Archive pour le 8 juillet, 2014

SS. Paolo, Aquila e Priscilla

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BENEDETTO XVI – 8 LUGLIO SS. AQUILA E PRISCILLA

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BENEDETTO XVI – 8 LUGLIO SS. AQUILA E PRISCILLA

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 7 febbraio 2007

Saluto ai pellegrini presenti nella Basilica Vaticana convenuti dalle Diocesi della Lombardia, in occasione della Visita “ad Limina Apostolorum” dei Vescovi Lombardi:

Cari fratelli e sorelle delle Diocesi Lombarde! Saluto anzitutto voi, cari Fratelli nell’Episcopato, convenuti a Roma per la Visita ad Limina Apostolorum. Con voi saluto i fedeli che vi accompagnano in questo significativo momento di intensa comunione con il Successore di Pietro. La Chiesa che vive in Lombardia, e qui rappresentata in tutte le sue componenti, ha un ruolo importante da continuare a svolgere nella società lombarda: annunciare e testimoniare il Vangelo in ogni suo ambito, specialmente dove emergono i tratti negativi di una cultura consumistica ed edonistica, del secolarismo e dell’individualismo, dove si registrano antiche e nuove forme di povertà con segnali preoccupanti del disagio giovanile e fenomeni di violenza e di criminalità. Se le Istituzioni e le varie agenzie educative sembrano talora attraversare momenti di difficoltà, non mancano, però, grandi risorse ideali e morali nel vostro popolo, ricco di nobili tradizioni familiari e religiose. Ho visto nel colloquio con voi, cari Fratelli nell’Episcopato, come la Chiesa in Lombardia è realmente una Chiesa viva, ricca del dinamismo della fede e anche di spirito missionario, capace e decisa a trasmettere la fiaccola della fede alle future generazioni e al mondo del nostro tempo. Vi sono grato per questo dinamismo della fede, che vive proprio nelle Diocesi della Lombardia. Vasto è il vostro campo d’azione. Si tratta, da una parte, di difendere e promuovere la cultura della vita umana e della legalità, dall’altra è necessaria una sempre più coerente conversione a Cristo personale e comunitaria. Per crescere infatti nella fedeltà all’uomo, creato a immagine e somiglianza del Creatore, occorre con coerenza penetrare più intimamente nel mistero di Cristo e diffonderne il messaggio di salvezza. Dobbiamo fare di tutto per conoscere sempre meglio la figura di Gesù, per avere di Lui una conoscenza non soltanto «di seconda mano», ma una conoscenza attraverso l’incontro nella preghiera, nella liturgia, nell’amore per il prossimo. E’ un impegno certamente difficile, ma sono di conforto le parole del Signore: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20). È con noi il Signore, anche oggi, domani, fino alla fine del mondo! Si intensifichi, pertanto, la vostra testimonianza evangelica perchè in ogni ambiente i cristiani, guidati dallo Spirito Santo che dimora nella Chiesa e nei cuori dei fedeli come in un tempio (cfr.1 Cor 3, 16-17), siano segni vivi della speranza soprannaturale. Il nostro tempo, con tante angosce e problemi, ha bisogno di speranza. E la nostra speranza viene proprio dalla promessa del Signore e dalla sua presenza. Vi incoraggio, cari Vescovi, a guidare l’alacre popolo lombardo su tale cammino, contando in ogni situazione sull’indefettibile assistenza divina. Andiamo avanti con l’aiuto del Signore in questa direzione!

