Archive pour le 30 juillet, 2014

Mosè e il Roveto Ardente

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SANT’IGNAZIO DI LOYOLA

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SANT’IGNAZIO DI LOYOLA

Ignazio è nato a Loyola, nella Guipuzcoa (Paesi Baschi) nel 1491, da una famiglia di piccola nobiltà. Ha frequentato la corte e ha partecipato a campagne militari. Nel 1521, costretto a stare a letto per una ferita riportata nella difesa di Pamplona, ha trascorso il tempo leggendo una vita di Cristo e le vite dei santi.
Queste letture lo animarono e emerse il desiderio di seguire le orme di Gesù. Iniziò un lungo periodo di pellegrinaggio esteriore e interiore. L’itinerario del « pellegrino » – così si definisce Ignazio stesso nel raccontare la sua vita – ebbe come prima tappa il paese di Manresa, vicino Barcellona. Qui ha vissuto un’intensa esperienza spirituale che si è prolungata lungo tutto l’arco della sua vita.
Il libro degli Esercizi Spirituali è il condensato di questa esperienza del santo. Il cammino, sempre improntato a quello di un pellegrino, lo portò a Gerusalemme, dove gli fu proibito di stabilizzarsi, come avrebbe voluto, per cui dovette tornare in Europa. Arrivato a Barcellona, si dedicò agli studi per poter aiutare meglio gli altri. A Parigi, dove si era recato per approfondire e concludere la formazione filosofico – teologica, pose le prime basi per la fondazione della Compagnia di Gesù.
Qui infatti si costituì attorno a lui un gruppetto di una decina di studenti, che Ignazio stesso ha denominato « amici nel Signore ». Questi « amici » (tra cui incontriamo Francesco Saverio, futuro santo e patrono delle Missioni) erano di diverse nazionalità e erano animati dallo stesso ideale di aiutare gli altri. Ignazio fu ordinato sacerdote a Venezia nel 1537 e nello stesso anno si recò a Roma. Lungo questo ultimo tratto di cammino verso la meta Ignazio ebbe un nuovo incontro forte con il Signore a La Storta, vicino Roma. E proprio a Roma quel gruppetto che si era formato a Parigi ora si mette a disposizione del Papa per essere inviato in missione ovunque: diventa la comunità che fonda la Compagnia di Gesù.
Questa venne approvata dal Papa Paolo III nel 1540. Ignazio nel 1541 fu eletto primo Generale dei gesuiti. Con ogni genere di attività apostolica contribuì grandemente alla restaurazione cattolica nel secolo XVI e all’inizio di una nuova attività missionaria della Chiesa. Fino al 1556, anno della sua morte, ha governato i gesuiti componendo le costituzioni dell’Ordine, scrivendo circa 6000 lettere e interessandosi di diverse dimensioni della società: dai governanti alle povere donne di strada, dal difendere e propagare la fede nello scacchiere nel mondo allora conosciuto alle questioni riguardanti singole persone. Ignazio fu in sintonia con il detto: « non farsi costringere dal massimo e tuttavia farsi contenere dal minimo: questo è divino » . Fu dichiarato santo da Gregrorio XV nel 1622.

