio [cioè all’Ufficio Divino o alla Liturgia delle Ore] non si anteponga nulla” (43,3). Sottolinea, però, che la preghiera è in primo luogo un atto di ascolto (Prol. 9-11), che deve poi tradursi nell’azione concreta. “Il Signore attende che noi rispondiamo ogni giorno coi fatti ai suoi santi insegnamenti”, egli afferma (Prol. 35). Così la vita del monaco diventa una simbiosi feconda tra azione e contemplazione “affinché in tutto venga glorificato Dio” (57,9). In contrasto con una autorealizzazione facile ed egocentrica, oggi spesso esaltata, l’impegno primo ed irrinunciabile del discepolo di san Benedetto è la sincera ricerca di Dio (58,7) sulla via tracciata dal Cristo umile ed obbediente (5,13), all’amore del quale egli non deve anteporre alcunché (4,21; 72,11) e proprio così, nel servizio dell’altro, diventa uomo del servizio e della pace. Nell’esercizio dell’obbedienza posta in atto con una fede animata dall’amore (5,2), il monaco conquista l’umiltà (5,1), alla quale la Regola dedica un intero capitolo (7). In questo modo l’uomo diventa sempre più conforme a Cristo e raggiunge la vera autorealizzazione come creatura ad immagine e somiglianza di Dio.
All’obbedienza del discepolo deve corrispondere la saggezza dell’Abate, che nel monastero tiene “le veci di Cristo” (2,2; 63,13). La sua figura, delineata soprattutto nel secondo capitolo della Regola, con un profilo di spirituale bellezza e di esigente impegno, può essere considerata come un autoritratto di Benedetto, poiché – come scrive Gregorio Magno – “il Santo non poté in alcun modo insegnare diversamente da come visse” (Dial. II, 36). L’Abate deve essere insieme un tenero padre e anche un severo maestro (2,24), un vero educatore. Inflessibile contro i vizi, è però chiamato soprattutto ad imitare la tenerezza del Buon Pastore (27,8), ad “aiutare piuttosto che a dominare” (64,8), ad “accentuare più con i fatti che con le parole tutto ciò che è buono e santo” e ad “illustrare i divini comandamenti col suo esempio” (2,12). Per essere in grado di decidere responsabilmente, anche l’Abate deve essere uno che ascolta “il consiglio dei fratelli” (3,2), perché “spesso Dio rivela al più giovane la soluzione migliore” (3,3). Questa disposizione rende sorprendentemente moderna una Regola scritta quasi quindici secoli fa! Un uomo di responsabilità pubblica, e anche in piccoli ambiti, deve sempre essere anche un uomo che sa ascoltare e sa imparare da quanto ascolta.
Benedetto qualifica la Regola come “minima, tracciata solo per l’inizio” (73,8); in realtà però essa offre indicazioni utili non solo ai monaci, ma anche a tutti coloro che cercano una guida nel loro cammino verso Dio. Per la sua misura, la sua umanità e il suo sobrio discernimento tra l’essenziale e il secondario nella vita spirituale, essa ha potuto mantenere la sua forza illuminante fino ad oggi. Paolo VI, proclamando nel 24 ottobre 1964 san Benedetto Patrono d’Europa, intese riconoscere l’opera meravigliosa svolta dal Santo mediante la Regola per la formazione della civiltà e della cultura europea. Oggi l’Europa – uscita appena da un secolo profondamente ferito da due guerre mondiali e dopo il crollo delle grandi ideologie rivelatesi come tragiche utopie – è alla ricerca della propria identità. Per creare un’unità nuova e duratura, sono certo importanti gli strumenti politici, economici e giuridici, ma occorre anche suscitare un rinnovamento etico e spirituale che attinga alle radici cristiane del Continente, altrimenti non si può ricostruire l’Europa. Senza questa linfa vitale, l’uomo resta esposto al pericolo di soccombere all’antica tentazione di volersi redimere da sé – utopia che, in modi diversi, nell’Europa del Novecento ha causato, come ha rilevato il Papa Giovanni Paolo II, “un regresso senza precedenti nella tormentata storia dell’umanità” (Insegnamenti, XIII/1, 1990, p. 58). Cercando il vero progresso, ascoltiamo anche oggi la Regola di san Benedetto come una luce per il nostro cammino. Il grande monaco rimane un vero maestro alla cui scuola possiamo imparare l’arte di vivere l’umanesimo vero.

