Archive pour le 4 juillet, 2014

Coronation of the Virgin, altar of the Charterhouse of Villeneuve-lès-Avignon.

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Publié dans:immagini sacre |on 4 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

COMMENTO A ROMANI 8,9.11-13

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COMMENTO A ROMANI 8,9.11-13

Fratelli, 9 voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. 11 E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. 12 Così dunque fratelli, noi siamo debitori, ma non verso la carne per vivere secondo la carne; 13 poiché se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete.  

COMMENTO Romani 8,9.11-13 La vita secondo lo Spirito Nella seconda sezione della lettera ai Romani (cc. 6-8) Paolo mostra come la proposta di una giustificazione che avviene solo per mezzo della fede non spiana la strada al peccato, anzi lo elimina definitivamente insieme a due altre realtà che hanno collaborato con esso, il peccato e la morte (cc. 6-7). Nel c. 8 egli affronta il tema della vita nuova che si apre a colui che è diventato giusto mediante la fede. A tal fine egli riprende e rielabora alcune delle intuizioni che aveva già anticipato in 5,1-11. Nel nuovo capitolo l’apostolo mostra anzitutto come sia ormai lo Spirito a guidare l’uomo giustificato (vv. 1-13) e prosegue mettendo in luce come lo Spirito stesso trasformi intimamente non solo il credente ma anche tutto l’universo (vv. 14-25). Infine spiega come l’amore divino faccia sì che il credente sia vincitore su tutte le forze ostili che tentano di impedirgli il conseguimento della gloria finale (vv. 26-39). La liturgia utilizza a più riprese questo capitolo, selezionandone diversamente i versetti. La parte qui riportata si limita agli ultimi versetti della prima parte. Secondo Paolo lo Spirito, infuso nel credente per mezzo del battesimo, ha reso possibile ciò che la legge non poteva raggiungere, in quanto ha reso il credente capace di compiere pienamente la volontà di Dio riassunta in un unico precetto (vv. 1-4), con riferimento al comandamento dell’amore (cfr. 13,8-10). L’apostolo mostra poi che, in seguito a ciò, l’umanità si divide in due campi opposti: da una parte vi sono quelli che sono «secondo la carne» e dall’altra quelli che sono «secondo lo Spirito». I primi si danno pensiero delle cose della carne, ma questo pensiero li porta alla morte, poiché così facendo essi si rivoltano contro Dio; quelli invece che sono secondo lo Spirito pensano alle cose dello Spirito, e questo pensiero è per loro fonte di vita e di pace. Paolo conclude che coloro che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio (cfr. vv. 5-8). A questo punto inizia il testo liturgico. Paolo si rivolge direttamente ai suoi interlocutori e li invita a considerare fino in fondo la nuova situazione in cui si trovano. Essi non sono più «nella carne», ma «nello Spirito», dal momento che questo stesso Spirito abita in loro. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene (v. 9). Lo Spirito di Dio quindi non è altro che lo Spirito di Cristo. Perciò proprio in forza dello Spirito che è in loro essi appartengono a Cristo. Ora però, se Cristo abita in loro, da una parte il loro corpo è morto a causa del peccato, dall’altra però in loro opera lo Spirito che è sorgente di vita in forza della giustizia (v. 10). Essi cioè restano soggetti alla morte, in quanto partecipi di questa umanità dominata dal peccato; ma in forza della giustizia che è stata loro conferita possiedono già la vita che è dono dello Spirito. Ora se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in loro, quello stesso che ha risuscitato Cristo dai morti, cioè Dio, «farà vivere i loro corpi mortali» mediante lo Spirito che dimora in loro (v. 11). In altre parole lo stesso Spirito, mediante il quale Dio ha risuscitato Gesù dai morti, darà una nuova vita anche a coloro nei quali, in forza della giustificazione, è venuto ad abitare. Il credente, pur vivendo ancora in una situazione contrassegnata dalla morte fisica, pregusta già mediante l’opera dello Spirito quella vita nuova e indefettibile di cui gode il Cristo risuscitato. L’apostolo infine, rivolgendosi di nuovo affettuosamente ai suoi interlocutori («fratelli»), afferma che noi siamo ancora debitori, non però verso la carne, per vivere secondo la carne (v. 12): egli dirà in seguito che l’unico debito del credente è l’amore vicendevole (cfr. Rm 13,8). Egli prosegue poi ricordando loro che, se vivono secondo la carne, andranno incontro alla morte; ma se con l’aiuto dello Spirito fanno morire le opere del corpo, vivranno (v. 13). Lo Spirito dà dunque la vera vita all’uomo, in quanto gli permette di liberarsi dai condizionamenti della carne, cioè di evitare il peccato che porta inevitabilmente alla morte.