* * *

AQUILA E PRISCILLA

Cari fratelli e sorelle, facendo un nuovo passo in questa sorta di galleria di ritratti dei primi testimoni della fede cristiana, che abbiamo iniziato alcune settimane fa, prendiamo oggi in considerazione una coppia di sposi. Si tratta dei coniugi Priscilla e Aquila, che si collocano nell’orbita dei numerosi collaboratori gravitanti intorno all’apostolo Paolo, ai quali avevo già brevemente accennato mercoledì scorso. In base alle notizie in nostro possesso, questa coppia di coniugi svolse un ruolo molto attivo al tempo delle origini post-pasquali della Chiesa. I nomi di Aquila e Priscilla sono latini, ma l’uomo e la donna che li portano erano di origine ebraica. Almeno Aquila, però, proveniva geograficamente dalla diaspora dell’Anatolia settentrionale, che si affaccia sul Mar Nero – nell’attuale Turchia -, mentre Priscilla, il cui nome si trova a volte abbreviato in Prisca, era probabilmente un’ebrea proveniente da Roma (cfr At 18,2). È comunque da Roma che essi erano giunti a Corinto, dove Paolo li incontrò all’inizio degli anni ’50; là egli si associò ad essi poiché, come ci racconta Luca, esercitavano lo stesso mestiere di fabbricatori di tende o tendoni per uso domestico, e fu accolto addirittura nella loro casa (cfr At 18,3). Il motivo della loro venuta a Corinto era stata la decisione dell’imperatore Claudio di cacciare da Roma i Giudei residenti nell’Urbe. Lo storico romano Svetonio ci dice su questo avvenimento che aveva espulso gli Ebrei perché “provocavano tumulti a motivo di un certo Cresto” (cfr “Vite dei dodici Cesari, Claudio”, 25). Si vede che non conosceva bene il nome — invece di Cristo scrive “Cresto” — e aveva un’idea solo molto confusa di quanto era avvenuto. In ogni caso, c’erano delle discordie all’interno della comunità ebraica intorno alla questione se Gesù fosse il Cristo. E questi problemi erano per l’imperatore il motivo per espellere semplicemente tutti gli Ebrei da Roma. Se ne deduce che i due coniugi avevano abbracciato la fede cristiana già a Roma negli anni ’40, e ora avevano trovato in Paolo qualcuno che non solo condivideva con loro questa fede — che Gesù è il Cristo — ma che era anche apostolo, chiamato personalmente dal Signore Risorto. Quindi, il primo incontro è a Corinto, dove lo accolgono nella casa e lavorano insieme nella fabbricazione di tende. In un secondo tempo, essi si trasferirono in Asia Minore, a Efeso. Là ebbero una parte determinante nel completare la formazione cristiana del giudeo alessandrino Apollo, di cui abbiamo parlato mercoledì scorso. Poiché egli conosceva solo sommariamente la fede cristiana, «Priscilla e Aquila lo ascoltarono, poi lo presero con sé e gli esposero con maggiore accuratezza la via di Dio» (At 18,26). Quando da Efeso l’apostolo Paolo scrive la sua Prima Lettera ai Corinzi, insieme ai propri saluti manda esplicitamente anche quelli di «Aquila e Prisca, con la comunità che si raduna nella loro casa» (16,19). Veniamo così a sapere del ruolo importantissimo che questa coppia svolse nell’ambito della Chiesa primitiva: quello cioè di accogliere nella propria casa il gruppo dei cristiani locali, quando essi si radunavano per ascoltare la Parola di Dio e per celebrare l’Eucaristia. È proprio quel tipo di adunanza che è detto in greco “ekklesìa” – la parola latina è “ecclesia”, quella italiana “chiesa” – che vuol dire convocazione, assemblea, adunanza. Nella casa di Aquila e Priscilla, quindi, si riunisce la Chiesa, la convocazione di Cristo, che celebra qui i sacri Misteri. E così possiamo vedere la nascita proprio della realtà della Chiesa nelle case dei credenti. I cristiani, infatti, fin verso il secolo III non avevano propri luoghi di culto: tali furono, in un primo tempo, le sinagoghe ebraiche, fin quando l’originaria simbiosi tra Antico e Nuovo Testamento si è sciolta e la Chiesa delle Genti fu costretta a darsi una propria identità, sempre profondamente radicata nell’Antico Testamento. Poi, dopo questa “rottura”, si riuniscono nelle case i cristiani, che diventano così “Chiesa”. E infine, nel III secolo, nascono veri e propri edifici di culto cristiano. Ma qui, nella prima metà del I secolo e nel II secolo, le case dei cristiani diventano vera e propria “chiesa”. Come ho detto, si leggono insieme le Sacre Scritture e si celebra l’Eucaristia. Così avveniva, per esempio, a Corinto, dove Paolo menziona un certo «Gaio, che ospita me e tutta la comunità» (Rm 16,23), o a Laodicea, dove la comunità si radunava nella casa di una certa Ninfa (cfr Col 4,15), o a Colossi, dove il raduno avveniva nella casa di un certo Archippo (cfr Fm 2). Tornati successivamente a Roma, Aquila e Priscilla continuarono a svolgere questa preziosissima funzione anche nella capitale dell’Impero. Infatti Paolo, scrivendo ai Romani, manda questo preciso saluto: «Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù; per salvarmi la vita essi hanno rischiato la loro testa, e ad essi non io soltanto sono grato, ma tutte le Chiese dei Gentili; salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa» (Rm 16,3-5). Quale straordinario elogio dei due coniugi in queste parole! E a tesserlo è nientemeno che l’apostolo Paolo. Egli riconosce esplicitamente in loro due veri e importanti collaboratori del suo apostolato. Il riferimento al fatto di avere rischiato la vita per lui va collegato probabilmente ad interventi in suo favore durante qualche sua prigionia, forse nella stessa Efeso (cfr At 19,23; 1 Cor 15,32; 2 Cor 1,8-9). E che alla propria gratitudine Paolo associ addirittura quella di tutte le Chiese delle Genti, pur considerando l’espressione forse alquanto iperbolica, lascia intuire quanto vasto sia stato il loro raggio d’azione e, comunque, il loro influsso a vantaggio del Vangelo. La tradizione agiografica posteriore ha conferito un rilievo tutto particolare a Priscilla, anche se resta il problema di una sua identificazione con un’altra Priscilla martire. In ogni caso, qui a Roma abbiamo sia una chiesa dedicata a Santa Prisca sull’Aventino sia le Catacombe di Priscilla sulla Via Salaria. In questo modo si perpetua la memoria di una donna, che è stata sicuramente una persona attiva e di molto valore nella storia del cristianesimo romano. Una cosa è certa: insieme alla gratitudine di quelle prime Chiese, di cui parla san Paolo, ci deve essere anche la nostra, poiché grazie alla fede e all’impegno apostolico di fedeli laici, di famiglie, di sposi come Priscilla e Aquila il cristianesimo è giunto alla nostra generazione. Poteva crescere non solo grazie agli Apostoli che lo annunciavano. Per radicarsi nella terra del popolo, per svilupparsi vivamente, era necessario l’impegno di queste famiglie, di questi sposi, di queste comunità cristiane, di fedeli laici che hanno offerto l’“humus” alla crescita della fede. E sempre, solo così cresce la Chiesa. In particolare, questa coppia dimostra quanto sia importante l’azione degli sposi cristiani. Quando essi sono sorretti dalla fede e da una forte spiritualità, diventa naturale un loro impegno coraggioso per la Chiesa e nella Chiesa. La quotidiana comunanza della loro vita si prolunga e in qualche modo si sublima nell’assunzione di una comune responsabilità a favore del Corpo mistico di Cristo, foss’anche di una piccola parte di esso. Così era nella prima generazione e così sarà spesso. Un’ulteriore lezione non trascurabile possiamo trarre dal loro esempio: ogni casa può trasformarsi in una piccola chiesa. Non soltanto nel senso che in essa deve regnare il tipico amore cristiano fatto di altruismo e di reciproca cura, ma ancor più nel senso che tutta la vita familiare, in base alla fede, è chiamata a ruotare intorno all’unica signoria di Gesù Cristo. Non a caso nella Lettera agli Efesini Paolo paragona il rapporto matrimoniale alla comunione sponsale che intercorre tra Cristo e la Chiesa (cfr Ef 5,25-33). Anzi, potremmo ritenere che l’Apostolo indirettamente moduli la vita della Chiesa intera su quella della famiglia. E la Chiesa, in realtà, è la famiglia di Dio. Onoriamo perciò Aquila e Priscilla come modelli di una vita coniugale responsabilmente impegnata a servizio di tutta la comunità cristiana. E troviamo in loro il modello della Chiesa, famiglia di Dio per tutti i tempi.