Autore: Papa Benedetto XVI (Udienza Generale 9.04.2008)

La sua nobile famiglia lo manda a Roma per gli studi, che lui non completerà mai. Lo attrae la vita monastica, ma i suoi progetti iniziali falliscono. Per certuni è un santo, ma c’è chi non lo capisce e lo combatte. Alcune canaglie in tonaca lo vogliono per abate e poi tentano di avvelenarlo. In Italia i Bizantini strappano ai Goti, con anni di guerra, una terra devastata da fame, malattie e terrore. Del resto, in Gallia le successioni al trono si risolvono in famiglia con l’omicidio.
« Dovremmo domandarci a quali eccessi si sarebbe spinta la gente del Medioevo, se non si fosse levata questa voce grande e dolce ». Lo dice nel XX secolo lo storico Jaques Le Goff. E la voce di Benedetto comincia a farsi sentire da Montecassino verso il 529. Ha creato un monastero con uomini in sintonia con lui, che rifanno vivibili quelle terre. Di anno in anno, ecco campi, frutteti, orti, il laboratorio… Qui si comincia a rinnovare il mondo: qui diventano uguali e fratelli “latini” e “barbari”, ex pagani ed ex ariani, antichi schiavi e antichi padroni di schiavi. Ora tutti sono una cosa sola, stessa legge, stessi diritti, stesso rispetto. Qui finisce l’antichità, per mano di Benedetto. Il suo monachesimo non fugge il mondo. Serve Dio e il mondo nella preghiera e nel lavoro.
Irradia esempi tutt’intorno con il suo ordinamento interno fondato sui tre punti: la stabilità, per cui nei suoi cenobi si entra per restarci; il rispetto dell’orario (preghiera, lavoro, riposo), col quale Benedetto rivaluta il tempo come un bene da non sperperare mai. Lo spirito di fraternità, infine, incoraggia e rasserena l’ubbidienza: c’è l’autorità dell’abate, ma Benedetto, con la sua profonda conoscenza dell’uomo, insegna a esercitarla « con voce grande e dolce ».
Il fondatore ha dato ai tempi nuovi ciò che essi confusamente aspettavano. C’erano già tanti monasteri in Europa prima di lui. Ma con lui il monachesimo-rifugio diventerà monachesimo-azione. La sua Regola non rimane italiana: è subito europea, perché si adatta a tutti.
Due secoli dopo la sua morte, saranno più di mille i monasteri guidati dalla sua Regola (ma non sappiamo con certezza se ne sia lui il primo autore. Così come continuiamo ad essere incerti sull’anno della sua morte a Montecassino). Papa Gregorio Magno gli ha dedicato un libro dei suoi Dialoghi, ma soltanto a scopo di edificazione, trascurando molti particolari importanti.
Nel libro c’è però un’espressione ricorrente: i visitatori di Benedetto – re, monaci, contadini – lo trovano spesso « intento a leggere ». Anche i suoi monaci studiano e imparano. Il cenobio non è un semplice sodalizio di eruditi per il recupero dei classici: lo studio è in funzione dell’evangelizzare. Ma quest’opera fa pure di esso un rifugio della cultura nel tempo del grande buio.

Autore: Domenico Agasso

 

Publié dans:SAN BENEDETTO DA NORCIA, Santi |on 10 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

Abramo in cammino (in Canaan?)

Abramo in cammino (in Canaan?) dans immagini sacre abraham

http://www2.uncp.edu/home/rwb/lecture_ancient_civ.htm

Publié dans:immagini sacre |on 9 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

