Santa Marta

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SANTA MARTA DI BETANIA
29 LUGLIO
sec. I
Marta è la sorella di Maria e di Lazzaro di Betania. Nella loro casa ospitale Gesù amava sostare durante la predicazione in Giudea. In occasione di una di queste visite conosciamo Marta. Il Vangelo ce la presenta come la donna di casa, sollecita e indaffarata per accogliere degnamente il gradito ospite, mentre la sorella Maria preferisce starsene quieta in ascolto delle parole del Maestro. L’avvilita e incompresa professione di massaia è riscattata da questa santa fattiva di nome Marta, che vuol dire semplicemente «signora». Marta ricompare nel Vangelo nel drammatico episodio della risurrezione di Lazzaro, dove implicitamente domanda il miracolo con una semplice e stupenda professione di fede nella onnipotenza del Salvatore, nella risurrezione dei morti e nella divinità di Cristo, e durante un banchetto al quale partecipa lo stesso Lazzaro, da poco risuscitato, e anche questa volta ci si presenta in veste di donna tuttofare. I primi a dedicare una celebrazione liturgica a S. Marta furono i francescani, nel 1262. (Avvenire)
Patronato: Casalinghe, Domestiche, Albergatori, Osti, Cuochi, Cognate
Etimologia: Marta = palma, dall’aramaico o variante di Maria
Emblema: Chiavi, Mestolo, Scopa, Drago
Martirologio Romano: Memoria di santa Marta, che a Betania vicino a Gerusalemme accolse nella sua casa il Signore Gesù e, alla morte del fratello, professò: «Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo».
Marta è la sorella di Maria e di Lazzaro di Betania, un villaggio a circa tre chilometri da Gerusalemme. Nella loro casa ospitale Gesù amava sostare durante la predicazione in Giudea. In occasione di una di queste visite compare per la prima volta Marta. Il Vangelo ce la presenta come la donna di casa, sollecita e indaffarata per accogliere degnamente il gradito ospite, mentre la sorella Maria preferisce starsene quieta in ascolto delle parole del Maestro. Non ci stupisce quindi il rimprovero che Marta muove a Maria: « Signore, non t’importa che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti ».
L’amabile risposta di Gesù può suonare come rimprovero alla fattiva massaia: « Marta, Marta, tu t’inquieti e ti affanni per molte cose; una sola è necessaria: Maria invece ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta ». Ma rimprovero non è, commenta S. Agostino: « Marta, tu non hai scelto il male; Maria ha però scelto meglio di te ». Ciononostante Maria, considerata il modello evangelico delle anime contemplative già da S. Basilio e S. Gregorio Magno, non sembra che figuri nel calendario liturgico: la santità di questa dolce figura di donna è fuori discussione, poiché le è stata confermata dalle stesse parole di Cristo; ma è Marta soltanto, e non Maria né Lazzaro, a comparire nel calendario universale, quasi a ripagarla delle sollecite attenzioni verso la persona del Salvatore e per proporla alle donne cristiane come modello di operosità.
L’avvilita e incompresa professione di massaia è riscattata da questa santa fattiva di nome Marta, che vuol dire semplicemente « signora ». Marta ricompare nel Vangelo nel drammatico episodio della risurrezione di Lazzaro, dove implicitamente domanda il miracolo con una semplice e stupenda professione di fede nella onnipotenza del Salvatore, nella risurrezione dei morti e nella divinità di Cristo, e durante un banchetto al quale partecipa lo stesso Lazzaro, da poco risuscitato, e anche questa volta ci si presenta in veste di donna tuttofare. La lezione impartitale dal Maestro non riguardava, evidentemente, la sua encomiabile laboriosità, ma l’eccesso di affanno per le cose materiali a scapito della vita interiore. Sugli anni successivi della santa non abbiamo alcuna notizia storicamente accertabile, pur abbondando i racconti leggendari. I primi a dedicare una celebrazione liturgica a S. Marta furono i francescani, nel 1262, il 29 luglio, cioè otto giorni dopo la festa di S. Maria Maddalena, impropriamente identificata con sua sorella Maria.
Autore: Piero Bargellini
http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/rit_benedetto_gesu1.htm
LA RIVOLUZIONE DELLE BEATITUDINI
NEL PRIMO LIBRO DEL PAPA LO SCANDALO DEI «COMANDAMENTI NUOVI» PROPOSTI DA GESÙ.