Cronologia della vita di Ignazio
1491
Nascita di Ignazio Lopez di Loyola ad Azpeitia nella casa-torre della famiglia. È l’ultimo di 13 figli di Beltran Ibañez de Oñaz e di Marina Sanchez de Licona.
1506
Ignazio, orfano di padre e di madre, è ad Arévalo, paggio del ministro delle finanze del re Ferdinando il Cattolico, Juan Velazquez de Cuellar. Qui riceve un’educazione cavalleresca.
1515
Ignazio è accusato di «enormi delitti», commessi ad Azpeitia durante il carnevale. Si ignora come terminò il processo.
1517
Dopo la morte di Juan Velazquez de Cuellar, Ignazio si reca presso il castello di Antonio Manrique, duca di Najera e viceré di Navarra: vi rimarrà fino all’età di 26 anni.
1521
Durante l’assedio della fortezza di Pamplona da parte dei Francesi, Ignazio rimane gravemente ferito alle gambe da una palla di cannone e viene ricondotto a Loyola. Alla vigilia della festa di San Pietro, verso il quale aveva una speciale devozione, comincia lentamente a migliorare. Durante la convalescenza, non trovando in casa i racconti cavallereschi da lui preferiti, legge la Vita di Cristo di Ludolfo il Certosino e la Leggenda aurea (vite di santi) di Giacomo da Varazze. Nell’autunno ebbe luogo la conversione di Ignazio. Desidera seguire l’esempio dei grandi santi, in particolare Francesco d’Assisi e san Domenico, e mettersi al servizio di Cristo con una fedeltà cavalleresca maggiore di quella prestata ai signori della terra.
1522
Ignazio si reca prima a Aranzazu (santuario vicino a Loyola) e poi a Montserrat (poco distante da Barcellona), presso l’abbazia benedettina, dove fa la confessione generale della sua vita. Alla vigilia della festa dell’Annunciazione, trascorre tutta la notte in preghiera in una singolare «veglia d’armi». Quindi depone le suoi abiti cavallereschi e, vestito da pellegrino, parte per Manresa, dove conduce per più di un anno una vita di preghiera e penitenza. Ignazio comincia a scrivere gli Esercizi Spirituali. Presso il fiume Cardoner «riceve una grande illuminazione», da cui esce profondamente trasformato.
1523
Ignazio arriva a Barcellona, da dove vorrebbe imbarcarsi per Gerusalemme. Si imbarca invece per Gaeta e da qui si dirige verso Roma, dove arriva la domenica delle Palme. Incontra il papa Adriano VI, che benedice il suo prossimo pellegrinaggio nei luoghi santi. Da Venezia parte per la Terra Santa. Visita Gerusalemme, il Santo Sepolcro, Betania, Betlemme, il Giordano, il Monte degli olivi, e vorrebbe fermarsi in quei luoghi, ma deve rinunciare al suo progetto perché il superiore dei Francescani glielo proibisce.
1524
Rientra a Venezia, va a Genova e da qui si imbarca per Barcellona, dove comincia, a trentatré anni, a studiare la grammatica latina.
1526
Studente di filosofia e teologia ad Alcalá. Altri compagni si aggiungono a lui: Calixte de Sa, Juan de Arteaga, Lope de Cáceres e un giovane francese, Jean de Raynald. Ignazio e i suoi quattro compagni sono inquisiti dal Vicario generale della città. Ignazio, dopo aver tentato di trasferirsi presso l’università di Salamanca, decide di trasferirsi a Parigi.
1528
Nella capitale francese Ignazio rimase fino al 1535, ottenendo il dottorato in filosofia. Riunisce attorno a sé alcuni giovani maestri: Pietro Favre, Francesco Xavier, Laínez, Salmerón, Rodrigues, Bobadilla, con i quali nella cappella di Montmartre, il 15 agosto 1534, fa voto di vivere in castità e in povertà e di recarsi a Gerusalemme; se poi per qualsiasi ragione quel pellegrinaggio non si fosse realizzato essi si sarebbero rimessi alla decisione del Papa perché fosse lui a fissare il luogo dove esercitare il loro servizio sacerdotale.
1537
Ignazio si trasferisce in Italia: prima a Bologna e poi a Venezia, dove è ordinato sacerdote. Insieme a Favre e Laínez si avvicina a Roma, rinunciando definitivamente a tornare in Terra Santa. A 14 chilometri a nord della città ha una straordinaria esperienza mistica («visione di La Storta»), che lo conferma nell’idea che portasse il nome di Gesù a quella «Compagnia» o un gruppo di apostoli, che attraverso di loro il Signore Gesùstava facendo nascere.
1538
Ignazio e i suoi compagni si offrono al Papa, secondo il voto di Montmartre. Il papa Paolo III accetta la loro offerta e come prima missione indica loro la catechesi di tutti i bambini delle scuole di Roma. Ignazio celebra la sua prima messa la notte di Natale nella cappella della natività della basilica di Santa Maria Maggiore.
1539
Paolo III approva a voce la formula dei nuovo Istituto.
1540
Il 27 settembre Paolo III approva la Compagnia di Gesù con il decreto «Regimini Militantis Ecclesiae»
1541
Ignazio è eletto all’unanimità, l’8 aprile, Preposito generale della Compagnia. Chiede una nuova elezione, preceduta da tre giorni di preghiera. Il 13 aprile viene confermata l’elezione di Ignazio, che dopo sei giorni accetta. Il 22 aprile Ignazio e i suoi sei compagni vanno in pellegrinaggio alle sette chiese di Roma, e fanno la professione religiosa nella basilica di S. Paolo fuori le Mura.
1544
Ignazio lavora alla redazione delle Costituzioni
1546
Documento «Exponi nobis» di Paolo III, che consente a Ignazio di ammettere nell’Ordine dei coadiutori.
1548
Paolo III approva il testo degli Esercizi Spirituali. Ignazio, pur ammalato, continua a occuparsi delle Costituzioni.
1549
Ignazio per la prima volta parla del progetto di fondare il Collegio Romano. La malattia gli impedisce anche di scrivere e di occuparsi dei catecumeni di Roma
1550
Il 21 giugno: decreto: «Exposcit debitum» di papa Giulio III, che conferma la Compagnia di Gesù. Ignazio completa la stesura delle Costituzioni.
1551
Ignazio tenta invano di dare le dimissioni da Preposito generale. Inaugurazione del Collegio Romano, per il quale redige le prime «Regole».
1552
Ignazio si oppone decisamente alla fusione della Compagnia di Gesù con altre congregazioni religiose già esistenti.
1553
Dietro la pressione dei suoi compagni inzia a dettare le sue meomorie, comunemente designate come Autobiografia.
1556
Si aggravano le condizioni di salute di Ignazio, che si ritira prima in una casa sull’Aventino, poi rientra nella casa situata vicino alla cappella di Santa Maria della Strada (incorporata nell’attuale chiesa del Gesù di Roma), dove muore il 31 luglio.
1609
Paolo V proclama Ignazio beato.
1622
In una solenne celebrazione nella basilica di San Pietro, Gregorio XV proclama santo Ignazio di Loyola.