ABRAMO NOSTRO PADRE NELLA FEDE – di Carlo M. Martini

http://web.tiscali.it/smomcagliari/meditazioni/isacco.htm

ABRAMO NOSTRO PADRE NELLA FEDE

Il sacrificio di Isacco

di Carlo M. Martini

Vogliamo meditare sulla prova di Abramo raccontata nel Cap. 22 della Genesi. Essa rappresenta il momento culminante dell’esperienza di Abramo, una prova a cui nessuno si può avvicinare in maniera neutrale. In che cosa consiste la prova di Abramo? Quali sono le nostre prove? Innanzitutto chiediamoci: da quale conoscenza di Dio è partito Abramo? Abramo è partito da una conoscenza astrologica, certamente imperfetta, di un Dio di cui si può disporre, dal quale si ottengono favori attraverso riti, di cui si può prevedere dove va, dove non va, guardando il corso degli astri. Quindi un Dio di cui in qualche maniera siamo sicuri, che rende sicura la nostra vita, perché su di lui possiamo contare. Ora vediamo che Abramo, dal Dio su cui può contare, di cui può disporre, passa gradualmente al Dio che dispone di lui, ne dispone continuamente, sempre di più, con prove sempre più sottili, difficili, intercalate da promesse, lo raffina in questa conoscenza e lo porta al Dio della promessa, al Dio al quale bisogna appoggiarsi interamente, totalmente, unicamente, al Dio che ha in mano il destino della sua vita, che lo conosce, ma di cui Abramo non riesce a vedere le realizzazioni concrete. Abramo aveva creduto nel Dio della promessa, nel Dio che lo conduce, anche se non lo vede, nel Dio che gli prepara una terra ed un popolo. Ed ecco finalmente un figlio…Ma ad un certo punto tutto sembra essere rimesso in questione. Ad Abramo è richiesto un nuovo salto nella conoscenza di Dio. Il testo ha avuto tantissime interpretazioni. Da quelle « morbide », secondo cui lo scopo del testo è quello di dimostrare che Dio non vuole sacrifici umani, a quelle « dure », secondo cui lo scopo è quello di dimostrare come il giudizio su ciò che è eticamente macabro e ingiusto (come l’uccisione di un figlio) può essere sospeso di fronte ad un’istanza più alta. Inserendomi tra queste letture vorrei tentare una riflessione rifacendomi al testo biblico. L’uomo di fronte al caso limite Cosa c’è di positivo nella mossa di Abramo? Mi pare che c’è semplicemente questo: la prova di Abramo è, come ogni prova seria, un mettere l’uomo di fronte al caso limite, dove l’uomo mostra veramente ciò che è. La fede di Abramo viene provocata fino al limite estremo. Volendo far parlare Abramo con Dio senza troppa psicologia, con molta semplicità, Abramo direbbe: insomma, mi hai promesso tanto, ho atteso per tanto tempo, finalmente mi hai dato un inizio del popolo che mi hai promesso, mi hai dato una speranza per il futuro, come pegno che sei il mio Dio, e adesso mi dici di toglierlo di mezzo? Che sarà di me? Dov’è allora la benedizione di Dio? Le prove che sconvolgono la nostra fede Anche noi, come Abramo, abbiamo delle prove che sono come frecce infuocate contro la nostra identità di credenti. A volte, di fronte a certi eventi, ci chiediamo: dov’è Dio, perché non interviene? Certe prove, fisiche o morali, sono a volte interminabili, strazianti, e fanno percepire l’assenza di Dio. Dio non viene in aiuto, lascia che la persona si degradi nella sofferenza. Perché succede questo? È il problema del male che è il comune denominatore di tutte le obiezioni su Dio. Su queste prove, a partire dalla prova di Abramo, propongo alcune riflessioni molto semplici. Le prove di ogni giorno La prima riflessione è questa: Dio ci prova e la prova ci aspetta. Perché? Evidentemente perché in un mondo in cui è presente il male, è fatale che chi fa il bene trovi ostacoli. Difatto la prova è inevitabile nella vita. Perché però la prova estrema? Do una risposta che non so se è pienamente corretta: perché Dio è Dio, cioè è colui che si dona nella fede, si dona attraverso un cammino di fede, e questo cammino suppone il superamento di una nostra idea di Dio tendenzialmente sbagliata. Noi spesso cerchiamo un Dio della sicurezza, chiaro, evidente, e non sempre riusciamo ad adeguare la nostra immagine di Dio e ciò che lui è veramente. Da qui il ragionamento frequente che avviene nella prova: perché Dio non mi aiuta? O Dio non l’ho capito o non c’è! La prova allora è una scelta fra queste due vie. Seconda riflessione: la prova, proprio perché tale, rischia di far cadere, è pericolosa, ed ha qualcosa di incomprensibile. Pensiamo alla morte. La morte è il contrario della promessa di vita di Dio, è la prova più assurda. Da qui la terza riflessione: la prova è una prova! Se capissi questo, cambierebbe il nostro atteggiamento. Saremmo colpiti, ma sapremmo anche essere tranquilli, daremmo un significato. Il vangelo più fondamentale è proprio questo: la prova è prova di Dio nel cui mani io sto. Anche nelle prove peggiori, estreme, dobbiamo riuscire a capire di essere nella prova, ma Dio ci ha nelle sue mani. La tradizione neotestamentaria ha letto nella storia di Abramo l’amore di Dio che, dandoci il Figlio, ci assicura che nessuna prova, di nessun tipo, potrà mai andare al di là di una prova, cioè separarci come tale dall’amore di Dio. La prova, da parte di Dio, rimarrà prova e non diventerà scandalo. La prova è prova di un Dio che ci tiene saldamente in mano.

 

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