Archive pour juillet, 2014

Icon of the Mother of God of “the Unexpected Joy” from Andronikov

Icon of the Mother of God of “the Unexpected Joy” from Andronikov dans immagini sacre 0501Icon-unexpectedjoy04

https://oca.org/saints/lives/2000/05/01/101267-icon-of-the-mother-of-god-of-ldquothe-unexpected-joyrdquo-from-a

Publié dans:immagini sacre |on 17 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

ANCHE DIO TACE – DI GIANFRANCO RAVASI

http://ilsilenziodidio.wordpress.com/2014/05/05/anche-dio-tace/

ANCHE DIO TACE – DI GIANFRANCO RAVASI

Pubblicato il 5 maggio 2014 di Carlo Di Francesco

2012-02-02

L’Osservatore Romano

Lo scorso 24 gennaio, quando la liturgia celebrava san Francesco di Sales, scrittore e comunicatore, patrono dei giornalisti, Benedetto XVI anticipava la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali — che si celebrerà il 20 maggio — con un messaggio di forte intensità spirituale dedicato alla Parola e al silenzio. E concludeva con questa considerazione: «Educarsi alla comunicazione vuol dire imparare ad ascoltare, a contemplare, oltre che a parlare, e questo è particolarmente importante per gli agenti dell’evangelizzazione: silenzio e parola sono entrambi elementi essenziali e integranti dell’agire comunicativo della Chiesa, per un rinnovato annuncio di Cristo nel mondo contemporaneo».
Sulla scia delle suggestioni di quel documento, abbiamo così pensato di affrontare il tema del silenzio, un argomento alto e denso, nonostante sia privo di parole. Lo affronteremo da un’altra angolatura. Cantava padre David Maria Turoldo (di cui in questo mese celebriamo il ventesimo dalla morte): «Un chiostro è il mio cuore / ove Tu scendi a sera / io e Te soli / a prolungare il colloquio». Si intuisce in questi versi che il dialogo con Dio non ha solo parole ma soprattutto silenzi: non per nulla nella tradizione giudaica il nome di Dio — elemento fondamentale in ogni religione — non lo si deve dire ma solo tacere.
Questo silenzio è lo stesso del “mistero”, parola greca che rimanda al verbo myein che esige il chiudere le labbra nel tacere, perché il mistero custodisce il divino che è infinito, eterno e ineffabile, ma che è anche efficace, potente, salvifico. Noi, perciò, ci interesseremo ora proprio del silenzio di Dio, non tanto di quello dell’uomo, pur importante perché Qohelet ci ricorda che «c’è un tempo per parlare e un tempo per tacere» (3, 7). Il tacere divino — ben diverso da quello degli idoli che è mutismo perché oggetti inerti («sono come uno spauracchio in un campo di cetrioli: non sanno parlare», ironizzerà Geremia) — ha due volti, l’uno di rivelazione e di grazia, l’altro di giudizio e di ira.
La più affascinante rappresentazione del silenzio “bianco” divino — sintesi di ogni rivelazione proprio come accade a questo colore che riunisce in sé tutta la gamma cromatica (non per nulla è il colore dell’ambito divino nell’Apocalisse) — è nelle tre parole ebraiche che descrivono l’epifania del Signore davanti al profeta fuggiasco e scoraggiato, Elia, giunto alla vetta dell’Horeb-Sinai: qôl demamah daqqah, una «voce di silenzio sottile» (1 Re, 19, 12). Il profeta “focoso” (egli era «come fuoco e la sua parola bruciava come fiaccola», si legge in Siracide 48, 1) aveva atteso Dio negli altri segni teofanici sinaitici, clamorosi e rumorosi: il «vento gagliardo e potente», il terremoto, la folgore. Ma il Signore non era lì, bensì nel silenzio che era segno non di assenza ma di presenza efficace, pronta a rimettere di nuovo Elia sulla strada della sua missione.
Altre versioni, come quella della Conferenza Episcopale Italiana, optano per una resa pure possibile, anche se meno legata al testo ebraico così come suona: «voce di brezza leggera» (in questa linea anche l’antica traduzione greca dei Settanta). Ci si mette, quindi, nella sequenza dei fenomeni atmosferici precedenti, sostituendo alla violenza di un temporale il sussurro lieve di una brezza. Ma l’originale ebraico, confermato anche da alcuni testi di Qumran, ci riporta a un silenzio simile a quello che si allarga nel cielo dell’Apocalisse all’apertura del settimo sigillo, quando «si fece silenzio in cielo per circa mezz’ora» (8, 1).
Una rivelazione silenziosa (l’esegeta Hermann Gunkel parla di una «musica silenziosa») domina anche il Salmo 19: il creato trasmette il messaggio del suo Creatore senza suoni udibili: «I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il firmamento. Il giorno al giorno ne affida il racconto e la notte alla notte ne trasmette notizia. Senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce, per tutta la terra si diffonde il loro annuncio e ai confini del mondo il loro messaggio» (2-5). È una sorta di Tôrah cosmica silenziosa a cui subentra poi laTôrah scritta, che è cantata nella seconda parte del Salmo.
È suggestivo il commento che André Neher ci ha lasciato nel suo saggio L’esilio della parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz (Marietti 1983): «Se la Bibbia sa identificare l’infinito cosmico col silenzio, sa anche che tale infinito non è che il velo di un altro Infinito, quello del Creatore, la cui Parola trascorre attraverso l’immensità per raggiungere l’uomo, ma il cui Essere intimo non può identificarsi anch’esso se non con il silenzio».