 

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ANCHE L’ANTICO TESTAMENTO CONOSCE BEATITUDINI : « BEATO CHI TROVA IN DIO LA SUA FORZA! »

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ANCHE L’ANTICO TESTAMENTO CONOSCE BEATITUDINI : « BEATO CHI TROVA IN DIO LA SUA FORZA! »

Introduzione

Abbiamo concluso il discorso sulle beatitudini proclamate da Gesù, però vogliamo completare il nostro corso dando un’occhiata anche ad altri testi biblici dove compaiono delle beatitudini. Dedichiamo questo incontro alle beatitudini dell’Antico Testamento; i prossimi saranno invece dedicati alle beatitudini presenti nel Nuovo Testamento e l’ultima, in modo specifico, alle beatitudini dell’Apocalisse. Nell’Antico Testamento si incontrano oltre cinquanta espressioni di beatitudine, quindi, se dovessimo passarle in rassegna tutte, saremmo costretti a fare un lungo elenco di frasi. Allora scelgo come strada quella di raccogliere queste citazioni sotto alcuni titoli e di vedere, per ogni titolo o argomento generale, un esempio, scegliendoli tutti dal Libro dei Salmi. Possiamo così cogliere l’occasione per rileggere insieme alcuni salmi e vedere come, attraverso la formula della beatitudine, l’Antico Testamento ci presenti un’indicazione del modo di essere di Dio e dei valori che vengono trasmessi dalla predicazione.

Beato chi ha Dio per Signore Possiamo iniziare allora da un primo capitolo. Una beatitudine fondamentale nell’Antico Testamento è quella che può essere ridotta alla formula seguente: « Beato chi ha Dio per Signore! ». Come nel caso di Gesù, le beatitudini anche nell’Antico Testamento sono delle dimostrazioni di felicità, delle « congratulazioni », o meglio, delle indicazioni di una strada per la felicità ovvero per la realizzazione della persona umana. « Beato chi ha Dio per Signore! » significa allora che la relazione con il Signore in quanto Dio è fonte di felicità. Noi usiamo il termine « Signore » per tradurre il nome proprio di Dio come si è rivelato nell’Antico Testamento, cioè « Yahweh », termine che abitualmente non traduciamo e non conserviamo, ma sostituiamo con « Signore ». Ogni volta che troviamo la parola « Signore » nell’Antico Testamento sappiamo che fa riferimento al nome proprio di Dio.

