Archive pour le 14 juillet, 2014

San Bonaventura

San Bonaventura dans immagini sacre
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Publié dans:immagini sacre |on 14 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI : SAN BONAVENTURA – 15 LUGLIO

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20100303_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 3 marzo 2010

SAN BONAVENTURA – 15 LUGLIO

(tre catechesi la seconda, link:

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20100310_it.html

la terza

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20100317_it.html

Cari fratelli e sorelle,

quest’oggi vorrei parlare di san Bonaventura da Bagnoregio. Vi confido che, nel proporvi questo argomento, avverto una certa nostalgia, perché ripenso alle ricerche che, da giovane studioso, ho condotto proprio su questo autore, a me particolarmente caro. La sua conoscenza ha inciso non poco nella mia formazione. Con molta gioia qualche mese fa mi sono recato in pellegrinaggio al suo luogo natio, Bagnoregio, una cittadina italiana, nel Lazio, che ne custodisce con venerazione la memoria.
Nato probabilmente nel 1217 e morto nel 1274, egli visse nel XIII secolo, un’epoca in cui la fede cristiana, penetrata profondamente nella cultura e nella società dell’Europa, ispirò imperiture opere nel campo della letteratura, delle arti visive, della filosofia e della teologia. Tra le grandi figure cristiane che contribuirono alla composizione di questa armonia tra fede e cultura si staglia appunto Bonaventura, uomo di azione e di contemplazione, di profonda pietà e di prudenza nel governo.
Si chiamava Giovanni da Fidanza. Un episodio che accadde quando era ancora ragazzo segnò profondamente la sua vita, come egli stesso racconta. Era stato colpito da una grave malattia e neppure suo padre, che era medico, sperava ormai di salvarlo dalla morte. Sua madre, allora, ricorse all’intercessione di san Francesco d’Assisi, da poco canonizzato. E Giovanni guarì.
La figura del Poverello di Assisi gli divenne ancora più familiare qualche anno dopo, quando si trovava a Parigi, dove si era recato per i suoi studi. Aveva ottenuto il diploma di Maestro d’Arti, che potremmo paragonare a quello di un prestigioso Liceo dei nostri tempi. A quel punto, come tanti giovani del passato e anche di oggi, Giovanni si pose una domanda cruciale: “Che cosa devo fare della mia vita?”. Affascinato dalla testimonianza di fervore e radicalità evangelica dei Frati Minori, che erano giunti a Parigi nel 1219, Giovanni bussò alle porte del Convento francescano di quella città, e chiese di essere accolto nella grande famiglia dei discepoli di san Francesco. Molti anni dopo, egli spiegò le ragioni della sua scelta: in san Francesco e nel movimento da lui iniziato ravvisava l’azione di Cristo. Scriveva così in una lettera indirizzata ad un altro frate: “Confesso davanti a Dio che la ragione che mi ha fatto amare di più la vita del beato Francesco è che essa assomiglia agli inizi e alla crescita della Chiesa. La Chiesa cominciò con semplici pescatori, e si arricchì in seguito di dottori molto illustri e sapienti; la religione del beato Francesco non è stata stabilita dalla prudenza degli uomini, ma da Cristo” (Epistula de tribus quaestionibus ad magistrum innominatum, in Opere di San Bonaventura. Introduzione generale, Roma 1990, p. 29).
