Archive pour juillet, 2014

MARIA DÀ AL MONDO CRISTO NOSTRA PACE – 1 GENNAIO 2014

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MARIA DÀ AL MONDO CRISTO NOSTRA PACE – 1 GENNAIO 2014

Nell’ottava del Natale si celebra la festa di «Maria madre di Dio». In verità, le letture bibliche mettono l’accento sul «figlio di Maria» e sul «Nome del Signore», anziché su Maria.
Infatti l’antica «benedizione sacerdotale» è scandita dal nome del Signore, ripetuto all’inizio di ogni versetto (prima lettura); il testo di san Paolo sottolinea l’opera di liberazione e di salvezza compiuta da Cristo, nella quale è incastonata la figura di Maria, grazie alla quale il Figlio di Dio ha potuto venire nel mondo come vero uomo (seconda lettura); il vangelo termina con l’imposizione del nome di Gesù, mentre Maria partecipa in silenzio al mistero di questo suo figlio nato da Dio.
Questa attenzione prevalente al «Figlio» non riduce il ruolo della Madre: Maria è totalmente Madre perché è stata in totale relazione a Cristo, perciò onorando lei è più glorificato il Figlio. Il titolo di «Madre di Dio» sottolinea la missione di Maria nella storia della salvezza: missione che sta alla base del culto e della devozione del popolo cristiano; Maria infatti non ha ricevuto il dono di Dio per sé sola, ma per portarlo nel mondo: «nella verginità feconda di Maria (tu, o Dio) hai donato agli uomini i beni della salvezza eterna» (colletta).

Madre di Dio – Madre dell’uomo
Il significato etimologico del nome Gesù, «Dio salva», ci introduce in pieno nel mistero di Cristo: dall’incarnazione alla nascita, dalla circoncisione al compimento pasquale della morte-risurrezione, Gesù è in tutto il suo essere la perfetta benedizione di Dio, è dono di salvezza e di pace per tutti gli uomini; nel suo nome siamo salvati (cf At 2,21; Rm 10,13). Ora questa offerta di salvezza viene da Maria ed essa la partecipa al popolo di Dio come un tempo ai pastori. Maria che ha dato la vita al Figlio di Dio, continua a partecipare agli uomini la vita divina. Per questo viene considerata madre di ogni uomo che nasce alla vita di Dio, e insieme proclamata e invocata come «Madre della Chiesa» (cf LG 53.60-65; Paolo VI, 21.11-1964; orazione dopo la comunione).
Con gli Orientali, anche noi onoriamo «Mania sempre Vergine, solennemente proclamata santissima Madre di Dio dal Concilio di Efeso, perché Cristo… fosse riconosciuto, in senso vero e proprio, Figlio di Dio e Figlio dell’Uomo» (UR 15).

«Opere e giorni nella Sua Pace»
nel nome di Maria, madre di Dio e madre degli uomini, che dal 1967 si celebra in tutto il mondo la «giornata delta pace». La pace, in senso biblico, è il dono messianico per eccellenza, è la salvezza portata da Gesù, è la nostra riconciliazione e pacificazione con Dio. La pace è anche un valore umano da realizzare sul piano sociale e politico, ma affonda le sue radici nel mistero di Cristo (cf GS, cap. V).
La fede in Cristo, «autore della salvezza e principio di unità e di pace» (LG 9), appare evidente nella parte che il cristiano prende agli sforzi della umanità per la pace del mondo. La pace di Cristo non è diversa dalla pace dell’uomo: c’è semplicemente «la pace», e vale la pena spendere la vita per la sua continua ricerca. Il Magistero della Chiesa non ha cessato di attirare l‘attenzione sulla pressante necessità di fare della pace una dimensione effettiva della umana convivenza. Esso continua a rinnovare l’annuncio di quella pace che è poggiata sulla verità, la giustizia, l’amore e la libertà, «i quattro pilastri della casa della pace» aperta a tutti (Giovanni XXIII, 11-4-1963).
Aprite i vostri occhi a visioni di pace!
«E allora il Nostro messaggio raggiunge il suo vertice: mai più gli uni contro gli altri! Se volete essere fratelli, lasciate cadere le armi dalle vostre mani. Non si può amare con armi offensive in pugno» (Paolo VI, Discorso all’ONU, 4-10-1965).
«Di fronte at difficile compito della pace, non bastano le parole… E’ necessario che penetri il vero spirito di pace… Genitori ed educatori, aiutate i fanciulli e i giovani a fare l’esperienza della pace nelle mille azioni quotidiane… Giovani, siate dei costruttori di pace! … Uomini impegnati nella vita professionale e sociale, spesso difficile per voi realizzare la pace. Non c’è pace senza giustizia e senza libertà, senza un coraggioso impegno per promuovere l’una e l’altra… Uomini politici, aprite nuove porte alla pace! Fate tutto ciò che è in vostro potere per far prevalere la voce del dialogo su quella della forza… Fate gesti di pace, anche audaci… poi tessete pazientemente la trama politica, economica e culturale della pace… Il lavoro per la pace, ispirato dalla carità che non tramonta, produrrà i suoi frutti. La pace sarà l’ultima parola della Storia» (Giovanni Paolo II, 21-12-1978).

… per continuare a riflettere …
Il Verbo ha assunto da Maria la natura umana
Dalle «Lettere» di sant’Atanasio, vescovo (Ad Epitetto 5-9; PG 26,1058. 1062-1066)
Il Verbo di Dio, come dice l’Apostolo, «della stirpe di Abramo si prende cura. Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli» (Eb 2, 16. 17) e prendere un corpo simile al nostro. Per questo Maria ebbe la sua esistenza nel mondo, perché da lei Cristo prendesse questo corpo e lo offrisse, in quanto suo, per noi.
Perciò la Scrittura quando parla della nascita del Cristo dice: «Lo avvolse in fasce» (Lc 2, 7). Per questo fu detto beato il seno da cui prese il latte. Quando la madre diede alla luce il Salvatore, egli fu offerto in sacrificio.
Gabriele aveva dato l’annunzio a Maria con cautela e delicatezza. Però non le disse semplicemente colui che nascerà in te, perché non si pensasse a un corpo estraneo a lei, ma; da te (cfr. Lc 1, 35), perché si sapesse che colui che ella dava al mondo aveva origine proprio da lei.
Il Verbo, assunto in sé ciò che era nostro, lo offrì in sacrificio e lo distrusse con la morte. Poi rivestì noi della sua condizione, secondo quanto dice l’Apostolo: Bisogna che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e che questo corpo mortale si vesta di immortalità (cfr. 1 Cor 15, 53).
Tuttavia ciò non è certo un mito, come alcuni vanno dicendo. Lungi da noi un tale pensiero. Il nostro Salvatore fu veramente uomo e da ciò venne la salvezza di tutta l’umanità. In nessuna maniera la nostra salvezza si può dire fittizia. Egli salvò tutto l’uomo, corpo e anima. La salvezza si è realizzata nello stesso Verbo.
Veramente umana era la natura che nacque da Maria, secondo le Scritture, e reale, cioè umano, era il corpo del Signore; vero, perché del tutto
identico al nostro; infatti Maria è nostra è sorella poiché tutti abbiamo origine in Adamo.
Ciò che leggiamo in Giovanni «il Verbo si fece carne» (Gv 1, 14), ha dunque questo significato, poiché si interpreta come altre parole simili.
Sta scritto infatti in Paolo: Cristo per noi divenne lui stesso maledizione (cfr. Gal 3, 13). L’uomo in questa intima unione del Verbo ricevette una ricchezza enorme: dalla condizione di mortalità divenne immortale; mentre era legato alla vita fisica, divenne partecipe dello Spirito; anche se fatto di terra, è entrato nel regno del cielo.
Benché il Verbo abbia preso un corpo mortale da Maria, la Trinità è rimasta in se stessa qual era, senza sorta di aggiunte o sottrazioni. E’ rimasta.
assoluta perfezione: Trinità e unica divinità. E così nella Chiesa si proclama un solo Dio nel Padre e nel Verbo.

