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IL SOGNO DI GIACOBBE (GENESI 28, 10-22)
(Rav Luciano Meir Caro)
Una delle forme di interpretazione ebraica del testo biblico, in particolare dei libri del Pentateuco, si rifà a un principio fondamentale, per il quale si afferma che i racconti che riguardano i nostri progenitori (Abramo, Isacco, Giacobbe, ecc.), non vanno considerati da un punto di vista storico, perché non è importante come siano andate realmente le cose, se siano accadute in un modo o in un altro; ciò che è importante e di cui bisogna tener conto è che questi fatti sono un segno, un segnale – simàn – per i figli, cioè per noi. Quello che viene descritto a riguardo dei grandi personaggi biblici, non è altro che il nucleo di quello che capiterà a noi in seguito; in queste storie è contenuto tutto lo sviluppo successivo della storia degli ebrei e della storia dell’uomo.
Perciò è importante tener conto di come il testo sacro descrive le cose, per domandarci come ci saremmo comportati noi in circostanze simili a quelle di cui stiamo leggendo.
Una seconda osservazione che tengo a fare è questa. La vicenda che riguarda Giacobbe e di cui ci vogliamo occupare, si trova nel libro della Genesi, il primo dei cinque libri del Pentateuco. Bereshìt o Genesi racconta la creazione del mondo, poi la storia dei patriarchi, fino a concludersi con il racconto della discesa della famiglia di Giacobbe in Egitto. Una delle tante caratteristiche proprie della Genesi è quella di raccontare tantissimi sogni, tanto da essere stato, poi, definito « il libro dei sogni ». Ci sono più di una decina di sognatori che fanno tantissimi sogni, ma che poi scompaiono, dalla fine della Genesi in poi. E’ difficilissimo trovare persone che sognano, anche perché i sogni spesso sono sì considerati come un messaggio di Dio all’uomo, ma ancora più spesso sono considerati come qualcosa di vago, di vacuo, non definibile, cioè qualcosa di cui non si debba tener conto.
Come si può spiegare questo fenomeno? Prima i sogni sono un messaggio preciso di Dio all’uomo e poi pare che questo messaggio si diluisca nel tempo. Qualcuno dice che il libro della Genesi ci presenta una situazione in cui non esisteva ancora una normativa data da Dio al popolo ebraico e, attraverso il popolo ebraico, veicolata agli altri popoli. E’ solo dal libro dell’Esodo che compare la normativa. Questo quasi a sottolineare che la nostra vera vita, quella reale, è quella sotto l’imperio della Legge. Vedete voi se vale la pena accettare o meno questa spiegazione.
Dopo queste due premesse, passiamo a trattare di Giacobbe. Sapete che ha avuto dei contrasti forti col fratello Esaù a proposito della primogenitura, sapete degli imbrogli, organizzati dalla madre Rebecca. Anche il contrasto tra Esaù e Giacobbe sta ad indicare tutti i contrasti tra fratelli che ancora oggi caratterizzano la nostra vita.
In seguito al contrasto con Esaù, la madre manda Giacobbe un po’ lontano da casa, presso il fratello di lei, Labano, in Mesopotamia; il testo le fa dire: « alcuni giorni », ma sappiamo che poi diventano più di 20 anni.
Giacobbe scappa di casa, va in una terra lontana e ignota; pensiamo al disagio che deve aver comportato per lui tutto questo, abituato com’era alla vita di casa, agli agi, alle coccole della mamma, dato che lui era il preferito, perché più tranquillo, meno selvatico rispetto al fratello Esaù.
Esce, così, da Beèr-Shéva e si dirige verso Carràn. Si ferma a pernottare in un posto, dove prende una delle pietre che trovò là e se la pose come guanciale e dormì. Per la prima volta dorme in aperta campagna, lui, abituato alla sua casa. Dice il testo: « E giacque in quel posto ». Sembra pleonastico questo particolare. Come mai il testo, di solito molto conciso, qui si ferma su dei particolari ovvi e inutili? Certo che prende una pietra da quel luogo; se l’era forse portata da casa?
I nostri maestri pongono delle domande, danno delle interpretazioni, a mo’ di provocazione, per aiutarci a tirarci fuori dall’indifferenza. Dicono che l’espressione: « E giacque in quel posto » vuole significare che, in seguito, Giacobbe non è più riuscito a dormire; ha dormito lì e poi non ha più dormito!