JOSEPH RATZINGER – BENEDETTO XVI
Da lunedì sarà in libreria «Gesù di Nazaret», la prima opera «firmata» Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. In Italia viene pubblicato da Rizzoli e dalla Libreria Editrice Vaticana. Sono già 22 le edizioni in altri Paesi. Il volume è stato presentato ieri in Vaticano dal cardinale Christoph Schoenborn, arcivescovo di Vienna, dal pastore protestante Daniele Garrone, decano della Facoltà valdese di Teologia di Roma, e da Massimo Cacciari, ordinario di Estetica all’università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Non è un atto del Magistero, spiega l’autore nella premessa, «ma unicamente l’espressione della mia ricerca personale del volto di Cristo». Ai lettori chiede «quell’anticipo di simpatia senza il quale non c’è alcuna comprensione». In questa pagina pubblichiamo alcuni estratti del capitolo dedicato alle Beatitudini.
(« Avvenire », 14/4/’07)
Le Beatitudini vengono non di rado presentate come l’antitesi neotestamentaria al Decalogo, come, per così dire, l’etica più elevata dei cristiani nei confronti dei comandamenti dell’Antico Testamento. Questa interpretazione fraintende completamente il senso delle parole di Gesù. Gesù ha sempre dato per scontata la validità del Decalogo (cfr., per es., Mc 10,19; Lc 16,17); il Discorso della montagna riprende i comandamenti della Seconda tavola e li approfondisce, non li abolisce (cfr. Mt 5,21-48); ciò si opporrebbe diametralmente al principio fondamentale premesso a questo discorso sul Decalogo: « Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà dalla Legge neppure un « iota » o un segno, senza che tutto sia compiuto » (Mt 5,17s). Intanto è sufficiente notare che Gesù non pensa di abolire il Decalogo, al contrario: lo rafforza.
Ma allora che cosa sono le Beatitudini? Anzitutto, esse si inseriscono in una lunga tradizione di messaggi veterotestamentari, quali troviamo, per esempio, nel Salmo 1 e nel testo parallelo di Geremia 17,7s: « Benedetto l’uomo che confida nel Signore… ». Sono parole di promessa, che nello stesso tempo contribuiscono al discernimento degli spiriti e diventano così parole guida.
La cornice data da Luca al Discorso della montagna chiarisce la destinazione particolare delle Beatitudini di Gesù: « Alzati gli occhi verso i suoi discepoli… ». Le singole affermazioni delle Beatitudini nascono dallo sguardo verso i discepoli; descrivono per così dire lo stato effettivo dei discepoli di Gesù: sono poveri, affamati, piangenti, odiati e perseguitati (cfr. Lc 6,20ss).
Sono da intendere come qualificazioni pratiche, ma anche teologiche, dei discepoli – di coloro che hanno seguito Gesù e sono diventati la sua famiglia.
Tuttavia la situazione empirica di minaccia incombente in cui Gesù vede i suoi si fa promessa, quando lo sguardo su di essa si illumina a partire dal Padre. Riferite alla comunità dei discepoli di Gesù, le Beatitudini rappresentano dei paradossi: i criteri mondani vengono capovolti non appena la realtà è guardata nella giusta prospettiva, ovvero dal punto di vista della scala dei valori di Dio, che è diversa dalla scala dei valori del mondo. Proprio coloro che secondo criteri mondani vengono considerati poveri e perduti sono i veri fortunati, i benedetti, e possono rallegrarsi e giubilare nonostante tutte le loro sofferenze. Le Beatitudini sono promesse nelle quali risplende la nuova immagine del mondo e dell’uomo che Gesù inaugura, il « rovesciamento dei valori ». Sono promesse escatologiche; questa espressione tuttavia non deve essere intesa nel senso che la gioia che annunciano sia spostata in un futuro infinitamente lontano o esclusivamente nell’aldilà.
Se l’uomo comincia a guardare e a vivere a partire da Dio, se cammina in compagnia di Gesù, allora vive secondo nuovi criteri e allora un po’ di « éschaton », di ciò che deve venire, è già presente adesso. A partire da Gesù entra gioia nella tribolazione. (…) Ma ora si pone la questione fondamentale: è giusta la direzione che ci indica il Signore nelle Beatitudini e nei moniti a esse contrapposti? È davvero male essere ricchi, sazi, ridere, essere apprezzati? Per la sua rabbiosa critica del cristianesimo Friedrich Nietzsche ha fatto leva proprio su questo punto. Non sarebbe la dottrina cristiana che si dovrebbe criticare: sarebbe la morale del cristianesimo che bisognerebbe attaccare come « crimine capitale contro la vita ». E con « morale del cristianesimo » egli intende esattamente la direzione che ci indica il Discorso della montagna.
