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Le tre parabole dal Vangelo di Matteo, rès Riches Heures del duca di Berry (Museo Condé, Chantilly)

Le tre parabole dal Vangelo di Matteo, rès Riches Heures del duca di Berry (Museo Condé, Chantilly)  dans immagini sacre duberry

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GIOVANNI PAOLO II – «NON LASCIARTI VINCERE DAL MALE, MA VINCI CON IL BENE IL MALE» (Giornata per la pace 2005)

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/messages/peace/documents/hf_jp-ii_mes_20041216_xxxviii-world-day-for-peace_it.html

(lo metto come « commento » alle letture della Domenica)

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II
PER LA CELEBRAZIONE DELLA XXXVIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

1° GENNAIO 2005

«NON LASCIARTI VINCERE DAL MALE, MA VINCI CON IL BENE IL MALE»

1. All’inizio del nuovo anno, torno a rivolgere la mia parola ai responsabili delle Nazioni ed a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, che avvertono quanto necessario sia costruire la pace nel mondo. Ho scelto come tema per la Giornata Mondiale della Pace 2005 l’esortazione di san Paolo nella Lettera ai Romani: « Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male » (12, 21). Il male non si sconfigge con il male: su quella strada, infatti, anziché vincere il male, ci si fa vincere dal male.
La prospettiva delineata dal grande Apostolo pone in evidenza una verità di fondo: la pace è il risultato di una lunga ed impegnativa battaglia, vinta quando il male è sconfitto con il bene. Di fronte ai drammatici scenari di violenti scontri fratricidi, in atto in varie parti del mondo, dinanzi alle inenarrabili sofferenze ed ingiustizie che ne scaturiscono, l’unica scelta veramente costruttiva è di fuggire il male con orrore e di attaccarsi al bene (cfr Rm 12, 9), come suggerisce ancora san Paolo.
La pace è un bene da promuovere con il bene: essa è un bene per le persone, per le famiglie, per le Nazioni della terra e per l’intera umanità; è però un bene da custodire e coltivare mediante scelte e opere di bene. Si comprende allora la profonda verità di un’altra massima di Paolo: « Non rendete a nessuno male per male » (Rm 12, 17). L’unico modo per uscire dal circolo vizioso del male per il male è quello di accogliere la parola dell’Apostolo: « Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male » (Rm 12, 21).
Il male, il bene e l’amore
2. Fin dalle origini, l’umanità ha conosciuto la tragica esperienza del male e ha cercato di coglierne le radici e spiegarne le cause. Il male non è una forza anonima che opera nel mondo in virtù di meccanismi deterministici e impersonali. Il male passa attraverso la libertà umana. Proprio questa facoltà, che distingue l’uomo dagli altri viventi sulla terra, sta al centro del dramma del male e ad esso costantemente si accompagna. Il male ha sempre un volto e un nome: il volto e il nome di uomini e di donne che liberamente lo scelgono. La Sacra Scrittura insegna che, agli inizi della storia, Adamo ed Eva si ribellarono a Dio e Abele fu ucciso dal fratello Caino (cfr Gn 3-4). Furono le prime scelte sbagliate, a cui ne seguirono innumerevoli altre nel corso dei secoli. Ciascuna di esse porta in sé un’essenziale connotazione morale, che implica precise responsabilità da parte del soggetto e chiama in causa le relazioni fondamentali della persona con Dio, con le altre persone e con il creato.
A cercarne le componenti profonde, il male è, in definitiva, un tragico sottrarsi alle esigenze dell’amore (1). Il bene morale, invece, nasce dall’amore, si manifesta come amore ed è orientato all’amore. Questo discorso è particolarmente chiaro per il cristiano, il quale sa che la partecipazione all’unico Corpo mistico di Cristo lo pone in una relazione particolare non solo con il Signore, ma anche con i fratelli. La logica dell’amore cristiano, che nel Vangelo costituisce il cuore pulsante del bene morale, spinge, se portata alle conseguenze, fino all’amore per i nemici: « Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete dagli da bere » (Rm 12, 20).
La « grammatica » della legge morale universale