Continuiamo, però, la nostra ricerca sul silenzio positivo divino penetrando anche nel Nuovo Testamento con la figura di Cristo.
Pensiamo ai momenti di solitudine che ripetutamente Gesù cerca, allontanandosi dalla folla per incontrare il Padre nella preghiera (un esempio per tutti in Marco 1, 35). Ma mi sembrano significativi in questo senso e positivi nel loro risultato anche i silenzi che Cristo impone ai segni del male, generando così la salvezza: ai demoni (Marco 1, 25), alla tempesta, emblema del caos (Marco 4, 39), agli avversari che lo vogliono far cadere (Matteo 22, 34), agli stessi discepoli che non comprendono il significato della sua sofferenza e della sua gloria (Marco 8, 30; 9, 9), ai malati guariti perché non si equivochi sul valore dei miracoli (Marco 1, 44).
Altre volte è il silenzio di Gesù stesso che si rivela in realtà come una lezione o un monito o un giudizio sul suo interlocutore: di fronte all’adultera e ai suoi accusatori (Giovanni, 8, 6. 8), davanti al Sinedrio che lo interroga (Marco, 14, 60-61), a Pilato (Marco, 15, 4-5), a Erode (Luca, 23, 9). Quando entra nel sentiero oscuro della passione il suo è un silenzio eloquente, che si modella su quello del Servo sofferente cantato da Isaia: «Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì bocca: era (…) come pecora muta di fronte ai suoi tosatori e non aprì la sua bocca» (53, 7). C’è, quindi, un silenzio sacrificale che diventa principio di salvezza per l’umanità peccatrice.
Tutto questo fa parte di un disegno divino misterioso che è rivelato, ossia un messaggio taciuto che viene svelato, ed è proprio san Paolo a connettere al tema del silenzio questo piano salvifico che egli chiama appunto “mistero”, il cui valore etimologico abbiamo già illustrato sopra. L’Apostolo, nella “dossologia” (inno di gloria) che suggella la Lettera ai Romani, canta «la rivelazione del mistero avvolto nel silenzio [si usa il verbo greco sigào, presente dieci volte nel Nuovo Testamento] per secoli eterni, ma ora manifestato mediante le Scritture dei profeti, per ordine dell’eterno Dio, annunciato a tutte le genti» (16, 25). Fin qui il silenzio luminoso di Dio.
Ma c’è anche un suo tacere che genera paura e amarezza. Il fedele sente quasi come un incubo quel mutismo che ha il tono dell’assenza e dell’indifferenza e persino dell’abbandono. Per questo, l’orante del Salterio spesso grida a Dio: «Signore, tu hai visto, non tacere! Non stare da me lontano! (…) Non essere sordo alle mie lacrime! (…) A te grido, Signore, mia roccia, con me non tacere perché, se tu non parli, sono come chi scende nella fossa infernale!» (Salmi , 35, 22; 39, 13; 28, 1). Il “perché?”, il “fino a quando?” che viene spesso lanciato verso l’alto dagli oranti sofferenti vorrebbe scuotere questo Dio muto, persino addormentato (44, 24).
La storia senza la parola di Dio o quella dei suoi profeti diventa incomprensibile e insopportabile, ma la stessa fede cade in un dramma: l’inazione divina diviene un argomento dei negatori di Dio che possono ripetere il motteggio sarcastico evocato dall’autore del Salmo 42, «Dov’è il tuo Dio?». Altre volte, però, il silenzio di Dio è il segno esplicito del suo giudizio sul peccato del popolo: «grideranno al Signore, ma egli non risponderà, nasconderà loro la faccia, perché hanno compiuto azioni malvagie», minaccia il profeta Michea (3, 4).
Emblematico a questo proposito è uno dei tanti atti simbolici che Ezechiele compie. Il Signore, infatti, gli annuncia: «Farò aderire la tua lingua al palato e resterai muto; così non sarai più per loro uno che li rimprovera, perché sono una genia di ribelli» (3, 26). Il messaggio è chiaro: il profeta incarna la scelta divina di non ammonire più il suo popolo, lasciandolo immerso nel suo male fino ad affogare. Ancora una volta il silenzio del Signore — incarnato nel profeta muto, voce di Dio spenta — è segno di giudizio. Quando la bocca di Ezechiele lancerà ancora suoni (24, 27; 33, 22), sarà indizio del ritorno della misericordia divina, del perdono e della conversione di Israele.
Nel Nuovo Testamento la rappresentazione negativa più alta e drammatica del silenzio divino la si ha sulla croce di Cristo, quando egli sperimenta l’abbandono del Padre attraverso il suo silenzio: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Marco, 15, 34). Eppure quel vuoto, che rende Cristo veramente e pienamente nostro fratello non solo nel dolore e nella morte, ma anche nell’assenza di Dio, non sfocerà nella definitiva lontananza e nella solitudine. Incombe, infatti, l’alba della Pasqua quando il Padre risponderà efficacemente all’invocazione del Figlio attraverso la risurrezione.
Commentava Heinrich Schlier (1900-1978), famoso teologo ed esegeta tedesco: «Proprio nel momento in cui Dio gli fa provare l’essere senza Dio, il patire, il morire senza Dio, Gesù si rivolge a Dio col Salmo dei pii dell’antica Alleanza. Non grida nel vuoto, ma a Lui, verso di Lui! Si rivolge a Dio, senza Dio! Depone ai piedi del Dio che l’ha abbandonato anche l’angoscia del morire senza Dio. Proprio attraverso questa esperienza, Gesù alla fine diventa per tutti il vincitore del morire abbandonati da Dio, il vincitore della morte senza Dio!».