Publié dans:Maria Vergine |on 28 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

UN TESTIMONE DI PACE: GIOVANNI XXIII E LA « PACEM IN TERRIS »

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UN TESTIMONE DI PACE: GIOVANNI XXIII E LA « PACEM IN TERRIS »

sintesi della relazione di Luigi Bettazzi
Verbania Pallanza, 18 ottobre 2003
un papa oltre le etichette

Le etichette di conservatore o progressista poco si addicono alla figura di Giovanni XXIII, attaccato per certi versi alla tradizione (recita quotidiana del rosario…), per altri versi aperto al nuovo sin dall’inizio (compagno di studi di Bonaiuti…). Il contatto con il vescovo di Bergamo Radini Tedeschi, sensibile alla questione sociale, e le successive esperienze diplomatiche in Bulgaria, in Turchia e in Francia lo aprono ai problemi delle altre confessioni cristiane (ortodossi), dei non cristiani (musulmani), degli scristianizzati e quindi sensibile alle problematiche ecumeniche e interreligose. Così pure l’interesse per la figura di san Carlo Borromeo e per le sue visite pastorali a Bergamo dove portava il concilio gli fanno percepire l’importanza dell’assemblea conciliare nel rinnovare la chiesa.
Eletto papa nel 1958, dopo cinque anni trascorsi come cardinale patriarca di Venezia, si segnala subito per la sua cultura popolana, per la sua attenzione alla gente, per l’apertura ecumenica.
Novanta giorni dopo l’elezione manifesta l’intenzione di convocare un concilio con carattere pastorale, suscitando subito perplessità e reazioni in alcuni settori della gerarchia (Siri, Ottaviani…), che ritenevano che i concili dovessero avere essenzialmente un carattere dogmatico, cioè capaci di definire con precisione verità. Al contrario un concilio pastorale si rivolge alla gente e si preoccupa non solo di definire verità astratte ma di come entrare in relazione con le persone che hanno una certa cultura e mentalità, che hanno, ad esempio, rispetto al passato, un maggior spirito critico e un maggior spirito democratico.

la « Pacem in terris » e i segni dei tempi
Anche la « Pacem in terris », promulgata nel 1963, quasi un testamento spirituale, ha questa preoccupazione e attenzione alla gente e ai segni dei tempi. Per Giovanni XXIII il termine evangelico « segni dei tempi » sta a significare le situazioni concrete, l’attenzione alla gente, al suo modo di pensare e vivere.
In questa enciclica sono indicati tre grandi segni dei tempi che influenzano il modo di accogliere la fede: la promozione della donna, la maturazione sociale e politica del mondo del lavoro, l’indipendenza dei popoli (si era ai tempi della fine del colonialismo politico).
Inoltre la situazione concreta che spinse il papa a scrivere l’enciclica fu la crisi di Cuba, quando gli statunitensi minacciarono una guerra di fronte al dispiegamento dei missili sovietici a Cuba, installati su richiesta di Castro che poco prima era riuscito a respingere l’invasione degli esuli cubani appoggiati dagli americani. L’intervento del papa, segretamente richiesto dai contendenti, sbloccò la grave crisi.
Questo episodio spinse il papa a ripensare il problema della pace nel mondo. Importanti e innovative furono le distinzioni tra grandi ideologie e movimenti storici, tra errore ed errante. La cosa più importante è guardare alle persone concrete.
Altro aspetto di novità è il fatto che per la prima volta un documento della chiesa si rivolge agli uomini di buona volontà e non solo ai vescovi, ai preti, alle suore e a tutti i cristiani. Dopo di allora tutte le encicliche sociali dei papi sono rivolte agli uomini di buona volontà.
La Costituzione conciliare sul mondo contemporaneo (la Gaudium et spes) prese ispirazione da quella enciclica. Infatti nella prima parte si parla dei valori materiali e spirituali della persona umana, dei valori individuali e collettivi. Si parla della famiglia, non della famiglia cristiana, si parla della cultura, non della cultura cristiana. Solo alla fine di ogni capitolo ci sono i motivi di fede. Per poter parlare ad ogni uomo occorre usare argomentazioni accettabili da tutti.

i quattro pilastri della pace
La « Pacem in terris » ci ha aiutato a capire che cosa è la guerra e che cosa è la pace. La pace non è solo il tacere delle armi ma si fonda su quattro grandi pilastri: la verità, la giustizia, l’amore (solidarietà), la libertà.
Non c’è pace finché non c’è verità. Per la verità (astratta) si sono fatte le guerre, anche di religione, si sono bruciati eretici… Per papa Giovanni la verità è quella dell’uomo, della persona umana in quanto persona umana, non in quanto bianco, benestante, colto, sano… Nei fatti noi abbiamo l’idea di valere più degli altri. È sufficiente pensare al conto dei morti nei recenti conflitti: tutti sanno quanti occidentali sono morti, pochi quanti sono i morti afgani, irakeni o congolesi (più di due milioni…).
Dal non riconoscimento del valore della persona umana deriva l’affondamento della giustizia: noi facciamo i nostri interessi. Il quinto dell’umanità fa i suoi interessi a spese dei quattro quinti. Perché i paesi più ricchi del mondo, il G8, devono organizzare il commercio mondiale? Non sarà che lo organizzino secondo i loro interessi?
Si pensi alla finanza. I paesi poveri per restituire un po’ di soldi dei debiti contratti risparmiano sulla salute e sull’istruzione. Come diceva Giovanni Paolo II non c’è pace senza giustizia.
La pace inoltre si fonda sulla solidarietà, che non è una virtù facoltativa, ma, soprattutto per i popoli più fortunati, un dovere di giustizia.
Ultimo pilastro della pace è la libertà. Ma la libertà di cui continuamente ci riempiamo la bocca non è « la » libertà, ma la « nostra » libertà: è la libertà della parte più fortunata del mondo, pagata con la mancanza di libertà degli altri. È la libertà della libera volpe nel libero pollaio. Non è un caso che le nazioni più forti ricorrano, per risolvere i problemi, alle soluzioni violente, alle guerre che sono – dice la « Pacem in terris » – al di fuori della ragione umana. Danno ragione infatti ai più forti, non ha chi ha eventualmente ragione.
La libertà coincide con la non violenza, che non è viltà o non far niente, ma la scelta più autenticamente umana, perché riconosce le ragioni di chi le ha, anche dei più deboli, e quindi orienta veramente verso la pace. Gandhi ha ottenuto l’indipendenza attraverso soluzioni non violente, come i cortei, le manifestazioni, gli scioperi. La non violenza richiede maggiore intelligenza e volontà.
Quando Gesù riceve uno schiaffo dal servo del Sinedrio non porge l’altra guancia: l’evangelico « porgere l’altra guancia » vuol dire allora non rispondere alla violenza con la violenza, in modo che anche l’altro smetta la violenza.
Ecco il compito che ci spetta anche come comunità cristiana: cercare i modi di risolvere i problemi senza la violenza, per essere di aiuto ad un autentico cammino di pace e di libertà per tutti.