3. Volgendo lo sguardo all’attuale situazione del mondo, non si può non constatare un impressionante dilagare di molteplici manifestazioni sociali e politiche del male: dal disordine sociale all’anarchia e alla guerra, dall’ingiustizia alla violenza contro l’altro e alla sua soppressione. Per orientare il proprio cammino tra gli opposti richiami del bene e del male, la famiglia umana ha urgente necessità di far tesoro del comune patrimonio di valori morali ricevuto in dono da Dio stesso. Per questo, a quanti sono determinati a vincere il male con il bene san Paolo rivolge l’invito a coltivare nobili e disinteressati atteggiamenti di generosità e di pace (cfr Rm 12, 17-21).
Parlando all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, dieci anni or sono, della comune impresa al servizio della pace, ebbi a far riferimento alla « grammatica » della legge morale universale (2), richiamata dalla Chiesa nei suoi molteplici pronunciamenti in questa materia. Ispirando valori e principi comuni, tale legge unisce gli uomini tra loro, pur nella diversità delle rispettive culture, ed è immutabile: « rimane sotto l’evolversi delle idee e dei costumi e ne sostiene il progresso… Anche se si arriva a negare i suoi principi, non la si può però distruggere, né strappare dal cuore dell’uomo. Sempre risorge nella vita degli individui e delle società » (3).
4. Questa comune grammatica della legge morale impone di impegnarsi sempre e con responsabilità per far sì che la vita delle persone e dei popoli venga rispettata e promossa. Alla sua luce non possono non essere stigmatizzati con vigore i mali di carattere sociale e politico che affliggono il mondo, soprattutto quelli provocati dalle esplosioni della violenza. In questo contesto, come non andare con il pensiero all’amato Continente africano, dove perdurano conflitti che hanno mietuto e continuano a mietere milioni di vittime? Come non evocare la pericolosa situazione della Palestina, la Terra di Gesù, dove non si riescono ad annodare, nella verità e nella giustizia, i fili della mutua comprensione, spezzati da un conflitto che ogni giorno attentati e vendette alimentano in modo preoccupante? E che dire del tragico fenomeno della violenza terroristica che sembra spingere il mondo intero verso un futuro di paura e di angoscia? Come, infine, non constatare con amarezza che il dramma iracheno si prolunga, purtroppo, in situazioni di incertezza e di insicurezza per tutti?
Per conseguire il bene della pace bisogna, con lucida consapevolezza, affermare che la violenza è un male inaccettabile e che mai risolve i problemi. « La violenza è una menzogna, poiché è contraria alla verità della nostra fede, alla verità della nostra umanità. La violenza distrugge ciò che sostiene di difendere: la dignità, la vita, la libertà degli esseri umani » (4). È pertanto indispensabile promuovere una grande opera educativa delle coscienze, che formi tutti, soprattutto le nuove generazioni, al bene aprendo loro l’orizzonte dell’umanesimo integrale e solidale, che la Chiesa indica e auspica. Su queste basi è possibile dar vita ad un ordine sociale, economico e politico che tenga conto della dignità, della libertà e dei diritti fondamentali di ogni persona.
Il bene della pace e il bene comune
5. Per promuovere la pace, vincendo il male con il bene, occorre soffermarsi con particolare attenzione sul bene comune (5) e sulle sue declinazioni sociali e politiche. Quando, infatti, a tutti i livelli si coltiva il bene comune, si coltiva la pace. Può forse la persona realizzare pienamente se stessa prescindendo dalla sua natura sociale, cioè dal suo essere « con » e « per » gli altri? Il bene comune la riguarda da vicino. Riguarda da vicino tutte le forme espressive della socialità umana: la famiglia, i gruppi, le associazioni, le città, le regioni, gli Stati, le comunità dei popoli e delle Nazioni. Tutti, in qualche modo, sono coinvolti nell’impegno per il bene comune, nella ricerca costante del bene altrui come se fosse proprio. Tale responsabilità compete, in particolare, all’autorità politica, ad ogni livello del suo esercizio, perché essa è chiamata a creare quell’insieme di condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani lo sviluppo integrale della loro persona (6).
