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San Benedetto da Norcia, affresco di Subiaco

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UN PAESE DEVASTATO DAI BARBARI (Tratto da “San Benedetto- Uomo di Dio” di A. de Vogüé)

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UN PAESE DEVASTATO DAI BARBARI

Tratto da “San Benedetto- Uomo di Dio” di A. de Vogüé O.S.B. – Ed. San Paolo

La fine di un impero
Dall’anno 410, quando Roma era stata conquistata per la prima volta dai Visigoti, l’impero romano d’Occidente sopravviveva miseramente. Avendo per capitale Ravenna, città costiera circondata da paludi e difficile da espugnare, resisteva bene o male alle invasioni dei barbari che occupavano gran parte dei suoi territori. Alla fine, qualche anno prima della nascita di Benedetto, aveva cessato di esistere. Nel 476 il giovane Romolo Augustolo, ultimo imperatore in carica, cedette il posto a un soldato germanico, Odoacre, proclamato re dalla truppa. Da molto tempo Germani appartenenti a diverse popolazioni esercitavano nello Stato, e soprattutto nell’esercito, alte funzioni. Ormai lo stesso potere supremo sarebbe stato nelle mani di uno di questi stranieri.
L’arrivo dei Goti
Capo degli Eruli, Odoacre fu soppiantato, meno di vent’anni dopo, da un Goto. Questi, il re Teodorico, arrivò in Italia con il suo popolo nel 488, riportò vittoria su vittoria e finì per impadronirsi di Ravenna dopo un lungo assedio. La nuova dominazione barbara sarebbe durata più di una generazione. Dopo aver regnato a Ravenna per trentatré anni (493-526), Teodorico ebbe per successori suo nipote Atalarico (526-534) e poi il figlio di sua sorella Teodato (534-536). t solo sotto quest’ultimo che cominciò, nel 535, la riconquista dell’Italia da parte dell’impero romano d’Oriente.
Una piccola età dell’oro?
Il regno di Teodorico, che corrisponde alla giovinezza di san Benedetto, non fu per l’Italia un tempo di sciagura, tutt’altro. Analfabeta, si dice, incapace di firmare i suoi decreti, il re aveva nondimeno ricevuto una certa istruzione, perché gli Ostrogoti erano al servizio dell’imperatore d’Oriente ed era stato egli stesso allevato a Costantinopoli. Ammirando la civiltà romana, era solito dire: « Un cattivo Romano imita i Goti, un buon Goto imita i Romani ». Si circondò dunque di ministri e di consiglieri latini, mantenne le tradizioni amministrative di Roma e lasciò che gli Italiani si governassero da soli, mentre gli Ostrogoti, sottomessi alle proprie leggi, coesistevano pacificamente con quelli senza immischiarsi nei loro affari.
Sotto questo principe insieme energico e liberale, l’Italia prosperò. All’esterno gli Ostrogoti estesero il loro dominio annettendo a ovest la Provenza e spingendosi a est verso il Danubio. All’interno regnavano l’ordine e la sicurezza. Non si chiudevano neanche più le porte delle città. La notte ognuno poteva andare e venire tranquillamente come di giorno. La vita non era cara: « Sessanta staia di grano per un pezzo d’oro, trenta anfore di vino per un solo pezzo d’oro! », esclama un cronista meravigliato. Notevoli opere d’arte, come i battisteri e certi mosaici di Ravenna, testimoniano ancora questa prosperità.
Un regno che finisce nel sangue
Alla fine di questo grande regno, sfortunatamente, le cose si guastarono. Invecchiando, Teodorico divenne duro e sospettoso. Tumulti causati dall’opposizione tra giudei e cristiani, tanto a Roma che a Ravenna, furono repressi con severità. Soprattutto, il re si lasciò persuadere da alcuni invidiosi che molti Romani eminenti complottavano contro di lui con l’imperatore d’Oriente. Uno dei ministri, il patrizio Boezio, fu arrestato, torturato e messo a morte malgrado la sua innocenza affermata in modo commovente negli scritti dalla prigione. Il nobile Simmaco, suocero di Boezio, fu a sua volta giustiziato. Un’altra vittima illustre fu il papa Giovanni I. Obbligato da Teodorico a recarsi a Costantinopoli per chiedere all’imperatore, contro i suoi stessi sentimenti, di revocare delle decisioni sfavorevoli all’eresia ariana, ritornò senza aver ottenuto quello che chiedeva e fu accolto così male a Ravenna che morì qualche giorno più tardi.
Lo stesso Teodorico doveva morire poco dopo. Le violenze dei suoi ultimi tre anni avevano in parte cancellato il ricordo delle cose buone che aveva operato. Si vedeva nella sua morte un castigo del cielo, meritato per aver decretato ultimamente la confisca di chiese cattoliche a vantaggio degli ariani. Secondo altri, sarebbe stato atterrito, al momento del suo ultimo pasto, dalla vista di una testa di pesce che gli ricordò improvvisamente quella di Simmaco. Alla fine del secolo, i Dialoghi di san Gregorio riferirono la visione di un santo eremita, secondo la quale il re defunto, condotto dal patrizio Simmaco e dal papa Giovanni fu gettato nel cratere dello Stromboli.
L’Europa divisa
Questi fatti e queste leggende lasciano intravedere la duplice tensione di cui soffriva l’Italia di quei tempi. Alla contrapposizione delle razze si aggiungeva quella delle religioni. Infatti il cattolicesimo dei Romani non era condiviso dai barbari, la cui conversione al cristianesimo, molte generazioni prima, era avvenuta ad opera di missionari ariani. Così l’eresia di Ario, che negava che il Figlio fosse della stessa natura del Padre, era sopravvissuta alle condanne dei grandi concili di Nicea (325) e di Costantinopoli (381). Per di più era diventata, nella maggior parte dei paesi d’Occidente, la religione degli occupanti e dei loro sovrani, padroni del potere. Terribili persecuzioni avevano imperversato nell’Africa del Nord, conquistata dai Vandali, e gravi difficoltà pesavano ancora sulla Chiesa di Spagna, sottomessa ai Visigoti. L’Italia, nel VI secolo, ebbe la sua parte di queste prove, sia a causa degli Ostrogoti contemporanei di Benedetto sia dei Longobardi, che dettero tanta preoccupazione a Gregorio.