Allora, non « qualunque Dio va bene », ma « Beato chi ha per Dio Yahweh ». È un’idea del popolo di Israele che, prima di arrivare alla negazione dell’esistenza delle altre divinità, arriva alla consapevolezza che quel Dio che si è rivelato al popolo di Israele è la strada della felicità: « Beato chi ha incontrato quel Dio, perché è lui che garantisce una situazione buona ». Pensiamo allora come esempio il salmo 33. È un salmo che celebra come inno la provvidenza di Dio, celebra il Signore perché regge la storia e la creazione: « Il Signore annulla i disegni delle nazioni, rende vani i progetti dei popoli. Ma il piano del Signore sussiste per sempre, i pensieri del suo cuore per tutte le generazioni » (Sal 33, 10÷11). Dio ha un progetto, ha un piano che vale per tutti i popoli e, mentre i progetti dei grandi e dei potenti della terra vengono vanificati, i progetti di Dio sussistono « perché egli parla e tutto è fatto, comanda e tutto esiste » (Sal 33, 9), « dalla parola del Signore furono fatti i cieli, dal soffio della sua bocca ogni loro schiera » (Sal 33, 6). Parola e Spirito, dalla parola del Signore, dal soffio, dal respiro, dallo Spirito di Dio è stato creato l’universo: il Padre, il Figlio e lo Spirito creatori dell’universo, i pensieri del cuore di Dio durano per sempre, il progetto del Signore è eterno; allora, dopo aver detto questo, l’autore del salmo esplode in un’affermazione di entusiasmo: « Beata la nazione il cui Dio è il Signore, il popolo che si è scelto come erede » (Sal 33, 12). Israele celebra la propria beatitudine in quanto nazione: « Beata la nazione che è stata scelta dal Signore ». Eppure noi, rileggendo questi testi in un’ottica cristiana, ampliamo l’orizzonte di Israele, ci sentiamo noi partecipi di questa nazione e applichiamo tranquillamente a noi questa beatitudine: siamo noi quella nazione – non intesa in senso civile, politico, amministrativo, ma in senso religioso -, siamo noi quel popolo fortunato, beato, perché « scelto ». È interessante il contesto comunitario, non individualista: non tanto « io », ma « noi », noi popolo scelto da Dio, beati noi! Sentiamo la beatitudine dell’essere popolo che Dio si è scelto? Proviamo a porre questo nostro ragionare anche come un possibile esame di coscienza, una revisione di vita all’interno del nostro cammino quaresimale. Abbiamo coscienza di essere popolo scelto da Dio, di appartenere a lui? Abbiamo coscienza che il fatto di essere stati scelti e di appartenere a lui è fonte della nostra gioia? Beati noi perché apparteniamo a lui, creatore e Signore dell’universo: « Dal luogo della sua dimora scruta tutti gli abitanti della terra, lui che, solo, ha plasmato il loro cuore e comprende tutte le loro opere » (Sal 33, 14÷15). Per la seconda volta torna la parola « cuore » che, nel linguaggio biblico, non è inteso come la sede dell’affetto, ma piuttosto dell’intelligenza, è il centro della persona: « I pensieri del suo cuore durano in eterno », il cuore di Dio ha progettato, egli ha creato i cuori di ciascuno – il testo latino diceva: « singillatim », uno per uno, singolarmente – è lui l’origine della nostra persona. Il salmo termina con una terza ricorrenza della parola « cuore »: « In lui gioisce il nostro cuore e confidiamo nel suo santo nome. Signore, sia su di noi la tua grazia, perché in te speriamo » (Sal 33, 21÷22). « Il nostro cuore gioisce in lui » è un altro modo per esprimere questa beatitudine di appartenere al Signore: lui ha creato la nostra persona e la nostra persona trova la propria gioia in lui. Questo è il senso della beatitudine.