El Greco, San Giacomo il Maggiore

El Greco, San Giacomo il Maggiore dans immagini sacre

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Publié dans:immagini sacre |on 25 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

25 LUGLIO: SAN GIACOMO APOSTOLO – VITA E TRADIZIONE

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25 LUGLIO: SAN GIACOMO APOSTOLO – VITA E TRADIZIONE

E’ detto “Maggiore” per distinguerlo dall’apostolo omonimo, Giacomo di Alfeo (detto il Minore). Nato a Betsaida, sul lago di Tiberiade, era figlio di Zabedeo e si Salome (Mc 15,40; cf Mt 27,56) e fratello di Giovanni l’evangelista. Col fratello fu chiamato fra i primi discepoli di Gesù e fu pronto a seguirlo (Mc 1,19s; Mt 4,21s; Lc 5,10). È sempre messo fra i primi tre Apostoli (Mc 3,17; Mt 10,2; Lc 6,14; Atti 1,13). Di carattere pronto e impetuoso, come il fratello, assieme a lui viene soprannominato da Gesù “Boànerghes” (figli del tuono) (Mc 3,17; Lc 9,52-56). E’ tra i prediletti discepoli di Gesù, assieme al fratello, a Pietro e ad Andrea
Con Pietro saranno testimoni della Trasfigurazione di Gesù sul Monte Tabor (Mt 17,1-8; Mc 9,2-8; Lc 9,28-36), della risurrezione della figlia di Giairo (Mc 5,37-43; Lc 8,51-56); Assiste all’improvvisa guarigione della suocera di Pietro (Mc 1,29-31); con gli altri 3 apostoli interroga Gesù sui segni dei tempi premonitori della fine (Mc 13,1-8). Infine con Pietro e Giovanni è chiamato da Gesù a vegliare nel Getmsemani alla vigilia della Passione (Mc 14,33ss; Mt 27,37s).
Con zelo intempestivo, aveva chiesto di far scendere il fuoco sui Samaritani che non accoglievano Gesù, meritando un rimprovero (Lc 9,51-56). Ambiziosamente mirò ai primi posti nel regno, protestandosi pronto a tutto; e suscitò la reazione degli altri apostoli e il richiamo di Gesù a un altro primato: quello del servizio e del martirio (Mc 10,35-45; Mt 20,20-28). E Giacomo berrà quel calice: è il primo apostolo martire, nella primavera dell’anno 42. “Il re Erode (Agrippa I) cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa e fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni” (Atti 12,1-2.
Una tradizione risalente almeno a Isidoro di Siviglia narra che Giacomo andò in Spagna per diffondere il Vangelo.
Ai tempi di Giacomo si svolgeva un intenso commercio di minerali come lo stagno, l’oro, il ferro ed il rame dalla Galizia alle coste della Palestina. Nei viaggi di ritorno venivano portati oggetti ornamentali, lastre di marmo, spezie ed altri prodotti comperati ad Alessandria ed in altri porti ancora più orientali, di grande importanza commerciale. Si pensa che l’Apostolo abbia realizzato il viaggio dalla Palestina alla Spagna in una di queste navi, sbarcando nelle coste dell’Andalusia, terra in cui cominciò la sua predicazione. Proseguì la sua missione evangelizzatrice a Coimbra e a Braga, passando, secondo la tradizione, attraverso Iria Flavia nel Finis Terrae ispanico, dove proseguì la predicazione.
Nel Breviario degli Apostoli (fine del VI secolo) viene attribuita per la prima volta a San Giacomo l’evangelizzazione della “Hispania” e delle regioni occidentali, si sottolinea il suo ruolo di strumento straordinario per la diffusione della tradizione apostolica, così come si parla della sua sepoltura in Arca Marmárica. Successivamente, già nella seconda metà del VII secolo, un erudito monaco inglese chiamato il Venerabile Beda, cita di nuovo questo avvenimento nella sua opera, ed indica con sorprendente esattezza il luogo della Galizia dove si troverebbe il corpo dell’Apostolo.
La tradizione popolare indica la presenza del corpo di San Giacomo nelle cime prossime alla valle di Padrón, ove esisteva il culto delle acque. Ambrosio de Morales nel XVI secolo, nella sua opera il Viaggio Santo dice:” Salendo sulla montagna, a metà del fianco, c’è una chiesa dove dicono che l’Apostolo pregasse e dicesse messa, e sotto l’altare maggiore si protende sin fuori della chiesa una sorgente ricca d’acqua , la più fredda e delicata che abbia provato in Galizia”. Questo luogo esiste attualmente ed ha ricevuto il nome affettuoso di “O Santiaguiño do Monte”. Uno degli autori dei sermoni raccolti nel Codice Calixtino, riferendosi alla predicazione di San Giacomo in Galizia, dice che ” colui che vanno a venerare le genti, Giacomo, figlio di Zebedeo, la terra della Galizia invia al cielo stellato”.
Il ritorno in Terra Santa, si svolse lungo la via romana di Lugo, attraverso la Penisola, passando per Astorga e Zaragoza, ove, sconfortato, Giacomo riceve la consolazione ed il conforto della Vergine, che gli appare (secondo la tradizione il 2 gennaio del 40), secondo la tradizione, sulle rive del fiume Ebro, in cima ad una colonna romana di quarzo, e gli chiede di costruire una chiesa in quel luogo. Questo avvenimento servì per spiegare la fondazione della Chiesa di Nuestra Señora del Pilar a Zaragoza, oggi basilica ed importante santuario mariano del cattolicesimo spagnolo. Da questa terra, attraverso l’Ebro, San Giacomo probabilmente si diresse a Valencia, per imbarcarsi poi in un porto della provincia di Murcia o in Andalusia e far ritorno in Palestina tra il 42 ed il 44 d.C..
Oramai in Palestina, Giacomo, assieme al gruppo dei “Dodici”, entra a far parte delle colonne portanti della Chiesa Primitiva di Gerusalemme, ricoprendo un ruolo di grande importanza all’interno della comunità cristiana della Città Santa. In un clima di grande inquietudine religiosa, dove di giorno in giorno aumentava il desiderio di sradicare l’incipiente cristianesimo, sappiamo che fu proibito agli apostoli di predicare. Giacomo tuttavia, disprezzando tale divieto, annunciava il suo messaggio evangelizzatore a tutto il popolo, entrando nelle sinagoghe e discutendo la parola dei profeti. La sua gran capacità comunicativa, la sua dialettica e la sua attraente personalità, fecero di lui uno degli apostoli più seguiti nella sua missione evangelizzatrice.
Erode Agrippa I, re della Giudea, per placare le proteste delle autorità religiose, per compiacere i giudei ed assestare un duro colpo alla comunità cristiana, lo sceglie in quanto figura assai rappresentativa e lo condanna a morte per decapitazione. In questo modo diventa il PRIMO MARTIRE DEL COLLEGIO APOSTOLICO. Questa del martirio di San Giacomo il Maggiore è l’ultima notizia tratta dal Nuovo Testamento.
Secondo la tradizione, lo scriba Josias, incaricato di condurre Giacomo al supplizio, è testimone del miracolo della guarigione di un paralitico che invoca il santo. Josias, turbato e pentito, si converte al cristianesimo e supplica il perdono dell’Apostolo: questi chiede come ultima grazia un recipiente pieno d’acqua e lo battezza. Ambedue verranno decapitati nell’anno 44.
Dice la leggenda che due dei discepoli di San Giacomo, Attanasio e Teodoro, raccolsero il suo corpo e la testa e li trasportarono in nave da Gerusalemme fino in Galizia. Dopo sette giorni di navigazione giunsero sulle coste della Galizia, ad Iria Flavia, vicino l’attuale paese di nome Padrón.
Nel racconto della sepoltura dei resti di San Giacomo, impregnato di leggenda, appare Lupa, una dama pagana ricca ed influente, che viveva allora nel castello Lupario o castello di Francos, a poca distanza dall’attuale Santiago. I discepoli, alla ricerca di un terreno dove seppellire il loro maestro, chiesero alla nobildonna il permesso di inumarlo nel suo feudo. Lupa li rimette alla decisione al governatore romano Filotro, che risiedeva a Dugium, vicino Finisterra. Ben lungi dall’intendere le loro ragioni, il governatore romano ordina la loro incarcerazione.
Secondo la tradizione, i discepoli furono liberati miracolosamente da un angelo e si dettero alla fuga inseguiti dai soldati romani. Giunti al ponte di Ons o Ponte Pías, sul fiume Tambre, ed attraversatolo, questo crollò provvidenzialmente permettendogli di fuggire. La regina Lupa, simulando un cambio di atteggiamento, li portò al Monte Iliciano, oggi noto col nome di Pico Sacro, e gli offrì dei buoi selvaggi che vivevano in libertà ed un carro per trasportare i resti dell’Apostolo da Padrón fino a Santiago. I discepoli si avvicinarono agli animali che, dinnanzi agli occhi esterrefatti di Lupa, si lasciarono porre di buon grado il giogo. La regina dopo quest’esperienza decide di abbandonare le sue credenze per convertirsi al cristianesimo.
Narra la leggenda che i buoi cominciarono il loro cammino senza ricevere nessuna guida, ad un certo punto si fermarono per la sete ed iniziarono a scavare con i loro zoccoli il terreno, facendone zampillare poco dopo dell’acqua. Si trattava dell’attuale sorgente del Franco, vicino al Collegio Fonseca, luogo dove posteriormente sarà edificata, in ricordo, la piccola cappella dell’Apostolo, nell’attuale “rua del Franco”. I buoi proseguirono il loro cammino e giunsero in un terreno di proprietà di Lupa, che lo donò per la costruzione del monumento funerario. In quel medesimo luogo, secoli dopo fu costruita la cattedrale, centro spirituale che presiede la città di Santiago.
Quando poi la Spagna cade in mano araba (sec. IX), nell’angoscia dell’occupazione, i cristiani spagnoli tributano a San Giacomo un culto fiducioso e appassionato, facendo di lui il sostegno degli oppressi e addirittura un combattente invincibile, ben lontano dal Giacomo evangelico (a volte lo si mescola all’altro apostolo, Giacomo di Alfeo). La fede nella sua protezione è uno stimolo enorme in quelle prove durissime. E tutto questo ha un riverbero sull’Europa cristiana, che già nel X secolo inizia i pellegrinaggi a Compostela. Ciò che attrae non sono le antiche, incontrollabili tradizioni sul santo in Spagna, ma l’appassionata realtà di quella fede, di quella speranza tra il pianto, di cui il luogo resta da allora affascinante simbolo. Nel 1989 Giovanni Paolo II va pellegrino a Santiago de Compostella e Benedetto XVI lo imita il 6 novembre 2010 in occasione, come il predecessore, dell’Anno Santo Compostellano che viene indetto ogni qualvolta il 25 luglio cade di domenica.
Eccezionalmente dal 22 al 25 luglio 2010 la Penitenzieria Apostolica della Santa Sede ha concesso all’Oratorio di San Giacomo a Levanto di essere Porta Santa come a Santiago e tutti i fedeli che secondo le regole prescritte si recavano in pellegrinaggio al Colle della Costa potevano lucrare tutte le indulgenze che la Chiesa attribuisce in queste occasioni al Santuario Galliziano.