La fortuna della Francia
In quest’Occidente politicamente e religiosamente lacerato, la Gallia – si può già dire la Francia – rappresenta una fortunata eccezione, una speranza. Molto più tardiva di quella degli altri barbari, la conversione dei Franchi e del loro re Clodoveo li aveva portati non all’arianesimo ma alla Chiesa cattolica. Pur restando sotto troppi aspetti vicino al paganesimo, questo popolo non si contrapponeva più, sul piano religioso, alla popolazione romanizzata del Paese che occupava. Quando la dinastia merovingia si fu annessa l’antico regno ariano dei Burgundi, le regioni del sudovest occupate dai Visigoti di Spagna, e la Provenza che apparteneva agli Ostrogoti d’Italia, si vide realizzare, sin da prima della metà del VI secolo, l’unità materiale e morale della Francia, tenuto conto del suo frazionamento in molti Stati in equilibrio instabile, come l’Austrasia e la Neustria.
Un’Italia lacerata
Meno fortunato, il regno goto d’Italia soffriva una profonda divisione che gli impedì di unificarsi. Se, malgrado l’intelligenza e l’apertura di Teodorico, la fusione dei Romani e dei Germani non si operò, è in buona parte perché i due popoli non condividevano la stessa fede. L’interminabile guerra con Bisanzio che doveva mettere fine alla dominazione ostrogota (535-553) rovinò subito la fragile unità del regno, dove l’aggressore bizantino trovava connivenze spontanee presso i Romani cattolici, eredi dello stesso passato e adepti della stessa religione.
Fin lì tolleranti, i Goti ariani risentirono la sorda minaccia che era per loro il cattolicesimo degli Italiani e la loro reazione fu a volte violenta. Benedetto vide passare a Montecassino un guerriero barbaro di nome Zalla, che brutalizzava i contadini, ma malmenava con particolare ferocia i consacrati della Chiesa cattolica: « Chiunque gli capitava tra le mani, chierico o monaco che fosse », scrive Gregorio, « lo spediva senza complimenti al Creatore ».
Facili inizi di una guerra atroce
La guerra tra Goti e Bizantini, che gli Italiani avrebbero potuto vivere come una felice liberazione, costituì al contrario una catastrofe che causò più sofferenze e rovine di due secoli d’invasioni. Eppure era cominciata bene. I primi cinque anni (535-540) furono costellati di vittorie per i « Romani » (Greci) di Bisanzio che riportarono un trionfo quasi completo. Arrivando dall’Africa del Nord che aveva appena riconquistata, il generale Belisario occupò la Sicilia senza colpo ferire e attraversò l’Italia del Sud fino a Napoli, ì cui abitanti, malgrado la guarnigione di Goti, gli aprirono le porte. Presto, con la stessa facilità, Belisario s’impossessò di Roma, mentre i Goti, appena rimessisi dalla sorpresa che aveva loro causato l’invasione, rifluivano verso Ravenna. Questo primo successo fu tanto più notevole in quanto l’esercito bizantino era numericamente insignificante in rapporto all’avversario: i cinquemila uomini comandati da Belisario avevano di fronte delle forze dieci volte più numerose.
Tuttavia l’audacia del capo romano rischiò di costargli cara. Una mobilitazione generale dei Goti, agli ordini del re Vitige, portò davanti a Roma un’orda enorme che assediò la città custodita dal piccolo esercito bizantino. Ma quell’assedio, che durò un anno intero (marzo 537-538), fu un nuovo scacco per i barbari, incapaci di espugnare la città d’assalto o anche di bloccarla completamente. L’arrivo di rinforzi mandati da Costantinopoli, insieme alla penuria in cui si trovavano gli assedianti a causa della loro cattiva organizzazione, persuase Vitige a chiedere una tregua e a battere in ritirata.
Belisario proseguì dunque la sua campagna. Due anni dopo essa finì con la presa di Ravenna, dove Vitige capitolò con il suo esercito (540). La sorte dell’Italia sembrava allora segnata: senza dubbio sarebbe passata tutta sotto il controllo dell’imperatore Giustiniano, che da Costantinopoli dirigeva questa riconquista dei territori romani d’Occidente occupati dai barbari. Contro ogni aspettativa, tuttavia, la situazione si capovolse, la guerra riprese e fu solo alla fine di dodici terribili anni che terminò (541-553).
L’intervento di Totila
La causa di questa disgrazia fu duplice. Da una parte Belisario era stato richiamato a Costantinopoli, dall’altra i Goti trovarono un capo idoneo che li portò molto vicino alla vittoria. Mentre Belisario era accolto trionfalmente nella capitale imperiale, i capi bizantini che restarono in Italia pensavano più ai loro interessi personali che a quello dell’impero e non andavano d’accordo. Avidi di arricchirsi a spese del Paese conquistato, indisposero la popolazione romana che contemporaneamente cominciava a essere spremuta dal fisco bizantino. La disaffezione che ne seguì fu messa a profitto dai Goti, alcuni contingenti dei quali, a nord del Po, erano restati sotto le armi. Rialzarono la testa, tentarono alcuni colpi di mano che riuscirono e presto, dopo due tentativi sfortunati, scelsero per re un guerriero di grande valore, Totila, che avrebbe risanato i loro affari.
Molto velocemente, infatti, questo grande capitano, passando all’offensiva da ogni parte, s’assicurò il dominio delle operazioni, mentre i mediocri generali di Bisanzio, incapaci di mettersi d’accordo, si rinchiusero ognuno per proprio conto in qualche piazzaforte. Assediate ed espugnate una dopo l’altra, queste città avrebbero finito per ridursi a Ravenna e a qualche porto da una parte e dall’altra di questa, malgrado i molteplici invii di rinforzi bizantini che riuscirono solo a ritardare il disastro.