Linee interpretative Dio ha certamente delle aspettative nei confronti dell’uomo. Paolo le vede sintetizzate nell’unico comandamento che ha come oggetto l’amore del prossimo. Ma proprio questo comandamento non può essere attuato dall’uomo perché egli è soggetto al peccato, che si manifesta nel desiderio egoistico, di cui l’amore è esattamente il contrario. Perciò Paolo afferma che la salvezza non viene dalla promulgazione di una legge, per quanto giusta e santa essa possa essere. Per salvarsi l’uomo ha bisogno di un supplemento di grazia, che Dio infonde mediante lo Spirito, il dono per eccellenza di cui è dotato chi aderisce a Cristo mediante la fede. Di conseguenza solo il credente osserva pienamente la legge poiché lo Spirito opera ormai in lui e gli ispira una nuova mentalità e un nuovo modo di agire. Pur vivendo ancora in una carne mortale, egli è già partecipe di quella vita immortale che lo Spirito ha conferito a Cristo mediante la risurrezione e darà un giorno a tutti coloro che gli appartengono. Questa tesi, affermata con grande forza da Paolo contro tutte le accuse che gli venivano fatte dai suoi avversari, mette chiaramente in luce la dignità della persona umana. All’uomo, in quanto creatura dotata di ragione e di libertà, non conviene un agire imposto da una legge esterna, con le sue minacce e punizioni. L’uomo deve poter agire per una spinta interiore, che lo orienti al bene pur lasciandolo libero di fare le sue scelte. Lo Spirito svolge questo compito, in quando rendendo viva l’esperienza di Cristo nel suo cuore, può muovere l’uomo dall’interno e al tempo stesso garantisce la sua libertà. Perciò è solo lo Spirito che può guidare l’uomo a compiere liberamente la volontà di Dio e a vincere il peccato.  

COMMENTO A ZACCARIA 9,9-10

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COMMENTO A ZACCARIA 9,9-10

Così dice il Signore: 9 Esulta grandemente figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina.

10 Farà sparire i carri da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annunzierà la pace alle genti, il suo dominio sarà da mare a mare e dal fiume ai confini della terra.