Pertanto, intorno all’anno 1243 Giovanni vestì il saio francescano e assunse il nome di Bonaventura. Venne subito indirizzato agli studi, e frequentò la Facoltà di Teologia dell’Università di Parigi, seguendo un insieme di corsi molto impegnativi. Conseguì i vari titoli richiesti dalla carriera accademica, quelli di “baccelliere biblico” e di “baccelliere sentenziario”. Così Bonaventura studiò a fondo la Sacra Scrittura, le Sentenze di Pietro Lombardo, il manuale di teologia di quel tempo, e i più importanti autori di teologia e, a contatto con i maestri e gli studenti che affluivano a Parigi da tutta l’Europa, maturò una propria riflessione personale e una sensibilità spirituale di grande valore che, nel corso degli anni successivi, seppe trasfondere nelle sue opere e nei suoi sermoni, diventando così uno dei teologi più importanti della storia della Chiesa. È significativo ricordare il titolo della tesi che egli difese per essere abilitato all’insegnamento della teologia, la licentia ubique docendi, come si diceva allora. La sua dissertazione aveva come titolo Questioni sulla conoscenza di Cristo. Questo argomento mostra il ruolo centrale che Cristo ebbe sempre nella vita e nell’insegnamento di Bonaventura. Possiamo dire senz’altro che tutto il suo pensiero fu profondamente cristocentrico.
In quegli anni a Parigi, la città di adozione di Bonaventura, divampava una violenta polemica contro i Frati Minori di san Francesco d’Assisi e i Frati Predicatori di san Domenico di Guzman. Si contestava il loro diritto di insegnare nell’Università, e si metteva in dubbio persino l’autenticità della loro vita consacrata. Certamente, i cambiamenti introdotti dagli Ordini Mendicanti nel modo di intendere la vita religiosa, di cui ho parlato nelle catechesi precedenti, erano talmente innovativi che non tutti riuscivano a comprenderli. Si aggiungevano poi, come qualche volta accade anche tra persone sinceramente religiose, motivi di debolezza umana, come l’invidia e la gelosia. Bonaventura, anche se circondato dall’opposizione degli altri maestri universitari, aveva già iniziato a insegnare presso la cattedra di teologia dei Francescani e, per rispondere a chi contestava gli Ordini Mendicanti, compose uno scritto intitolato La perfezione evangelica. In questo scritto dimostra come gli Ordini Mendicanti, in specie i Frati Minori, praticando i voti di povertà, di castità e di obbedienza, seguivano i consigli del Vangelo stesso. Al di là di queste circostanze storiche, l’insegnamento fornito da Bonaventura in questa sua opera e nella sua vita rimane sempre attuale: la Chiesa è resa più luminosa e bella dalla fedeltà alla vocazione di quei suoi figli e di quelle sue figlie che non solo mettono in pratica i precetti evangelici ma, per la grazia di Dio, sono chiamati ad osservarne i consigli e testimoniano così, con il loro stile di vita povero, casto e obbediente, che il Vangelo è sorgente di gioia e di perfezione.
Il conflitto fu acquietato, almeno per un certo tempo, e, per intervento personale del Papa Alessandro IV, nel 1257, Bonaventura fu riconosciuto ufficialmente come dottore e maestro dell’Università parigina. Tuttavia egli dovette rinunciare a questo prestigioso incarico, perché in quello stesso anno il Capitolo generale dell’Ordine lo elesse Ministro generale.
Svolse questo incarico per diciassette anni con saggezza e dedizione, visitando le province, scrivendo ai fratelli, intervenendo talvolta con una certa severità per eliminare abusi. Quando Bonaventura iniziò questo servizio, l’Ordine dei Frati Minori si era sviluppato in modo prodigioso: erano più di 30.000 i Frati sparsi in tutto l’Occidente con presenze missionarie nell’Africa del Nord, in Medio Oriente, e anche a Pechino. Occorreva consolidare questa espansione e soprattutto conferirle, in piena fedeltà al carisma di Francesco, unità di azione e di spirito. Infatti, tra i seguaci del santo di Assisi si