ETIMOLOGIA: Giacomo è un nome di origine ebraica e significa “Dio ti protegga”. Esistono circa 50 santi e beati con questo nome, ma il più popolare è San Giacomo Apostolo detto Maggiore. La sua festa si celebra il 25 luglio. Giacomo esiste anche in versione femminile – Giacoma, inoltre in forme derivanti: Giacobbe, Jacopo, Iacopo, (soprattutto in Toscana) , Jakob (tedesco, polacco), James (inglese), Jacques (francese) Iago (spagnolo).

PATRONATI: San Giacomo è patrono e protettore di numerose città e paesi, fra altri : Pisa, Pesaro, Pistoia, Compostela, Spagna, Portogallo, Guatemala
E’ considerato Patrono di pellegrini, viandanti e questuanti, farmacisti, droghieri, cappellai e calzettai; va invocato contro i reumatismi e per il bel tempo.

EMBLEMA: Il suo attributo principale è il bastone e la zucca, attributi secondari possono essere: otre e la borsa da pellegrino, vestito e cappello da pellegrino, conchiglia.

 

Publié dans:Santi, SANTI APOSTOLI |on 25 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

27 LUGLIO 2014 | 17A DOMENICA – LECTIO DIVINA : MT 13,44-52

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27 LUGLIO 2014 | 17A DOMENICA A – T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

LECTIO DIVINA : MT 13,44-52

Spiegando alla moltitudine che l’ascoltava come è il regno di Dio, Gesù usa frequentemente la narrazione in parabole. È curiosa questa abitudine di Gesù di parlare di Dio raccontando fatti di vita ordinaria: un Dio il cui comportamento può essere illustrato mediante episodi quotidiani e semplici racconti, non deve essere un Dio estraneo alla nostra vita né distante dai problemi. Gesù insegna a guardare il mondo e vedere Dio nel quotidiano. È la prima cosa che egli voleva inculcare nei suoi uditori: trovarsi con Dio non è un’esperienza molto differente, per esempio, di quella che sperimenta chi scopre, un bel giorno, un grande tesoro; in ugual maniera con la quale reagiremmo se ci imbattessimo con qualcosa di realmente prezioso, dovremmo reagire quando ci troviamo con Dio. O è perché Dio non è il nostro più grande tesoro?