Il bene comune, pertanto, esige il rispetto e la promozione della persona e dei suoi diritti fondamentali, come pure il rispetto e la promozione dei diritti delle Nazioni in prospettiva universale. Dice in proposito il Concilio Vaticano II: « Dall’interdipendenza ogni giorno più stretta e poco alla volta estesa al mondo intero deriva che il bene comune … diventa oggi sempre più universale ed implica diritti e doveri che interessano l’intero genere umano. Pertanto ogni comunità deve tener conto delle necessità e delle legittime aspirazioni delle altre comunità, anzi del bene comune di tutta la famiglia umana » (7). Il bene dell’intera umanità, anche per le generazioni future, richiede una vera cooperazione internazionale, a cui ogni Nazione deve offrire il suo apporto (8).
Tuttavia, visioni decisamente riduttive della realtà umana trasformano il bene comune in semplice benessere socio-economico, privo di ogni finalizzazione trascendente, e lo svuotano della sua più profonda ragion d’essere. Il bene comune, invece, riveste anche una dimensione trascendente, perché è Dio il fine ultimo delle sue creature (9). I cristiani inoltre sanno che Gesù ha fatto piena luce sulla realizzazione del vero bene comune dell’umanità. Verso Cristo cammina e in Lui culmina la storia: grazie a Lui, per mezzo di Lui e in vista di Lui, ogni realtà umana può essere condotta al suo pieno compimento in Dio.
Il bene della pace e l’uso dei beni della terra
6. Poiché il bene della pace è strettamente collegato allo sviluppo di tutti i popoli, è indispensabile tener conto delle implicazioni etiche dell’uso dei beni della terra. Il Concilio Vaticano II ha opportunamente ricordato che « Dio ha destinato la terra con tutto quello che in essa è contenuto all’uso di tutti gli uomini e popoli, sicché i beni creati devono pervenire a tutti con equo criterio, avendo per guida la giustizia e per compagna la carità » (10).
L’appartenenza alla famiglia umana conferisce ad ogni persona una specie di cittadinanza mondiale, rendendola titolare di diritti e di doveri, essendo gli uomini uniti da una comunanza di origine e di supremo destino. Basta che un bambino venga concepito perché sia titolare di diritti, meriti attenzioni e cure e qualcuno abbia il dovere di provvedervi. La condanna del razzismo, la tutela delle minoranze, l’assistenza ai profughi e ai rifugiati, la mobilitazione della solidarietà internazionale nei confronti di tutti i bisognosi non sono che coerenti applicazioni del principio della cittadinanza mondiale.
7. Il bene della pace va visto oggi in stretta relazione con i nuovi beni, che provengono dalla conoscenza scientifica e dal progresso tecnologico. Anche questi, in applicazione del principio della destinazione universale dei beni della terra, vanno posti a servizio dei bisogni primari dell’uomo. Opportune iniziative a livello internazionale possono dare piena attuazione al principio della destinazione universale dei beni, assicurando a tutti — individui e Nazioni — le condizioni di base per partecipare allo sviluppo. Ciò diventa possibile se si abbattono le barriere e i monopoli che lasciano ai margini tanti popoli (11).
Il bene della pace sarà poi meglio garantito se la comunità internazionale si farà carico, con maggiore senso di responsabilità, di quelli che vengono comunemente identificati come beni pubblici. Sono quei beni dei quali tutti i cittadini godono automaticamente senza aver operato scelte precise in proposito. È quanto avviene, a livello nazionale, per beni quali, ad esempio, il sistema giudiziario, il sistema di difesa, la rete stradale o ferroviaria. Nel mondo, investito oggi in pieno dal fenomeno della globalizzazione, sono sempre più numerosi i beni pubblici che assumono carattere globale e conseguentemente aumentano pure di giorno in giorno gli interessi comuni. Basti pensare alla lotta alla povertà, alla ricerca della pace e della sicurezza, alla preoccupazione per i cambiamenti climatici, al controllo della diffusione delle malattie. A tali interessi, la Comunità internazionale deve rispondere con una rete sempre più ampia di accordi giuridici, atta a regolamentare il godimento dei beni pubblici, ispirandosi agli universali principi dell’equità e della solidarietà.