registravano diversi modi di interpretarne il messaggio ed esisteva realmente il rischio di una frattura interna. Per evitare questo pericolo, il Capitolo generale dell’Ordine a Narbona, nel 1260, accettò e ratificò un testo proposto da Bonaventura, in cui si raccoglievano e si unificavano le norme che regolavano la vita quotidiana dei Frati minori. Bonaventura intuiva, tuttavia, che le disposizioni legislative, per quanto ispirate a saggezza e moderazione, non erano sufficienti ad assicurare la comunione dello spirito e dei cuori. Bisognava condividere gli stessi ideali e le stesse motivazioni. Per questo motivo, Bonaventura volle presentare l’autentico carisma di Francesco, la sua vita ed il suo insegnamento. Raccolse, perciò, con grande zelo documenti riguardanti il Poverello e ascoltò con attenzione i ricordi di coloro che avevano conosciuto direttamente Francesco. Ne nacque una biografia, storicamente ben fondata, del santo di Assisi, intitolata Legenda Maior, redatta anche in forma più succinta, e chiamata perciò Legenda minor. La parola latina, a differenza di quella italiana, non indica un frutto della fantasia, ma, al contrario, “Legenda” significa un testo autorevole, “da leggersi” ufficialmente. Infatti, il Capitolo generale dei Frati Minori del 1263, riunitosi a Pisa, riconobbe nella biografia di san Bonaventura il ritratto più fedele del Fondatore e questa divenne, così, la biografia ufficiale del Santo.
Qual è l’immagine di san Francesco che emerge dal cuore e dalla penna del suo figlio devoto e successore, san Bonaventura? Il punto essenziale: Francesco è un alter Christus, un uomo che ha cercato appassionatamente Cristo. Nell’amore che spinge all’imitazione, egli si è conformato interamente a Lui. Bonaventura additava questo ideale vivo a tutti i seguaci di Francesco. Questo ideale, valido per ogni cristiano, ieri, oggi, sempre, è stato indicato come programma anche per la Chiesa del Terzo Millennio dal mio Predecessore, il Venerabile Giovanni Paolo II. Tale programma, egli scriveva nella Lettera Novo Millennio ineunte, si incentra “in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste” (n. 29).
Nel 1273 la vita di san Bonaventura conobbe un altro cambiamento. Il Papa Gregorio X lo volle consacrare Vescovo e nominare Cardinale. Gli chiese anche di preparare un importantissimo evento ecclesiale: il II Concilio Ecumenico di Lione, che aveva come scopo il ristabilimento della comunione tra la Chiesa Latina e quella Greca. Egli si dedicò a questo compito con diligenza, ma non riuscì a vedere la conclusione di quell’assise ecumenica, perché morì durante il suo svolgimento. Un anonimo notaio pontificio compose un elogio di Bonaventura, che ci offre un ritratto conclusivo di questo grande santo ed eccellente teologo: “Uomo buono, affabile, pio e misericordioso, colmo di virtù, amato da Dio e dagli uomini… Dio infatti gli aveva donato una tale grazia, che tutti coloro che lo vedevano erano pervasi da un amore che il cuore non poteva celare” (cfr J.G. Bougerol, Bonaventura, in A. Vauchez (a cura), Storia dei santi e della santità cristiana. Vol. VI. L’epoca del rinnovamento evangelico, Milano 1991, p. 91).
Raccogliamo l’eredità di questo santo Dottore della Chiesa, che ci ricorda il senso della nostra vita con le seguenti parole: “Sulla terra… possiamo contemplare l’immensità divina mediante il ragionamento e l’ammirazione; nella patria celeste, invece, mediante la visione, quando saremo fatti simili a Dio, e mediante l’estasi … entreremo nel gaudio di Dio” (La conoscenza di Cristo, q. 6, conclusione, in Opere di San Bonaventura. Opuscoli Teologici /1, Roma 1993, p. 187).