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MOSÈ E IL ROVETO ARDENTE – CARLO MARIA MARTINI

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MOSÈ E IL ROVETO ARDENTE – CARLO MARIA MARTINI

I testi sui quali ci fermeremo in questa meditazione sono: At. 7,30-31 e Es. 3,1-10. Altri testi da tener presenti sono: Es. 6,2-13 e 6,28-7,7, più due accenni neotestamentari: Gv. 11,28; Mt. 9,35-10,1. Suggerisco pure il salmo 18, il salmo dell’iniziativa divina.
Chiediamo al Signore di metterci in umiltà e in verità di fronte alla scena del roveto ardente, anche se non ne tratteggeremo in questa meditazione che qualche aspetto del tutto particolare. Vi propongo di procedere secondo tre punti semplicissimi, di intonazione ignaziana: 1) che cosa fa Mosè? 2) che cosa ascolta Mosè? 3) che cosa intende Mosè?

1. Che cosa fa Mosè?
La meraviglia di Mosè
Teniamo davanti parallelamente At. 7,30.31 e Es. 3, 1-3. La prima cosa che fa Mosè è meravigliarsi. Mosè, stando là nel deserto, mentre pascola il gregge del suocero, vede un po’ lontano un roveto che brucia e gli sembra che continui a bruciare senza consumarsi; nel suo discorso (cfr. At. 7, 31), Stefano così commenta la scena: «Mosè si meravigliò» (o de Moyses idon ethaumasen). Questo mi piace molto: Mosè, che ha 80 anni, è capace di meravigliarsi di qualche cosa, di interessarsi a qualcosa di nuovo. Immaginiamoci quella grande pianura dell’Oreb, a 1700 metri di altitudine, sovrastata da grandi montagne, con terrazze successive di sabbia e di roccia: su una di queste terrazze c’è il nostro roveto. Pensiamo un istante che cosa avrebbe potuto fare Mosè. Avrebbe potuto dire: «C’è del fuoco; è pericoloso per il gregge se il fuoco si allarga; andiamo via, portiamo le pecore lontano ». Oppure avrebbe potuto dire: « C’è qualcosa di soprannaturale; è meglio non farsi prendere in trappola; partiamo e lasciamo che i più giovani, quelli che hanno più entusiasmo, se ne interessino: io ho già avuto le mie esperienze e mi basta ».
Invece «Mosè si meravigliò », cioè si fece prendere da quella capacità, che è propria del bambino, di interessarsi a qualcosa di nuovo, di pensare che c’è ancora del nuovo. Qualcuno potrebbe dire che si tratta di un particolare aggiunto al racconto. Io vi vedo piuttosto una profonda riflessione psicologica di Stefano, il quale ha intuito che Mosè, essendo stato 40 anni nel deserto, macerato dall’insuccesso e progressivamente purificato in virtù di quella situazione di vigilanza e di attesa su cui già abbiamo meditato, era ormai maturo per una nuova infanzia, maturo per ricevere la novità di Dio. Mosè avrà pensato così: «Io sono un pover’uomo fallito, ma Dio può fare qualcosa di nuovo ».
Dunque Mosè si meravigliò e poi – continua il l1acconto degli Atti – invece di non badarci ed andarsene, proserkomenou de autou… katanoesai, « si avvicinò per vedere », come di solito le versioni traducono. Ma katanoesai dice molto di più che « vedere »; indica infatti il nous, la mente. Quando in Lc. 12, 24 Gesù dice: katanoesate tous korakos, «guardate i corvi», non vuol dire semplicemente «vedete », bensì guardate, considerate, riflettete, cercate di comprendere, ecc. Qui si vede la libertà di spirito raggiunta da Mosè attraverso la purificazione. Se fosse stato un uomo amareggiato e rassegnato, si sarebbe limitato a concludere: «Una cosa strana, ma non mi riguarda ». E invece no: vuol capire, vuol vedere di che si tratta. Ecco un uomo vivo, anche se vecchio.