8. Il principio della destinazione universale dei beni consente, inoltre, di affrontare adeguatamente la sfida della povertà, soprattutto tenendo conto delle condizioni di miseria in cui vive ancora oltre un miliardo di esseri umani. La Comunità internazionale si è posta come obiettivo prioritario, all’inizio del nuovo millennio, il dimezzamento del numero di queste persone entro l’anno 2015. La Chiesa sostiene ed incoraggia tale impegno ed invita i credenti in Cristo a manifestare, in modo concreto e in ogni ambito, un amore preferenziale per i poveri (12).
Il dramma della povertà appare ancora strettamente connesso con la questione del debito estero dei Paesi poveri. Malgrado i significativi progressi sinora compiuti, la questione non ha ancora trovato adeguata soluzione. Sono trascorsi quindici anni da quando ebbi a richiamare l’attenzione della pubblica opinione sul fatto che il debito estero dei Paesi poveri « è intimamente legato ad un insieme di altri problemi, quali l’investimento estero, il giusto funzionamento delle maggiori organizzazioni internazionali, il prezzo delle materie prime e così via » (13). I recenti meccanismi per la riduzione dei debiti, maggiormente centrati sulle esigenze dei poveri, hanno senz’altro migliorato la qualità della crescita economica. Quest’ultima, tuttavia, per una serie di fattori, risulta quantitativamente ancora insufficiente, specie in vista del raggiungimento degli obiettivi stabiliti all’inizio del millennio. I Paesi poveri restano prigionieri di un circolo vizioso: i bassi redditi e la crescita lenta limitano il risparmio e, a loro volta, gli investimenti deboli e l’uso inefficace del risparmio non favoriscono la crescita.
9. Come ha affermato il Papa Paolo VI e come io stesso ho ribadito, l’unico rimedio veramente efficace per consentire agli Stati di affrontare la drammatica questione della povertà è di fornire loro le risorse necessarie mediante finanziamenti esteri — pubblici e privati — concessi a condizioni accessibili, nel quadro di rapporti commerciali internazionali regolati secondo equità (14). Si rende doverosamente necessaria una mobilitazione morale ed economica, rispettosa da una parte degli accordi presi in favore dei Paesi poveri, ma disposta dall’altra a rivedere quegli accordi che l’esperienza avesse dimostrato essere troppo onerosi per determinati Paesi. In questa prospettiva, si rivela auspicabile e necessario imprimere un nuovo slancio all’aiuto pubblico allo sviluppo, ed esplorare, malgrado le difficoltà che può presentare questo percorso, le proposte di nuove forme di finanziamento allo sviluppo (15). Alcuni governi stanno già valutando attentamente meccanismi promettenti che vanno in questa direzione, iniziative significative da portare avanti in modo autenticamente condiviso e nel rispetto del principio di sussidiarietà. Occorre pure controllare che la gestione delle risorse economiche destinate allo sviluppo dei Paesi poveri segua scrupolosi criteri di buona amministrazione, sia da parte dei donatori che dei destinatari. La Chiesa incoraggia ed offre a questi sforzi il suo apporto. Basti citare, ad esempio, il prezioso contributo dato attraverso le numerose agenzie cattoliche di aiuto e di sviluppo.
10. Al termine del Grande Giubileo dell’Anno 2000, nella Lettera apostolica Novo millennio ineunte ho fatto cenno all’urgenza di una nuova fantasia della carità (16) per diffondere nel mondo il Vangelo della speranza. Ciò si rende evidente particolarmente quando ci si avvicina ai tanti e delicati problemi che ostacolano lo sviluppo del Continente africano: si pensi ai numerosi conflitti armati, alle malattie pandemiche rese più pericolose dalle condizioni di miseria, all’instabilità politica cui si accompagna una diffusa insicurezza sociale. Sono realtà drammatiche che sollecitano un cammino radicalmente nuovo per l’Africa: è necessario dar vita a forme nuove di solidarietà, a livello bilaterale e multilaterale, con un più deciso impegno di tutti, nella piena consapevolezza che il bene dei popoli africani rappresenta una condizione indispensabile per il raggiungimento del bene comune universale.