Carestie, massacri, deportazioni
Gli orrori di questa guerra prolungata ci sono noti attraverso lo storico greco Procopio, un ufficiale che assisteva Belisario e che ha lasciato una narrazione dettagliata delle operazioni. Ci furono carestie spaventose, non solo nelle città assediate, ma addirittura in intere regioni, devastate dai combattenti. La popolazione delle campagne vi morì a decine di migliaia, sia a causa della carestia stessa che delle epidemie che aveva originato. Troveremo tracce di questa miseria nella vita di Benedetto.
Un’altra causa di mortalità per la popolazione civile furono le rappresaglie cui si abbandonarono i Goti sotto Totila in certe città riconquistate. A Milano, tutti gli uomini a partire dai quindici anni – e non ce n’erano meno di trecentomila secondo Procopio – furono passati a fil di spada, mentre le donne erano date come schiave ai Burgundi, alleati dei Goti A Tivoli, non lontano da Subiaco dove Benedetto aveva cominciato la sua vita monastica, gli abitanti furono tutti uccisi senza distinzione e in modo talmente orribile che Procopio rifiutò di raccontarlo per non lasciare alla posterità il ricordo di simili crimini.
Roma non conobbe tali massacri, ma soffrì anch’essa crudelmente. Cambiò mano cinque volte. Una di queste vicissitudini fu particolarmente drammatica: Totila abbatté una parte delle mura e voleva distruggere tutta la città, come avevano fatto i Goti a Milano. Lasciatosi commuovere, s’accontentò di deportare la popolazione, così che la città restò completamente vuota per parecchie settimane.
Una lotta senza ideale
Uno degli aspetti più desolanti di questa lotta è l’assenza di livello morale nei due campi, in particolare dal lato romano. L’esercito bizantino è composto di mercenari, per la maggior parte di origine barbara, che non sono animati da alcun patriottismo. Spesso malpagati dall’amministrazione, si risarciscono con i propri mezzi, o offrono perfino i loro servizi al nemico. Defezioni e tradimenti non sono rari.
Da parte loro, i Goti non fanno che difendere un Paese occupato di recente, dove non hanno radici. Abbiamo appena descritto le loro crudeltà. Per essere re giusti, tuttavia, bisogna prendere atto di una reale preoccupazione di umanità in Totila, di cui diede prova in particolare alla presa di Napoli. Troppo spesso brutale, questo barbaro aveva tuttavia il senso della giustizia e un certo « timor di Dio », come dice san Benedetto. Anche moralmente oltre che militarmente, i capi bizantini erano lungi dal valerlo. Il solo Belisario, nel campo romano, appare essere una grande figura d’uomo onesto quanto di condottiero di uomini.
Una religione senza Cristo
Romani o Goti, cattolici o ariani, questi soldati che si uccidono a vicenda sono quasi tutti cristiani. Senza pretendere di giudicarne il cristianesimo, che conosciamo male, si può almeno interrogare in proposito l’unico testimone che ci parla di loro: lo storico Procopio. Secondo questo autore, nei due eserciti esiste un certo sentimento religioso, ma Cristo e il suo vangelo sono assenti. Il Dio di cui Procopio parla – raramente – è l’arbitro della lotta. Punisce l’ingiustizia con la sconfitta. Il comprensibile interesse dei combattenti consiste dunque nel non irritarlo con violazioni troppo flagranti dei diritto.
Questo Dio degli eserciti è pregato? Di atti religiosi non si parla quasi mai. In compenso, Procopio parla molte volte di presagi, buoni o cattivi, che sono ansiosamente raccolti prima delle battaglie. Sotto la penna del nostro storico, la parola « destino » ricorre spesso, più sovente dello stesso nome di Dio. Questo destino è una fatalità irresistibile, contro la quale gli uomini si dimenano invano. Le sorti della lotta, che così frequentemente finisce con un risultato opposto a quello previsto, si spiegano con questa potenza invisibile, ma non cieca, che conduce il gioco e che si identifica con il volere divino.
Benedetto non sarà un Severino
Questa credenza riguardo al destino è quella del vecchio paganesimo greco-latino, appena influenzato dalla Bibbia. Una religione di combattenti, che si giocano la vita a ogni battaglia. Quanto al messaggi cristiano, invano se ne cercano le tracce. In qualche occasione un uomo di Chiesa, vescovo o diacono, si segnala per un’azione diplomatica o un intervento umanitario. Ma i monaci, allora così numerosi, non appaiono una sola volta. Tra i soldati dei sovrani di quaggiù e quelli di « Cristo Signore, vero Re », come lo chiama Benedetto, sembra stendersi un abisso. Come la Regola benedettina non fa la minima allusione alla politica e agli eventi, neanche le Guerre gotiche di Procopio proferiscono parola sui monasteri e sui loro santi. I due mondi s’ignorano a vicenda.
Per farli comunicare ci sarebbe voluto un profeta come il monaco Severino, che nel secolo precedente aveva segnato profondamente le relazioni tra Romani e barbari in quella regione tra le più agitate che era allora il Norico (l’attuale Austria). Innamorato della solitudine, dell’austerità, della preghiera, questo santo aveva tuttavia brillato sulla sfortunata popolazione romana, che difendeva spiritualmente e materialmente, come pure sugli invasori, ai quali imponeva rispetto. Questo fondatore di una comunità monastica, le cui ossa dopo la morte furono trasferite a Napoli, aveva straordinariamente consolato il popolo cristiano e addolcito per lui i tormenti dell’invasione.