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
44″Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo.
45Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; 46trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.
47Il regno dei cieli somiglia ad una rete gettata nel mare che raccoglie ogni tipo di pesce: 48quando è piena, i pescatori la trascinano a riva, si siedono, e raccolgono i pesci buoni nei cesti e buttano via i cattivi.
49La stessa cosa succederà alla fine del mondo: verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni 50e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti.
51Capite bene tutto queste cose? »
Essi gli risposero:
« Sì. »
52Egli disse loro:
Per questo « ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è come un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche. « 
1. LEGGERE : capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
Poiché « parlava alla gente in parabole » (13,34) Gesù conclude il discorso sul regno di Dio con tre brevi parabole. Le due prime spiegano la natura nascosta del regno, non la sua apparenza, e l’irresistibile attrazione in chi lo scopre. L’accento è messo sulla reazione di chi trova il tesoro o ha cercato con affanno la perla. Gesù vuole confermare ai suoi uditori che il regno di Dio non è alla portata di tutti, ma che tutti possono trovarlo, perché è, come il tesoro o la pietra preziosa, che devono essere scoperti. E dà un criterio per discernere il suo pensiero: chi sa dove si trova il tesoro, è disposto a vendere tutto per averlo; chi lo trova può staccarsi da tutto quanto ha, pur di averlo: la rinuncia più radicale si impone, se è il prezzo necessario per impadronirsi del regno. Chi non ha quella capacità, ignora il pensiero di Dio; se non si sente obbligato a liberarsi di tutti i possessi, vuol dire che non si è imbattuto col tesoro che anela e di cui ha bisogno. La domanda che Gesù fa ai suoi discepoli continua ad essere attuale: la gioia di chi perde tutto è possibile solo a chi conosce come guadagnare il regno di Dio. Dio non impone la rinuncia come meta, ma la presuppone come garanzia: se Egli non ci chiede qualunque rinuncia, la rinuncia a qualsiasi bene, è perché non lo abbiamo ancora come Bene.
La terza ed ultima parabola, quella della rete, cambia profondamente la prospettiva del discorso di Gesù: dall’esortazione ad optare per Dio, costi quel che costi, una volta riconosciuta la presenza del suo regno, si passa a ricordare l’appuntamento che verrà, nel quale bisognerà rendere conto della propria vita. Chi non sia stato capace di rinunciare a tutto per rimanere con Dio, rimarrà senza niente alla fine dei tempi. Non optare per Dio, a qualunque prezzo, non ci fa bene né ci salverà da quella « fornace ardente ». Chi ritarda nel decidersi per Dio ed il suo regno, non ritarderà la decisione di Dio su di lui: nel frattempo, c’è ancora un’altra opportunità: almeno, siamo avvisati.
2 – MEDITARE : Applicare quello che dice il testo alla vita
L’astuzia del fortunato che si imbatte in ricchezze nascoste e vende tutto quello che ha per averli, o l’immediato imbattersi del commerciante in perle preziose, sono le reazioni logiche che tutti noi avremmo avuto, come essi, se ci fossimo imbattuti con un vero tesoro. Chi di noi non avrebbe protetto i beni scoperti, seppellendoli di nuovo, fino a che non saremmo potuti ritornare e impadronircene, fosse a costo di perdere tutto quello che possediamo? Chi non sarebbe capace di alienare tutti i suoi beni pur di impadronirsi della perla della sua vita?
Se simile comportamento non ci sembra straordinario, se si comprende che si può rischiare di perdere quanto si ha per guadagnare quello che non è ancora suo, oggi Gesù ci domanda, come un giorno lo fece alla gente con le sue parabole: perché non agite in forma identica con Dio? Che cosa manca perché vi decidiate a mettere Dio davanti a tutti gli altri beni che possedete o desiderate?
Lo scopritore di tesori, come il trafficante di perle, si trovarono inopinatamente con qualcosa che non speravano, né sperarono di farsi padroni di simili beni. Non vollero perdere tempo ma dovettero perdere i loro beni; sapevano che vendendo quanto avevano potevano ottenere ciò che avevano trovato; per farsi proprietari del Bene scoperto, dovettero alienare tutto quello che avevano. Perché sapevano che quello che avevano scoperto era più prezioso, e meglio, di quanto possedevano, poterono reagire velocemente; il distacco fu totale, perché tutto quello che avevano bastava loro per impadronirsi del tesoro trovato.
Come la perla preziosa o il tesoro nascosto, è il regno di Dio: una volta trovato, si trova la forza per mettere tutto in vendita pur di acquisirlo; una volta scoperto, si scopre che i beni che si possiedono non valgono tanto, neanche tutti insieme, come valga il tesoro; una volta trovato, si trova il coraggio per disfarsi di tutto quello che ci impedisce di averlo.
Orbene, se il regno suscita simile reazione in chi lo scopre, se Dio provoca tale distacco in chi conosce dove è, che cosa ci succede? Perché continuiamo ad afferrarci ai beni che abbiamo, piccoli e scarsi? Perché temiamo tanto di perdere il poco che disponiamo? Perché Dio ed il suo regno non riescono a suscitare in noi quella reazione logica che un tesoro appena trovato suscita nel suo scopritore o la perla più preziosa nel buon commerciante? Non sarà perché Dio ed il suo regno non sono già per noi il tesoro più grande, il ritrovamento più prezioso?
Difficilmente avremo l’audacia di rinunciare a qualcosa che è buono, se quello che troviamo non merita la pena di possederlo: non affrontiamo il rischio di perdere quello che abbiamo ottenuto nella vita, se non siamo convinti di avere trovato il Bene della nostra vita. E, per ciò, ci costa tanto staccarci da qualcosa, benché non vogliamo perdere Dio o il modo di trovarlo; legati come siamo ai beni della vita, ci costa trovare Dio; precisamente perché ancora Dio non è il bene più desiderato, perché il suo regno è ancora un valore da scoprire, non rischiamo niente per possederlo. E continuiamo così a mantenere i beni, senza scoprire che Dio è il nostro Bene; quello che abbiamo ci impedisce di avere Dio e ci porta a stimare qualunque cosa, persona o progetto personale, come beni da conservare.
Se Dio non ha in noi un’irresistibile attrazione, se il suo regno non sveglia nei nostri cuori la capacità di qualche rinuncia, dobbiamo dire che ancora non l’abbiamo trovato, che è nascosto. E ciò non dovrebbe sorprenderci troppo: Gesù insisté nelle due parabole sulla natura nascosta di Dio e del suo regno; come il tesoro ancora non trovato o la perla non apprezzata nel suo valore, Dio sta lì a portata di chi si imbatta con lui sperando che arrivi chi sappia riconoscerlo. Gesù volle confermare ai suoi uditori che il regno di Dio non sta in presenza di tutti né a portata di mano ma si nasconde allo sguardo della maggioranza.
Ma, per nascosto che stia lì dove stiamo, non rimane lontano. Può essere al contrario, perché sta, come il tesoro o la pietra preziosa, anelando di essere scoperto, chiedendo di essere scoperto. E dà un criterio per discernere il suo progetto: Dio sa dove vive chi è disposto a consegnare tutto per cambiare. Chi lo trova può staccarsi da tutto quanto possiede, pur di ottenerlo: la rinuncia più radicale è sopportabile, se è il prezzo necessario per trovare il regno. Se si tenta di avere Dio, che cosa potranno importarci gli altri beni?. Se si pretende di rimanere con Dio, come non mettere in gioco tutto il resto, pur apprezzabile e buono che sia?
Chi non conosce le sue forze e non si sente capace di alienare niente di proprio non apprezza Dio. Nessuno, nel suo sano giudizio, che non abbia trovato niente di meglio si stacca dai beni che ha; non trovare la voglia per disfarsi di quello che non è Dio nelle nostre vite, suppone non averlo ancora trovato. Noi, cristiani di sempre, possiamo perdere Dio perché lo stimiamo meno dei beni che abbiamo, perché non sappiamo rinunciare a niente per Lui. Chi non si sente obbligato a liberarsi di tutti i possessi, ancora non si è imbattuto con quel tesoro che è il regno.
La domanda che Gesù fa ai suoi discepoli continua ad essere attuale: la gioia di chi perde tutto è possibile solo a chi conosce l’allegria di possedere Dio ed il suo regno. Dio non impone la rinuncia come meta, ma la esige come condizione previa; e ci obbliga a stimarlo, a stimarlo sopra tutte le cose: per niente varrebbe un Dio la cui scoperta non costasse niente; ben poco stimerei Dio, se per averlo non ci imponesse di abbandonare quello che vogliamo! Se Dio non merita nessuno sforzo, se per Lui non sacrifichiamo niente, né qualunque bene che vale tanto, è perché non l’abbiamo ancora come Bene Supremo. Non vale niente quello che siamo ed abbiamo, per quanto buoni siamo e per tanti beni che abbiamo, se, alla fine, rimaniamo oggi senza Dio e domani, senza il suo regno.