COMMENTO Zaccaria 9,9-10 Il Messia umile e vittorioso Il libro di Zaccaria si divide in due sezioni, di cui solo la prima (cc. 1-8) raccoglie gli oracoli di questo profeta. La seconda sezione (cc. 9-14), diversa dalla prima per stile e contenuto, è attribuita invece un autore anonimo del tempo di Alessandro Magno: la sua interpretazione è resa difficile dall’accentuato simbolismo e dal cattivo stato del testo. Essa si divide in tre parti: nella prima parte si annunzia la venuta del regno di Dio, che coincide con il raduno dei giudei dispersi e con la caduta dei regni di questo mondo (9,1-11,3); nella seconda (11,4-14,21) si parla della liberazione di Gerusalemme mediante la sofferenza dei suoi rappresentanti, il buon pastore (11,4-16; 13,7-9) e colui che è stato trafitto (12,10-14); nella terza infine si annunzia che JHWH combatterà contro le nazioni e stabilirà su tutto il mondo la sua regalità (14,1-21). All’inizio della prima di queste tre parti si descrive lo straordinario effetto della parola di JHWH (9,1-8): come un potente esercito conquistatore essa percorre il regno di Siria e le città della Filistea e della Fenicia per fare di esse il suo popolo, dopo averle purificate dall’idolatria e averne fatto un’unica famiglia con Israele; su di esse JHWH vigilerà come una sentinella perché non gli siano poi nuovamente tolte. Al termine del brano iniziale si situa il testo liturgico, che si stacca dal precedente a motivo sia dello stile che del contenuto, anche se idealmente si collega con esso in quanto ambedue annunziano l’avvento dell’era messianica. Il profeta non si rivolge più alle città della Siria, Fenicia e Filistea, ma a Sion-Gerusalemme (v. 9a), per annunziare non una nuova conquista, ma la venuta del suo re salvatore (v. 9ab), non sulle nubi del cielo e nei fenomeni cosmici, ma cavalcando un giumento (v. 9b). La sua missione non è la guerra (v. 10a), ma la pace universale (v. 10b). Le parole e le immagini sono quelle usate dai profeti precedenti per annunziare il re messianico. Di nuovo c’è qui l’affermazione della solenne investitura regale del Messia in Gerusalemme in una fastosa celebrazione liturgica. Il testo si apre con un invito alla gioia: «Esulta grandemente figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme» (v. 9a). L’invito alla gioia più intensa, specialmente se rivolto agli abitanti di Gerusalemme, evoca una cerimonia liturgica in cui si solennizza la regalità divina (cfr. Is 65,18; 66,10; Ab 3,18). L’espressione «figlia di Sion» come la successiva «figlia di Gerusalemme» è un semitismo per indicare gli appartenenti alla collina di Sion, cioè gli abitanti di Gerusalemme. Anche il verbo «giubilare» evoca la circostanza di una solenne liturgia (cfr. Esd 3,13) nella quale si esprime la gioia dell’avvento della regalità di JHWH (cfr. Sal 47,2; 66,1; 95,1-2; 98,4.6). I profeti invitano alla gioia e al giubilo quando annunziano la manifestazione gloriosa di Dio nell’era messianica (cfr. Is 44,23; Sof 3,14; Gl 2,1). Il motivo del giubilo viene indicato subito dopo con questa espressione: «Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca su un asino, un puledro figlio d’asina» (v. 9b). La particella «ecco» indica che l’evento di cui si sta per parlare è imminente. L’espressione «a te viene il tuo re» indica che l’evento in questione è la venuta a Gerusalemme del Messia. Da dove egli venga non è indicato; la sua apparizione è immediata e misteriosa, come quella di JHWH stesso. Così le antiche profezie del messianismo reale davidico sempre più si colorano di elementi sovrumani, mentre sempre più d’altro canto va sbiadendosi il colore politico e storico del personaggio. Il primo attributo che caratterizza il Messia è la giustizia. Il giusto è colui che ha raggiunto la perfezione religiosa in quanto compie nella maniera più completa quello che Dio esige da lui, diventando per questo oggetto delle benedizioni divine (cfr. Dt 6,25; Pr 10,6). Sono modello dell’uomo giusto sia Noè (cfr. Gen 6,9; 7,1) che Abramo (Gen 15,6). La giustizia è un attributo del re (cfr. 1Sam, 24,18; 2Sam 4,11; 2Sam 23,3): a maggior ragione quindi il Messia è presentato come il giusto per eccellenza (cfr. Ger 23,5). Il Messia non è solo giusto, ma anche «vittorioso» (lett. salvatore). La salvezza, come la giustizia, è attribuita a JHWH dal Deuteroisaia (cfr. Is 45,21): secondo questo testo anche il Messia partecipa di questa prerogativa in quanto egli collabora all’opera di JHWH che gli conferisce la vittoria sui suoi nemici. Infine qusto re è «mite»: mentre i due primi attributi rivelano i suoi rapporti con JHWH, la mitezza indica il suo ateggiamento nei confronti degli uomini. Questo attributo è appare come una caratteristica di Mosè nei suoi rapporti con Miriam ed Aronne, invidiosi della sua condizione privilegiata(cfr. Nm 12,3). Come lui anche il re messianico, benché giusto e quindi particolarmente protetto da Dio, non si esalta né davanti a Dio né davanti agli uomini. Egli «cavalca sopra un asino»: mentre guerrieri valorosi e crudeli (cfr. Gr 6,23; 50,42), e anche Dio stesso (cfr. Ab 3,8), manifestano la loro dignità servendosi di cavalli, egli mostra la sua umiltà e mitezza cavalcando un asinello. Così aveva fatto Abigail davanti a David (cfr. 1Sam 25,20-43) e Davide stesso in fuga davanti al figlio Assalonne (cfr. 2Sam 16,2). Allo stesso modo il re messianico si presenta come una persona umile e semplice, e non come un re terreno o un guerriero vittorioso. Per le regole del parallelismo le due espressioni «asino» e «figlio di un’asina» si equivalgono. Al re che entra trionfalmente in Gerusalemme vengono attribuite due azioni parallele, una negativa e l’altra positiva. Prima di tutto egli «farà sparire i carri da Efraim e i cavalli da Gerusalemme» (v. 10a). Il nome Efraim è quello di uno dei due figli di Giuseppe e indica la tribù maggioritaria del Nord e quindi per metonimia tutto il regno di Israele in contrasto con il regno di Giuda, indicato con il nome della sua capitale, Gerusalemme. Sia in Israele che in Giuda gli farà dunque sparire tutti gli strumenti di guerra. Ciò significa che nell’era messianica non vi sarà più divisione fra il regno di Israele e quello di Giuda e il re messianico regnerà quindi su tutto Israele. Oltre a far scomparire carri da guerra e cavalli, il re spezzerà per sempre l’arco, l’arma ordinaria in dotazione all’esercito di Israele (cfr. Os 2,20; 1Cr 5,18; ecc.). In senso negativo si dice dunque che il Messia eliminerà la guerra per sempre. In senso positivo si afferma invece che il Messia «annunzierà la pace alle genti, il suo dominio sarà da mare a mare e dal fiume ai confini della terra» (v. 10b). La sua missione principale sarà quella di proclamare la pacificazione fra i popoli, come già avevano annunziato Isaia (cfr. Is 11,6) e Osea (cfr. Os 2,20). La sua missione pacificatrice si estenderà da un mare, il Mediterraneo, a un altro mare, il golfo Persico, e dal fiume, il Nilo, sino ai confini della terra: tutte e quattro le indicazioni geografiche, che ritornano anche nel Sal 72,8, indicano simbolicamente l’universalità del regno messianico.

