Archive pour le 17 juillet, 2014

Icon of the Mother of God of “the Unexpected Joy” from Andronikov

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ANCHE DIO TACE – DI GIANFRANCO RAVASI

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ANCHE DIO TACE – DI GIANFRANCO RAVASI

Pubblicato il 5 maggio 2014 di Carlo Di Francesco

2012-02-02

L’Osservatore Romano

Lo scorso 24 gennaio, quando la liturgia celebrava san Francesco di Sales, scrittore e comunicatore, patrono dei giornalisti, Benedetto XVI anticipava la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali — che si celebrerà il 20 maggio — con un messaggio di forte intensità spirituale dedicato alla Parola e al silenzio. E concludeva con questa considerazione: «Educarsi alla comunicazione vuol dire imparare ad ascoltare, a contemplare, oltre che a parlare, e questo è particolarmente importante per gli agenti dell’evangelizzazione: silenzio e parola sono entrambi elementi essenziali e integranti dell’agire comunicativo della Chiesa, per un rinnovato annuncio di Cristo nel mondo contemporaneo».
Sulla scia delle suggestioni di quel documento, abbiamo così pensato di affrontare il tema del silenzio, un argomento alto e denso, nonostante sia privo di parole. Lo affronteremo da un’altra angolatura. Cantava padre David Maria Turoldo (di cui in questo mese celebriamo il ventesimo dalla morte): «Un chiostro è il mio cuore / ove Tu scendi a sera / io e Te soli / a prolungare il colloquio». Si intuisce in questi versi che il dialogo con Dio non ha solo parole ma soprattutto silenzi: non per nulla nella tradizione giudaica il nome di Dio — elemento fondamentale in ogni religione — non lo si deve dire ma solo tacere.
Questo silenzio è lo stesso del “mistero”, parola greca che rimanda al verbo myein che esige il chiudere le labbra nel tacere, perché il mistero custodisce il divino che è infinito, eterno e ineffabile, ma che è anche efficace, potente, salvifico. Noi, perciò, ci interesseremo ora proprio del silenzio di Dio, non tanto di quello dell’uomo, pur importante perché Qohelet ci ricorda che «c’è un tempo per parlare e un tempo per tacere» (3, 7). Il tacere divino — ben diverso da quello degli idoli che è mutismo perché oggetti inerti («sono come uno spauracchio in un campo di cetrioli: non sanno parlare», ironizzerà Geremia) — ha due volti, l’uno di rivelazione e di grazia, l’altro di giudizio e di ira.
La più affascinante rappresentazione del silenzio “bianco” divino — sintesi di ogni rivelazione proprio come accade a questo colore che riunisce in sé tutta la gamma cromatica (non per nulla è il colore dell’ambito divino nell’Apocalisse) — è nelle tre parole ebraiche che descrivono l’epifania del Signore davanti al profeta fuggiasco e scoraggiato, Elia, giunto alla vetta dell’Horeb-Sinai: qôl demamah daqqah, una «voce di silenzio sottile» (1 Re, 19, 12). Il profeta “focoso” (egli era «come fuoco e la sua parola bruciava come fiaccola», si legge in Siracide 48, 1) aveva atteso Dio negli altri segni teofanici sinaitici, clamorosi e rumorosi: il «vento gagliardo e potente», il terremoto, la folgore. Ma il Signore non era lì, bensì nel silenzio che era segno non di assenza ma di presenza efficace, pronta a rimettere di nuovo Elia sulla strada della sua missione.
Altre versioni, come quella della Conferenza Episcopale Italiana, optano per una resa pure possibile, anche se meno legata al testo ebraico così come suona: «voce di brezza leggera» (in questa linea anche l’antica traduzione greca dei Settanta). Ci si mette, quindi, nella sequenza dei fenomeni atmosferici precedenti, sostituendo alla violenza di un temporale il sussurro lieve di una brezza. Ma l’originale ebraico, confermato anche da alcuni testi di Qumran, ci riporta a un silenzio simile a quello che si allarga nel cielo dell’Apocalisse all’apertura del settimo sigillo, quando «si fece silenzio in cielo per circa mezz’ora» (8, 1).
Una rivelazione silenziosa (l’esegeta Hermann Gunkel parla di una «musica silenziosa») domina anche il Salmo 19: il creato trasmette il messaggio del suo Creatore senza suoni udibili: «I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il firmamento. Il giorno al giorno ne affida il racconto e la notte alla notte ne trasmette notizia. Senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce, per tutta la terra si diffonde il loro annuncio e ai confini del mondo il loro messaggio» (2-5). È una sorta di Tôrah cosmica silenziosa a cui subentra poi laTôrah scritta, che è cantata nella seconda parte del Salmo.
È suggestivo il commento che André Neher ci ha lasciato nel suo saggio L’esilio della parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz (Marietti 1983): «Se la Bibbia sa identificare l’infinito cosmico col silenzio, sa anche che tale infinito non è che il velo di un altro Infinito, quello del Creatore, la cui Parola trascorre attraverso l’immensità per raggiungere l’uomo, ma il cui Essere intimo non può identificarsi anch’esso se non con il silenzio».
Continuiamo, però, la nostra ricerca sul silenzio positivo divino penetrando anche nel Nuovo Testamento con la figura di Cristo.