Possano i popoli africani prendere in mano da protagonisti il proprio destino e il proprio sviluppo culturale, civile, sociale ed economico! L’Africa cessi di essere solo oggetto di assistenza, per divenire responsabile soggetto di condivisioni convinte e produttive! Per raggiungere tali obiettivi si rende necessaria una nuova cultura politica, specialmente nell’ambito della cooperazione internazionale. Ancora una volta vorrei ribadire che il mancato adempimento delle reiterate promesse relative all’aiuto pubblico allo sviluppo, la questione tuttora aperta del pesante debito internazionale dei Paesi africani e l’assenza di una speciale considerazione per essi nei rapporti commerciali internazionali, costituiscono gravi ostacoli alla pace, e pertanto vanno affrontati e superati con urgenza. Mai come oggi risulta determinante e decisiva, per la realizzazione della pace nel mondo, la consapevolezza dell’interdipendenza tra Paesi ricchi e poveri, per cui « lo sviluppo o diventa comune a tutte le parti del mondo, o subisce un processo di retrocessione anche nelle zone segnate da un costante progresso » (17).
Universalità del male e speranza cristiana
11. Di fronte ai tanti drammi che affliggono il mondo, i cristiani confessano con umile fiducia che solo Dio rende possibile all’uomo ed ai popoli il superamento del male per raggiungere il bene. Con la sua morte e risurrezione Cristo ci ha redenti e riscattati « a caro prezzo » (1 Cor 6, 20; 7, 23), ottenendo la salvezza per tutti. Con il suo aiuto, pertanto, è possibile a tutti vincere il male con il bene.
Fondandosi sulla certezza che il male non prevarrà, il cristiano coltiva un’indomita speranza che lo sostiene nel promuovere la giustizia e la pace. Nonostante i peccati personali e sociali che segnano l’agire umano, la speranza imprime slancio sempre rinnovato all’impegno per la giustizia e la pace, insieme ad una ferma fiducia nella possibilità di costruire un mondo migliore.
Se nel mondo è presente ed agisce il « mistero dell’iniquità » (2 Ts 2, 7), non va dimenticato che l’uomo redento ha in sé sufficienti energie per contrastarlo. Creato ad immagine di Dio e redento da Cristo « che si è unito in certo modo ad ogni uomo » (18) questi può cooperare attivamente al trionfo del bene. L’azione dello « Spirito del Signore riempie l’universo » (Sap 1, 7). I cristiani, specialmente i fedeli laici, « non nascondano questa speranza nell’interiorità del loro animo, ma con la continua conversione e la lotta “contro i dominatori di questo mondo di tenebra e contro gli spiriti del male” (Ef 6, 12) la esprimano anche attraverso le strutture della vita secolare » (19).
12. Nessun uomo, nessuna donna di buona volontà può sottrarsi all’impegno di lottare per vincere con il bene il male. È una lotta che si combatte validamente soltanto con le armi dell’amore. Quando il bene vince il male, regna l’amore e dove regna l’amore regna la pace. È l’insegnamento del Vangelo, riproposto dal Concilio Vaticano II: « La legge fondamentale della perfezione umana, e perciò anche della trasformazione del mondo, è il nuovo comandamento della carità » (20).
Ciò è vero anche in ambito sociale e politico. A questo proposito, il Papa LeoneXIII scriveva che quanti hanno il dovere di provvedere al bene della pace nelle relazioni tra i popoli devono alimentare in sé e accendere negli altri « la carità, signora e regina di tutte le virtù » (21). I cristiani siano testimoni convinti di questa verità; sappiano mostrare con la loro vita che l’amore è l’unica forza capace di condurre alla perfezione personale e sociale, l’unico dinamismo in grado di far avanzare la storia verso il bene e la pace.
In quest’anno dedicato all’Eucaristia, i figli della Chiesa trovino nel sommo Sacramento dell’amore la sorgente di ogni comunione: della comunione con Gesù Redentore e, in Lui, con ogni essere umano. È in virtù della morte e risurrezione di Cristo, rese sacramentalmente presenti in ogni Celebrazione eucaristica, che siamo salvati dal male e resi capaci di fare il bene. È in virtù della vita nuova di cui Egli ci ha fatto dono che possiamo riconoscerci fratelli, al di là di ogni differenza di lingua, di nazionalità, di cultura. In una parola, è in virtù della partecipazione allo stesso Pane e allo stesso Calice che possiamo sentirci « famiglia di Dio » e insieme recare uno specifico ed efficace contributo all’edificazione di un mondo fondato sui valori della giustizia, della libertà e della pace.