Beato chi si fida del Signore Sempre in questa direzione possiamo aprire un nuovo capitolo e prendere come modello un’altra espressione: « Beato chi si fida del Signore! ». È la beatitudine della fede, è una formulazione con cui si riconosce che il Signore è l’origine e il fine della nostra esistenza, e l’atto di fiducia con cui la persona si affida a lui è fonte di felicità. Prendiamo come esempio il salmo 84 che contiene ben tre espressioni di beatitudine. È un canto di pellegrinaggio e, tra l’altro, questa riflessione può tornare utile anche per sviluppare quello che abbiamo detto la volta scorsa a proposito del Giubileo, perché una delle opere caratteristiche del Giubileo è il pellegrinaggio. Questo salmo ci dà la dimensione corretta del pellegrinaggio soprattutto in ottica cristiana, non semplicemente come lo spostamento fisico verso un luogo preciso. Noi rileggiamo il salmo 84 in una dimensione spirituale, mentre l’antico autore lo ha composto proprio in una dimensione fisica e spaziale. L’autore è innamorato di Gerusalemme e celebra la beatitudine di chi abita in Gerusalemme – forse è un levita che abita in campagna in qualche villaggio – e inizia così: « Quanto sono amabili le tue dimore, Signore degli eserciti! L’anima mia languisce e brama gli atri del Signore. Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente » (Sal 84, 2÷4). Il desiderio profondo di questa persona è l’incontro con il Signore ed ha un’idea fisica di questo incontro, pensa che gli atri del Signore, i cortili del tempio, quegli ambienti del culto a Gerusalemme siano il luogo privilegiato dell’incontro, ha una grande voglia di andare lì e quasi guarda con invidia quel passero o quella rondine che ha potuto fare il nido in qualche angolo del tempio: « Anche il passero trova la casa, la rondine il nido, dove porre i suoi piccoli, presso i tuoi altari, Signore degli eserciti, mio re e mio Dio » (Sal 84, 4). Ed ecco che esplodono le beatitudini: « Beato chi abita la tua casa: sempre canta le tue lodi! » (Sal 84, 5). In senso letterale l’autore dice: « Beato chi abita a Gerusalemme, beato chi fa servizio continuo nel tempio ». Probabilmente egli, come levita di campagna, ritiene fortunato il suo collega che invece fa servizio proprio nella sede centrale. Subito dopo aggiunge un’altra beatitudine: « Beato chi trova in te la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggio » (Sal 84, 6). Se uno non può abitare a Gerusalemme, e nel tempio, può almeno decidere di andare a Gerusalemme; allora, fortunato chi abita là, fortunato chi decide di andare là. L’autore pensa proprio in senso fisico a questo pellegrinaggio, ma noi no, noi rileggiamo questo testo in un’altra dimensione: il tempio del Signore non esiste più, la Gerusalemme di oggi è una città semplicemente di ricordo, ma per noi è città santa come memoria però non riteniamo che Dio abiti lì piuttosto che altrove. Allora, la beatitudine di chi abita la casa del Signore non riguarda gli abitanti di Gerusalemme o i leviti del tempio, che non ci sono più. La casa del Signore « abitata » da qualcuno è, in senso spirituale, la comunione con lui: per noi diventa beato « chi trova in te la sua dimora, chi vive con te, chi sta in comunione di vita, chi ti è vicino ». E non riteniamo affatto che il viaggio a Gerusalemme sia oggetto così desiderato e amabile, è un’esperienza positiva ma non è il senso del salmo: la beatitudine non sta nell’andare in pellegrinaggio in Terra Santa, sta nel decidere il « santo viaggio ». Ma il « santo viaggio » qual è? Non certo un viaggio organizzato o fatto con i nostri sistemi turistici: il « santo viaggio » è la nostra vita, è l’impostazione della nostra vita, è uno stile di vita. « Beato chi trova in te la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggio »: è un’espressione bellissima, viene celebrata la felicità di chi trova la propria forza in Dio, forza per decidere un viaggio, un viaggio santo, la forza per impostare la propria vita al seguito del Signore, alla ricerca del Signore. Il testo originale contiene l’idea della salita, anche perché Gerusalemme si trova in alto e da qualunque parte si inizi il viaggio si sale sempre per andare a Gerusalemme. Il testo latino traduceva così: « Beatus qui posuit in corde suo ascensiones », beato chi ha preso la decisione di salire, di intraprendere le ascensioni, le salite. Noi adoperiamo la parola « ascesi » proprio nel senso di salita, di impegno di miglioramento, di crescita. Il « santo viaggio » allora è questo desiderio ardente di una vita che migliori, di una comunione col Signore che cresca. Leggevo proprio oggi un passo di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori in cui dice, più o meno: « Nella nostra vita terrena aspiriamo ad avere di più ed a stare meglio, ma quando parliamo del Paradiso la maggior parte di noi si dice soddisfatta semplicemente di entrarci e di stare anche solo in un cantuccio; sarebbe molto meglio accontentarci di niente qui ed aspirare ad avere un bel posto, ampio e spazioso, in paradiso ». È che ci preoccupiamo poco – diceva il santo moralista – del tesoro che ci aspetta. Porre nel proprio cuore le ascensioni, le salite significa desiderare il miglioramento. Pensate un po’ a certe situazioni anche difficili in cui ci possiamo trovare: possiamo avere dei nemici, può capitare di avere a che fare con qualche persona che ci ha fatto del male o che in qualche modo ci dia fastidio; istintivamente non riusciamo a volerle bene, non riusciamo magari neanche a perdonarla. Ma il problema credo che sia qui: desideriamo riuscirci? Istintivamente mi sta antipatica, mi dà fastidio, non riesco a tollerarla, ma « desidero » diventare capace di amare anche quella persona così antipatica e nemica? Sta qui porre nel proprio cuore la salita: ho voglia di salire? E, di conseguenza, chiedo al Signore la forza e l’aiuto per essere capace di fare ciò che non riesco a fare? Se sono malato mi viene facilissimo chiedere di guarire. Se sono peccatore, ovvero non riesco a fare il bene che il Signore mi chiede, mi viene da chiedere l’aiuto per riuscire a farlo? Oppure mi accontento di dire semplicemente che non ci riesco e che non ce la faccio? Credo che questo sia un punto nodale e decisivo: porre nel proprio cuore il desiderio di salire, di migliorare, di riuscire a fare quello che istintivamente non riesco, è fonte di beatitudine. « Beato chi trova in te la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggio » è molto di più che andare a Gerusalemme. « Passando per la valle del pianto la cambia in una sorgente » (Sal 84, 7). Chi trova in Dio la propria forza e decide questa salita diventa capace di trasformare la valle del pianto in una sorgente. « Cresce lungo il cammino il suo vigore » (Sal 86, 8). Sembrerebbe un’espressione strana, perché in genere durante il cammino ci si affatica, più si cammina e più ci si stanca, verso la fine non se ne può più: abbiamo esperienza, ad esempio, di una camminata in montagna, quando si arriva si è contenti di essere arrivati perché si è stanchi morti. Qui invece è un cammino diverso: « Cresce lungo il cammino il suo vigore », più cammina e più si riposa, più sale e più acquista energia. Non è un discorso fisico, è la dimensione del nostro impegno spirituale: più cammini e più sali, più acquisti forza di salire e voglia di salire. È un aspetto della beatitudine del pellegrino: in questo senso parliamo del Giubileo come di un pellegrinaggio, questa è la beatitudine del pellegrino, dell’ »homo viator », dell’uomo naturalmente in via come persona in divenire, che si sta facendo, si sta formando, sta diventando veramente uomo, sta crescendo in umanità, sta diventando « figlio » di Dio. « Sole e scudo è il Signore Dio; il Signore concede grazia e gloria, non rifiuta il bene a chi cammina con rettitudine. Signore degli eserciti, beato l’uomo che in te confida » (Sal 84, 12÷13). Terza beatitudine, ridice la stessa cosa con altre parole: « Beato chi confida in te, chi trova in te la sua forza, colui che si fida di te e desidera con tutte le sue forze di compiere il tuo progetto ».