Pensiamo ai momenti di solitudine che ripetutamente Gesù cerca, allontanandosi dalla folla per incontrare il Padre nella preghiera (un esempio per tutti in Marco 1, 35). Ma mi sembrano significativi in questo senso e positivi nel loro risultato anche i silenzi che Cristo impone ai segni del male, generando così la salvezza: ai demoni (Marco 1, 25), alla tempesta, emblema del caos (Marco 4, 39), agli avversari che lo vogliono far cadere (Matteo 22, 34), agli stessi discepoli che non comprendono il significato della sua sofferenza e della sua gloria (Marco 8, 30; 9, 9), ai malati guariti perché non si equivochi sul valore dei miracoli (Marco 1, 44).
Altre volte è il silenzio di Gesù stesso che si rivela in realtà come una lezione o un monito o un giudizio sul suo interlocutore: di fronte all’adultera e ai suoi accusatori (Giovanni, 8, 6. 8), davanti al Sinedrio che lo interroga (Marco, 14, 60-61), a Pilato (Marco, 15, 4-5), a Erode (Luca, 23, 9). Quando entra nel sentiero oscuro della passione il suo è un silenzio eloquente, che si modella su quello del Servo sofferente cantato da Isaia: «Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì bocca: era (…) come pecora muta di fronte ai suoi tosatori e non aprì la sua bocca» (53, 7). C’è, quindi, un silenzio sacrificale che diventa principio di salvezza per l’umanità peccatrice.
Tutto questo fa parte di un disegno divino misterioso che è rivelato, ossia un messaggio taciuto che viene svelato, ed è proprio san Paolo a connettere al tema del silenzio questo piano salvifico che egli chiama appunto “mistero”, il cui valore etimologico abbiamo già illustrato sopra. L’Apostolo, nella “dossologia” (inno di gloria) che suggella la Lettera ai Romani, canta «la rivelazione del mistero avvolto nel silenzio [si usa il verbo greco sigào, presente dieci volte nel Nuovo Testamento] per secoli eterni, ma ora manifestato mediante le Scritture dei profeti, per ordine dell’eterno Dio, annunciato a tutte le genti» (16, 25). Fin qui il silenzio luminoso di Dio.
Ma c’è anche un suo tacere che genera paura e amarezza. Il fedele sente quasi come un incubo quel mutismo che ha il tono dell’assenza e dell’indifferenza e persino dell’abbandono. Per questo, l’orante del Salterio spesso grida a Dio: «Signore, tu hai visto, non tacere! Non stare da me lontano! (…) Non essere sordo alle mie lacrime! (…) A te grido, Signore, mia roccia, con me non tacere perché, se tu non parli, sono come chi scende nella fossa infernale!» (Salmi , 35, 22; 39, 13; 28, 1). Il “perché?”, il “fino a quando?” che viene spesso lanciato verso l’alto dagli oranti sofferenti vorrebbe scuotere questo Dio muto, persino addormentato (44, 24).
La storia senza la parola di Dio o quella dei suoi profeti diventa incomprensibile e insopportabile, ma la stessa fede cade in un dramma: l’inazione divina diviene un argomento dei negatori di Dio che possono ripetere il motteggio sarcastico evocato dall’autore del Salmo 42, «Dov’è il tuo Dio?». Altre volte, però, il silenzio di Dio è il segno esplicito del suo giudizio sul peccato del popolo: «grideranno al Signore, ma egli non risponderà, nasconderà loro la faccia, perché hanno compiuto azioni malvagie», minaccia il profeta Michea (3, 4).
Emblematico a questo proposito è uno dei tanti atti simbolici che Ezechiele compie. Il Signore, infatti, gli annuncia: «Farò aderire la tua lingua al palato e resterai muto; così non sarai più per loro uno che li rimprovera, perché sono una genia di ribelli» (3, 26). Il messaggio è chiaro: il profeta incarna la scelta divina di non ammonire più il suo popolo, lasciandolo immerso nel suo male fino ad affogare. Ancora una volta il silenzio del Signore — incarnato nel profeta muto, voce di Dio spenta — è segno di giudizio. Quando la bocca di Ezechiele lancerà ancora suoni (24, 27; 33, 22), sarà indizio del ritorno della misericordia divina, del perdono e della conversione di Israele.
Nel Nuovo Testamento la rappresentazione negativa più alta e drammatica del silenzio divino la si ha sulla croce di Cristo, quando egli sperimenta l’abbandono del Padre attraverso il suo silenzio: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Marco, 15, 34). Eppure quel vuoto, che rende Cristo veramente e pienamente nostro fratello non solo nel dolore e nella morte, ma anche nell’assenza di Dio, non sfocerà nella definitiva lontananza e nella solitudine. Incombe, infatti, l’alba della Pasqua quando il Padre risponderà efficacemente all’invocazione del Figlio attraverso la risurrezione.
Commentava Heinrich Schlier (1900-1978), famoso teologo ed esegeta tedesco: «Proprio nel momento in cui Dio gli fa provare l’essere senza Dio, il patire, il morire senza Dio, Gesù si rivolge a Dio col Salmo dei pii dell’antica Alleanza. Non grida nel vuoto, ma a Lui, verso di Lui! Si rivolge a Dio, senza Dio! Depone ai piedi del Dio che l’ha abbandonato anche l’angoscia del morire senza Dio. Proprio attraverso questa esperienza, Gesù alla fine diventa per tutti il vincitore del morire abbandonati da Dio, il vincitore della morte senza Dio!».