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FIUMI D’ACQUA VIVA SGORGHERANNO DAL SUO SENO

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FIUMI D’ACQUA VIVA SGORGHERANNO DAL SUO SENO

Se vi è in noi il desiderio di affidare allo Spirito Santo l’azione di rinnovare la nostra vita spirituale, non possiamo non approfondire, in verità, la conoscenza, della terza persona della Santissima Trinità. Rimanere nell’ignoranza riguardo alla Persona dello Spirito Santo, non soltanto ci limita in un vero e ortodosso cammino spirituale, ma ci impedisce, ancora di più, di vivere una fede viva, efficace ed evangelizzatrice:
non basta invocarlo, piuttosto dobbiamo permettergli di agire nella nostra vita, lasciarci guidare da Lui:

« Chi ha sete venga a me e beva, chi crede in me, (come dice la scrittura) fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno » (Gv 7,37).

Spesso si corre il rischio di spiritualizzare o distorcere a nostro uso e consumo l’azione dello Spirito Santo, come del resto avviene anche per la figura del Padre e di suo figlio, nostro Signore Gesù Cristo. Lo Spirito Santo è colui che spezza e corregge la visione di Dio nel nostro cuore e nella nostra mente. E’ lo Spirito Santo che rende continua e viva nella Chiesa la vita di Gesù e rende viva nel credente la coscienza che Gesù è il figlio di Dio ed è il Signore.
Lo Spirito Santo è quel collirio che ci dà la capacità di correggere e vedere con esattezza Dio: « Lo Spirito Santo vi guiderà alla verità tutta intera » (Gv 16,13).Non possiamo testimoniare che Gesù è veramente il Signore della nostra vita se non sotto l’azione dello Spirito come ci ricorda San Paolo nella lettera ai Corinzi al capitolo 12 versetto 3: « Fratelli nessuno può dire Gesù è il Signore se non sotto l’azione dello Spirito Santo ». A questo punto poniamoci alcune domande: « Riusciamo ad essere testimoni di Cristo nei vari ambiti dove siamo chiamati a svolgere i nostri servizi? Meglio ancora: i bambini, gli adolescenti, i giovani, le famiglie, le persone insomma alle quali siamo chiamati ad essere un punto di riferimento nelle varie realtà della nostra parrocchia, quando ci vedono, vedono in noi solo una persona oppure un testimone di Gesù, vedono soltanto se abbiamo i capelli neri, biondi, castani, come siamo vestiti, oppure vedono in noi delle persone talmente innamorate di Dio al punto da voler assomigliare in tutto al Figlio?
Traspare dalla nostra vita, dai nostri modi di fare, di parlare, di essere che non abbiamo scelto un’ideologia o aderito a delle nozioni, ma ad una persona: Gesù!
Osservandoci, sono colti dal desiderio e dalla nostalgia di conoscere il Signore e di innamorarsi di Lui?
Guardandoci nasce in loro il desiderio che nasceva nel cuore di coloro che incontravano i discepoli del Messia al punto che li supplicavano dicendo: « Vogliamo venire con voi! » Siamo innamorati pazzamente di Cristo? Siamo suoi testimoni credibili? Vi leggo un brano preso dalla « Esortazione apostolica di Sua Santità Paolo VI » al punto 41 dal titolo « La testimonianza della vita »: « … per la Chiesa, la testimonianza di una vita autenticamente cristiana, abbandonata in Dio… , è il primo mezzo di evangelizzazione. «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, – dicevamo lo scorso anno a un gruppo di laici – o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni» (67). È dunque mediante la sua condotta, mediante la sua vita, che la Chiesa evangelizzerà innanzitutto il mondo, vale a dire mediante la sua testimonianza vissuta di fedeltà al Signore Gesù, di povertà e di distacco, di libertà di fronte ai poteri di questo mondo, in una parola, di santità. »
Capiamo, quindi, quanto sia importante, specialmente in questi tempi, essere veri con noi stessi per essere veri con Dio, Lui sa già che non siamo perfetti, che non siamo infallibili, che non siamo senza peccato e che mai lo saremo su questa terra; ma sa anche cosa siamo in grado di fare: Dio ci conosce meglio di noi stessi e sa benissimo che può fidarsi di noi, credere in noi, contare su di noi.
Dio conta su di te e sa anche che non lo deluderai perché sei il suo « figlio prediletto »! Ognuno di noi è il suo « figlio prediletto »! La nostra testimonianza di vita nel servizio che svolgiamo non è quindi un optional, ma è l’essenza del nostro servire, è ciò che lo caratterizza completamente, è come diceva Paolo VI « … il primo mezzo di evangelizzazione ». A questo punto dobbiamo ricordarci che non possiamo testimoniare, dicevamo poco fa, che Gesù è veramente il Signore della nostra vita se non sotto l’azione dello Spirito e ricordavamo cosa dice San Paolo nella lettera ai Corinzi al capitolo 12 versetto 3: « Fratelli nessuno può dire Gesù è il Signore se non sotto l’azione dello Spirito Santo ».