Beato chi osserva la legge, beato chi fa del bene Passiamo ad un’altra beatitudine dell’Antico Testamento, che potremmo indicare come la beatitudine di chi opera la legge, di chi la osserva. Troviamo un esempio significativo di questa beatitudine nel salmo 112. Si tratta di un salmo « alfabetico »: se lo cercate nella Bibbia troverete che prima del salmo ci sono le lettere dell’alfabeto ebraico. Si tratta di uno schema poetico un po’ artificioso: l’autore mette innanzitutto l’alfabeto, scritto una lettera sotto l’altra, quindi, essendo le lettere dell’alfabeto ebraico ventidue, prevede ventidue versi ognuno dei quali inizia con una lettera diversa dell’alfabeto, in ordine. Provate un po’ a immaginarlo in italiano: è un elemento che costringe la vena poetica e diventa una formula artistica che contiene l’abc della religiosità. Dal momento che « beato » in ebraico inizia con la prima lettera dell’alfabeto, « aleph », molto spesso i salmi di questo genere iniziano proprio con la formula « beato ». Non solo, ma c’è un gioco di parole: « Beato l’uomo che (…) » in ebraico si dice « ashré aish asher » e diventa una formula ritmica che si ricorda a memoria e che ritorna in molte formule. Il salmo 112 inizia con: « Ashré aish asher », « Beato l’uomo che teme il Signore e trova grande gioia nei suoi comandamenti » (Sal 112, 1) e, più avanti, « Felice l’uomo pietoso che dà in prestito, amministra i suoi beni con giustizia » (Sal 112, 5). Qui la beatitudine è letta in una chiave di morale, di condotta buona: « Beato chi teme il Signore, beato chi trova grande gioia nei suoi comandamenti » – « In mandatis eius cupit nimis » – ha proprio un desiderio, quasi eccessivo, ha una passione per i precetti del Signore; « Beato l’uomo appassionato della legge », al punto da viverla seriamente, concretamente in tutto quello che fa. « Beato l’uomo pietoso, misericordioso – noi diremmo « generoso » – che dà in prestito e amministra i suoi beni con giustizia »; « beatitudine » diventa quindi sinonimo di « giustizia ». Riconoscete facilmente in queste formule dell’Antico Testamento anche delle idee che ricorrono nelle beatitudini di Gesù, possiamo in qualche modo riportarle tutte lì. La novità di Gesù non sta tanto nelle formule della beatitudine quanto nelle cause, cioè nell’annuncio dell’intervento di Dio a favore dell’uomo. Abbiamo detto con insistenza che l’elemento importante delle beatitudini è la causa: « Perché vostro è il regno dei cieli », questo è importante, l’importante è il regno, è la presenza del regno, è il fatto che Dio, Re e Signore onnipotente, sia dalla vostra parte; mentre nell’Antico Testamento c’è ancora l’idea dell’autosufficienza dell’uomo: l’uomo buono, l’uomo generoso, l’uomo che dà in prestito, l’uomo giusto, l’uomo che fa il bene è fortunato perché è giusto. Questo tipo di impostazione rischia di degenerare nella visione dei farisei, cioè in quell’ottica di autosufficienza per cui sono beato in quanto sono bravo: fonte della mia felicità è la mia onestà.