Gianfranco Ravasi

Publié dans:CAR. GIANFRANCO RAVASI |on 17 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

VIVERE DIO IN UN MONDO SECOLARIZZATO: DIETRICH BONHOEFFER

http://www.finesettimana.org/pmwiki/?n=Db.Sintesi?num=106

VIVERE DIO IN UN MONDO SECOLARIZZATO: DIETRICH BONHOEFFER

sintesi della relazione di Paolo Ricca
Verbania Pallanza, 20 aprile 1996
un profilo di Bonhoeffer

1.- la parabola di un’esistenza
Bonhoeffer è uno dei pochi teologi martiri di tutta la storia cristiana. Poiché i teologi sono intellettuali, come tutti gli intellettuali sono esperti nell’evitare le tempeste della storia e inclini al pensiero cortigiano, cioè quel pensiero che finisce per aderire o non contrastare il potere esistente.
In Italia solo 13 docenti universitari rifiutarono di prestare giuramento al fascismo. Bonhoeffer è una di queste mosche bianche: è passato dalla cattedra all’università di Berlino, raggiunta da giovanissimo, alla forca di Flossembürg
Ha vissuto quello che scrisse nella lettera a suo nipote in occasione del battesimo: « Abbiamo vissuto troppo intensamente nel pensiero ed abbiamo creduto che fosse possibile garantire in precedenza, mediante una ricognizione di tutte le possibilità, il risultato di qualsiasi azione, in modo tale che essa si compia in conclusione da sola. Un po’ troppo tardi abbiamo imparato che non il pensiero, ma l’assunzione della responsabilità è l’origine dell’azione. Per voi » dice rivolgendosi al nipote « pensiero ed azione entreranno in una relazione nuova. Penserete esclusivamente ciò di cui vi renderete responsabili agendo. Per noi il pensiero era spesso il lusso dello spettatore, per voi sarà interamente al servizio dell’azione. »
Bonhoeffer, proprio perché ha pensato esclusivamente ciò di cui si è reso responsabile attraverso l’azione, è vissuto solo 39 anni. E il suo pensiero manifesta una crescente giovinezza.
Nella prima fase, quella dell’università, Bonhoeffer si rende conto che la teologia accademica non è in grado di produrre un cristianesimo militante capace di fronteggiare vittoriosamente il paganesimo nazista. Per questo abbandona l’Università, troncando una brillante carriera, per buttarsi nella lotta della Chiesa Confessante. Dichiara, con grande scandalo, che fuori della Chiesa Confessante non c’è salvezza. Sostiene che la Chiesa Evangelica rimodellata secondo le direttive del Führer è una pseudochiesa, che offre una pseudosalvezza.Viene considerato un fanatico. Ma anche la Chiesa Confessante viene giudicata inadeguata, perché pensa solo a se stessa, tradendo il mandato divino.
E allora l’attenzione si sposta dalla chiesa al mondo, al mondo diventato adulto, a Dio. Dalla cella del carcere ripensa al cristianesimo globalmente considerato, al rapporto tra Dio e il mondo in termini nuovi.
Queste tre fasi della vita di Bonhoeffer sono anche rilette dal pastore André Dumas con la metafora di Nietzsche sulle metamorfosi dello spirito umano, che prima diventa cammello (accumula un sapere universitario di cui presto riconosce la sterilità), poi si trasforma in leone (cioè da accademico diventa un militante che lotta nella Chiesa Confessante. Si oppone al « paragrafo ariano », accettato dalla Chiesa del Reich e rifiutato dalla Chiesa Confessante. Mentre però la Chiesa Confessante si oppone perché il paragrafo lede l’autonomia della Chiesa, Bonhoeffer lo rifiuta perché snatura la chiesa) e infine diviene bambino (c’è una presa di distanza dalla Chiesa Confessante, una emigrazione interiore, accolta senza rimpianti dalla stessa chiesa. Bonhoeffer diventa un cristiano senza chiesa).