Linee interpretative In questo testo si preannunzia la venuta del « Messia », la cui attesa si era diffusa nel periodo postesilico tra tutto il popolo giudaico. Egli viene presentato come un re che prende possesso delle due nazioni israelitiche, Israele e Giuda, che vengono nuovamente unite per formare l’unico popolo eletto; inoltre viene indicato come colui che stabilirà il dominio di Dio su tutto il mondo. Per mezzo suo si realizza dunque il regno universale di Dio. La caratteristica fondamentale di questo regno è la pace. Questa viene descritta, alla luce dell’ideologia tipica dell’antico Oriente, come l’eliminazione forzata dei conflitti mediante la vittoria di un re su tutti i regni vicini. Era questo il modo in cui si pensava di poter rappacificare le nazioni in lotta e creare nuove condizioni di vita per tutti. Di questo tipo era la pace imposta dai grandi imperi dell’antichità e soprattutto dai romani (pax romana). Pur ispirandosi a questa ideologia il testo di Zaccaria la supera decisamente. Il re Messia è presentato come una persona giusta e mite, cioè non violento. Ciò che gli compete non è tanto la vittoria sui nemici, come lascia intendere la traduzione CEI, quanto piuttosto la capacità di dare una salvezza che consiste non nel reprimere la violenza con la violenza, ma nel creare rapporti nuovi tra le nazioni e gli individui. Di conseguenza la pace che egli porta elimina alla radice la possibilità stessa di nuove violenze. Ciò è possibile perché egli è un giusto, e ispira il suo intervento alla giustizia, che consiste essenzialmente nell’osservanza della legge di Dio. Egli attua così la figura ideale del re, quale era descritta nella Scritture (cfr Dt 17,14-20). Mediante la sua umiltà e non violenza il Messia descritto da Zaccaria manifesta la vera immagine di Dio, che attua la sua salvezza non mediante il ricorso a minacce e castighi, ma muovendo il cuore delle persone perché colgano un ideale e si impegnino in esso con tutte le forze.

 

6 LUGLIO 2014 | 14A DOMENICA – LECTIO DIVINA : MT 11,25-30

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6 LUGLIO 2014 | 14A DOMENICA A – T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

LECTIO DIVINA : MT 11,25-30

Di fronte all’incredulità della maggioranza, Gesù si sente lusingato per la fede che ha trovato nei pochi che hanno osato accogliere il suo messaggio senza scandalizzarsi di lui. Essi sono la ragione della preghiera di Gesù; ed in lei Gesù svela il suo segreto più intimo: il Dio della gente semplice, il Dio che ritiene opportuno fare saggio il semplice ed intenditore l’ignorante, è il Padre di Gesù. Perché ci fu gente semplice, attorno a Gesù, tanto semplice che non si scandalizzava di lui, Gesù poté proclamarsi come il Figlio di Dio riconoscente verso suo Padre. Dietro l’azione di grazie, il Figlio si offre a quella gente semplice come il suo riposo, la riparazione e lo sfogo che i discepoli trovano nel suo maestro non si deve all’assenza di imposizioni né alla scarsità di insegnamento; il magistero di Gesù è leggero, perché Gesù è mite; e sopportabile il suo carico, perché ha un cuore umile. È, dunque, un carico ed un sollievo per i suoi; Gesù non libera dall’obbedienza né dalla croce i suoi discepoli; ma si impegna a non far pesare l’essere ubbidienti e darà sollievo il caricarsi della croce.