Gianfranco Ravasi

Publié dans:CAR. GIANFRANCO RAVASI |on 17 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

VIVERE DIO IN UN MONDO SECOLARIZZATO: DIETRICH BONHOEFFER

http://www.finesettimana.org/pmwiki/?n=Db.Sintesi?num=106

VIVERE DIO IN UN MONDO SECOLARIZZATO: DIETRICH BONHOEFFER

sintesi della relazione di Paolo Ricca
Verbania Pallanza, 20 aprile 1996
un profilo di Bonhoeffer

1.- la parabola di un’esistenza
Bonhoeffer è uno dei pochi teologi martiri di tutta la storia cristiana. Poiché i teologi sono intellettuali, come tutti gli intellettuali sono esperti nell’evitare le tempeste della storia e inclini al pensiero cortigiano, cioè quel pensiero che finisce per aderire o non contrastare il potere esistente.
In Italia solo 13 docenti universitari rifiutarono di prestare giuramento al fascismo. Bonhoeffer è una di queste mosche bianche: è passato dalla cattedra all’università di Berlino, raggiunta da giovanissimo, alla forca di Flossembürg
Ha vissuto quello che scrisse nella lettera a suo nipote in occasione del battesimo: « Abbiamo vissuto troppo intensamente nel pensiero ed abbiamo creduto che fosse possibile garantire in precedenza, mediante una ricognizione di tutte le possibilità, il risultato di qualsiasi azione, in modo tale che essa si compia in conclusione da sola. Un po’ troppo tardi abbiamo imparato che non il pensiero, ma l’assunzione della responsabilità è l’origine dell’azione. Per voi » dice rivolgendosi al nipote « pensiero ed azione entreranno in una relazione nuova. Penserete esclusivamente ciò di cui vi renderete responsabili agendo. Per noi il pensiero era spesso il lusso dello spettatore, per voi sarà interamente al servizio dell’azione. »
Bonhoeffer, proprio perché ha pensato esclusivamente ciò di cui si è reso responsabile attraverso l’azione, è vissuto solo 39 anni. E il suo pensiero manifesta una crescente giovinezza.
Nella prima fase, quella dell’università, Bonhoeffer si rende conto che la teologia accademica non è in grado di produrre un cristianesimo militante capace di fronteggiare vittoriosamente il paganesimo nazista. Per questo abbandona l’Università, troncando una brillante carriera, per buttarsi nella lotta della Chiesa Confessante. Dichiara, con grande scandalo, che fuori della Chiesa Confessante non c’è salvezza. Sostiene che la Chiesa Evangelica rimodellata secondo le direttive del Führer è una pseudochiesa, che offre una pseudosalvezza.Viene considerato un fanatico. Ma anche la Chiesa Confessante viene giudicata inadeguata, perché pensa solo a se stessa, tradendo il mandato divino.
E allora l’attenzione si sposta dalla chiesa al mondo, al mondo diventato adulto, a Dio. Dalla cella del carcere ripensa al cristianesimo globalmente considerato, al rapporto tra Dio e il mondo in termini nuovi.
Queste tre fasi della vita di Bonhoeffer sono anche rilette dal pastore André Dumas con la metafora di Nietzsche sulle metamorfosi dello spirito umano, che prima diventa cammello (accumula un sapere universitario di cui presto riconosce la sterilità), poi si trasforma in leone (cioè da accademico diventa un militante che lotta nella Chiesa Confessante. Si oppone al « paragrafo ariano », accettato dalla Chiesa del Reich e rifiutato dalla Chiesa Confessante. Mentre però la Chiesa Confessante si oppone perché il paragrafo lede l’autonomia della Chiesa, Bonhoeffer lo rifiuta perché snatura la chiesa) e infine diviene bambino (c’è una presa di distanza dalla Chiesa Confessante, una emigrazione interiore, accolta senza rimpianti dalla stessa chiesa. Bonhoeffer diventa un cristiano senza chiesa).
Attorno a Bonhoeffer, in carcere, si forma una nuova chiesa sui generis, che comprende non solo cristiani di diverse confessioni, ma anche comunisti russi di formazione atea. Bonhoeffer presiede un piccolo culto, il giorno prima della morte, tra persone votate alla morte per la resistenza al nazismo, sia credenti che non credenti. Segno della chiesa di domani. Qui Bonhoeffer diventa bambino, rinasce in qualche modo di nuovo, con un nuovo sguardo sul mondo e su Dio: è un mondo senza Dio, ma amato da Dio. Nasce un nuovo linguaggio.
2.- alcune tensioni nel pensiero di Bonhoeffer
Il pensiero di Bonhoeffer esercita un grande fascino sia perché è incompiuto sia perché ricco di tensioni molto vive.
Innanzitutto la tensione tra il suo appartenere alla grande borghesia e la sua immersione nella condizione proletaria (vive per qualche tempo in un quartiere proletario), per la consapevolezza di quanto l’appartenenza ad una classe sociale influenzi il modo di intendere e di esprimere la fede religiosa.
Poi la tensione tra il rapporto intenso con il proprio passato, le radici, la famiglia e la vitalità e il coraggio di leggere e di vivere il presente.
Inoltre Bonhoeffer era un uomo molto pio, religioso, devoto (molta preghiera, lettura della bibbia due volte al giorno) ed insieme è stato il grande teologo della profanità, del ricercatore di un linguaggio non religioso per poter parlare all’uomo adulto.
È stato uno dei piò grandi teologi pacifisti, che dichiarava nel 1934: È giunto il tempo per noi di non vergognarci di chiamarci pacifisti, firmando così la sua condanna a morte, l’accusa di traditore della nazione. Non ha esitato, nello stesso tempo, a partecipare alla cospirazione politica per eliminare Hitler.
Bonhoeffer è stato un teologo luterano e insieme un pensatore ecumenico, elaborando un pensiero capace di superare i confini del cristianesimo e della religione.
Bonhoeffer infine è stato un teologo molto legato alla sua terra, al suo popolo, ma insieme ha sviluppato una forte coscienza internazionalista.
3.- eredità teologica di Bonhoeffer
Anzitutto il tema della debolezza e impotenza di Dio. Solitamente Dio e onnipotenza sono ritenuti sinonimi. Dio si identifica totalmente con la condizione umana e quindi con la sua debolezza. Dio inoltre si oppone al Dio forte dei nazisti. Il tema della debolezza di Dio è estremamente presente nelle riflessione teologica di oggi.
Altro aspetto centrale è la fedeltà alla terra. Il primo interesse per il cristianesimo deve essere non l’esperienza religiosa dell’uomo, ma quello della salvaguardia e promozione della vita umana, della giustizia. Famosa è la sua affermazione sul compito dei cristiani: pregare e operare tra gli uomini secondo giustizia. Solo passando attraverso il mondo, assumendone pene, sofferenze, contraddizioni, si può entrare in un giusto rapporto con Dio.
Occorre poi pensare il cristianesimo a partire dalla coscienza dell’uomo diventato adulto, prescindendo da una visione del mondo costruita a partire dall’ipotesi Dio. L’uomo contemporaneo organizza il mondo come se Dio non ci fosse. L’avvento di una coscienza secolare, nonostante gli attuali ritorni di Dio, si è verificata. Infatti per l’uomo contemporaneo, adulto, Dio non è piò un presupposto. Allora come parlare di Dio in termini non religiosi?
Inoltre l’uomo contemporaneo ha una visione unitaria della realtà (non piò questo mondo e un mondo altro).
Da ultimo Bonhoeffer ci invita a diventare umani per diventare cristiani. Gesò non ci chiama ad una nuova religione, ma alla vita. Nell’umanità di Gesò c’è il modello dell’uomo che vive il trascendente.
vivere Dio in un mondo secolarizzato

1.- vivere Dio nell’al di qua
La religione si caratterizza nel produrre uno sdoppiamento della realtà in due mondi, per favorire il distacco interiore da questo mondo passeggero oscuro caduco al mondo definitivo luminoso permanente.
Per Bonhoeffer l’Evangelo non propone un distacco da questo mondo, ma, secondo la linea dell’Incarnazione, l’immersione in questo mondo. L’Evangelo unifica la realtà: Dio nel mondo , non Dio e il mondo.
Anche per la coscienza secolarizzata il mondo è uno, ma senza Dio, dato Dio che appartiene all’aldilà. Il cristianesimo scopre Dio nell’al di qua. Su questa scoperta si incentra la ricerca di Bonhoeffer. La ricerca di Dio non può avvenire lontano dal mondo, evadendo dalle realtà storiche.
Per imparare a credere occorre evitare una duplice fuga: la fuga religiosa che si sottrae dal mondo e la fuga secolare che si libera da Dio per muoversi agevolmente nel mondo. Dio e mondo sono congiunti, sono riconciliati in Gesò Cristo.
Nel prendere le distanze da una concezione di un Dio separato dal mondo Bonhoeffer segnala tre forme inautentiche di conoscenza di Dio: la concezione del Dio come onnipotente (solo Dio nell’aldilà), del Dio tappabuchi, che colma i buchi della nostra ignoranza, del Dio scappatoia come risorsa estrema a cui ricorrere nei momenti critici della vita (morte, sofferenza e colpa). Dio non vuole essere accettato per disperazione.
Occorre vivere Dio interamente nell’aldiqua.
2.- vivere Dio nell’al di qua secondo Bonhoeffer
Innanzitutto per Bonhoeffer vivere Dio nell’al di qua vuol dire scoprire la polifonia della vita. Noi alberghiamo in noi stessi Dio e il mondo intero. Dio può essere paragonato al cantus firmus, al tema dominante della vita, rispetto al quale tutti gli altri temi musicali si muovono e si intrecciano, in autonomia e in segreto rapporto con il tema dominante. È la trascendenza dell’al di qua, che si manifesta nell’avvicinarsi all’altro. Trascendenza nell’al di qua è scoprire tutte le dimensioni della vita. La religione non è un settore, ma una dimensione della realtà.
Per un certo tempo l’essere cristiani dovrà consistere nel pregare e nel praticare la giustizia tra gli uomini. Questa concentrazione dovrà dar luogo alla nascita di un nuovo linguaggio.
Nessuna chiesa ha osato mettere in pratica questa indicazione di Bonhoeffer di una doppia ascesi, l’ascesi della parola, riservata alla preghiera, l’ascesi dell’azione, riservata esclusivamente alla pratica della giustizia in mezzo agli uomini.