Attorno a Bonhoeffer, in carcere, si forma una nuova chiesa sui generis, che comprende non solo cristiani di diverse confessioni, ma anche comunisti russi di formazione atea. Bonhoeffer presiede un piccolo culto, il giorno prima della morte, tra persone votate alla morte per la resistenza al nazismo, sia credenti che non credenti. Segno della chiesa di domani. Qui Bonhoeffer diventa bambino, rinasce in qualche modo di nuovo, con un nuovo sguardo sul mondo e su Dio: è un mondo senza Dio, ma amato da Dio. Nasce un nuovo linguaggio.
2.- alcune tensioni nel pensiero di Bonhoeffer
Il pensiero di Bonhoeffer esercita un grande fascino sia perché è incompiuto sia perché ricco di tensioni molto vive.
Innanzitutto la tensione tra il suo appartenere alla grande borghesia e la sua immersione nella condizione proletaria (vive per qualche tempo in un quartiere proletario), per la consapevolezza di quanto l’appartenenza ad una classe sociale influenzi il modo di intendere e di esprimere la fede religiosa.
Poi la tensione tra il rapporto intenso con il proprio passato, le radici, la famiglia e la vitalità e il coraggio di leggere e di vivere il presente.
Inoltre Bonhoeffer era un uomo molto pio, religioso, devoto (molta preghiera, lettura della bibbia due volte al giorno) ed insieme è stato il grande teologo della profanità, del ricercatore di un linguaggio non religioso per poter parlare all’uomo adulto.
È stato uno dei piò grandi teologi pacifisti, che dichiarava nel 1934: È giunto il tempo per noi di non vergognarci di chiamarci pacifisti, firmando così la sua condanna a morte, l’accusa di traditore della nazione. Non ha esitato, nello stesso tempo, a partecipare alla cospirazione politica per eliminare Hitler.
Bonhoeffer è stato un teologo luterano e insieme un pensatore ecumenico, elaborando un pensiero capace di superare i confini del cristianesimo e della religione.
Bonhoeffer infine è stato un teologo molto legato alla sua terra, al suo popolo, ma insieme ha sviluppato una forte coscienza internazionalista.
3.- eredità teologica di Bonhoeffer
Anzitutto il tema della debolezza e impotenza di Dio. Solitamente Dio e onnipotenza sono ritenuti sinonimi. Dio si identifica totalmente con la condizione umana e quindi con la sua debolezza. Dio inoltre si oppone al Dio forte dei nazisti. Il tema della debolezza di Dio è estremamente presente nelle riflessione teologica di oggi.
Altro aspetto centrale è la fedeltà alla terra. Il primo interesse per il cristianesimo deve essere non l’esperienza religiosa dell’uomo, ma quello della salvaguardia e promozione della vita umana, della giustizia. Famosa è la sua affermazione sul compito dei cristiani: pregare e operare tra gli uomini secondo giustizia. Solo passando attraverso il mondo, assumendone pene, sofferenze, contraddizioni, si può entrare in un giusto rapporto con Dio.
Occorre poi pensare il cristianesimo a partire dalla coscienza dell’uomo diventato adulto, prescindendo da una visione del mondo costruita a partire dall’ipotesi Dio. L’uomo contemporaneo organizza il mondo come se Dio non ci fosse. L’avvento di una coscienza secolare, nonostante gli attuali ritorni di Dio, si è verificata. Infatti per l’uomo contemporaneo, adulto, Dio non è piò un presupposto. Allora come parlare di Dio in termini non religiosi?
Inoltre l’uomo contemporaneo ha una visione unitaria della realtà (non piò questo mondo e un mondo altro).
Da ultimo Bonhoeffer ci invita a diventare umani per diventare cristiani. Gesò non ci chiama ad una nuova religione, ma alla vita. Nell’umanità di Gesò c’è il modello dell’uomo che vive il trascendente.
vivere Dio in un mondo secolarizzato