A tutti è capitato di osservare qualche volta la scena di un’auto in panne con dentro l’autista e dietro una o due persone che spingono faticosamente, cercando inutilmente di imprimere all’auto la velocità necessaria per partire. Ci si ferma, si asciuga il sudore, e ci si rimette a spingere… Poi improvvisamente, un rumore, il motore si mette in moto, l’auto va, e quelli che spingevano si rialzano con un sospiro di sollievo. È un’immagine di ciò che avviene nella vita cristiana. Si va avanti a forza di spinte, con fatica, senza grandi progressi. E pensare che abbiamo a disposizione un motore potentissimo (« la potenza dall’alto »!) che aspetta solo di essere messo in moto.
La festa di Pentecoste dovrebbe aiutarci a scoprire questo motore e come si fa a metterlo in azione.
Il segreto per sperimentare quella che Giovanni XXIII chiamava « una nuova Pentecoste » si chiama preghiera. È lì che scocca la « scintilla » che accende il motore! Gesù ha promesso che il Padre celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono (Lc 11, 13). Chiedere, dunque!
La liturgia di Pentecoste ci offre espressioni magnifiche, con la centenaria sequenza, per farlo: « Vieni, Santo Spirito…Vieni, padre dei poveri, vieni datore dei doni, vieni luce dei cuori. Nella fatica riposo, nella calura riparo, nel pianto conforto. Vieni , Santo Spirito! »
Prima di scoprire chi è questo motore e come si fa a metterlo in azione, diventa importante chiedersi: chi sono io e quanto valgo? Ragioniamo ovviamente in termini spirituali e non carnali. C’è stato un evento straordinario nella nostra vita che ci definisce come niente e mai potrà farlo; qual è questo evento? Se ben pensaimo arriviamo alla conclusione inevitabile che questo evento irripetibile ed unico, potente ed umile c’è: è Il battesimo!
Cosa ho ricevuto nel battesimo? Cosa sono diventato grazie al battesimo? Che doni mi sono stati affidati nel battesimo? Abbiamo mai utilizzato i doni che il Signore ci ha messo nelle mani il giorno del battesimo? Viviamo da battezzati? Siamo pienamente consapevoli di ciò che abbiamo ricevuto nel nostro spirito, di ciò che siamo diventati e delle nostre immense potenzialità in quanto « figli di Dio »? Oppure dobbiamo parlare di un « sacramento legato », cioè di un sacramento nel quale il suo frutto rimane vincolato, non usufruito, per mancanza di certe condizioni che ne impediscono l’efficacia?
Questo succede perché i sacramenti non sono riti magici che agiscono meccanicamente, all’insaputa dell’uomo, o prescindendo da ogni collaborazione. La loro efficacia è frutto di una sinergia o collaborazione, tra l’onnipotenza divina (la grazia dello Spirito Santo) e la libertà umana, perché come dice S. Agostino: « Chi ti ha creato senza il tuo concorso, non ti salva senza la tua collaborazione ». Ancora meglio, il frutto del sacramento dipende tutto dalla grazia divina; solo che essa non agisce senza il consenso e l’apporto della creatura. Dio si comporta come lo sposo che non impone il suo amore per forza, ma che attende il « sì » libero della sposa.
Nel sacramento del battesimo vi sono due protagonisti: il primo è rappresentato da tutto ciò che è opera della grazia divina e dalla volontà del Cristo, il secondo è rappresentato dalla libertà dell’uomo, dalle sue disposizioni. Il primo protagonista opera sempre, è immancabile nel sacramento, mentre il secondo dipende dalla volontà e dall’apporto dell’uomo. La parte che Dio compie sempre riguarda: la remissione dei peccati, il dono delle virtù teologali (fede, speranza e carità) e il dono meraviglioso che fa all’uomo facendolo diventare figlio di Dio; tutto questo avviene grazie all’efficace azione dello Spirito Santo.
Vi racconto un’altra storia: all’inizio del secolo una famiglia del sud Italia emigra negli Stati Uniti.
Non avendo abbastanza denaro per pagarsi i pasti al ristorante, portano con sé il vitto per il viaggio: pane e formaggio. Col passare dei giorni e delle settimane il pane diventa raffermo e il formaggio ammuffito; il figlio a un certo punto non ne può più e non fa che piangere. I genitori tirano fuori allora i pochi spiccioli rimasti e glieli danno perché si goda un bel pasto al ristorante. Il figlio va, mangia e torna dai genitori tutto in lacrime. « Come, abbiamo speso tutto per pagarti un bel pranzo e tu ancora piangi? » « Piango perché ho scoperto che un pranzo al giorno al ristorante era compreso nel prezzo, e noi abbiamo mangiato tutto il tempo pane e formaggio! ».