« Quale è stato fino ad oggi sulla terra il più grande peccato? Non forse la parola di colui che disse: ‘Guai a coloro che ridono!’? ». E contro le promesse di Cristo dice: noi non vogliamo assolutamente il regno dei cieli. « Siamo diventati uomini – vogliamo il regno della terra ».
La visione del Discorso della montagna appare come una religione del risentimento, come l’invidia dei codardi e degli incapaci, che non sono all’altezza della vita e allora vogliono vendicarsi esaltando il loro fallimento e oltraggiando i forti, coloro che hanno successo, che sono fortunati. All’ampia prospettiva di Gesù viene contrapposta un’angusta concentrazione sulle realtà di quaggiù: la volontà di sfruttare adesso il mondo e tutte le offerte della vita, di cercare il cielo quaggiù e in tutto ciò non farsi inibire da nessun tipo di scrupolo.
Molto di tutto questo è passato nella coscienza moderna e determina in gran parte il modo in cui oggi si percepisce la vita. Così il Discorso della montagna pone la questione dell’opzione fondamentale del cristianesimo e, da figli del nostro tempo, avvertiamo la resistenza interiore contro quest’opzione – anche se non siamo insensibili di fronte all’elogio dei miti, dei misericordiosi, degli operatori di pace, degli uomini sinceri.
Dopo le esperienze dei regimi totalitari, dopo il modo brutale con cui essi hanno calpestato gli uomini, schernito, asservito, picchiato i deboli, comprendiamo pure di nuovo coloro che hanno fame e sete di giustizia; riscopriamo l’anima degli afflitti e il loro diritto a essere consolati. Di fronte all’abuso del potere economico, di fronte alla crudeltà del capitalismo che degrada l’uomo a merce, abbiamo cominciato a vedere più chiaramente i pericoli della ricchezza e comprendiamo in modo nuovo che cosa Gesù intendeva nel metterci in guardia dalla ricchezza, dal dio Mammona che distrugge l’uomo prendendo alla gola con la sua mano spietata gran parte del mondo. Sì, le Beatitudini si contrappongono al nostro gusto spontaneo per la vita, alla nostra fame e sete di vita. Esigono « conversione » – un’inversione di marcia interiore rispetto alla direzione che prenderemmo spontaneamente. Ma questa conversione fa venire alla luce ciò che è puro, ciò che è più elevato, la nostra esistenza si dispone nel modo giusto.
Il mondo greco, la cui gioia di vivere si rivela in modo meraviglioso nell’epopea omerica, era tuttavia profondamente consapevole del fatto che il vero peccato dell’uomo, la sua minaccia più intima è la « hy´ bris »: l’autosufficienza presuntuosa, in cui l’uomo eleva se stesso a divinità, vuole essere lui stesso il suo dio, per essere completamente padrone della propria vita e sfruttare fino in fondo tutto ciò che essa ha da offrire.
Questa consapevolezza che la vera minaccia per l’uomo consiste nell’autosufficienza ostentata, a prima vista così convincente, viene sviluppata nel Discorso della montagna in tutta la sua profondità a partire dalla figura di Cristo.
Abbiamo visto che il Discorso della montagna è una cristologia nascosta. Dietro di essa c’è la figura di Cristo, di quell’uomo che è Dio, ma che proprio per questo discende, si spoglia, fino alla morte sulla croce. I santi, da Paolo a Francesco d’Assisi fino a madre Teresa, hanno vissuto questa opzione mostrandoci così la giusta immagine dell’uomo e della sua felicità. In una parola: la vera « morale » del cristianesimo è l’amore. E questo, ovviamente, si oppone all’egoismo – è un esodo da se stessi, ma è proprio in questo modo che l’uomo trova se stesso. Nei confronti dell’allettante splendore dell’uomo di Nietzsche, questa via, a prima vista, sembra misera, addirittura improponibile. Ma è il vero « sentiero di alta montagna » della vita; solo sulla via dell’amore, i cui percorsi sono descritti nel Discorso della montagna, si dischiude la ricchezza della vita, la grandezza della vocazione dell’uomo.