Monaco e fondatore di monasteri come Severino, Benedetto avrebbe potuto esercitare un ruolo analogo nella vita pubblica dell’Italia contemporanea. Non fu affatto così. Malgrado alcuni incontri con i Goti – libererà un contadino maltrattato da Zalla, addolcirà la crudeltà di Totila – la sua vita trascorrerà fuori del tempo politico, lontano dalla storia. Complicata in modo diverso da quella del Norico, la situazione dell’Italia forse non si prestava a un’azione profetica come quella di Severino. E poi il carisma di Benedetto non era quello del profeta che annuncia giorno per giorno il disegno divino, ma dell’educatore che prepara l’avvenire. E’ vivendo e scrivendo la sua Regola che quest’uomo di Dio lavorerà per i suoi fratelli del futuro, sia barbari che romani, non solo sul posto, ma addirittura ben oltre le frontiere dell’Italia in rovina.
La fine della guerra
Verso il 550, questo Paese spossato da quindici anni di guerra sembrava perduto per i Bizantini. All’infuori di alcune piazzeforti che essi conservavano sulla costa, tutta l’Italia era nelle mani di Totila e dei suoi alleati franchi. Di nuovo, tuttavia, la fortuna cambiò campo. Deciso infine a pagarne il costo, l’imperatore Giustiniano preparava la riconquista definitiva. Questa fu opera di un grande esercito comandato dall’armeno Narsete. Al largo di Ancona, la flotta dei Goti fu prima annientata da quella di Bisanzio (551). Poi il loro esercito subì la stessa sorte nella battaglia di Tagina, dove Totila fu ucciso (552). Quando gli ultimi contingenti barbari, rifugiati a Cuma, capitolarono e un’invasione di Franchi fu respinta, (553), tutta la penisola fece ritorno all’impero romano dal quale era staccata, di fatto se non di diritto da tre quarti di secolo.
Questa conclusione della lotta era meno felice d quanto non sembrasse. In realtà, i « Romani » che riprendevano il potere non erano quelli di Roma ma di Costantinopoli. Per gli Italiani, quei Greci non erano meno stranieri dei Goti della vigilia. La loro fiscalità oppressiva avrebbe pesato sul Paese devastato. Perfino sul piano religioso, l’orizzonte non era senza nuvole. Se l’arianesimo era scomparso con i Goti, con gli Orientali si ponevano altri problemi dogmatici. Male accettati dalle diocesi dell’Italia del Nord i decreti del concilio di Costantinopoli (553) concernenti la fede in Cristo causarono uno scisma che si protrasse per molte generazioni.
Una bella epoca
Non bisogna comunque essere troppo tetri. L’impero in seno al quale l’Italia rientrava non mancava di risorse materiali e culturali. Per molti riguardi il lungo regno di Giustiniano (527-565) fu un grande regno. Un edificio come la basilica di Santa Sofia d Costantinopoli, ammirata ancora al giorno d’oggi, testimonia questa grandezza. Su scala ridotta, San Vitale di Ravenna e i suoi mirabili mosaici lasciano in travedere ciò che l’Italia di allora ha ricevuto dai suoi maestri orientali.
In un altro campo, dove l’imperatore fu impegnato personalmente, si vide portare a termine una grande opera. Autore di numerose leggi civili e religiose, Giustiniano riunì in un « Codice » l’essenziale della legislazione precedente. Un po’ prima, e nella stessa Roma, il monaco Dionigi il Piccolo aveva fatto un lavoro analogo per le decisioni dei concili. Questi paralleli, civile ed ecclesiastico, aiutano a capire l’opera di san Benedetto che forse ne è stato ispirato. Anche lui condenserà in una sorta di codice le cose migliori della tradizione monastica.
Una nuova catastrofe: l’invasione longobarda
Giustiniano era appena morto che una terribile prova s’abbatte sull’Italia. Nel 567, dei barbari germanici, i Longobardi, penetrarono nella penisola dove continuarono ad avanzare fino alla fine del secolo e oltre. Opposti all’esercito imperiale, che difendeva palmo a palmo il suolo italiano, procedevano lentamente, causando devastazioni ancora più gravi di quelle della guerra dei Goti. Aggiungendo i suoi violenti effetti alla lenta decadenza che minava da tempo le città d’Italia, l’invasione longobarda assestò il colpo di grazia a un buon numero di vescovadi, che scomparvero.
Benché questa nuova catastrofe sia avvenuta dopo la morte di Benedetto, interessa la storia del nostro santo per due motivi. Prima di tutto, perché provocò la rovina del monastero che Benedetto aveva fondato e dove riposava il suo corpo: Montecassino. Con perspicacia profetica, un giorno Benedetto aveva presentito il dramma e pianto sulla distruzione della sua opera.
L’assedio di Roma
L’altra ragione per parlare qui dei Longobardi è che il biografo di Benedetto, san Gregorio, scrisse i suoi Dialoghi in una città assediata da questi barbari. Era la fine del 593, cioè l’inizio dell’anno amministrativo che cominciava, come i nostri anni scolastici di oggi, nel mese di settembre. Partendo da Pavia, la sua capitale, il re Agilulfo aveva marciato su Roma e stringeva la città da vicino. Dall’alto dei bastioni si assisteva a scene desolanti: i Romani dei dintorni erano massacrati o presi prigionieri. Angosciato, il vescovo doveva badare direttamente alla protezione delle sue pecorelle, assicurata bene o male dalla guarnigione bizantina.
Tuttavia l’assedio non portava solo queste dolorose preoccupazioni. Intercettando i corrieri, bloccava una delle principali occupazioni del vescovo di Roma: rispondere alle svariate richieste che, allora come oggi, affluivano da tutte le parti del mondo cristiano verso il successore di Pietro. Nel grande Registro dove i segretari del papa classificavano la sua corrispondenza mese per mese, si trova un buco significativo a gennaio, febbraio e marzo 594: per tutto quel primo trimestre, neanche una sola lettera!
Gregorio Magno e i suoi « Dialoghi »