La curiosità di Mosè
Passiamo adesso al libro dell’Esodo e leggiamo: « Mosè disse tra sé: ‘ Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo, perché il roveto non brucia ‘ » (Es. 3, 3). Il testo greco ha: ti oli?, « come mai? ». Mosè è un uomo che lascia emergere le domande in se stesso; non è più l’uomo che ha già tutto sistemato e catalogato, che ha capito tutto; è un uomo ancora capace di porsi delle domande che esigono un’attenta risposta. Il testo nella traduzione della CEI dice: «Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo ». La versione non mi sembra molto buona. La Bible de Jérusalem, nell’edizione francese, dice: «Je vais faire un détour », che corrisponde meglio al verbo ebraico sur, che significa « fare una diversione, un giro lungo» e che dà l’idea di un’esplicita volontà: voglio rendermi conto. Mi sembra che si possa supporre una situazione di questo tipo: nel deserto vi sono differenti pianori, uno sull’altro, e spesso bisogna fare un lungo giro per salire al pianoro superiore; Mosè si trova in un pianoro più basso con le sue pecore, vede su un pianoro più alto il roveto e dice: «Andrò su, farò il giro, voglio vedere di che si tratta ». Il che significa lasciare il gregge, forse anche in pericolo, salire sotto il sole, ecc.
Nelle parole «voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo », dunque, scorgiamo l’animo di Mosè; è come se Mosè dicesse: «lo sono un pover’uomo, un fallito, però Dio può fare delle cose nuove, ed io voglio interessarmene, voglio capire, voglio comprendere, voglio sapere il perché ». Notate che qui ritorna la grande domanda che Mosè si era fatta per 40 anni: «Ma perché Dio ha permesso quello scacco? Perché, se ama il suo popolo, non si è servito di me per salvarlo? Perché non ha colto l’occasione che io gli davo? ». Questo « perché », che Mosè ha coltivato, raffinato e purificato, ecco che emerge di nuovo di fronte a quella imprevista visione. Ma l’uomo Mosè è andato assumendo ormai le caratteristiche dell’uomo profondo, maturo, purificato e aperto al nuovo.
Partendo dall’episodio di Mosè, si potrebbe riflettere molto sull’atteggiamento dell’uomo di fronte al mistero di Dio. Quest’uomo potrebbe dire: «Non mi interessa ». Ma può anche dire: «Voglio vedere, voglio rendermi conto, voglio sapere »; in questo caso si tratta di quel primo movimento dell’animo umano, di quella volontà incondizionata di conoscere e di capire, che, come si dice giustamente, sta all’origine di tutto ciò che c’è di umano nel mondo. Se nel mondo c’è qualcosa al di là dell’animalesco, al di là del puro mangiare, bere e riprodursi; se c’è qualcosa di umano; se, come dice Paolo nella lettera ai Filippesi, ci sono affetti, rapporti di amicizia e di comprensione (cfr. Filip. 2, 1 s.), tutto nasce da questa semplicissima affermazione: «Voglio capire ». La stessa civiltà umana si costruisce a partire da questo fondamento.
Mosè, quindi, è l’uomo ricondotto alla radice prima della sua umanità e posto davanti al mistero di Dio. In lui si manifesta quell’incondizionato desiderio di sapere, che sta all’origine di tutto ciò che è umano. .Mosè vuol sapere e per questo fa ancora uno sforzo: abbandona la comodità della pianura, in cui siede all’ombra della sua tenda, e comincia la salita faticosa della montagna; lascia anche le pecore, pur di arrivare fin là e sapere. Questo « sapere» in Mosè è qualcosa che gli cuoce dentro, è una passione che non si è addormentata, ma che anzi la purificazione ha reso più semplice, più libera. Mosè non va sulla montagna alla ricerca di un nuovo successo personale; ci va perché vuole sapere come stanno le cose, vuole mettersi di fronte alla verità così com’è.