Publié dans:meditazioni |on 17 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

Gesù benedice i bambini

Gesù benedice i bambini dans immagini sacre Jesus+blesses+the+children.+The+kingdom+of+heaven+is+for+those+who+resemble+Him

http://holycardsforchildren.blogspot.it/p/christ-and-children.html

Publié dans:immagini sacre |on 16 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI – SALMO 130 – CONFIDARE IN DIO COME IL BIMBO NELLA MADRE (2005)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2005/documents/hf_ben-xvi_aud_20050810_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 10 agosto 2005

SALMO 130 – CONFIDARE IN DIO COME IL BIMBO NELLA MADRE
Vespri del Martedì della 3a Settimana

1. Abbiamo ascoltato solo poche parole, una trentina nell’originale ebraico del Salmo 130. Eppure sono parole intense, che svolgono un tema caro a tutta la letteratura religiosa: l’infanzia spirituale. Il pensiero corre subito in modo spontaneo a santa Teresa di Lisieux, alla sua «piccola via», al suo «restare piccola» per «essere tra le braccia di Gesù» (cfr Manoscritto «C», 2r°-3v°: Opere complete, Città del Vaticano 1997, pp. 235-236).
Al centro del Salmo, infatti, si staglia l’immagine di una madre col bambino, segno dell’amore tenero e materno di Dio, come si era già espresso il profeta Osea: «Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato… Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (Os 11,1.4).
2. Il Salmo si apre con la descrizione dell’atteggiamento antitetico rispetto a quello dell’infanzia, la quale è consapevole della propria fragilità, ma fiduciosa nell’aiuto degli altri. Di scena, nel Salmo, sono invece l’orgoglio del cuore, la superbia dello sguardo, le «cose grandi e superiori» (cfr Sal 130,1). È la rappresentazione della persona superba, che viene tratteggiata mediante vocaboli ebraici indicanti «altezzosità» ed «esaltazione», l’atteggiamento arrogante di chi guarda gli altri con senso di superiorità, ritenendoli inferiori a se stesso.
La grande tentazione del superbo, che vuol essere come Dio, arbitro del bene e del male (cfr Gn 3,5), è decisamente respinta dall’orante, il quale opta per la fiducia umile e spontanea nell’unico Signore.
3. Si passa, così, all’immagine indimenticabile del bambino e della madre. Il testo originario ebraico non parla di un neonato, bensì di un «bimbo svezzato» (Sal 130,2). Ora, è noto che nell’antico Vicino Oriente lo svezzamento ufficiale era collocato attorno ai tre anni e celebrato con una festa (cfr Gn 21,8; 1Sam 1,20-23; 2 Mac 7,27).
Il bambino, a cui il Salmista rimanda, è legato alla madre da un rapporto ormai più personale e intimo, non quindi dal mero contatto fisico e dalla necessità di cibo. Si tratta di un legame più cosciente, anche se sempre immediato e spontaneo. È questa la parabola ideale della vera «infanzia» dello spirito, che si abbandona a Dio non in modo cieco e automatico, ma sereno e responsabile.
4. A questo punto la professione di fiducia dell’orante si allarga a tutta la comunità: «Speri Israele nel Signore, ora e sempre» (Sal 130,3). La speranza sboccia ora in tutto il popolo, che riceve da Dio sicurezza, vita e pace, e si estende dal presente al futuro, «ora e sempre».
È facile continuare la preghiera facendo echeggiare altre voci del Salterio, ispirate alla stessa fiducia in Dio: «Al mio nascere tu mi hai raccolto, dal grembo di mia madre sei tu il mio Dio» (Sal 21,11). «Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto» (Sal 26, 10). «Sei tu, Signore, la mia speranza, la mia fiducia fin dalla mia giovinezza. Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno, dal seno di mia madre tu sei il mio sostegno» (Sal 70,5-6).
5. All’umile fiducia, come si è visto, si oppone la superbia. Uno scrittore cristiano del quarto-quinto secolo, Giovanni Cassiano, ammonisce i fedeli sulla gravità di questo vizio, che «distrugge tutte le virtù nel loro insieme e non prende di mira solamente i mediocri e i deboli, ma principalmente quelli che si sono posti al vertice con l’uso delle loro forze». Egli continua: «È questo il motivo per cui il beato Davide custodisce con tanta circospezione il suo cuore fino a osare di proclamare davanti a Colui al quale non sfuggivano certamente i segreti della sua coscienza: « Signore, non si inorgoglisce il mio cuore e non si leva con superbia il mio sguardo; non vado in cerca di cose grandi, superiori alle mie forze »… E tuttavia, ben conoscendo quanto sia difficile anche per i perfetti una tale custodia, egli non presume di appoggiarsi unicamente alle sue capacità, ma supplica con preghiere il Signore di aiutarlo per riuscire a evitare i dardi del nemico e a non restarne ferito: « Non mi raggiunga il piede orgoglioso » (Sal 35,12)» (Le istituzioni cenobitiche, XII,6, Abbazia di Praglia, Bresseo di Teolo – Padova 1989, p. 289).
Analogamente un anziano anonimo dei Padri del deserto ci ha tramandato questa dichiarazione, che riecheggia il Salmo 130: «Io non ho mai oltrepassato il mio rango per camminare più in alto, né mi sono mai turbato in caso di umiliazione, perché ogni mio pensiero era in questo: nel pregare il Signore che mi spogliasse dell’uomo vecchio» (I Padri del deserto. Detti, Roma 1980, p. 287).