Attenzione, il concetto è questo: Dio punisce noi uomini con la stessa moneta con cui noi abbiamo peccato. Giacobbe aveva frodato il padre e il fratello e aveva vissuto una vita di lusso; ora inizia per lui una vita disagiata e complicata. Non è vero che il testo dica questo, ma immaginiamo che cosa sia successo nell’animo e nella vita di Giacobbe, che, nel corso degli anni, subisce delle punizioni per quello che ha fatto, perché Dio non perdona. Non perdona nel senso che ci fa capire dove abbiamo sbagliato, usando gli stessi strumenti che noi prima avevamo usato per il male.
Ma andiamo avanti. Giacobbe, in quella notte passata all’aperto, fa un sogno. Dice il testo:
« Ed ecco una scala era piantata verso terra e la sua cima giungeva fino al cielo ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano in questa ». Traduco così, ma non sono sicuro che sia la traduzione giusta. Notate che la parola « ecco » ricorre molto spesso, un po’ a rendere il carattere non consequenziale dei sogni, che sono molto spesso a flash, a spezzoni. Ecco, succede una cosa, poi ne succede un’altra all’improvviso, quasi come se fossero dei quadri di un film.
« Ed ecco l’Eterno era piantato, diritto su di lui e gli disse: Io sono l’Eterno, Dio di Abramo tuo padre, Dio di Isacco; la terra nella quale tu giaci la darò a te e alla tua discendenza. La tua discendenza sarà come la polvere della terra: ti spanderai a occidente e a oriente, a nord e a sud e saranno benedette in te tutte le famiglie della terra e nella tua discendenza. E io sono con te, ti custodirò in tutto dove andrai, ti custodirò, ti farò tornare a questa terra, poiché non ti abbandonerò, fino a quando non avrò fatto tutto quello che ti ho detto ». Poi prosegue: « Giacobbe si svegliò dal suo sonno e disse: Veramente c’è l’Eterno in questo posto e io non lo sapevo ».
Notate che ci sono delle parole che ritornano più spesso; qui, per es. la parola « posto », « luogo ». Nell’ebraico posteriore questo termine rimane a significare « luogo », ma diventa anche uno dei nomi di Dio. Il perché non lo so. Forse Dio che ricopre ogni luogo. Non lo so!
Torno al testo: « Temette e disse: Quanto è temibile questo posto! Questa non è altro che la casa di Dio e questa è la porta del cielo. Giacobbe si alzò al mattino, prese la pietra che aveva posto al suo capezzale, la mise come monumento e ci versò dell’olio sopra e dette il nome a quel posto Bet-El. però il nome della città, primitivamente, si chiamava Luz ».
Impariamo, qui, che siamo in una città, mentre forse ci sembrava di essere in aperta campagna. Ancora il testo: « Giacobbe fece un voto dicendo: Se Dio sarà con me e mi custodirà in questa strada che sto percorrendo e mi darà cibo da mangiare e abiti da indossare e tornerò in pace alla casa di mio padre e Dio sarà per me quale Dio, questa pietra che ho posto come monumento, sarà una casa di Dio e tutto quello che mi darai, io te ne verserò una decima ».
Vi invito a leggere, a riprendere questo capitolo 28 della Genesi. Anche perché ci sono delle incongruenze di ogni genere. Per es. possiamo chiederci chi sono questi angeli che vanno e vengono o cosa significa questa scala. Poi Dio si presenta personalmente e fa delle promesse molto precise, che incoraggiano Giacobbe in questa nuova fase della sua vita. E cosa fa Giacobbe? Fa un voto a Dio, condizionando una sua promessa a Dio al comportamento di Dio. Dice: « Se veramente sarà così… se Dio mi custodirà… ». Ha dei dubbi, mentre Dio gli aveva fatto delle promesse gratuite.
Dopo questo Giacobbe parte e compie un viaggio di 500 km, ma su questo la Bibbia non ci dice niente.
Ogni passo va capito, e per cercare di capirlo bene, dovremmo cercare di identificarci con un regista che deve filmare il racconto che leggo. Insomma, cercare di mettersi nei panni dei personaggi.
Un altro particolare: il nome della città. Giacobbe la chiama Bet-El, che vuol dire « casa di Dio », ma prima si chiamava Luz. Cosa c’è di così interessante in questo? Dovrei aprire un lungo capitolo sull’argomento. Però Luz è un nome che ritorna nella storia biblica e poi nella mitologia biblica, la quale dice che in questa città non morì mai nessuno, non esisteva la morte. Pensate cosa vuole insegnarci questa mitologia, che non è supportata da niente.
Quella città, che poi diventa « casa di Dio », era una città dove non esisteva la morte. Ma si racconta che a un certo punto la gente che vi abitava si stancava e quindi usciva dalla città per morire.