Osservazioni dalla letteratura rabbinica
Ci sono due testi rabbinici che si potrebbero citare. Il primo è una pagina in cui si parla dell’aggadà pasquale, ossia l’ordine secondo cui si celebra la Pasqua ebraica. Alcuni ragazzi ascoltano il racconto della. notte di Pasqua. Uno di essi ha sonno; un altro invece dice: «Ma che cosa interessa a me questa storia dell’Egitto? » Un altro ancora fa domande e chiede: «Perché celebriamo questa festa e che cosa significa questa festa per noi? » È questo l’atteggiamento di Mosè, che si pone quella domanda fondamentale: ti oti?, « come mai? ».
L’altro testo rabbinico, molto bello, è di Rabbi Akiba, vissuto poco dopo Gesù e morto verso il 135, martirizzato dai Romani (si tratta di una personalità chiave per lo sviluppo del giudaismo dopo Gesù). Do qui una sintesi della sua storia. Rabbi Akiba era poverissimo; per quarant’anni condusse una vita di stenti: poi, a quarant’anni, si trovò una volta di fronte ad una fontana che mandava acqua e vide che la pietra sotto la fontana era scavata; allora chiese: «Chi ha scavato questa pietra? ». Gli risposero: «È l’acqua che cade ogni giorno. Non ricordi le parole di Giob. 14,19, secondo cui le acque scavano anche la pietra? ». Allora Rabbi Akiba pensò: «Se dunque l’acqua che è così tenera scava la pietra che è così dura, non avverrà forse che le parole della Torah, che sono dure come pietra, potranno scavare il mio cuore che è molle di carne? ». Fu così che a quarant’anni incominciò a studiare la Torah. Andò con il figlio da un maestro e lo pregò: «Maestro, insegnami la Torah ». Allora egli prese il lembo di una tavoletta, il figlio ne prese un’altra e il maestro scrisse: Alef, e Rabbi Akiba ripoté: Alef. Poi il maestro scrisse la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto ed egli imparò. E così imparò il Levitico, e poi tutta la Torah. Quando ebbe imparato tutta la Torah, venne di fronte a Rabbi Eliezer e Rabbi Joshuà, e ,disse: «Maestri miei, rivelatemi il senso della Mishna – cioè degli scritti che conservano la tradizione orale di commento alla Torah -»; e i maestri cominciarono a spiegare la Mishna e gli lessero una alakà – cioè un brano con una regola morale che spiegava una parte del Pentateuco -. Quando Rabbi Akiba ebbe ascoltato questa alakà, se ne andò fuori a passeggiare, pensando tra sé: «Questa Alef perché è stata scritta? Questa Bet perché è stata scritta? Questa cosa perché è stata detta? ». Tornò indietro e lo domandò ai suoi maestri, ed essi non seppero rispondere.
Notate come in questa storiella troviamo un parallelo alla scena di Gesù tra i dottori. Gesù probabilmente faceva domande semplicissime e proprio per questo riduceva al silenzio i grandi maestri. Gesù, come poi Rabbi Akiba, aveva il coraggio di porre le domande essenziali, quelle che non si fanno mai, perché sembrano troppo ovvie, ma dalle quali nasce tutto il resto.