Dal Vaticano, 8 Dicembre 2004.

 

20 LUGLIO 2014 | 16A DOMENICA – LECTIO DIVINA : MT 13,24-43

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/01-annoA/Anno_A-2014/5-Ordinario-A-2014/Omelie/16a-Domenica-A/03-16aDomenica-A-2014-JB.htm

20 LUGLIO 2014 | 16A DOMENICA A – T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

LECTIO DIVINA : MT 13,24-43

Il male non ci risulta tanto ovvio, la sua esperienza c’è tanto quotidiana che sarebbe da ignoranti osare negare la sua realtà o credersi liberi del suo potere. E non sbagliamo, lo sappiamo bene!, come gli altri ci imbattiamo con il male; per arrivare a scoprire il viso della malvagità e la sua efficacia basta guardare noi stessi, fissarci, senza andare lontano, nel nostro cuore e nelle nostre mani per vederlo faccia a faccia. Senza dubbio, ciò che mettiamo in discussione del male è chi potremmo rendere responsabile; e siamo tanto inclinati a discolparci noi stessi che normalmente gettiamo la colpa su qualunque altro, incominciando sempre da quelli che ci sono più prossimi. Gesù ci insegna oggi a convivere col male senza lasciare che cresca in noi.

24 In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo:
 » Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. 25Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. 26Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. 27Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: ‘Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania? 28Ed egli rispose loro: Un nemico ha fatto questo.’ E i servi gli dissero: ‘Vuoi che andiamo a raccoglierla?’ 29No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. 30Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio. »
31 Espose loro un’altra parabola, dicendo:
« Il regno dei cieli è come un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. 32Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami ».
33 Disse loro un’altra parabola:
« Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata ».
34 Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole,
35 perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta:
« Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo »
36 Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli:
« Spiegaci la parabola della zizzania nel campo »
37 Gesù disse loro:
« Colui che semina il buono seme è il Figlio dell’uomo. 38Il campo è il mondo; il buon seme sono i figli del regno; e la zizzania, i figli del maligno. 39Il nemico che la semina è il diavolo; la mietitura è il fine del mondo, ed i mietitori, gli angeli. 40Come si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così pure succederà alla fine del mondo.
41 Il Figlio dell’uomo invierà i suoi angeli che raccoglieranno dal suo regno tutti quelli che furono causa di inciampo ed i malvagi, 42 li getteranno nella fornace ardente. Là piangeranno e strideranno i denti.
43 Allora i giusti brilleranno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi ascolti. »
1. LEGGERE : capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
Gesù continua a parlare del regno in parabole. Alla similitudine della semina ed al suo commento, aggiunge ora tre nuove parabole che, benché diverse in forma e contenuto, illustrano due modi di agire, sovrani ma non del tutto comprensibili, di Dio: quando regna, Dio permette che male e bene convivano e crescano insieme; quando regna, la presenza di Dio è tanto impercettibile come onnipotente è la sua efficacia salvatrice.
Con la prima parabola, quella del grano e la zizzania Gesù volle proclamare una legge fondamentale del regno di Dio: non tutto quello che cresce, dopo la sua predicazione, è grano pulito; il male che egli non piantò, non lo estirpa prima del tempo; il buon seme deve crescere vicino al cattivo, e maturare. Il giorno della giustizia arriverà; nel frattempo, a tutto quello che è germinato gli concede un’opportunità. Il discepolo deve sapere convivere col male senza connivenze né scandalo: Dio, come il seminatore, ha pazienza col suo campo, affinché la semina possa dare il suo frutto. Nel racconto può sentirsi la preoccupazione di Matteo di rispondere, con la parabola di Gesù, ad una situazione nuova nella sua comunità: il male è evidente tra i cristiani, il Regno di Dio non si identifica con la chiesa sorta dalla risurrezione. Bisognerà abituarsi a rispondere a Dio vicino a colui che lo ignora e cercare di fare la sua volontà tra coloro che non la vivono. L’impazienza non legittima il discepolo come tale, tanto meno l’intolleranza!, solo le sue buone opere. Crescere vicino al male, senza diventare cattivo, è la fortuna del discepolo.