JUAN JOSE BARTOLOME sdb,

San Charbel

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Publié dans:immagini sacre |on 24 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

24 LUGLIO : SAN CHARBEL (GIUSEPPE) MAKHLUF SACERDOTE, EREMITA

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SAN CHARBEL (GIUSEPPE) MAKHLUF SACERDOTE, EREMITA

24 LUGLIO – MEMORIA FACOLTATIVA

1828 – 24 dicembre 1898

Martirologio Romano: San Charbel (Giuseppe) Makhluf, sacerdote dell’Ordine Libanese Maronita, che, alla ricerca di una vita di austera solitudine e di una più alta perfezione, si ritirò dal cenobio di Annaya in Libano in un eremo, dove servì Dio giorno e notte in somma sobrietà di vita con digiuni e preghiere, giungendo il 24 dicembre a riposare nel Signore.
(24 dicembre: Ad Annaya in Libano, anniversario della morte di san Charbel (Giuseppe) Makhluf, la cui memoria si celebra il 24 luglio).
Giuseppe Makhluf, nacque nel villaggio di Biqa ’Kafra il più alto del Libano nell’anno 1828. Rimasto orfano del padre a tre anni, passò sotto la tutela dello zio paterno. A 14 anni già si ritirava in una grotta appena fuori del paese a pregare per ore (oggi è chiamata “la grotta del santo”).
Egli pur sentendo di essere chiamato alla vita monastica, non poté farlo prima dei 23 anni, visto l’opposizione dello zio, quindi nel 1851 entrò come novizio nel monastero di ‘Annaya dell’Ordine Maronita Libanese. Cambiò il nome di battesimo Giuseppe in quello di Sarbel che è il nome di un martire antiocheno dell’epoca di Traiano.
Trascorso il primo anno di noviziato fu trasferito da ‘Annaya al monastero di Maifuq per il secondo anno di studi. Emessi i voti solenni il 1° novembre 1853 fu mandato al Collegio di Kfifan dove insegnava anche Ni’matallah Kassab la cui Causa di beatificazione è in corso.
Nel 1859 fu ordinato sacerdote e rimandato nel monastero da ‘Annaya dove stette per quindici anni; dietro sua richiesta ottenne di farsi eremita nel vicino eremo di ‘Annaya, situato a 1400 m. sul livello del mare, dove si sottopose alle più dure mortificazioni.
Mentre celebrava la s. Messa in rito Siro-maronita, il 16 dicembre 1898, al momento della sollevazione dell’ostia consacrata e del calice con il vino e recitando la bellissima preghiera eucaristica, lo colse un colpo apoplettico; trasportato nella sua stanza vi passò otto giorni di sofferenze ed agonia finché il 24 dicembre lasciò questo mondo.
A partire da alcuni mesi dopo la morte si verificarono fenomeni straordinari sulla sua tomba, questa fu aperta e il corpo fu trovato intatto e morbido, rimesso in un’altra cassa fu collocato in una cappella appositamente preparata, e dato che il suo corpo emetteva del sudore rossastro, le vesti venivano cambiate due volte la settimana. Nel 1927, essendo iniziato il processo di beatificazione, la bara fu di nuovo sotterrata. Nel 1950 a febbraio, monaci e fedeli videro che dal muro del sepolcro stillava un liquido viscido, e supponendo un’infiltrazione d’acqua, davanti a tutta la Comunità monastica fu riaperto il sepolcro; la bara era intatta, il corpo era ancora morbido e conservava la temperatura dei corpi viventi. Il superiore con un amitto asciugò il sudore rossastro dal viso del beato Sarbel e il volto rimase impresso sul panno.
Sempre nel 1950 ad aprile le superiori autorità religiose con una apposita commissione di tre noti medici riaprirono la cassa e stabilirono che il liquido emanato dal corpo era lo stesso di quello analizzato nel 1899 e nel 1927. Fuori la folla implorava con preghiere la guarigione di infermi lì portati da parenti e fedeli ed infatti molte guarigioni istantanee ebbero luogo in quell’occasione. Si sentiva da più parti gridare Miracolo! Miracolo! Fra la folla vi era chi chiedeva la grazia anche non essendo cristiano o non cattolico.
Il papa Paolo VI il 5 dicembre 1965 lo beatificò davanti a tutti i Padri Conciliari durante il Concilio Ecumenico Vaticano II, per canonizzarlo infine il 9 ottobre 1977.

PREGHIERA
O grande taumaturgo San Charbel, che hai trascorso la vita in solitudine in un eremo umile e nascosto, rinunciando al mondo e ai suoi vani piaceri, e ora regni nella gloria dei Santi, nello splendore della Santissima Trinità, intercedi per noi.
Illuminaci mente e cuore, aumenta la nostra fede e fortifica la nostra volontà. Accresci il nostro amore verso Dio e verso il prossimo. Aiutaci a fare il bene e ad evitare il male. Difendici dai nemici visibili e invisibili e soccorrici per tutta la nostra vita.
Tu che compi prodigi per chi ti invoca e ottieni la guarigione di innumerevoli mali e la soluzione di problemi senza umana speranza, guardaci con pietà e, se è conforme al divino volere e al nostro maggior bene, ottienici da Dio la grazia che imploriamo….., ma soprattutto aiutaci ad imitare la tua vita santa e virtuosa. Amen.