2. Che cosa ascolta Mosè?
Ed eccoci al secondo punto della nostra meditazione.
Qui, siccome il testo degli Atti è riassuntivo, passo a Es. 3, 4-6. Dice il testo: «Il Signore vide che si era avvicinato per vedere e Dio lo chiamò dal roveto e disse: ‘ Mosè, Mosè ‘ ». Mosè ascolta il suo nome. Immaginate lo shock di paura e insieme di stupore di Mosè, quando si sente chiamare nel deserto, in un luogo dove non c’è anima viva. Mosè si accorge che c’è qualcuno che sa il suo nome, qualcuno che si interessa di lui; egli si credeva un reietto, un fallito, un abbandonato: eppure qualcuno grida il suo nome in mezzo ai deserto. Si tratta di un’esperienza violenta, che forse abbiamo fatto anche noi quando trovandoci in un luogo – per esempio una grande città – in cui credevamo di essere del tutto ignorati, d’improvviso ci siamo sentiti chiamare da qualcuno per nome. Ora Mosè si sente .chiamato per nome due volte: «Mosè, Mosè ».
Che cosa vuol dire questa doppia chiamata? A me viene in mente questa riflessione. Nella Bibbia è abbastanza raro che una persona sia chiamata due volte. Vi ricordo alcuni casi. Il primo testo in Gen. 22, 1 (« Abramo, Abramo ») riguarda il momento culminante della vita di Abramo, quando questi è chiamato a sacrificare il figlio: è il momento in cui tutto il cammino fatto fino allora dev’essere provato, per vedere se è un cammino sincero; ecco allora la doppia menzione del nome: «Abramo, Abramo ». Un altro passo che vi ricordo è 1 Sam. 3, 10; Samuele viene chiamato nella notte: «Samuele, Samuele ». Anche qui siamo di fronte ad una svolta della storia di Israele: finito il periodo confuso dei Giudici, sta per aprirsi il periodo della monarchia, che comporterà un nuovo avvicinarsi di Dio al suo popolo. Un altro passo è Lc. 22, 31:
« Simone, Simone, ecco che Satana ti ha chiesto per vagliarti come il grano». Anche qui abbiamo a che fare con un momento culminante della vita di Pietro. Ancora un altro passo che mi sembra importante è Lc. 10, 41: «Marta, Marta ». Anche qui, sebbene l’episodio sia in sé assai semplice – un episodio da cucina -, tuttavia esso è per Luca molto importante, perché fa da pendant all’episodio del Samaritano (cfr. Lc. 10, 25-37). Maria rappresenta l’ascolto della parola; Marta invece è la persona che, piena di buona volontà, si dedica alle opere di carità, come il Mosè della prima maniera, e vi si è buttata talmente dentro da stravolgere tutti i significati delle cose. Questo passo è veramente importante in quanto fa vedere come Marta, presa dall’assillo di far bene, di far benissimo, di fare un gran pranzo per Gesù, ad un cerco punto ha rovesciato tutti i ‘valori: mentre Gesù è venuto in casa come Maestro, è Marta che diventa la maestra e vorrebbe insegnare a Gesù ciò che deve dire e ciò che deve fare, rovesciando così completamente il senso del Vangelo. In fondo, questo è lo scacco del Mosè della prima maniera, che credeva di avere lui tutta in mano la situazione e di poter insegnare a Dio come si doveva fare. Mosè non conosceva certo il passo di Marta, né quello di Simone, ma conosceva la tradizione su Abramo, e quindi poteva rendersi conto del significato di quella doppia chiamata.

È Dio che prende l’iniziativa
Mi sembra che i fatti ricordati siano tutti fatti decisivi. Anche Mosè sente che è giunto un momento decisivo per la sua vita: è il momento in cui deve essere veramente disponibile, senza fare gli errori della prima volta; perciò è pieno di paura: «Cosa mi sta per capitare? ». E qui Mosè ascolta qualcosa che forse non si aspettava. Lui che si era lanciato con tanto ardore per vedere il roveto ardente, avrebbe avuto piacere di sentirsi dire: «Grazie che sei venuto, che non ti sei lasciato vincere dall’amarezza »; e invece ascolta quella voce che gli dice: «Non avvicinarti, togliti i sandali dai piedi, perché il luogo dove tu stai è una terra santa ». Qui ritornano alla mente le parole di Gesù alla Maddalena: «Non toccarmi, non trattenermi» (Gv. 20,17). La Maddalena si avvicina a Gesù con amore, ma sempre incapsulandolo nella sua visuale precedente. E invece doveva cambiare il proprio atteggiamento.
In effetti quando l’uomo si lascia trascinare dal desiderio di ricerca, crede di possedere già le cose che cerca, e le possiede in qualche maniera attraverso la sua conoscenza; è così che finisce con l’inserire i fenomeni religiosi che vive, e quindi anche l’attività divina, nel proprio quadro mentale. Questo è un processo inevitabile. Noi infatti non possiamo capire le cose, se non partendo da un quadro mentale che già possediamo e riportandole ad esso. Mosè, con tutto il suo ardore, cercava di fare la stessa cosa: di vedere, cioè, quel fenomeno del roveto ardente come inquadrato nella sua visuale di Dio, della storia e della presenza di Dio nella storia. E allora Dio gli dice: «Mosè, cosi non va; levati i sandali, perché non si viene a me per incapsularmi nelle proprie idee; non sei tu che devi integrare me nella tua sintesi personale, ma sono io che voglio integrare te nel mio progetto ».
Questo è il significato del levarsi i sandali e di quell’avvicinarsi titubante, come quando si cammina sulle pietre senza scarpe, incerti; è l’incertezza dell’uomo che si chiede: «E adesso che cosa mi capiterà? ». Il fatto è che nella disponibilità al mistero di Dio non si può entrare marciando trionfalmente. Ancora oggi i musulmani, entrando nella moschea, hanno il costume di togliersi le scarpe, come chi si presenta davanti a Dio in punta di piedi, in silenzio, non imponendo a Dio il proprio passo, ma lasciandosi assorbire, integrare dal passo di Dio.
Mosè, dunque, ascolta: «Non avvicinarti, togliti prima i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa ». Immaginate lo sconvolgimento di Mosè nel sentire queste parole. E. questa una terra santa? Questo deserto maledetto, luogo di sciacalli, di desolazione, di aridità, dove soltanto i banditi amano venire, dove la gente per bene non abita? Questo deserto dove mi credevo abbandonato, miserabile, fallito: questa è una terra santa? È questa la presenza di Dio? È questo il luogo dove Dio si rivela?