1.- vivere Dio nell’al di qua
La religione si caratterizza nel produrre uno sdoppiamento della realtà in due mondi, per favorire il distacco interiore da questo mondo passeggero oscuro caduco al mondo definitivo luminoso permanente.
Per Bonhoeffer l’Evangelo non propone un distacco da questo mondo, ma, secondo la linea dell’Incarnazione, l’immersione in questo mondo. L’Evangelo unifica la realtà: Dio nel mondo , non Dio e il mondo.
Anche per la coscienza secolarizzata il mondo è uno, ma senza Dio, dato Dio che appartiene all’aldilà. Il cristianesimo scopre Dio nell’al di qua. Su questa scoperta si incentra la ricerca di Bonhoeffer. La ricerca di Dio non può avvenire lontano dal mondo, evadendo dalle realtà storiche.
Per imparare a credere occorre evitare una duplice fuga: la fuga religiosa che si sottrae dal mondo e la fuga secolare che si libera da Dio per muoversi agevolmente nel mondo. Dio e mondo sono congiunti, sono riconciliati in Gesò Cristo.
Nel prendere le distanze da una concezione di un Dio separato dal mondo Bonhoeffer segnala tre forme inautentiche di conoscenza di Dio: la concezione del Dio come onnipotente (solo Dio nell’aldilà), del Dio tappabuchi, che colma i buchi della nostra ignoranza, del Dio scappatoia come risorsa estrema a cui ricorrere nei momenti critici della vita (morte, sofferenza e colpa). Dio non vuole essere accettato per disperazione.
Occorre vivere Dio interamente nell’aldiqua.
2.- vivere Dio nell’al di qua secondo Bonhoeffer
Innanzitutto per Bonhoeffer vivere Dio nell’al di qua vuol dire scoprire la polifonia della vita. Noi alberghiamo in noi stessi Dio e il mondo intero. Dio può essere paragonato al cantus firmus, al tema dominante della vita, rispetto al quale tutti gli altri temi musicali si muovono e si intrecciano, in autonomia e in segreto rapporto con il tema dominante. È la trascendenza dell’al di qua, che si manifesta nell’avvicinarsi all’altro. Trascendenza nell’al di qua è scoprire tutte le dimensioni della vita. La religione non è un settore, ma una dimensione della realtà.
Per un certo tempo l’essere cristiani dovrà consistere nel pregare e nel praticare la giustizia tra gli uomini. Questa concentrazione dovrà dar luogo alla nascita di un nuovo linguaggio.
Nessuna chiesa ha osato mettere in pratica questa indicazione di Bonhoeffer di una doppia ascesi, l’ascesi della parola, riservata alla preghiera, l’ascesi dell’azione, riservata esclusivamente alla pratica della giustizia in mezzo agli uomini.

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