Autore: Antonio Borrelli

Publié dans:Santi, Santi: memorie facoltative |on 24 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

UN PROFETA CHE CONSOLA (ISAIA 40-55)

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UN PROFETA CHE CONSOLA (ISAIA 40-55)

Come descrivere un uomo che è rimasto completamente anonimo? I capitoli da 40 a 55 del libro d’Isaia costituiscono una piccola raccolta di testi profetici che formano una netta unità letteraria, ma il cui autore si è cancellato dietro il suo messaggio. Non si sa né il suo nome né il posto da dove parla. Si sa solamente che il suo messaggio si situa attorno al 538 prima di Cristo, l’anno in cui Ciro, re dei Persiani, ha permesso agli Ebrei esiliati a Babilonia di ritornare al loro paese. Il nome di «Secondo Isaia» gli è stato dato perché il suo pensiero s’ispira a una tradizione che risale al grande profeta Isaia (VIII secolo).
Questo Secondo Isaia doveva annunciare un avvenimento assolutamente inconcepibile: un piccolissimo popolo, un «resto» che non contava forse più di 15.000 persone, avrebbe attraversato il deserto, avrebbe vissuto un nuovo Esodo (43,16-21) per giungere a Gerusalemme. Non stupisce il fatto che gli ascoltatori siano rimasti increduli. Un popolo deportato era spesso condannato a scomparire, e i settant’anni d’esilio hanno dovuto creare un profondo scoraggiamento: si supponeva che l’alleanza che Dio aveva voluta con in suoi fosse stata annullata e che Dio ne aveva abbastanza di loro.
Con quali argomenti vincere questo scoraggiamento? Se Dio è eterno, la sua sapienza deve anch’essa avere delle risorse di cui abbiamo nessuna idea, e la sua forza deve essere propriamente inesauribile (40,27-31). E il profeta è ricorso a delle immagini ancora più forti: una madre può dimenticare suo figlio (49,14-15), un uomo può respingere la donna che è stato il grande amore della sua giovinezza (54,6-7)?
Le prime parole di questa piccola raccolta sono ripetute con insistenza: «Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio» (40,1). Dopo il tempo di una estrema desolazione, il popolo deve essere «consolato», cioè sarà messo nella condizione di cessare le sue lamentazioni, di rimettersi in piedi e ritrovare coraggio. Questo popolo ha un bel credersi alla fine, la consolazione deve mostrare che dal cuore di Dio scorre un avvenire.
L’immagine che i credenti si erano fatta di Dio si è purificata attraverso l’estrema prova dell’esilio, come ci si può rendere conto anche leggendo il libro di Giobbe. Quando il Secondo Isaia parla di Dio, non vi si trovano più gli accenti d’ira, né minacce, né affermazioni autoritarie. Dio ama, e ama senz’altra ragione che il suo amore (43,4; 43,25). Si direbbe che ormai non può che amare (54,7-10). Se ristabilisce il suo popolo sulla sua terra e nella sua città, questo ristabilimento avrà un’eco in tutte le nazioni (45,22; 52,10), poiché è il Dio universale (51,4). Nella scelta completamente gratuita di un popolo unico, nel perdono quasi ancora più gratuito del ritorno dall’esilio, la sua alleanza con questo popolo è stata come trascesa. Il re dei Persiani può allora ricevere il titolo di «Unto», messia (45,1), e il vero ministero di mediazione tra Dio e gli esseri umani sarà affidato ad un umile Servo.
Questo Servo rifletterà i tratti del suo Dio. Non solo non s’imporrà (42,1-5), ma sarà personalmente vulnerabile allo scoraggiamento dei suoi (49,4-6). A coloro che ridono di lui risponderà con nessuna parola dura (50,5-6). Egli stesso, restando all’ascolto di Dio come il più umile dei credenti (50,4), arriverà a prendere su di sé tutta l’incredulità che lo circonda (53,12), sull’esempio di quel Dio che ha «portato» il popolo attraverso tutta la storia (46,3-4).

Santa Brigida di Svezia

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Publié dans:immagini sacre |on 23 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

23 LUGLIO: SANTA BRIGIDA DI SVEZIA

http://www.mariadinazareth.it/santa_brigida_di_svezia.htm

23 LUGLIO: SANTA BRIGIDA DI SVEZIA

1303-1373 – Compatrona d’Europa

Maria Di Lorenzo

Una laica felicemente sposata — A Roma per il Papa e per l’Europa — Il Redentore e la Corredentrice
Il carisma dell’unità — Testamento spirituale — Le braccia materne di Dio — Notizia sull’autrice

Passò la vita in preghiere e penitenze per ottenere da Dio la riconciliazione e la purificazione della Chiesa, che attraversava un momento molto difficile della sua storia.
Adoperarsi per il ritorno del papa da Avignone fu il suo obiettivo, ma era destino che Brigida non vedesse realizzato il suo sogno, di cui passò idealmente il testimone a S. Caterina da Siena.
Il suo destino era di seminare, non di raccogliere; di combattere, non di vincere; di camminare, non di arrivare. Troppo in anticipo, forse, rispetto ai suoi tempi, al punto che ancora oggi, all’inizio del terzo millennio, la sua figura si presenta ai nostri occhi in una luce di modernità davvero straordinaria, se pensiamo alla sua esistenza vissuta nel cuore del Medioevo.
Brigida Birgersdotter nacque nel 1303 a Finsta, in Svezia, quando la Scandinavia era ancora cattolica. I suoi genitori appartenevano alla più alta nobiltà e si racconta che la madre, mentre era incinta di lei, durante un viaggio rischiò di annegare in un naufragio e riuscì a salvarsi a stento. La notte seguente avrebbe udito la voce della Madonna che le diceva: « Sei stata salvata per il frutto che porti in seno. Nutrilo dunque nell’amore di Dio ».
A dieci anni Brigida ebbe la prima visione mistica di Cristo e desiderò prendere il velo, ma suo padre qualche anno dopo le impose per ragioni politiche di sposare il diciottenne Ulf Gudmarsson. Dal matrimonio nacquero otto figli, quattro maschi e quattro femmine, fra cui quella che poi divenne S.Caterina di Svezia.
Ulf era un giovane mite e ricco di fede. Insieme diventeranno terziari francescani, dedicandosi all’educazione cristiana dei figli e alle opere di carità. Brigida sarà per vent’anni una moglie e madre esemplare. Una laica felicemente sposata.
La vita di corte la mette in contatto con la travagliata vita sociale del suo tempo e accende in lei un vivo interesse per la politica europea. Ma poiché non ha mai smesso di pensare alla vita religiosa, studia la letteratura mistica, legge molto, principalmente la Sacra Scrittura e le opere di S.Bernardo di Chiaravalle, che portano a perfezione la sua educazione religiosa.
Sposa e madre, dama di corte. Questa fu la sua vita per oltre vent’anni, finché il marito morì. Era il 1344. Due anni prima, al ritorno da un pellegrinaggio a Santiago de Compostela, Ulf era entrato fra i monaci cistercensi ad Alvastra.
Per Brigida ora è il momento della svolta. Decide di indossare l’abito cinerino del Crocifisso della Verna, simbolo di povertà e penitenza. Iniziano le rivelazioni celesti, rivelazioni che le giungevano in uno stato d’estasi e che al risveglio scriveva lei stessa oppure dettava al suo confessore, attraverso le quali divenne una messaggera di Cristo per comunicare, perorare ed esortare il Papa e i prelati.
Lettere, messaggi, anche invettive: contro il malcostume del tempo la sua voce ammonitrice si leva con insolita energia. Brigida ha una natura forte e volitiva, e nessuna intenzione di chiudere il proprio orizzonte fra due zolle. Per il Papa e per l’Europa si sentirà spinta a partire alla volta di Roma in occasione dell’anno santo del 1350 e da lì non se ne andrà più.
Brigida era una grande mistica ma anche una donna molto pratica, quindi non appena si stabilì a Roma, nella casa di piazza Farnese, la adattò per i pellegrini che fossero giunti dai paesi scandinavi, a cui si offrivano ospitalità e alta spiritualità. La sua vita invece era molto austera, totale la sua povertà. La nobile figlia di Svezia dovette mendicare spesso il pane quotidiano mescolata agli altri poveri sugli scalini delle chiese di Roma.
Invisa a molti, lei tuttavia non si lasciò mai scoraggiare dalle avversità. Una sera, si racconta, dei romani circondarono la sua casa a piazza Farnese con l’intenzione di bruciarla viva. Brigida stava proclamando ad alta voce la biblica lode all’Immacolata Tutta bella sei o Maria e il gruppo di oppositori le si scagliò contro, ma lei non si scompose e continuò a pregare.
Appena intonò l’Ave Maris Stella i facinorosi si dispersero: in ringraziamento alla S. Vergine stabilì allora che da quel giorno questo inno venisse cantato quotidianamente in comunità. Ed è ciò che si usa fare ancora oggi nelle case brigidine di tutto il mondo: ogni giorno, prima del Vespro, si intona l’inno latino Ave Maris Stella accompagnato dalla recita di un’Ave Maria.
Mossa dallo Spirito, la santa svedese aveva infatti fondato un Ordine contemplativo femminile e maschile, l’Ordine del SS.Salvatore – la cui Regola venne approvata nel 1370 – che disgraziatamente fu spazzato via in seguito alla Riforma protestante in Europa. Il monastero di Vadstena, culla dell’Ordine, fu saccheggiato e i religiosi dispersi.
Ma oggi esso è più vivo che mai, grazie all’opera riformatrice della Beata Maria Elisabetta Hesselblad, che lo ha rifondato nel XX secolo.