In quel tempo, Gesù disse: « Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero »

1. LEGGERE : capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice Benché gli evangelisti ci ricordino che Gesù pregava frequentemente, poche volte ci hanno trasmesso il contenuto della sua preghiera. Per questo motivo è tanto prezioso il nostro breve testo; in esso troviamo non solo le parole ed i sentimenti coi quali Gesù, pregando, si dirigeva al nostro Dio, suo Padre; sentiamo anche un invito a condividere il riposo e l’insegnamento, diretto a tutti quelli che si sentono stanchi ed affaticati. Questa preghiera tanto consolatrice ha, ciò nonostante, un motivo concreto. Gesù si mise a dire questa preghiera quando, durante il suo ministero pubblico, notò che solo pochi, gente semplice che lo seguiva, stavano accettando Dio ed aprivano le loro vite al suo volere. Questo piccolo ‘trionfo’ nella sua attività come evangelizzatore riempì il cuore di Gesù di allegria e la sua bocca di preghiere. Per i buoni Gesù non lo era troppo; ed ai saggi non sembrava loro sufficientemente abile: solo gli umili gli diedero credito, seppero stimarlo e si sentirono di seguirlo. E per coloro che l’accompagnavano fu maestro di preghiera e sicuro riposo. La preghiera ha tre parti, ben differenziate. Incomincia con una ‘eucaristia’: Gesù si dice grato con suo Padre, perché si è manifestato ai piccoli. Ringrazia, dunque, per il successo della sua missione, la quale è già un notevole insegnamento. Inoltre, fa capire che, in realtà, è stato suo Padre che si è rallegrato nel farsi capire dai piccoli. Simile preferenza di Dio è motivo dell’azione di grazie di Gesù e tale gratitudine lo salva dal doversi sentire defraudato dall’esito avuto nella sua missione personale. In realtà, la seconda affermazione di Gesù è, più che una autentica orazione, è una confessione personale. Gesù si dice Figlio, con tanta semplicità e chiarezza. Riconosce che la sua missione, fare conoscere il Padre, è dono che gli è stato fatto. Curiosa, inoltre, la formulazione: nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo. Per conoscere Dio Padre, è necessario imparare dal Figlio. La terza affermazione è un invito o meglio una promessa. Si lascia la preghiera e l’autoconfessione e si passa all’esortazione. Il suo destinatario non è il Padre che si fa conoscere dal Figlio, né il Figlio che fa conoscere il Padre bensì coloro che ascoltandolo si sappiano bisognosi di sollievo e di riposo. Ma, e non smette di essere sorprendente, Gesù impone due compiti e ricorre a due imperativi – prendete ed imparate – prima di dare per compiuta la sua promessa (troverete riposo). Il discepolo può se è molto semplice e si sente molto stanco, per sentire sollievo, dovrà, oltre ad imparare del suo maestro, caricare il suo giogo. E per sopportabile che sia, è ad un giogo che bisogna sottomettersi; e anche se leggero, non smette di essere un giogo ciò che dovrà portare.