Reso più libero da questa relativa inoperosità, Gregorio portò avanti l’impresa a cui pensava da molti mesi: raccontare i miracoli avvenuti in Italia da alcune generazioni. I sacerdoti del suo ambiente, in particolare il diacono Pietro, lo spingevano a mettere per iscritto quei fatti edificanti che fino ad allora erano conosciuti soltanto attraverso dei « sì dice ». Tali narrazioni, che avrebbero preso la forma di « dialoghi » con Pietro, avrebbero fatto del bene a tutti, autore e lettori. Avrebbero dimostrato come il Signore, lungi dall’abbandonare il suo popolo angosciato, aveva moltiplicato i suoi interventi miracolosi a favore dei santi. Niente poteva confortare maggiormente una popolazione sfortunata che sentire la presenza e la potenza del Dio vivente, visibilmente attento e propizio verso i suoi, come era stato ai giorni di Mosé e di Giosuè, dei giudici e dei profeti, di Cristo e degli Apostoli.
Allo stesso tempo, Gregorio era convinto che il racconto di questi miracoli sarebbe stato benefico per le anime, perché essi avrebbero attirato l’attenzione sui santi che ne erano stati gli strumenti o l’occasione. Predicare la parola di Dio non basta. Bisogna fornire esempi viventi, e questi fanno tanto più impressione quanto più sono ravvicinati nello spazio e nel tempo. Rivelare al pubblico i santi italiani di ieri, spesso appena conosciuti fuori della loro cerchia immediata, sarebbe servito a suscitare imitatori, a incoraggiare la preghiera e lo sforzo, a dare nuovo impulso alla vita cristiana.
San Benedetto tra i suoi simili
Però la maggior parte degli uomini di Dio che stavano per essere messi in scena avevano operato solo un piccolo numero di miracoli, spesso perfino uno soltanto. Gregorio, che conosceva una cinquantina di questi personaggi, riunì le loro storie nei Libri I e III dei Dialoghi. Tra questi due gruppi di figure minori, riservò tutto un Libro, il secondo, a un santo che aveva ai suoi occhi un prestigio senza pari e sul quale disponeva di un’abbondante documentazione: Benedetto, nato a Norcia, monaco a Subiaco, abate di Montecassino, morto una quarantina di anni prima.
Non si diventa santo per essere canonizzato, ma per piacere a Dio. Tuttavia la fortuna di Benedetto, se così si può dire, fu di essere scelto come eroe di una biografia completa dal miglior scrittore del suo secolo e uno dei più grandi papi che abbia mai avuto la Chiesa (è a lui che si deve in particolare la conversione dell’Inghilterra). Immaginiamo che Giovanni Paolo Il, tra due viaggi, trovi il tempo di scrivere la vita di un santo, per esempio di quel Massimiliano Kolbe che fu suo compatriota e morì cinquant’anni fa. Supponiamo che il nostro papa ci metta del talento e riesca a dare di quel religioso martire un’immagine insieme storicamente vera e spiritualmente vibrante, nella quale il popolo cristiano di oggi riconosca il suo ideale, riviva il suo dramma collettivo, senta passare la grazia di Dio. Tale fu la « fortuna » di san Benedetto.
La documentazione dei «Dialoghi»
Unica fonte che ci faccia conoscere la vita di Benedetto, il secondo libro dei Dialoghi poggia su un’affermazione seria: la testimonianza di quattro abati, che Gregorio cita all’inizio dell’opera. Due di loro, Costantino e Simplicio, furono i successori di Benedetto a Montecassino. Un altro, Valentiniano, un tempo monaco dello stesso monastero, era stato a lungo superiore di una comunità romana costituita vicino al Laterano, residenza dei papi. Quanto all’ultimo, Onorato, era ancora vivo e dirigeva i monaci di Subiaco.
Come leggere la « Vita » di Benedetto
Completato da altri due testimoni, questo gruppo d’informatori ha fornito abbondante materia che il narratore ha ordinato a modo suo e costellato di riflessioni spirituali spesso mirabili. Ma per leggere con profitto questa Vita, non bisogna cercarvi quello che i nostri gusti di persone moderne ci fanno istintivamente desiderare: un ritratto individuale che mostri una personalità originale e un destino particolare. Ciò che interessa Gregorio e i suoi contemporanei non è questa fisionomia singolare dell’uomo Benedetto, ma al contrario i tratti comuni che fanno di lui un santo ordinario, per così dire, un santo di modello corrente, in tutto simile ai grandi uomini di Dio della Bibbia.
Di questa figura dall’aspetto biblico, uno dei tratti più evidenziati è il dono dei miracoli. E’ un problema per noi, uomini del XX secolo, abituati dalla scienza moderna a escludere ogni infrazione alle « leggi » della natura. Eppure è nella linea della Scrittura e dei vangeli che i nostri padri nella fede credevano volentieri a questi fatti straordinari, nei quali si manifesta la potenza invisibile di Dio. Come l’insieme dei Dialoghi, la Vita di Benedetto racconta a ogni pagina qualche miracolo, ed è percorrendo questa collezione di prodigi che si scopre l’itinerario spirituale del santo.
Per un ecumenismo storico
Leggere la Vita di Benedetto, come stiamo per fare re, non è dunque far conoscenza solo con un personaggio eminente, modello di santità per tutti i tempi, ma anche con un’epoca passata della storia della Chiesa, un periodo del cristianesimo che non è quello presente. Il nostro arricchimento può essere grande, se ascoltiamo con rispetto e simpatia questa voce del passato che a volte ci sconcerta, ma che è tuttavia, lo sappiamo, quella di Cristo e del suo Spirito che parlano attraverso un’umanità scomparsa.
La rivelazione divina è immensa. Dispiegata attraverso verso il tempo, è afferrata da ogni generazione in modo originale, con rilievi e vuoti, accenti e sordine che variano da un secolo all’altro. Come l’ecumenismo di oggi ci rende attenti ai valori autenticamente cristiani che coltivano i nostri fratelli separati, allo stesso modo affronteremo questa Vita di san Benedetto, così lontana da noi nel tempo, in uno spirito d’ecumenismo storico, per scoprirvi, per la nostra edificazione di cristiani moderni, quella specie di fratelli separati che sono per noi i Padri.