 

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI – (Il mistero rivelato ai piccoli) (2009)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2009/documents/hf_ben-xvi_hom_20091201_cti_it.html

SANTA MESSA CON I MEMBRI DELLA COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI – (Il mistero rivelato ai piccoli)

Cappella Paolina

Martedì, 1° dicembre 2009

Cari fratelli e sorelle,

le parole del Signore, che abbiamo ascoltato poc’anzi nel brano evangelico, sono un sfida per noi teologi, o forse, per meglio dire, un invito a un esame di coscienza: che cosa è la teologia? che cosa siamo noi teologi? come fare bene teologia? Abbiamo sentito che il Signore loda il Padre perché ha nascosto il grande mistero del Figlio, il mistero trinitario, il mistero cristologico, davanti ai sapienti, ai dotti – essi non l’hanno conosciuto -, ma lo ha rivelato ai piccoli, ai nèpioi, a quelli che non sono dotti, che non hanno una grande cultura. A loro è stato rivelato questo grande mistero.
Con queste parole il Signore descrive semplicemente un fatto della sua vita; un fatto che inizia già ai tempi della sua nascita, quando i Magi dell’Oriente chiedono ai competenti, agli scribi, agli esegeti il luogo della nascita del Salvatore, del Re d’Israele. Gli scribi lo sanno perché sono grandi specialisti; possono dire subito dove nasce il Messia: a Betlemme! Ma non si sentono invitati ad andare: per loro rimane una conoscenza accademica, che non tocca la loro vita; rimangono fuori. Possono dare informazioni, ma l’informazione non diventa formazione della propria vita.
Poi, durante tutta la vita pubblica del Signore troviamo la stessa cosa. È inaccessibile per i dotti comprendere che questo uomo non dotto, galileo, possa essere realmente il Figlio di Dio. Rimane inaccettabile per loro che Dio, il grande, l’unico, il Dio del cielo e della terra, possa essere presente in questo uomo. Sanno tutto, conoscono anche Isaia 53, tutte le grandi profezie, ma il mistero rimane nascosto. Viene invece rivelato ai piccoli, iniziando dalla Madonna fino ai pescatori del lago di Galilea. Essi conoscono, come pure il capitano romano sotto la croce conosce: questi è il Figlio di Dio.
I fatti essenziali della vita di Gesù non appartengono solo al passato, ma sono presenti, in modi diversi, in tutte le generazioni. E così anche nel nostro tempo, negli ultimi duecento anni, osserviamo la stessa cosa. Ci sono grandi dotti, grandi specialisti, grandi teologi, maestri della fede, che ci hanno insegnato molte cose. Sono penetrati nei dettagli della Sacra Scrittura, della storia della salvezza, ma non hanno potuto vedere il mistero stesso, il vero nucleo: che Gesù era realmente Figlio di Dio, che il Dio trinitario entra nella nostra storia, in un determinato momento storico, in un uomo come noi. L’essenziale è rimasto nascosto! Si potrebbero facilmente citare grandi nomi della storia della teologia di questi duecento anni, dai quali abbiamo imparato molto, ma non è stato aperto agli occhi del loro cuore il mistero.
Invece, ci sono anche nel nostro tempo i piccoli che hanno conosciuto tale mistero. Pensiamo a santa Bernardette Soubirous; a santa Teresa di Lisieux, con la sua nuova lettura della Bibbia “non scientifica”, ma che entra nel cuore della Sacra Scrittura; fino ai santi e beati del nostro tempo: santa Giuseppina Bakhita, la beata Teresa di Calcutta, san Damiano de Veuster. Potremmo elencarne tanti!
Ma da tutto ciò nasce la questione: perché è così? È il cristianesimo la religione degli stolti, delle persone senza cultura, non formate? Si spegne la fede dove si risveglia la ragione? Come si spiega questo? Forse dobbiamo ancora una volta guardare alla storia. Rimane vero quanto Gesù ha detto, quanto si può osservare in tutti i secoli. E tuttavia c’è una “specie” di piccoli che sono anche dotti. Sotto la croce sta la Madonna, l’umile ancella di Dio e la grande donna illuminata da Dio. E sta anche Giovanni, pescatore del lago di Galilea, ma è quel Giovanni che sarà chiamato giustamente dalla Chiesa “il teologo”, perché realmente ha saputo vedere il mistero di Dio e annunciarlo: con l’occhio dell’aquila è entrato nella luce inaccessibile del mistero divino. Così, anche dopo la sua risurrezione, il Signore, sulla strada verso Damasco, tocca il cuore di Saulo, che è uno dei dotti che non vedono. Egli stesso, nella prima Lettera a Timoteo, si definisce “ignorante” in quel tempo, nonostante la sua scienza. Ma il Risorto lo tocca: diventa cieco e, al tempo stesso, diventa realmente vedente, comincia a vedere. Il grande dotto diviene un piccolo, e proprio per questo vede la stoltezza di Dio che è saggezza, sapienza più grande di tutte le saggezze umane.
Potremmo continuare a leggere tutta la storia in questo modo. Solo un’osservazione ancora. Questi dotti sapienti, sofòi e sinetòi, nella prima lettura, appaiono in un altro modo. Qui sofia e sínesis sono doni dello Spirito Santo che riposano sul Messia, su Cristo. Che cosa significa? Emerge che c’è un duplice uso della ragione e un duplice modo di essere sapienti o piccoli. C’è un modo di usare la ragione che è autonomo, che si pone sopra Dio, in tutta la gamma delle scienze, cominciando da quelle naturali, dove un metodo adatto per la ricerca della materia viene universalizzato: in questo metodo Dio non entra, quindi Dio non c’è. E così, infine, anche in teologia: si pesca nelle acque della Sacra Scrittura con una rete che permette di prendere solo pesci di una certa misura e quanto va oltre questa misura non entra nella rete e quindi non può esistere. Così il grande mistero di Gesù, del Figlio fattosi uomo, si riduce a un Gesù storico: una figura tragica, un fantasma senza carne e ossa, un uomo che è rimasto nel sepolcro, si è corrotto ed è realmente un morto. Il metodo sa “captare” certi pesci, ma esclude il grande mistero, perché l’uomo si fa egli stesso la misura: ha questa superbia, che nello stesso tempo è una grande stoltezza perché assolutizza certi metodi non adatti alle realtà grandi; entra in questo spirito accademico che abbiamo visto negli scribi, i quali rispondono ai Re magi: non mi tocca; rimango chiuso nella mia esistenza, che non viene toccata. È la specializzazione che vede tutti i dettagli, ma non vede più la totalità.
E c’è l’altro modo di usare la ragione, di essere sapienti, quello dell’uomo che riconosce chi è; riconosce la propria misura e la grandezza di Dio, aprendosi nell’umiltà alla novità dell’agire di Dio. Così, proprio accettando la propria piccolezza, facendosi piccolo come realmente è, arriva alla verità. In questo modo, anche la ragione può esprimere tutte le sue possibilità, non viene spenta, ma si allarga, diviene più grande. Si tratta di un’altra sofìa e sìnesis, che non esclude dal mistero, ma è proprio comunione con il Signore nel quale riposano sapienza e saggezza, e la loro verità.
In questo momento vogliamo pregare perché il Signore ci dia la vera umiltà. Ci dia la grazia di essere piccoli per poter essere realmente saggi; ci illumini, ci faccia vedere il suo mistero della gioia dello Spirito Santo, ci aiuti a essere veri teologi, che possono annunciare il suo mistero perché toccati nella profondità del proprio cuore, della propria esistenza. Amen.