Se continuate a leggere la storia di Giacobbe, incontrerete lo zio, più imbroglione di lui; Giacobbe lavora come un dannato, ma viene continuamente preso in giro dal suocero, visto che nel frattempo aveva sposato le due figlie di Labano. Allora a un certo punto cosa fa? Propone di dividere le pecore e lui si sceglie gli animali maculati, mentre quelli a tinta unica sono di Labano. L’indomani Labano porta tutto il gregge alla tosatura, di modo che non si riconoscevano più i differenti colori. Giacobbe viene nuovamente fregato, ma trova la soluzione. Siccome si era accorto che se in certe stagioni dell’anno, quando gli animali andavano in calore, metteva negli abbeveratoi dei rami con la corteccia intagliata, quindi a colori diversi, le pecore poi partorivano animali col pelo maculato. In questo modo Giacobbe si rifà dell’inganno
del suocero. Leggetevi puro tutta la storia; quello che è interessante è che i rami intagliati appartenevano a una pianta chiamata « luz ». Non sappiamo cosa sia, forse mandorlo.
In ogni caso questo nome « luz » richiama la città dove non c’era la morte ed è collegata a questa specie di manipolazione genetica, se vogliamo chiamarla così, collegata col rinnovarsi della vita. C’è tutto un intreccio.
L’ebraismo post-biblico sostiene, poi, che « luz » è una piccolissima parte del nostro corpo, un minuscolo ossicino, presumibilmente situata nella spina dorsale, che ha questa funzione: alla nostra morte, il corpo va in decomposizione e si fonde col terreno circostante. Tutto il nostro corpo torna terra; tutto tranne questo minuscolo ossicino, che sarà il nucleo della resurrezione dei morti. Attorno a questo piccolo seme rinascerà il nostro corpo, chissà quando. Per noi è proibita la cremazione, che significa un suicidio definitivo, perché andrebbe bruciato anche il piccolo luz che abbiamo nella spina dorsale; l’unica cosa che lo può distruggere, infatti, è il fuoco.
Giacobbe ha detto, al suo risveglio: « Questo luogo è terribile, è la porta del cielo ».
Un’altra cosa. Bet-El è il nome di una città, in Israele, che ha avuto nella storia successiva, delle notevoli implicazioni. Pare che fosse sede di un culto simile alla dottrina ebraica, ma differente. Era una città che si era messa in contrapposizione a Gerusalemme.
Questi sono tutti elementi, che facciamo fatica a capire e a mettere insieme, ma non possiamo ignorarli, non tenerli in considerazione.
Ma arriviamo alla scala. Che significato ha? Sono state proposte interpretazioni di vario genere. Qualcuno dice che è il simbolo dell’altare del santuario di Gerusalemme. L’altare serviva per i sacrifici ed era posto in posizione elevata. Gli angeli che salgono e scendono, allora, sono i sacerdoti che celebrano il culto.
Apro una piccola parentesi. Il testo biblico prevede che il culto a Dio sia reso attraverso il sacrificio. Una cosa che a noi, oggi, non dice più niente e lascia alquanto perplessi. Ci viene da chiederci cosa possa interessare a Dio che noi gli offriamo degli animali uccisi.
A noi sembra più logico onorare Dio in altro modo. Ma questa scala di Giacobbe sembra suggerirci un modo diverso di rendere culto a Dio, in quanto è prefigurazione del culto che si sarebbe reso a Dio nel futuro.
Un’altra interpretazione può essere quella che fa riferimento alla ghematrià, cioè quel sistema che lega ogni lettera dell’alfabeto ebraico a un corrispettivo numerico. Secondo la ghematrià la parola « scala » viene scissa nelle varie lettere che la compongono e si calcola la somma del valore numerico di ogni lettera. La parola « scala » – sullàm – ha un valore numerico che corrisponde esattamente a quello della parola Sinài, il monte di Dio. Quindi la scala vista da Giacobbe, con questi esseri che vi salgono e scendono, potrebbe essere una prefigurazione del monte Sinài. In fondo questo monte non è un collegamento tra cielo e terra? E non ci sono, anche lì, al Sinài, delle persone che salgono e scendono? Vi ricordate la descrizione della teofania sul Sinài? Non vediamo forse Mosè che sale e scende più volte con le tavole della Torah?
Qualcuno mette in relazione la parola sullàm con pesel, compiendo una metatesi. Pesel vuol dire « statua ». Vi ricordate il sogno di Nabucodonor, nel libro di Daniele? Il re aveva sognato una grande statua con la testa che arrivava fino al cielo. Vedete? La scala può essere intesa in senso positivo, cioè il collegamento costante tra la terra e il cielo, ma anche un collegamento deformato, quando qualcuno pensa di essere lui stesso la scala e di potersi portare in alto, ma prima o poi crolla certamente.