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SAN BENEDETTO DA NORCIA ABATE, PATRONO D’EUROPA – 11 LUGLIO (E 21 MARZO)

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SAN BENEDETTO DA NORCIA ABATE, PATRONO D’EUROPA

11 LUGLIO (E 21 MARZO)

NORCIA (PERUGIA), CA. 480 – MONTECASSINO (FROSINONE), 21 MARZO 543/560

È il patriarca del monachesimo occidentale. Dopo un periodo di solitudine presso il sacro Speco di Subiaco, passò alla forma cenobitica prima a Subiaco, poi a Montecassino. La sua Regola, che riassume la tradizione monastica orientale adattandola con saggezza e discrezione al mondo latino, apre una via nuova alla civiltà europea dopo il declino di quella romana. In questa scuola di servizio del Signore hanno un ruolo determinante la lettura meditata della parola di Dio e la lode liturgica, alternata con i ritmi del lavoro in un clima intenso di carità fraterna e di servizio reciproco. Nel solco di San Benedetto sorsero nel continente europeo e nelle isole centri di preghiera, di cultura, di promozione umana, di ospitalità per i poveri e i pellegrini. Due secoli dopo la sua morte, saranno più di mille i monasteri guidati dalla sua Regola. Paolo VI lo proclamò patrono d’Europa (24 ottobre 1964). (Avvenire)

Patronato: Europa, Monaci, Speleologi, Architetti, Ingegneri
Etimologia: Benedetto = che augura il bene, dal latino
Emblema: Bastone pastorale, Coppa, Corvo imperiale