3. Che cosa intende Mosè?
A questo punto Mosè capisce che cos’è l’iniziativa divina: non è lui che cerca Dio, e quindi deve andare, per trovarlo, in luoghi purificati e santi; è Dio che cerca Mosè e lo cerca là dov’è. E il luogo dove si trova Mosè, qualunque esso sia, fosse anche un luogo miserabile, abbandonato, senza risorse, maledetto – potete leggere nella Bibbia vari passi in cui si parla della desolazione che caratterizza il deserto, luogo dove abitano gli sciacalli, i serpenti e gli scorpioni -, quello è la terra santa, lì è la presenza di Dio, lì la gloria di Dio si manifesta.
Vorrei che ci fermassimo un momento a contemplare come Mosè ha vissuto il proprio cambiamento di orizzonte, la sua vera conversione, il suo nuovo modo di conoscere Dio. Finora Dio era per Mosè uno per il quale bisognava fare molto: bisognava fare la rivoluzione, sacrificare la propria posizione di privilegio, lanciarsi verso i fratelli, spendersi per loro, per poi essere ancora scornato e buttato via. Adesso finalmente Mosè comincia a capire; Dio è diverso: finora l’ha conosciuto come uno che ti sfrutta per un po’ di tempo e poi ti abbandona, un padrone più esigente degli altri, … più del faraone; adesso comincia a capire che è un Dio di misericordia e di amore, che si occupa di lui, ultimo tra i falliti e dimenticato dal suo popolo.
Per comprendere qualcosa di questa intuizione di Mosè, vi cito Gv. 11, 28, dove Maria di Betania piange il fratello e lo piange talmente che è rimasta in casa; per lei tutto è finito; è, sì, una donna di fede e crede che suo fratello risorgerà, ma umanamente è disperata, nessuna parola può confortarla, tutta la gioia della vita in famiglia è ormai finita. Eppure, il racconto prosegue: «Marta se ne andò a chiamare di nascosto Maria sua sorella, dicendo: ‘Il Maestro è qui e ti chiama ‘ ». Pensiamo alla sorpresa di Maria, la quale si credeva abbandonata, disperata, senza conforto e invece le viene detto che lì vicino, accanto alla tomba della sua disperazione, c’è il Maestro che la chiama per nome, che ha una parola per lei. Ecco cosa significa capire l’iniziativa divina nella propria vita.
Poi Mosè continua ad ascoltare altre parole: «Disse ancora Dio: ‘Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe ‘ » (Es. 3, 6). Notate come sono interessanti queste altre parole, che servono a bilanciare di nuovo l’animo sgomento di,Mosè. Mosè ha capito che non aveva capito niente di Dio; in ogni caso, pensava che quello fosse un Dio nuovo, diverso. Ma ecco che Dio gli dice: «Sono il Dio dei tuoi padri; se tu mi avessi capito, ti saresti accorto che sono lo stesso Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe; anche con essi ho agito così ». Il Signore è stato un Dio che si occupa di chi è abbandonato, di chi si sente disperato e fallito. Ed è bello questo parlare rassicurante, perché un uomo che, come Mosè, sa di avere sbagliato tutto, rischia di perdere la memoria; ma proprio allora il Signore gli richiama per intero p passato, che deve essere ricordato e ripensato, affinché appaia chiaramente che esso è stato il. luogo dell’iniziativa di Dio.
Non dimentichiamo mai che il nostro Dio è lo stesso Dio di tutte quelle persone che ci hanno educato alla fede, il Dio dei nostri genitori che ci hanno insegnato a pregare, il Dio dei nostri formatori e di tutti coloro che ci hanno preceduto nella via del Vangelo. Per quanto possiamo aver sempre ristretto a nostro uso e consumo questo nostro Dio, c’è un momento in cui siamo finalmente chiamati, davanti al roveto ardente, a capirlo veramente quale egli è.