2 – MEDITARE : Applicare quello che dice il testo alla vita Di fronte all’incredulità ed alla indifferenza della maggioranza, Gesù si sente lusingato per la fede che ha trovato nei pochi che hanno accolto il suo messaggio senza scandalizzarsi di lui. Essi sono la ragione della preghiera di Gesù. In lei Gesù svela il suo segreto più intimo: il Dio della gente semplice, il Dio che ritiene opportuno fare saggio l’ingenuo e sapiente l’ignorante, è il Padre di Gesù. Perché ci fu gente semplice, attorno a Gesù, tanto semplice da non scandalizzarsi di lui, Gesù poté esprimersi come il Figlio di Dio che era e sentirsi riconoscente con suo Padre. Credenti senza molte luci, gente che conta poco, discepoli del mucchio, furono quelli che un giorno diedero voce e temi alla preghiera di Gesù. Sapendosi accettato nella sua persona e nel suo insegnamento, Gesù fece loro sapere la sua preghiera ed in lei scoprì il suo mistero personale; lodò suo Padre e benedisse il suo volere. Avremmo potuto desiderare noi una maggiore influenza su Gesù? Chi riconosce Gesù fa che Gesù sia riconoscente col suo Dio; chi accetta Gesù lo trasforma in orante grato verso Dio; chi non si scandalizza di lui, l’obbliga a proclamarsi figlio di Dio. Dovrebbe bastare a noi che Gesù si sente felice di essere accettato dalla gente, benché sia tanto semplice e senza meriti come siamo noi. Dovremmo sforzarci che egli sia conosciuto ed apprezzato, senza dover cercare noi riconoscimento e stima. Basterebbe solo questo perché, di nuovo, fossimo noi la causa della sua gioia e della sua preghiera. Come quei primi discepoli, dei quali non sappiamo il nome e con poche notizie, possiamo noi restituire a Gesù la fiducia in sé stesso ed in Dio, se ci impegniamo a seguirlo senza scandalizzarci di lui, ad imparare vicino a lui senza cercare altri maestri, ad ubbidire solo a lui senza servire altri signori. Non esige grandi cose, né un’intelligenza eccezionale né sufficiente ricchezza: gli basta quello che siamo. Non mi sembra, certamente, troppo alto il prezzo da pagare per ciò, se è sufficiente che, rimanendo semplici e poveri, mettiamo in lui la nostra speranza. Dopo avere pregato, Gesù invita quelli che l’hanno accettato, che si sentono bene con lui, a rinfrancare le forze ed alleviare le pene, mentre lo seguono da vicino. Desidera fare di quanti l’accolsero senza riserve, dei discepoli senza fatiche; vuole che imparino da lui a riposarsi dalle fatiche: perché conoscono chi è, sono degni di diventare Amici suoi. Ma non nasconde che, vicino a lui, le difficoltà non spariscono. Gesù non inganna le persone che lo seguono, per molto semplici che siano: parla loro di un giogo e di un carico. Non abbasserà, dunque, il livello delle sue esigenze né allevierà il suo peso; la riparazione e lo sfogo che i discepoli trovano nel loro maestro non si deve all’assenza di imposizioni né al suo insegnamento leggero. Il magistero di Gesù è lieve perché Gesù è mite, e sopportabile il suo carico perché ha un cuore umile. È, dunque, un carico ed un sollievo per i suoi; Gesù non libera dall’obbedienza né dalla croce i suoi discepoli, solamente promette loro che non soccomberanno davanti alle sue esigenze e che non peserà loro di essere ubbidienti né di portare la propria croce. E dà la ragione. È un maestro umile, all’altezza dei più semplici; un insegnante misericordioso che non perde la pazienza quando si perdono di vista i suoi insegnamenti. Il discepolo di Gesù sa che lo è, se impara da lui quanto Dio vuole bene ad ognuno, se conosce la volontà di Dio come guida della sua vita; non si libera, dunque, dallo sforzo dell’apprendistato né dal dovere della pratica. Ma perché Gesù è un maestro dal cuore compassionevole, il suo discepolo può riposare tranquillo, perfino quando non ha saputo ripetere quello che ha imparato né vivere ciò che ha conosciuto. Le viscere di misericordia del Maestro impediscono il discepolo che fallisce di sentirsi fallito: Gesù non ci vuole bene perché siamo buoni, ci vuole migliori di quanto riusciamo ad essere; non dispera di noi, e continua a darci più di quanto gli diamo, più di quanto possiamo, più… Ma, siccome ci vuole svisceratamente bene, con un cuore che si affligge per la nostra miseria, non si scoraggia di noi, se non siamo riusciti ad essere buoni; né ci respinge per non essere arrivati ad essere migliori. In Gesù abbiamo, dunque, un maestro che ci è offerto a chiedere sempre più di noi, perché gli interessiamo sempre un po’ di più; ma che non lascerà di volerci bene, solo perché non siamo riusciti a vivere secondo il suo volere. La sua povertà è la nostra migliore garanzia: essere discepolo di Gesù è difficile, ma non penoso; può arrivare ad essere pesante, ma mai opprimente. Se perfino i discepoli disubbidienti trovano accoglienza e riparazione, che cosa non otterranno quanti si sforzano per seguirlo più da vicino? La fatica e la stanchezza non sono mai ragione per abbandonarlo; al contrario chi si sente stanco o affaticato è, precisamente lui che ha ricevuto l’invito di Gesù. Non bisogna dimenticarlo. Se per paura del carico o per paura del suo giogo, non lo seguiamo, continueremo a sentire la fatica e l’ingiustizia della vita: Gesù è gioia e riposo solo per quanti lo hanno come maestro mite ed umile. Che cosa aspettiamo a sceglierlo come unico Maestro e Signore?

JUAN JOSE BARTOLOME sdb,

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