Il Vangelo di Gesù supera questa impostazione. Prendendo un altro esempio di salmo di questo tipo possiamo leggere il primo salmo, proprio quello che apre tutto il libro e presenta quasi la storia divisa in due parti. « Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli stolti; ma si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte » (Sal 1, 1÷2): beato chi studia la Bibbia, beato chi legge la sua parola e la medita giorno e notte. « Sarà come albero piantato lungo corsi d’acqua, che darà frutto a suo tempo e le sue foglie non cadranno mai; riusciranno tutte le sue opere » (Sal 1, 3): la beatitudine dell’uomo che medita la legge è finalizzata a portare frutto, sa quel che deve fare e a suo tempo lo farà. « Non così, non così gli empi: ma come pula che il vento disperde; perciò non reggeranno gli empi nel giudizio, né i peccatori nell’assemblea dei giusti. Il Signore veglia sul cammino dei giusti, ma la via degli empi andrà in rovina »(Sal 1, 4÷6): è il grande quadro di contrapposizione fra il giusto e l’empio, fra l’uomo devoto e l’uomo che crede di fare da sé, che va per la propria strada. Il Salterio si apre proprio con la parola « beato », la prima parola di tutti i salmi è « beato »: beato l’uomo che si compiace nella legge del Signore, che trova il proprio piacere nella volontà di Dio.

Beato l’uomo perdonato da Dio Andiamo avanti e troviamo un’altra beatitudine molto importante: « Beato l’uomo perdonato da Dio ». È un’idea che anticipa fortemente la buona notizia di Gesù e che troviamo, ad esempio, nel salmo 32 che inizia proprio con due formule di beatitudine: « Beato l’uomo a cui è rimessa la colpa e perdonato il peccato. Beato l’uomo a cui Dio non imputa alcun male e nel cui spirito non è inganno. Tacevo e si logoravano le mie ossa, mentre gemevo tutto il giorno. Giorno e notte pesava su di me la tua mano, come per arsura d’estate inaridiva il mio vigore. Ti ho manifestato il mio peccato, non ho tenuto nascosto il mio errore. Ho detto: «Confesserò al Signore le mie colpe» e tu hai rimesso la malizia del mio peccato » (Sal 32, 1÷5). È proprio un’anticipazione del sacramento della penitenza ed è la proclamazione della beatitudine dell’uomo che si riconosce peccatore perdonato. Il passo in avanti, rispetto alla precedente formula, è che il giusto non è tale per merito proprio, in modo autosufficiente, ma è cosciente del proprio peccato e della misericordia di Dio che lo ha trasformato: « Beato l’uomo a cui è rimessa la colpa ». San Paolo cita questo versetto nella lettera ai Romani al capitolo quarto, proprio come un’esemplificazione della sua dottrina sulla giustificazione per fede: ogni uomo è radicalmente segnato dal peccato e allora la beatitudine sta nel fatto di essere perdonato. Ma il perdono di Dio non è il colpo di spugna o il far finta che non sia successo niente, ma è l’intervento creatore che trasforma effettivamente l’uomo, che rende davvero il peccatore giusto. Allora la beatitudine sta nel fatto di sentire come il Signore in me, in noi, trasformi quella natura segnata dal peccato in una natura capace di fare il bene. Siamo sempre nell’ottica del « desiderare le salite » fidandosi del Signore.