Publié dans:meditazioni, Papa Benedetto XVI |on 16 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

Madonna del Carmelo

Madonna del Carmelo dans immagini sacre

http://www.santiebeati.it/immagini/?mode=view&album=28300&pic=28300AC.JPG&dispsize=Original&start=0

Publié dans:immagini sacre |on 15 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

I CARMELITANI

http://www.ilcarmelo.it/l-ordine/storia-dellordine-2.html

I CARMELITANI

Al tempo del regno latino di Gerusalemme (secc. XII-XIII) esistevano monasteri bizantini presso la “Grotta d’Elia” sul pendio del promontorio del Carmelo. Oltre ai monaci bizantini, nelle grotte naturali della Montagna, si stabilirono anche alcuni eremiti. La memoria del Profeta entrò tanto nell’immaginario degli eremiti, che si diffuse la leggenda che, oltre ad Elia , Eliseo e i figli dei profeti, anche san Giovanni Battista fosse un eremita del Carmelo.
Tra il 1192 e il 1209, con l’esito vittorioso delle crociate, non pochi soldati e pellegrini europei trovarono i luoghi ideali per ritirarsi dal mondo e donarsi alla sequela di Cristo. Così alcuni, affascinati dall’epopea del profeta Elia scelsero il Wadi es-Siah per consacrarsi al servizio della Madonna sul Monte Carmelo: si chiamarono perciò “Eremiti del Carmelo” (o “Eremiti Latini”).
La vita degli eremiti nelle grotte del Carmelo era semplice: da soli, lungo la settimana, pregavano e lavoravano artigianalmente e coltivavano la terra; si radunavano il sabato e la Domenica per la liturgia comune.
Per evitare di essere esposti all’emarginazione da parte delle autorità militari, politiche ed ecclesiastiche, gli eremiti latini del Monte Carmelo chiesero e ottennero una ‘formula di vita’ dal loro vescovo Alberto, patriarca di Gerusalemme, che li costituì in “collegium”, e diede peso pubblico al loro vincolo d’obbedienza che professavano al priore. L’effetto giuridico dell’intervento di sant’Alberto fu decisivo: esso mutò la condizione degli eremiti da associazione volontaria a fraternità sotto la giurisdizione ecclesiastica. La Regola (1207 ca.) venne poi legittimata dal Papa Onorio III (1226) e riconfermata da Papa Gregorio IX (1229).
Il loro arrivo in Europa risale al 1235, anno in cui due religiosi ottennero il permesso di fondare una casa a Valencienne, in Francia. L’immigrazione generale, però, ebbe luogo a partire dal 1238 quando la Terra Santa veniva progressivamente rioccupata dai Musulmani: l’esodo dei Carmelitani verso l’Europa fu quasi totale. Qui dovettero adattarsi a nuove condizioni di vita: si riavvicinarono alle città e si profilò una certa vita comunitaria. Si rivolsero quindi al Papa Innocenzo IV, per adattare la Regola Primitiva alla nuova situazione culturale e sociale: da eremita l’Ordine si trasforma in mendicante, sull’esempio dei Francescani e Domenicani, passando così dall’eremo al convento. Il primo ottobre 1247, Papa Innocenzo IV pubblicò la Regola Modificata dei Carmelitani. L’architettura primitiva subisce qualche ritocco importante, ma resta l’ispirazione primitiva.
Movimenti di riforma dell’Ordine iniziarono già nella seconda metà del secolo XV (Mantova e Albi). È in questo periodo che, sotto il Padre Generale Giovanni Soreth (1394-1471), vennero fondate le Monache Carmelitane.
La riforma che ebbe maggiore sviluppo fu però quella avviata in Spagna da santa Teresa di Gesù : fondando ad Avila nel 1562 il monastero di san Giuseppe. La riforma teresiana, fondata su orazione, zelo apostolico e centralità della vita comunitaria, si estese secondo le intenzioni di Teresa anche al ramo maschile dell’Ordine, grazie all’adesione di san Giovanni della Croce (Duruelo 1568). Non compresa e non accettata da parte dell’Ordine, la riforma dovette chiedere a Roma la separazione giuridica (1593). Da allora esistono due famiglie religiose: i Carmelitani dell’Antica Osservanza (detti anche Calzati) e i Carmelitani Scalzi o Teresiani, ciascuna con Costituzioni e un governo proprio.
Nel 1600, i Carmelitani Scalzi d’Italia venivano eretti da Clemente VIII nella Congregazione di san Elia, che assumeva un marcato carattere missionario, in tutto indipendente dal ramo che invece faceva capo agli Scalzi di Spagna.
Già due anni dopo la morte di santa Teresa (1582), i Carmelitani Scalzi giungevano a Genova per fondare il primo convento dell’Ordine fuori di Spagna; animatore dell’impresa fu p. Nicolò Doria. Da questo convento di Sant’Anna il Carmelo teresiano si diffuse in tutta Europa, mentre negli stessi anni dalla Spagna e dal Portogallo gli Scalzi partivano per fondare in America Latina.

SEGUE LA REGOLA

Publié dans:ORDINI RELIGIOSI |on 15 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

26 LUGLIO: BEATA VERGINE MARIA DEL MONTE CARMELO

http://www.santiebeati.it/dettaglio/28300

BEATA VERGINE MARIA DEL MONTE CARMELO

16 luglio – Memoria Facoltativa

Il primo profeta d’Israele, Elia (IX sec. a.C.), dimorando sul Monte Carmelo, ebbe la visione della venuta della Vergine, che si alzava come una piccola nube dalla terra verso il monte, portando la pioggia e salvando Israele dalla siccità. In quella immagine tutti i mistici cristiani e gli esegeti hanno sempre visto la Vergine Maria, che portando in sé il Verbo divino, ha dato la vita e la fecondità al mondo. Un gruppo di eremiti, «Fratelli della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo», costituitrono una cappella dedicata alla Vergine sul Monte Carmelo. I monaci carmelitani fondarono, inoltre, dei monasteri in Occidente. Il 16 luglio del 1251 la Vergine, circondata da angeli e con il Bambino in braccio, apparve al primo Padre generale dell’Ordine, beato Simone Stock, al quale diede lo «scapolare» col «privilegio sabatino», ossia la promessa della salvezza dall’inferno, per coloro che lo indossano e la liberazione dalle pene del Purgatorio il sabato seguente alla loro morte. (Avvenire)