La doppia parabola della senape e del lievito allude, per accentuare l’esortazione alla speranza, alla forza germinale di un regno che, oggi appena percettibile, finirà per imporsi. Un insignificante seme, quello di senape, una scarsa quantità di lievito, producono la cosa impensabile: essere casa per gli uccelli o fare pane abbondante. Inizi poco promettenti si convertono gradualmente ma inesorabilmente in grandi beni. Non bisogna lasciarsi convincere dall’apparenza; quando Dio, il suo regno, sta già in azione, il bene sta per venire.
La decisione di Gesù di parlare alla gente in parabole trova di nuovo una ragione, ora, ben distinta dalla ragione di prima (cf. 13,10-17): la parabola più che descrivere insinua, svela velando, il modo di rendere pubblico quello che è rimasto nascosto fino al giorno in cui è scoperto da Gesù.
E se, rispondendo ai suoi discepoli, spiega puntualmente la parabola della zizzania, è per fissare la sua attenzione al futuro: non si tenta già di convivere col male, crescendo nella bontà, bensì che la bontà non sarà definitiva fino a che non lo determini il Figlio dell’uomo a suo tempo. Finché non arriva il giorno del raccolto, il buono può smettere di esserlo ed il cattivo anche: la comunità che deve aspettare la decisione ultima di Dio, non è una comunità salvata, benché possa vivere già nella speranza di esserlo, se vive fedele in mezzo all’infedeltà.
2 – MEDITARE : Applicare quello che dice il testo alla vita
Con la parabola della zizzania e del grano Gesù volle alludere, senza chiarirla del tutto, a quella misteriosa presenza del male nel nostro mondo e volle, soprattutto, dare risposta alla nostra angoscia davanti al suo minacciante potere. Più che insegnarci qualcosa sul mistero del male, Gesù pretendeva di convincerci della bontà di Dio, della sua pazienza e la sua misura coi cattivi; non voleva che ci rassegnassimo con l’esistenza del male intorno a noi, desiderava che non ci sentissimo soli di fronte a lui. Non negava la realtà né rimpiccioliva il suo potere, ma non voleva vederci paurosi né preoccupati in eccesso. Cercava di farci amare Dio più che temere il male e la sua assenza.
Con la parabola Gesù volle trasmetterci due sue convinzioni: il male è reale, come il mondo e come l’uomo. Bisogna contare, dunque, con lui in un mondo creato da Dio e dell’uomo fatto ad immagine di Dio. La creazione, come il campo, è rimasta seminata da lui. Serve poco discutere la sua origine, quando la cosa decisiva è esulare dal suo potere.
Ma ciò non è tutto. Gesù insegna che bisogna contare, specialmente, con un Dio al quale preoccupa questa presenza del male nel suo mondo e nell’uomo, un Dio che, per rispetto al bene che coesiste vicino al male, pospone il suo intervento. Come il signore del campo, Dio non pensa di seminare il male; se lo sopporta, è per non danneggiare il bene ancora nascente, ancora debole che lotta per crescere; vuole che il bene, come il grano, maturi fino al giorno del raccolto. Nel frattempo, il destino del bene è convivere col male, senza trasformarsi in lui; la fortuna del bene sta nel coesistere con la malvagità senza disperare delle sue forze, sicuro del suo potere.
Il Dio che Gesù ci annuncia è un Dio che permette che bene e male coesistano e si sviluppino insieme. Non risulta facile comprendere questa decisione divina. A volte è tanto scandalosa, provocante, la presenza del male, che può rendere inaccettabile l’esistenza di Dio, intollerabile il suo disinteresse per la vittoria dei cattivi sui buoni. Raccontando la parabola del grano e della zizzania, Gesù non volle contraddire questa nostra esperienza, né banalizzò il dolore che produce sentire il male nella propria carne: egli sapeva bene che non tutto quello che cresce, dietro la sua predicazione, è grano pulito. Ma era certo che arriverà un giorno in cui si farà giustizia, quando, finalmente, vincerà il bene; nel frattempo, a tutto quello che sia cresciuto gli è concesso una opportunità; quella del buono è continuare ad essere tale; quella del cattivo, potere smettere di esserlo.