Il Dio della misericordia
Seguitiamo ancora con i vv. 7ss., per capire com’è veramente questo Dio: «Il Signore disse: ‘ Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti. Conosco infatti le sue sofferenze, sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese, verso un paese bello e spazioso dove scorre latte e miele. .. Ora il grido degli Israeliti è arrivato fino a me ed io stesso ho visto l’oppressione con cui gli Egiziani li tormentano ». Notate qui com’è attenta la dizione, tutta in prima persona: «Ho visto, ho sentito, conosco, sono sceso, ecc. …» E notate pure l’implicito rimprovero per Mosè: «Tu, Mosè, credevi di essere un uomo molo to colto e molto versato nella conoscenza dell ‘uomo; credevi di capire i tuoi fratelli, la loro miseria; credevi di essere tu a prendere l’iniziativa di capirli, e di supplicare poi me affinché anch’io li capissi; eppure sono io che li capisco per primo, sono io che capisco tutte queste cose, sono io che vedo e che sento. Tu, Mosè, credevi di essere il primo ad aver scoperto la bellezza della libertà, desideroso come eri di farla gustare, e non ci sei riuscito; ma tutto questo veniva da me. Tu non hai mai pensato che questa era l’opera mia, e invece ti sei buttato a corpo morto, pensando che l’opera fosse tutta tua, che tutto dipendesse da te. Adesso ti accorgi che io vedo, io sento…; anzi, se c’è in te qualche compassione per il popolo, questa deriva da me; se c’è in te qualche senso di libertà, sono io che te lo do; se c’è in te qualche curiosità, essa è mia ».
Notiamo un ultimo aspetto che emerge dalla lettura patristica di queste parole, alla luce del Nuovo Testamento. «Sono sceso» dice il Signore (v. 8): è Gesù che è sceso per poter dire: «Ho veduto, ho sentito la miseria del mio popolo, la conosco da vicino e il suo grido è alle mie orecchie».
A questo punto cosa succede? Dio dice: «Ora va’ » (v. 10). Vedete come agisce l’educazione divina! Una volta che Mosè si è purificato dalla possessività della propria presunzione di salvare gli Israeliti, una volta che si è reso sensibile alla realtà vera delle cose, ecco che Iddio lo rimanda, come se niente fosse, come se mai avesse fallito. Dio gli ridà la piena fiducia: «Io ti mando dal faraone ». Mosè si sente ripreso completamente in mano da Dio e rimandato non per un’opera sua, ma per l’opera di Dio.

Mosè viene assunto per l’opera di Dio
Per capire meglio tutto questo, vi ricordo un altro testo bellissimo, su cui varrebbe la pena di meditare a lungo. Si tratta del passo che ci descrive la compassione pastorale di Gesù in Mt. 9, 35-10, 1. Esso si trova alla chiusura della prima parte del Vangelo secondo Matteo, che ci ha presentato Gesù, come Mosè, potente in parole e in opere: Gesù potente in parole (capp. 5-7: il Discorso della montagna), Gesù potente in opere (capp. 8-9: i dieci miracoli). Leggiamolo e fermiamoci su qualche spunto di riflessione: «Gesù andava attorno per tutte le città e villaggi, insegnando e curando ogni malattia e infermità». Ciò significa che Gesù, disceso in mezzo alla gente, è potente in opere e in parole. « Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore. Allora disse ai suoi discepoli: . . .» E qui ci saremmo aspettati che Gesù dicesse ai discepoli: « Andate! »; e invece dice: «Pregate! », «Pregate, dunque, il padrone della messe che mandi operai nella sua messe ». È molto importante questa battuta di attesa. Gesù vuol dire: «Non pensate di buttarvi nell’opera come se fosse vostra; l’opera è del padrone, del Padre. Non presumete di buttarvici dentro come il Mosè della prima maniera; ma lasciatevi inviare da Dio ». « Pregate. . . che mandi operai» non significa: «Signore, manda altri », ma: « Facci degni di essere mandati, così che possiamo andare verso quest’opera non in quanto è quella che piace a me e che io mi sono programmato, ma in quanto è l’opera che Dio mi dà ». E difatti subito dopo il testo dice: «Chiamati a sé i dodici apostoli diede loro il potere di cacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e di infermità ». Poi continuando cita i nomi dei dodici apostoli e dice: «Strada facendo predicate che il Regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto gratuitamente date» (Mt. 10, 7s). Gesù dice: «L’opera mia, la mia compassione apostolica, la trasmetto a voi; vi trasmetto, cioè, la mia capacità di capire la gente; ora con questa capacità andate, predicate il Regno, curate i malati, e tutto fate gratuitamente ».
È evidente il parallelismo con la storia di Mosè. Anche Mosè, infatti, sarà assunto per l’opera di Dio soltanto dopo essere stato purificato e rinnovato nell’intimo, cos1 da lasciarsi educare alla compassione missionaria.

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