Etimologia: Maria = amata da Dio, dall’egiziano; signora, dall’ebraico

Martirologio Romano: Beata Maria Vergine del Monte Carmelo, dove un tempo il profeta Elia aveva ricondotto il popolo di Israele al culto del Dio vivente e si ritirarono poi degli eremiti in cerca di solitudine, istituendo un Ordine di vita contemplativa sotto il patrocinio della santa Madre di Dio.
Il 16 luglio ricorre una festa mariana molto importante nella Tradizione della Chiesa: la Madonna del Carmelo, una delle devozioni più antiche e più amate dalla cristianità, legata alla storia e ai valori spirituali dell’Ordine dei frati della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo (Carmelitani). La festa liturgica fu istituita per commemorare l’apparizione del 16 luglio 1251 a san Simone Stock, all’epoca priore generale dell’ordine carmelitano, durante la quale la Madonna gli consegnò uno scapolare (dal latino scapula, spalla) in tessuto, rivelandogli notevoli privilegi connessi al suo culto.
Nel Primo Libro dei Re dell’Antico Testamento si racconta che il profeta Elia, che raccolse una comunità di uomini proprio sul monte Carmelo (in aramaico «giardino»), operò in difesa della purezza della fede in Dio, vincendo una sfida contro i sacerdoti del dio Baal. Qui, in seguito, si stabilirono delle comunità monastiche cristiane. I crociati, nell’XI secolo, trovarono in questo luogo dei religiosi, probabilmente di rito maronita, che si definivano eredi dei discepoli del profeta Elia e seguivano la regola di san Basilio. Nel 1154 circa si ritirò sul monte il nobile francese Bertoldo, giunto in Palestina con il cugino Aimerio di Limoges, patriarca di Antiochia, e venne deciso di riunire gli eremiti a vita cenobitica. I religiosi edificarono una chiesetta in mezzo alle loro celle, dedicandola alla Vergine e presero il nome di Fratelli di Santa Maria del Monte Carmelo. Il Carmelo acquisì, in tal modo, i suoi due elementi caratterizzanti: il riferimento ad Elia ed il legame a Maria Santissima.
Il Monte Carmelo, dove la Tradizione afferma che qui la sacra Famiglia sostò tornando dall’Egitto, è una catena montuosa, che si trova nell’Alta Galilea, una regione dello Stato di Israele e che si sviluppa in direzione nordovest-sudest da Haifa a Jenin. Fra il 1207 e il 1209, il patriarca latino di Gerusalemme (che allora aveva sede a San Giovanni d’Acri), Alberto di Vercelli, redasse per gli eremiti del Monte Carmelo i primi statuti (la cosiddetta regola primitiva o formula vitae). I Carmelitani non hanno mai riconosciuto a nessuno il titolo di fondatore, rimanendo fedeli al modello che vedeva nel profeta Elia uno dei padri della vita monastica.
La regola, che prescriveva veglie notturne, digiuno, astinenza rigorosi, la pratica della povertà e del silenzio, venne approvata il 30 gennaio 1226 da papa Onorio III con la bolla Ut vivendi normam. A causa delle incursioni dei saraceni, intorno al 1235, i frati dovettero abbandonare l’Oriente per stabilirsi in Europa e il loro primo convento trovò dimora a Messina, in località Ritiro. Le notizie sulla vita di san Simone Stock (Aylesford, 1165 circa – Bordeaux, 16 maggio 1265) sono scarse. Dopo un pellegrinaggio in Terra Santa, maturò la decisione di entrare fra i Carmelitani e, completati gli studi a Roma, venne ordinato sacerdote. Intorno al 1247, quando aveva già 82 anni, venne scelto come sesto priore generale dell’Ordine. Si adoperò per riformare la regola dei Carmelitani, facendone un ordine mendicante: papa Innocenzo IV, nel 1251, approvò la nuova regola e garantì all’Ordine anche la particolare protezione da parte della Santa Sede.
Proprio a san Simone Stock, che propagò la devozione della Madonna del Carmelo e compose per Lei un bellissimo inno, il Flos Carmeli, la Madonna assicurò che a quanti si fossero spenti indossando lo scapolare sarebbero stati liberati dalle pene del Purgatorio, affermando: «Questo è il privilegio per te e per i tuoi: chiunque morirà rivestendolo, sarà salvo». La consacrazione alla Madonna, mediante lo scapolare, si traduce anzitutto nello sforzo di imitarla, almeno negli intenti, a fare ogni cosa come Lei l’avrebbe compiuta.