Il discepolo deve sapere convivere col male senza connivenze, né patti: dovrà abituarsi a rispondere a Dio vicino a chi l’ignora e cercare di fare la sua volontà tra coloro che non la fanno. Spazientirsi coi cattivi non rende buono il discepolo; disperare di Dio solo perché ancora esiste il male, è diffidare nel suo impegno di vincerlo un giorno per sempre.
Dovremo imparare qualcosa da questa pazienza di Dio. In primo luogo, dovrebbe sorprenderci la forma di reagire di Dio davanti al male. Come l’agricoltore non desidera che sia falciato appena il grano ha attecchito, Dio si permette di sperare, perché non vuole danneggiare il bene che lotta per sopravvivere. La pazienza di Dio non è debolezza, bensì forza e, soprattutto, fiducia in sé stesso e nel potere del bene: perché sa che il male non sopravvivrà, può lasciarlo vivere per un tempo. Finché non arriva il giorno del raccolto, il buono può smettere di esserlo ed il cattivo anche: il cristiano deve sapere che Dio ha preso già la decisione di vincere il male esistente nel suo cuore e nel suo ambiente; ma deve sapere anche che spera che quelli che vivono ancora del male, o in mezzo a lui, lo riconoscano e si salvino.
Sapere che il male non sopravvivrà a Dio, suppone riconoscere il suo potere e confessare, contemporaneamente, che non saremo preda di lui per sempre, purché Dio sia il nostro Bene desiderato o già posseduto. Chi può perdere Dio, non è ancora salvato; ma, può vivere rassicurato di esserlo: avere sotto gli occhi il male, vederlo vivo nel cuore, può essere una maniera, imperfetta sì ma efficace, di avere Dio presente nella nostra vita anche se ancora non siamo riusciti a renderla del tutto buona, e desidera mantenerlo presente nel nostro cuore.
E precisamente perché ci rendiamo conto che, essendo ancora campo che ospita il male, Dio ha pazienza, dovremmo sforzarci per essere più comprensivi, meno esigenti, con quanti, intorno a noi, non riescono ad essere tanto buoni come vogliono o come noi siamo già. È vero che la pazienza di Dio col male imperante mette alla prova la nostra comprensione e la fedeltà che gli dobbiamo: quanto gradevole ci sarebbe – e quante volte non glielo abbiamo chiesto! – che Dio distruggesse quelli che ci fanno del male. Che non lo faccia, ci fa sentire defraudati da Lui. E tuttavia, ha le sue ragioni: come ha fatto tante volte con noi, vuole dare al malvagio un’opportunità affinché cambi; ritarda il suo intervento, perché desidera che il cattivo migliori e il male sparisca.
Chi desidera essere migliore, e non solamente buono, ha pazienza con sé stesso, col male che scopre nel suo cuore; e, specialmente, sa di avere pazienza col male che impera attorno a sé. Come l’agricoltore della parabola, come Gesù durante la sua vita, il cristiano sa aspettare la vittoria del bene: non lo defrauda il predominio apparente del male. E’ sicuro che Dio un giorno, che arriverà come deve arrivare il giorno del raccolto, sopprimerà definitivamente il male: sapere che il male è già condannato da Dio obbliga il cristiano a mettersi a lottare, sforzandosi per migliorare ed impegnandosi a lasciare agli altri un mondo migliore, senza mai disperarsi; perché chi diffida che non soccomberà sotto il male, non si fida di Dio né nel potere della sua bontà.
E questo sì che è male: perché Dio non può fare niente con chi non si fida della sua bontà o non sopporta che abbia pazienza coi malvagi. Avere un Dio paziente col male ha le sue conseguenze: bisogna accettarle ed accettarlo come è. Ha, con tutti, di buono che se crediamo in Lui possiamo accettare noi stessi, benché non siamo buoni del tutto, ed accettare il nostro mondo, come è. Non c’è dubbio che è un grande vantaggio.

JUAN JOSE BARTOLOME sdb

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