La parola sullàm corrisponde anche ad altre due parole: oni, cioè povertà e mamòn che vuol dire ricchezza. Cosa potrebbe voler dire, questo? La scala significa la storia degli individui: c’è chi si arricchisce e chi si impoverisce. Ma nessuno deve pensare che la sua condizione sia stabile, perché si sale e si scende. E’ la situazione dell’essere umano.
Anche per Giacobbe è così. Fino a poco prima era in una situazione molto positiva, in casa sua e oggi tutto è cambiato per lui. Non bisogna prendersela: la vita è una scala!
Qualcuno si chiede chi sono questi angeli che salgono e scendono. Il termine qui usato per dire « angelo », malàch, indica un tale che, consapevolmente o inconsapevolmente, sta compiendo una missione per conto di Dio.
Non vi sembra strano che il testo dica che questi esseri salgono e scendono? Se sono mandati da Dio, se sono celestiali, come possono prima salire e poi scendere?
La prefigurazione potrebbe essere quella di Giacobbe come rappresentante del popolo ebraico successivo o di qualunque altro popolo. Ci sono delle potenze che salgono e scendono; potremmo dire, in termini attuali, l’Unione Sovietica, gli Stai Uniti, il Vaticano, il rabbinato, che so io, tutto quello che volete. L’impressione è che salgono, ma sono degli strumenti nelle mani di Dio. Oggi salgono, ma domani scendono. Non bisogna spaventarsi. In fondo è lo stesso messaggio dei profeti nei riguardi dei grandi imperi che sorgevano e sembravano invincibili: prima o poi viene il momento della discesa per tutti.
Qualcuno aggiunge, a questo proposito, che Giacobbe non sale e non scende, quasi a sottolineare che i discendenti di Giacobbe fanno parte di un popolo, di un’etnia che è al di fuori dai parametri della storia. Questo può essere dimostrato dalla storia stessa. Il popolo ebraico avrebbe dovuto sparire dalla faccia della terra da almeno 2000 anni, per una serie di situazioni, di assimilazioni, discriminazioni. E invece siamo ancora qua. Qualcuno dice che è quasi come se Israele fosse condannato a non scomparire mai. Ma questo conferma la tesi che ogni popolo, ogni individuo è strumento nelle mani di Dio.
Un’ultima interpretazione, che desidero farvi conoscere, perché ci riflettiate sopra. I malachìm, questi messaggeri di Dio, sono visti da qualcuno come delle presenze invisibili che ci accompagnano. Ogni essere umano è accompagnato. Ci sono delle situazioni in cui ci sentiamo spinti a fare o non fare qualcosa che non dipende da noi, che si discosta dal nostro modo usuale di agire, che non risponde al nostro carattere; come se, appunto, ci fossero delle presenze, al di fuori di noi, che ci suggeriscono dei comportamenti, in negativo o in positivo, che esulano dal nostro modo usuale di regolarci. Ci si può credere o no. I maestri dicono così. La situazione di Giacobbe è quella di un uomo che sta uscendo dalla terra che Dio gli ha promesso e sta andando all’estero. Questi esseri che salgono e scendono, chi sono? Stanno tornando verso Dio gli angeli che hanno accompagnato Giacobbe finché era nella sua terra e stanno scendendo quelli che devono accompagnarlo all’estero. I problemi dell’ebreo o dell’uomo nella propria terra sono diversi dai problemi che nascono in una terra diversa. Per questo Giacobbe ha bisogno di un altro tipo di protezione, adesso che sta entrando in una terra diversa; come se i malachìm che l’hanno accompagnato fino allora non sono più qualificati. E tutto questo è supportato dal fatto che quando Giacobbe torna a casa sua, dopo 20 anni, si dice, qualche capitolo più avanti, che gli si fecero incontro gli angeli di Dio. Tornano quelli di prima. E Giacobbe dice: « Questa è una stazione divina ». Come se fosse una stazione di confine in cui Dio provvede alle sue necessità. Dice « machanàim », usando una parola al duale, come a dire « le due stazioni », cioè è una stazione di partenza e di arrivo allo stesso tempo. E qui Dio provvede a offrirgli l’aiuto più consono.
Io non voglio lasciarmi trascinare e non voglio trascinare voi, però queste cose sono coinvolgenti. La cosa essenziale è che si legga il testo direttamente.