Beato l’uomo « sapiente » Un altro modo è espresso dalla beatitudine del sapiente: in molti testi si dice che « Beato è il sapiente, beato l’uomo che ha trovato la sapienza ». Nel salmo 65 troviamo questa espressione: « Beato chi hai scelto e chiamato vicino, abiterà nei tuoi atri. Ci sazieremo dei beni della tua casa, della santità del tuo tempio » (Sal 65, 5). Vedete come siano espressioni molto simili a quelle che abbiamo già commentato a proposito del salmo 84: « Beato chi abita la tua casa, beato chi hai scelto e chiamato vicino ». Non è una questione fisica, come abitare nel tempio di Gerusalemme, è questione di comunione spirituale, di autentica condivisione di vita con il Signore; è quella sapienza di cui abbiamo parlato a proposito dei doni dello Spirito, come capacità di gustare, quella sapienza che è fondamentalmente connessa con la povertà di spirito, il riconoscimento del proprio peccato, della propria debolezza, della propria indegnità e l’affidamento al Signore con la sicurezza che l’essere con lui è fonte della felicità.

La beatitudine del dono dei figli Ancora, troviamo espressioni di beatitudine relativa alla famiglia. Nel salmo 127 si dice: « Dono del Signore sono i figli, e sua grazia il frutto del grembo. Come frecce in mano a un eroe sono i figli della giovinezza. Beato l’uomo che ne ha piena la faretra: non resterà confuso quando verrà a trattare alla porta con i propri nemici » (Sal 127, 3÷5). È la celebrazione della beatitudine umana dell’avere figli, dell’avere tanti figli « come frecce in mano ad un eroe » e la « faretra che contiene le frecce », se è piena, è fonte di beatitudine. È un modo per indicare anche nell’ambito della vita familiare la presenza di questa felicità, dono del Signore. Beatitudine è l’accoglienza dei doni del Signore, la capacità di accorgersi della sua presenza e del suo dono. Ancora, nel salmo 89 leggiamo questa beatitudine: « Beato il popolo che ti sa acclamare e cammina, o Signore, alla luce del tuo volto » (Sal 89, 16). Noi diremmo « beato chi sa pregare », cioè chi sa essere capace di lodare il Signore, di riconoscerlo, di ringraziarlo, di vivere con lui, di dialogare con lui. È una strada di felicità, ma è una risposta. Tante volte diciamo che la fede è un dono, chi non ce l’ha non l’ha ricevuto. In realtà dovremmo dire che la fede è l’incontro di chiamata e risposta: laddove alla chiamata c’è la risposta e insieme i due elementi si uniscono, lì c’è la fede. La fede è l’incontro di dono e di accoglienza: il dono, se è accolto, diventa fede: « Beato chi sa lodare, chi sa accogliere e ringraziare ».

Beato l’uomo che si oppone al male con tutte le sue forze C’è ancora un’espressione molto strana e difficile, e la prendo in considerazione proprio perché è tale. Nel salmo 137, quello di Babilonia, canto dell’esilio, si termina con questa preghiera terribile: « Figlia di Babilonia devastatrice, beato chi ti renderà quanto ci hai fatto. Beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sbatterà contro la pietra » (Sal 137, 8÷9). Sono beatitudini dell’Antico Testamento e nella nostra ottica suonano molto strane, suonano come desiderio di vendetta, di violenza tremenda anche contro i bambini della nazione nemica. È probabile che l’autore antico avesse in testa queste idee, ma non era il messaggio che Dio voleva trasmettere. Alla luce di Cristo noi siamo in grado di rileggere in altro modo questo testo, innanzitutto tenendo conto del fatto simbolico di Babilonia. Babilonia non è né una persona né una città, diventa un simbolo: è la città del male, è il male personificato. Allora la beatitudine è per coloro che si oppongono al male con tutte le forze, non al peccatore, ma al peccato. Beato chi combatte contro il peccato, non chi elimina il peccatore, beato chi elimina il peccato. « Beato chi afferra i tuoi piccoli e li sbatte contro la pietra ». Allora se Babilonia è il peccato, se è il male, chi sono i « piccoli » di Babilonia’? Potrebbero essere i peccati veniali, i piccoli peccati quotidiani, le piccole mancanze di tutti i giorni, le nostre inclinazioni al male, i nostri istinti legati al nostro carattere che portano verso certi comportamenti negativi. Possono essere le tentazioni o, come si dice nell’Atto di dolore, le occasioni prossime del peccato: sono situazioni piccole che possono crescere e che possono diventare grandi. Allora, beato chi prende queste piccole cose e « le sbatte contro la pietra » e la pietra è Cristo. Siamo sempre daccapo: « Beato chi trova in Dio la sua forza ed ha il desiderio profondo di salire, di migliorare, ed ha a cuore di combattere il male anche nelle piccole cose; di fronte a Cristo, sa distruggere e sa annientare anche le piccole inclinazioni al male ». Chi si fida del Signore e desidera imitarlo pienamente, questi è davvero beato: in questo sta la felicità, ci dice l’Antico Testamento, in perfetta sintonia con le beatitudini di Gesù.

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