Molti cristiani fanno la traversata della vita a « pane e formaggio », senza gioia, senza entusiasmo, quando potrebbero, spiritualmente parlando, godere ogni giorno di ogni « ben di Dio ».
Il battesimo è veramente quel sacramento che ci farebbe vivere ogni giorno con ogni « ben di Dio » a nostra completa disposizione, è quel « tutto compreso » del quale però non abbiamo ancora preso piena consapevolezza.
Il battesimo è davvero un ricchissimo pacco-dono che abbiamo ricevuto al momento della nostra nascita in Dio. Ma è un pacco-dono ancora sigillato: siamo ricchi perché lo possediamo, ma non sappiamo ancora di possederlo e cosa possediamo; parafrasando una parola di Giovanni, potremmo dire: « Noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che siamo non è stato ancora rivelato » (1Gv 3,2). Ecco perché diciamo che, nella maggioranza dei cristiani, il battesimo è un sacramento « legato »!
Questa è la parte del primo protagonista, è la parte di Dio. Ma in cosa consiste la parte del secondo protagonista, dell’uomo? Consiste nella fede! « Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo » (Mc 16,16): accanto al battesimo c’è dunque la fede dell’uomo. « A quanti però l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome » (Gv 1,12).
Il battesimo è una perla perché esso è il frutto del sangue di Cristo.
Ecco che si realizza quel brano del vangelo che abbiamo già ascoltato: « Chi ha sete venga a me e beva, chi crede in me, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno » (Gv 7,37).
Ci viene richiesta la Fede, quella con la « F » maiuscola!
Quella fatta di preghiera e opere, di abbandono e carità instancabile. Quella fatta di perdono ricevuto e di perdono donato. Nel nome e nella grazia di Cristo. Ecco il motivo per il quale siamo qui riuniti nel pomeriggio della solennità di Pentecoste, siamo qui per chiedere al Padre per mezzo di Gesù una « nuova e consapevole effusione » di Spirito Santo su ognuno di noi affinché possiamo far rivivere il nostro battesimo. Non un qualcosa in più ma, piuttosto, un dono che accenda tutto l’immenso tesoro a noi già donato.
E’ giusto spiegare questa « nuova effusione » in riferimento al battesimo, è altrettanto vero che essa fa rivivere anche la prima comunione, la cresima, l’ordinazione sacerdotale o episcopale, la professione religiosa, il matrimonio. In sintesi tutte le grazie e i carismi ricevuti nella nostra vita vengono rivitalizzati e rinnovati. Se vogliamo usare un’immagine, permettiamo allo Spirito Santo di levarvi la polvere che vi si è posata sopra e che non permetteva a queste grazie, a questi doni, a questi sacramenti di splendere in tutta la loro bellezza e lucentezza. E’ davvero la grazia di una nuova Pentecoste.
La definizione che più si avvicina alla realtà è che l’effusione è un evento spirituale. Un evento nel senso che qualcosa avviene, che lascia il segno, che crea una novità in una vita; ma un evento spirituale: spirituale perché avviene nello spirito, cioè nell’interiorità dell’uomo e gli altri possono benissimo non accorgersi di nulla; spirituale, soprattutto perché esso è opera dello Spirito Santo.
Ma una cosa è certa: questa sera scenderà ancora una volta su ognuno di noi, come nel giorno di Pentecoste di duemila anni fa quando Maria e gli apostoli erano riuniti nel cenacolo in preghiera, come lo siamo noi adesso. E come loro, anche noi usciremo da questa Chiesa diversi, da come ne siamo entrati, sicuramente rinnovati interiormente grazie a quello Spirito Santo che abita in noi dal giorno del nostro battesimo e che fa di noi « tempio santo dello Spirito di Dio »!
Lasciamoci fare da Dio; poniamo in Lui e nel Suo agire ogni fiducia.
Vorrei concludere questo intervento con un bel testo dell’apostolo Paolo, del quale stiamo celebrando il giubileo, che parla proprio della riviviscenza, cioè del far rivivere il dono di Dio. Ascoltiamolo come un invito rivolto a ciascuno di noi: « Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno Spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza » (2 Tm 1,6-7).

Amen!
Alleluja!

A. Ridolfi

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