Martirologio Romano: Memoria di san Benedetto, abate, che, nato a Norcia in Umbria ed educato a Roma, iniziò a condurre vita eremitica nella regione di Subiaco, raccogliendo intorno a sé molti discepoli; spostatosi poi a Cassino, fondò qui il celebre monastero e scrisse la regola, che tanto si diffuse in ogni lugo da meritargli il titolo di patriarca dei monaci in Occidente. Si ritiene sia morto il 21 marzo.
(21 marzo: A Montecassino, anniversario della morte di san Benedetto, abate, la cui memoria si celebra l’11 luglio).
San Benedetto, Fondatore del monachesimo occidentale, e anche Patrono del mio pontificato. Comincio con una parola di san Gregorio Magno, che scrive di san Benedetto: “L’uomo di Dio che brillò su questa terra con tanti miracoli non rifulse meno per l’eloquenza con cui seppe esporre la sua dottrina” (Dial. II, 36). Queste parole il grande Papa scrisse nell’anno 592; il santo monaco era morto appena 50 anni prima ed era ancora vivo nella memoria della gente e soprattutto nel fiorente Ordine religioso da lui fondato. San Benedetto da Norcia con la sua vita e la sua opera ha esercitato un influsso fondamentale sullo sviluppo della civiltà e della cultura europea. La fonte più importante sulla vita di lui è il secondo libro dei Dialoghi di san Gregorio Magno. Non è una biografia nel senso classico. Secondo le idee del suo tempo, egli vuole illustrare mediante l’esempio di un uomo concreto – appunto di san Benedetto – l’ascesa alle vette della contemplazione, che può essere realizzata da chi si abbandona a Dio. Quindi ci dà un modello della vita umana come ascesa verso il vertice della perfezione. San Gregorio Magno racconta anche, in questo libro dei Dialoghi, di molti miracoli compiuti dal Santo, ed anche qui non vuole semplicemente raccontare qualche cosa di strano, ma dimostrare come Dio, ammonendo, aiutando e anche punendo, intervenga nelle concrete situazioni della vita dell’uomo. Vuole mostrare che Dio non è un’ipotesi lontana posta all’origine del mondo, ma è presente nella vita dell’uomo, di ogni uomo.
Questa prospettiva del “biografo” si spiega anche alla luce del contesto generale del suo tempo: a cavallo tra il V e il VI secolo il mondo era sconvolto da una tremenda crisi di valori e di istituzioni, causata dal crollo dell’Impero Romano, dall’invasione dei nuovi popoli e dalla decadenza dei costumi. Con la presentazione di san Benedetto come “astro luminoso”, Gregorio voleva indicare in questa situazione tremenda, proprio qui in questa città di Roma, la via d’uscita dalla “notte oscura della storia” (cfr Giovanni Paolo II, Insegnamenti, II/1, 1979, p. 1158). Di fatto, l’opera del Santo e, in modo particolare, la sua Regola si rivelarono apportatrici di un autentico fermento spirituale, che mutò nel corso dei secoli, ben al di là dei confini della sua Patria e del suo tempo, il volto dell’Europa, suscitando dopo la caduta dell’unità politica creata dall’impero romano una nuova unità spirituale e culturale, quella della fede cristiana condivisa dai popoli del continente. E’ nata proprio così la realtà che noi chiamiamo “Europa”.
La nascita di san Benedetto viene datata intorno all’anno 480. Proveniva, così dice san Gregorio, “ex provincia Nursiae” – dalla regione della Nursia. I suoi genitori benestanti lo mandarono per la sua formazione negli studi a Roma. Egli però non si fermò a lungo nella Città eterna. Come spiegazione pienamente credibile, Gregorio accenna al fatto che il giovane Benedetto era disgustato dallo stile di vita di molti suoi compagni di studi, che vivevano in modo dissoluto, e non voleva cadere negli stessi loro sbagli. Voleva piacere a Dio solo; “soli Deo placere desiderans” (II Dial., Prol 1). Così, ancora prima della conclusione dei suoi studi, Benedetto lasciò Roma e si ritirò nella solitudine dei monti ad est di Roma. Dopo un primo soggiorno nel villaggio di Effide (oggi: Affile), dove per un certo periodo si associò ad una “comunità religiosa” di monaci, si fece eremita nella non lontana Subiaco. Lì visse per tre anni completamente solo in una grotta che, a partire dall’Alto Medioevo, costituisce il “cuore” di un monastero benedettino chiamato “Sacro Speco”. Il periodo in Subiaco, un periodo di solitudine con Dio, fu per Benedetto un tempo di maturazione. Qui doveva sopportare e superare le tre tentazioni fondamentali di ogni essere umano: la tentazione dell’autoaffermazione e del desiderio di porre se stesso al centro, la tentazione della sensualità e, infine, la tentazione dell’ira e della vendetta. Era infatti convinzione di Benedetto che, solo dopo aver vinto queste tentazioni, egli avrebbe potuto dire agli altri una parola utile per le loro situazioni di bisogno. E così, riappacificata la sua anima, era in grado di controllare pienamente le pulsioni dell’io, per essere così un creatore di pace intorno a sé. Solo allora decise di fondare i primi suoi monasteri nella valle dell’Anio, vicino a Subiaco.
Nell’anno 529 Benedetto lasciò Subiaco per stabilirsi a Montecassino. Alcuni hanno spiegato questo trasferimento come una fuga davanti agli intrighi di un invidioso ecclesiastico locale. Ma questo tentativo di spiegazione si è rivelato poco convincente, giacché la morte improvvisa di lui non indusse Benedetto a ritornare (II Dial. 8). In realtà, questa decisione gli si impose perché era entrato in una nuova fase della sua maturazione interiore e della sua esperienza monastica. Secondo Gregorio Magno, l’esodo dalla remota valle dell’Anio verso il Monte Cassio – un’altura che, dominando la vasta pianura circostante, è visibile da lontano – riveste un carattere simbolico: la vita monastica nel nascondimento ha una sua ragion d’essere, ma un monastero ha anche una sua finalità pubblica nella vita della Chiesa e della società, deve dare visibilità alla fede come forza di vita. Di fatto, quando, il 21 marzo 547, Benedetto concluse la sua vita terrena, lasciò con la sua Regola e con la famiglia benedettina da lui fondata un patrimonio che ha portato nei secoli trascorsi e porta tuttora frutto in tutto il mondo.
Nell’intero secondo libro dei Dialoghi Gregorio ci illustra come la vita di san Benedetto fosse immersa in un’atmosfera di preghiera, fondamento portante della sua esistenza. Senza preghiera non c’è esperienza di Dio. Ma la spiritualità di Benedetto non era un’interiorità fuori dalla realtà. Nell’inquietudine e nella confusione del suo tempo, egli viveva sotto lo sguardo di Dio e proprio così non perse mai di vista i doveri della vita quotidiana e l’uomo con i suoi bisogni concreti. Vedendo Dio capì la realtà dell’uomo e la sua missione. Nella sua Regola egli qualifica la vita monastica “una scuola del servizio del Signore” (Prol. 45) e chiede ai suoi monaci che “all’Opera di Dio [cioè all’Ufficio Divino o alla Liturgia delle Ore] non si anteponga nulla” (43,3). Sottolinea, però, che la preghiera è in primo luogo un atto di ascolto (Prol. 9-11), che deve poi tradursi nell’azione concreta. “Il Signore attende che noi rispondiamo ogni giorno coi fatti ai suoi santi insegnamenti”, egli afferma (Prol. 35). Così la vita del monaco diventa una simbiosi feconda tra azione e contemplazione “affinché in tutto venga glorificato Dio” (57,9). In contrasto con una autorealizzazione facile ed egocentrica, oggi spesso esaltata, l’impegno primo ed irrinunciabile del discepolo di san Benedetto è la sincera ricerca di Dio (58,7) sulla via tracciata dal Cristo umile ed obbediente (5,13), all’amore del quale egli non deve anteporre alcunché (4,21; 72,11) e proprio così, nel servizio dell’altro, diventa uomo del servizio e della pace. Nell’esercizio dell’obbedienza posta in atto con una fede animata dall’amore (5,2), il monaco conquista l’umiltà (5,1), alla quale la Regola dedica un intero capitolo (7). In questo modo l’uomo diventa sempre più conforme a Cristo e raggiunge la vera autorealizzazione come creatura ad immagine e somiglianza di Dio.
All’obbedienza del discepolo deve corrispondere la saggezza dell’Abate, che nel monastero tiene “le veci di Cristo” (2,2; 63,13). La sua figura, delineata soprattutto nel secondo capitolo della Regola, con un profilo di spirituale bellezza e di esigente impegno, può essere considerata come un autoritratto di Benedetto, poiché – come scrive Gregorio Magno – “il Santo non poté in alcun modo insegnare diversamente da come visse” (Dial. II, 36). L’Abate deve essere insieme un tenero padre e anche un severo maestro (2,24), un vero educatore. Inflessibile contro i vizi, è però chiamato soprattutto ad imitare la tenerezza del Buon Pastore (27,8), ad “aiutare piuttosto che a dominare” (64,8), ad “accentuare più con i fatti che con le parole tutto ciò che è buono e santo” e ad “illustrare i divini comandamenti col suo esempio” (2,12). Per essere in grado di decidere responsabilmente, anche l’Abate deve essere uno che ascolta “il consiglio dei fratelli” (3,2), perché “spesso Dio rivela al più giovane la soluzione migliore” (3,3). Questa disposizione rende sorprendentemente moderna una Regola scritta quasi quindici secoli fa! Un uomo di responsabilità pubblica, e anche in piccoli ambiti, deve sempre essere anche un uomo che sa ascoltare e sa imparare da quanto ascolta.
Benedetto qualifica la Regola come “minima, tracciata solo per l’inizio” (73,8); in realtà però essa offre indicazioni utili non solo ai monaci, ma anche a tutti coloro che cercano una guida nel loro cammino verso Dio. Per la sua misura, la sua umanità e il suo sobrio discernimento tra l’essenziale e il secondario nella vita spirituale, essa ha potuto mantenere la sua forza illuminante fino ad oggi. Paolo VI, proclamando nel 24 ottobre 1964 san Benedetto Patrono d’Europa, intese riconoscere l’opera meravigliosa svolta dal Santo mediante la Regola per la formazione della civiltà e della cultura europea. Oggi l’Europa – uscita appena da un secolo profondamente ferito da due guerre mondiali e dopo il crollo delle grandi ideologie rivelatesi come tragiche utopie – è alla ricerca della propria identità. Per creare un’unità nuova e duratura, sono certo importanti gli strumenti politici, economici e giuridici, ma occorre anche suscitare un rinnovamento etico e spirituale che attinga alle radici cristiane del Continente, altrimenti non si può ricostruire l’Europa. Senza questa linfa vitale, l’uomo resta esposto al pericolo di soccombere all’antica tentazione di volersi redimere da sé – utopia che, in modi diversi, nell’Europa del Novecento ha causato, come ha rilevato il Papa Giovanni Paolo II, “un regresso senza precedenti nella tormentata storia dell’umanità” (Insegnamenti, XIII/1, 1990, p. 58). Cercando il vero progresso, ascoltiamo anche oggi la Regola di san Benedetto come una luce per il nostro cammino. Il grande monaco rimane un vero maestro alla cui scuola possiamo imparare l’arte di vivere l’umanesimo vero.