Il Redentore e la Corredentrice
Molte sono le rivelazioni sulla Madonna ricevute da S. Brigida e raccolte nei suoi scritti che ci rivelano la sua profonda dottrina mariana. In esse si affermano la verità dell’Immacolata Concezione, la maternità universale di Maria e la sua missione di Corredentrice del genere umano.
Le rivelazioni della santa richiamano spesso i simboli biblici più suggestivi applicati alla Madonna: arca, roveto ardente, aurora, giglio, calamita che attrae dolcemente i cuori a Dio.
Le rivelazioni parlano pure della vera e falsa devozione a Maria. La vera devozione, dice S. Brigida, è quella che fa amare la Madonna specialmente con l’imitazione delle sue virtù predilette: umiltà, carità, purezza, obbedienza e povertà.
Al centro della spiritualità di S. Brigida troviamo i misteri della Passione di Cristo e delle glorie e dolori di Maria. Brigida seppe cogliere ed evidenziare la centralità di Maria nella storia della salvezza, accanto a Cristo e unita a Cristo, secondo il piano salvifico di Dio.
Il Redentore e la Corredentrice, inseparabili, hanno portato a compimento nel dolore e nell’immolazione la salvezza del genere umano.
La lode incessante a Dio e l’impegno per l’unità dei cristiani caratterizzano il carisma delle suore di S. Brigida, « assidue nell’orazione… praticando l’ospitalità » secondo il precetto paolino (cfr. Romani 12, 12-13). La loro devozione è tutta incentrata sul dramma del Calvario, su Cristo crocifisso e sulla Madre Addolorata sotto la croce. Per questo il motto delle brigidine è « AMOR MEUS CRUCIFIXUS EST ».
Un segno particolare di richiamo alla riparazione, caposaldo dell’ordine brigidino, è la corona portata sul capo con i simboli delle cinque piaghe del Signore, che fa parte dell’abito religioso.
La marianità dell’Ordine è così evidente che non appena si apre il libro delle Regole, dettate da Gesù stesso alla santa, vi si può leggere: « Io voglio istituire questo Ordine per la gloria della mia amatissima Madre ».
Nelle orazioni di S. Brigida, una pia pratica molto diffusa a cui sono legate varie promesse dello stesso Gesù, si può leggere in particolare quella di soccorrere l’anima orante al momento della morte venendo a lei « con la mia amatissima e dilettissima Madre ». Sono le parole di Cristo apparsole un giorno: « Metterò il segno della mia croce vittoriosa davanti a lei per soccorrerla e difenderla contro gli attacchi dei suoi nemici… E la persona otterrà tutto quello che domanderà a Dio e alla Vergine Maria ».

Il testamento spirituale
Ecumenismo, unità, rinnovamento interiore: questo il testamento spirituale lasciato dalla mistica venuta dal Nord. In quella che fu la sua casa a piazza Farnese, dove oggi è la curia generalizia dell’Ordine, si possono ancora visitare le sue stanze. Brigida vi morì il 23 luglio 1373. Era di sabato, giorno della Madonna. Quando sentì vicina l’ora del trapasso, si fece distendere su un tavolo, desiderando morire – così disse – sul duro legno come il suo Salvatore.
Fu canonizzata il 7 ottobre 1391. Un data mariana anch’essa, come si può vedere. Nella Bolla di canonizzazione si affermava che la santa « per grazia dello Spirito Santo meritò di vedere visioni, di udire rivelazioni e di predire molte cose con spirito profetico », riconoscendo quindi alla mistica svedese il carisma della profezia, raramente affibbiato a una donna nella storia della Chiesa.
Una donna tuttavia non comune, chiamata a una missione tutta particolare e per questo assistita e protetta in modo speciale da Maria. Per Lei Brigida compose anche un Sermone e ben nove volumi di rivelazioni.

Le braccia materne di Dio
Profetessa dei tempi nuovi, questa grande santa scandinava, che lavorò instancabilmente per la pace in Europa in un tempo contrassegnato da divisioni religiose, guerre e squilibri politici, è stata dichiarata da Giovanni Paolo II (con Motu proprio del 1° ottobre 1999) compatrona d’Europa, insieme a S. Edith Stein e a S. Caterina da Siena.
Tre sante per la « casa comune »: una svedese, una polacca e un’italiana; una aristocratica, una borghese ebrea, la figlia di un mercante. Tre mistiche uguali e diverse che hanno osato scavalcare le convenzioni sociali e addirittura proporre, sotto l’impulso dello Spirito, un autentico risveglio nella Chiesa (i monasteri sognati da S. Brigida, con monache e monaci sotto una badessa che doveva rappresentare Maria, sono tutt’oggi un modello di altissima avanguardia), ascoltate da papi e potenti della terra per il loro essere canale della voce divina.
Pellegrine dell’assoluto, esse hanno viaggiato in un’epoca in cui le donne viaggiavano pochissimo e quelle poche che viaggiavano lo facevano con grandi difficoltà. Non c’erano infatti i jet supersonici di oggi e i contatti non erano veloci come adesso nell’era del computer e di Internet che veicola messaggi in tempo reale.
In epoche diverse e lontane sono state nel mondo le braccia materne di Dio e, guardando ogni volta a Maria, hanno additato una strada – fra terra e cielo – per abitare da dentro, e concretamente, l’utopia che si avvicina.

 

Publié dans:Santi, Santi Patroni |on 23 juillet, 2014 |Pas de commentaires »
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