Autore: Cristina Siccardi

La devozione spontanea alla Vergine Maria, sempre diffusa nella cristianità sin dai primi tempi apostolici, è stata man mano nei secoli, diciamo ufficializzata sotto tantissimi titoli, legati alle sue virtù (vedasi le Litanie Lauretane), ai luoghi dove sono sorti Santuari e chiese che ormai sono innumerevoli, alle apparizioni della stessa Vergine in vari luoghi lungo i secoli, al culto instaurato e diffuso da Ordini Religiosi e Confraternite, fino ad arrivare ai dogmi promulgati dalla Chiesa.
Maria racchiude in sé tante di quelle virtù e titoli, nei secoli approfonditi nelle Chiese di Oriente ed Occidente con Concili famosi e studi specifici, tanto da far sorgere una terminologia ed una scienza “Mariologica”, e che oltre i grandi cantori di Maria nell’ambito della Chiesa, ha ispirato elevata poesia anche nei laici, cito per tutti il sommo Dante che nella sua “preghiera di s. Bernardo alla Vergine” nel XXXIII canto del Paradiso della ‘Divina Commedia’, esprime poeticamente i più alti concetti dell’esistenza di Maria, concepita da Dio nel disegno della salvezza dell’umanità, sin dall’inizio del mondo.
“Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura,
termine fisso d’eterno consiglio, tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura……”
Ma il culto mariano affonda le sue radici, unico caso dell’umanità, nei secoli precedenti la sua stessa nascita; perché il primo profeta d’Israele, Elia (IX sec. a.C.) dimorando sul Monte Carmelo, ebbe la visione della venuta della Vergine, che si alzava come una piccola nube dalla terra verso il monte, portando una provvidenziale pioggia, salvando così Israele da una devastante siccità.
In quella nube piccola “come una mano d’uomo” tutti i mistici cristiani e gli esegeti, hanno sempre visto una profetica immagine della Vergine Maria, che portando in sé il Verbo divino, ha dato la vita e la fecondità al mondo.
La Tradizione racconta che già prima del Cristianesimo, sul Monte Carmelo (Karmel = giardino-paradiso di Dio) si ritiravano degli eremiti, vicino alla fontana del profeta Elia, poi gli eremiti proseguirono ad abitarvi anche dopo l’avvento del cristianesimo e verso il 93 un gruppo di essi che si chiamarono poi ”Fratelli della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo”, costruirono una cappella dedicata alla Vergine, sempre vicino alla fontana di Elia.
Si iniziò così un culto verso Maria, il più bel fiore di quel giardino di Dio, che divenne la ‘Stella Polare, la Stella Maris’ del popolo cristiano. E sul Carmelo che è una catena montuosa che si estende dal golfo di Haifa sul Mediterraneo, fino alla pianura di Esdrelon, richiamato più volte nella Sacra Scrittura per la sua vegetazione, bellezza e fecondità, continuarono a vivere gli eremiti, finché nella seconda metà del sec. XII, giunsero alcuni pellegrini occidentali, probabilmente al seguito delle ultime crociate del secolo; proseguendo il secolare culto mariano esistente, si unirono in un Ordine religioso fondato in onore della Vergine, alla quale i suddetti religiosi si professavano particolarmente legati.
L’Ordine non ebbe quindi un fondatore vero e proprio, anche se considera il profeta Elia come suo patriarca e modello; il patriarca di Gerusalemme s. Alberto Avogadro (1206-1214), originario dell’Italia, dettò una ‘Regola di vita’, approvata nel 1226 da papa Onorio III.
Costretti a lasciare la Palestina a causa dell’invasione saracena, i monaci Carmelitani, come ormai si chiamavano, fuggirono in Occidente, dove fondarono diversi monasteri: Messina e Marsiglia nel 1238; Kent in Inghilterra nel 1242; Pisa nel 1249; Parigi nel 1254, diffondendo il culto di Colei che: “le è stata data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Saron” (Is 35,2).
Il 16 luglio del 1251 la Vergine circondata da angeli e con il Bambino in braccio, apparve al primo Padre Generale dell’Ordine, beato Simone Stock, al quale diede lo ‘scapolare’ col ‘privilegio sabatino’, che consiste nella promessa della salvezza dall’inferno, per coloro che lo indossano e la sollecita liberazione dalle pene del Purgatorio il sabato seguente alla loro morte.
Lo ‘scapolare’ detto anche ‘abitino’ non rappresenta una semplice devozione, ma una forma simbolica di ‘rivestimento’ che richiama la veste dei carmelitani e anche un affidamento alla Vergine, per vivere sotto la sua protezione ed è infine un’alleanza e una comunione tra Maria ed i fedeli.
Papa Pio XII affermò che “chi lo indossa viene associato in modo più o meno stretto, all’Ordine Carmelitano”, aggiungendo “quante anime buone hanno dovuto, anche in circostanze umanamente disperate, la loro suprema conversione e la loro salvezza eterna allo Scapolare che indossavano! Quanti, inoltre, nei pericoli del corpo e dell’anima, hanno sentito, grazie ad esso, la protezione materna di Maria! La devozione allo Scapolare ha fatto riversare su tutto il mondo, fiumi di grazie spirituali e temporali”.
Altri papi ne hanno approvato e raccomandato il culto, lo stesso beato Giovanni XXIII lo indossava, esso consiste di due pezzi di stoffa di saio uniti da una cordicella, che si appoggia sulle scapole e sui due pezzi vi è l’immagine della Madonna.
Nel secolo d’oro delle fondazioni dei principali Ordini religiosi cioè il XIII, il culto per la Vergine Maria ebbe dei validissimi devoti propagatori: i Francescani (1209), i Domenicani (1216), i Carmelitani (1226), gli Agostiniani (1256), i Mercedari (1218) ed i Servi di Maria (1233), a cui nei secoli successivi si aggiunsero altri Ordini e Congregazioni, costituendo una lode perenne alla comune Madre e Regina.
L’Ordine Carmelitano partito dal Monte Carmelo in Palestina, dove è attualmente ubicato il grande monastero carmelitano “Stella Maris”, si propagò in tutta l’Europa, conoscendo nel sec. XVI l’opera riformatrice dei due grandi mistici spagnoli Giovanni della Croce e Teresa d’Avila, per cui oggi i Carmelitani si distinguono in due Famiglie: “scalzi” o “teresiani” (frutto della riforma dei due santi) e quelli senza aggettivi o “dell’antica osservanza”.
Nell’Ordine Carmelitano sono fiorite figure eccezionali di santità, misticismo, spiritualità claustrale e di martirio; ne ricordiamo alcuni: S. Teresa d’Avila (1582) Dottore della Chiesa; S. Giovanni della Croce (1591) Dottore della Chiesa; Santa Maria Maddalena dei Pazzi (1607); S. Teresa del Bambino Gesù (1897), Dottore della Chiesa; beato Simone Stock (1265); S. Angelo martire in Sicilia (1225); Beata Elisabetta della Trinità Catez (1906); S. Raffaele Kalinowski (1907); Beato Tito Brandsma (1942); S. Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein, 1942); suor Lucia, la veggente di Fatima, ecc.
Alla Madonna del Carmine, come è anche chiamata, sono dedicate chiese e santuari un po’ dappertutto, essa per la promessa fatta con lo scapolare, è onorata anche come “Madonna del Suffragio” e a volte è raffigurata che trae, dalle fiamme dell’espiazione del Purgatorio le anime purificate.
Particolarmente a Napoli è venerata come S. Maria La Bruna, perché la sua icona, veneratissima specie dagli uomini nel Santuario del Carmine Maggiore, tanto legato alle vicende seicentesche di Masaniello, cresciuto alla sua ombra, è di colore scuro e forse è la più antica immagine conosciuta come ‘Madonna del Carmine’.
Durante tutti i secoli trascorsi nella sua devozione, Ella è stata sempre rappresentata con Gesù Bambino in braccio o in grembo che porge lo ‘scapolare’ (tutto porta a Gesù), e con la stella sul manto (consueta nelle icone orientali per affermare la sua verginità).
La sua ricorrenza liturgica è il 16 luglio, giorno in cui nel 1251, apparve al beato Simone Stock, porgendogli l’ “abitino”.

Autore: Antonio Borrelli

Publié dans:feste di Maria, Maria Vergine |on 15 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

San Bonaventura

San Bonaventura dans immagini sacre
http://it.arautos.org/view/viewPrinter/5910-san-bonaventura-vescovo-e-dottore-della-chiesa

Publié dans:immagini sacre |on 14 juillet, 2014 |Pas de commentaires »
1234567

PUERI CANTORES SACRE' ... |
FIER D'ÊTRE CHRETIEN EN 2010 |
Annonce des évènements à ve... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | Vie et Bible
| Free Life
| elmuslima31