Autore: Papa Benedetto XVI (Udienza Generale 9.04.2008)

La sua nobile famiglia lo manda a Roma per gli studi, che lui non completerà mai. Lo attrae la vita monastica, ma i suoi progetti iniziali falliscono. Per certuni è un santo, ma c’è chi non lo capisce e lo combatte. Alcune canaglie in tonaca lo vogliono per abate e poi tentano di avvelenarlo. In Italia i Bizantini strappano ai Goti, con anni di guerra, una terra devastata da fame, malattie e terrore. Del resto, in Gallia le successioni al trono si risolvono in famiglia con l’omicidio.
« Dovremmo domandarci a quali eccessi si sarebbe spinta la gente del Medioevo, se non si fosse levata questa voce grande e dolce ». Lo dice nel XX secolo lo storico Jaques Le Goff. E la voce di Benedetto comincia a farsi sentire da Montecassino verso il 529. Ha creato un monastero con uomini in sintonia con lui, che rifanno vivibili quelle terre. Di anno in anno, ecco campi, frutteti, orti, il laboratorio… Qui si comincia a rinnovare il mondo: qui diventano uguali e fratelli “latini” e “barbari”, ex pagani ed ex ariani, antichi schiavi e antichi padroni di schiavi. Ora tutti sono una cosa sola, stessa legge, stessi diritti, stesso rispetto. Qui finisce l’antichità, per mano di Benedetto. Il suo monachesimo non fugge il mondo. Serve Dio e il mondo nella preghiera e nel lavoro.
Irradia esempi tutt’intorno con il suo ordinamento interno fondato sui tre punti: la stabilità, per cui nei suoi cenobi si entra per restarci; il rispetto dell’orario (preghiera, lavoro, riposo), col quale Benedetto rivaluta il tempo come un bene da non sperperare mai. Lo spirito di fraternità, infine, incoraggia e rasserena l’ubbidienza: c’è l’autorità dell’abate, ma Benedetto, con la sua profonda conoscenza dell’uomo, insegna a esercitarla « con voce grande e dolce ».
Il fondatore ha dato ai tempi nuovi ciò che essi confusamente aspettavano. C’erano già tanti monasteri in Europa prima di lui. Ma con lui il monachesimo-rifugio diventerà monachesimo-azione. La sua Regola non rimane italiana: è subito europea, perché si adatta a tutti.
Due secoli dopo la sua morte, saranno più di mille i monasteri guidati dalla sua Regola (ma non sappiamo con certezza se ne sia lui il primo autore. Così come continuiamo ad essere incerti sull’anno della sua morte a Montecassino). Papa Gregorio Magno gli ha dedicato un libro dei suoi Dialoghi, ma soltanto a scopo di edificazione, trascurando molti particolari importanti.
Nel libro c’è però un’espressione ricorrente: i visitatori di Benedetto – re, monaci, contadini – lo trovano spesso « intento a leggere ». Anche i suoi monaci studiano e imparano. Il cenobio non è un semplice sodalizio di eruditi per il recupero dei classici: lo studio è in funzione dell’evangelizzare. Ma quest’opera fa pure di esso un rifugio della cultura nel tempo del grande buio.

Autore: Domenico Agasso

 

Publié dans:SAN BENEDETTO DA NORCIA, Santi |on 10 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

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