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Le gioie soavi di Maria, tutte le felicità di Maria si concentrano nella contemplazione dele gioie di Gesù

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Publié dans:immagini sacre |on 1 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

DAL LIBRO DI BENEDETTO XVI « LA GIOIA DELLA FEDE »: ECCO UNA RIFLESSIONE SUL SENSO DELLA VITA ETERNA

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LA GIOIA DELLA FEDE

DAL LIBRO DI BENEDETTO XVI « LA GIOIA DELLA FEDE »: ECCO UNA RIFLESSIONE SUL SENSO DELLA VITA ETERNA

Dobbiamo adesso domandarci esplicitamente: la fede cristiana è anche per noi oggi una speranza che trasforma e sorregge la nostra vita?

È essa per noi «performativa» – un messaggio che plasma in modo nuovo la vita stessa, o è ormai soltanto «informazione» che, nel frattempo, abbiamo accantonata e che ci sembra superata da informazioni più recenti? Nella ricerca di una risposta vorrei partire dalla forma classica del dialogo con cui il rito del Battesimo esprimeva l’accoglienza del neonato nella comunità dei credenti e la sua rinascita in Cristo.
Il sacerdote chiedeva innanzitutto quale nome i genitori avevano scelto per il bambino, e continuava poi con la domanda: «Che cosa chiedi alla Chiesa?». Risposta: «La fede». «E che cosa ti dona la fede?»
Stando a questo dialogo, i genitori cercavano per il bambino l’accesso alla fede, la comunione con i credenti, perché vedevano nella fede la chiave per «la vita eterna».
Di fatto, oggi come ieri, di questo si tratta nel Battesimo, quando si diventa cristiani: non soltanto di un atto di socializzazione entro la comunità, non semplicemente di accoglienza nella Chiesa. I genitori si aspettano di più per il battezzando: si aspettano che la fede, di cui è parte la corporeità della Chiesa e dei suoi sacramenti, gli doni la vita – la vita eterna. Fede è sostanza della speranza. Ma allora sorge la domanda: Vogliamo noi davvero questo – vivere eternamente? Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo. Continuare a vivere in eterno – senza fine – appare più una condanna che un dono.
La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine – questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile. È precisamente questo che, per esempio, dice il Padre della Chiesa Ambrogio nel discorso funebre per il fratello defunto Satiro: «È vero che la morte non faceva parte della natura, ma fu resa realtà di natura; infatti Dio da principio non stabilì la morte, ma la diede quale rimedio. [...] A causa della trasgressione, la vita degli uomini cominciò ad essere miserevole nella fatica quotidiana e nel pianto insopportabile. Doveva essere posto un termine al male, affinché la morte restituisse ciò che la vita aveva perduto. L’immortalità è un peso piuttosto che un vantaggio, se non la illumina la grazia». Già prima Ambrogio aveva detto: «Non dev’essere pianta la morte, perché è causa di salvezza…». Qualunque cosa sant’Ambrogio intendesse dire precisamente con queste parole, è vero che l’eliminazione della morte o anche il suo rimando quasi illimitato metterebbe la terra e l’umanità in una condizione impossibile e non renderebbe neanche al singolo stesso un beneficio.
Ovviamente c’è una contraddizione nel nostro atteggiamento, che rimanda ad una contraddittorietà interiore della nostra stessa esistenza. Da una parte, non vogliamo morire; soprattutto chi ci ama non vuole che moriamo. Dall’altra, tuttavia, non desideriamo neppure di continuare ad esistere illimitatamente e anche la terra non è stata creata con questa prospettiva. Allora, che cosa vogliamo veramente? Questo paradosso del nostro stesso atteggiamento suscita una domanda più profonda: che cosa è, in realtà, la «vita»? E che cosa significa veramente «eternità»? Ci sono dei momenti in cui percepiamo all’improvviso: sì, sarebbe propriamente questo – la «vita» vera – così essa dovrebbe essere. A confronto, ciò che nella quotidianità chiamiamo «vita», in verità non lo è. Agostino, nella sua ampia lettera sulla preghiera indirizzata a Proba, una vedova romana benestante e madre di tre consoli, scrisse una volta: In fondo vogliamo una sola cosa – «la vita beata», la vita che è semplicemente vita, semplicemente «felicità». Non c’è, in fin dei conti, altro che chiediamo nella preghiera.
Verso nient’altro ci siamo incamminati – di questo solo si tratta.
Ma poi Agostino dice anche: guardando meglio, non sappiamo affatto che cosa in fondo desideriamo, che cosa vorremmo propriamente. Non conosciamo per nulla questa realtà; anche in quei momenti in cui pensiamo di toccarla non la raggiungiamo veramente. «Non sappiamo che cosa sia conveniente domandare», egli confessa con una parola di san Paolo (Rm 8,26). Ciò che sappiamo è solo che non è questo.
Tuttavia, nel non sapere sappiamo che questa realtà deve esistere. «C’è dunque in noi una, per così dire, dotta ignoranza» (docta ignorantia), egli scrive. Non sappiamo che cosa vorremmo veramente; non conosciamo questa «vera vita»; e tuttavia sappiamo, che deve esistere un qualcosa che noi non conosciamo e verso il quale ci sentiamo spinti. Penso che Agostino descriva lì in modo molto preciso e sempre valido la situazione essenziale dell’uomo, la situazione da cui provengono tutte le sue contraddizioni e le sue speranze. Desideriamo in qualche modo la vita stessa, quella vera, che non venga poi toccata neppure dalla morte; ma allo stesso tempo non conosciamo ciò verso cui ci sentiamo spinti. Non possiamo cessare di protenderci verso di esso e tuttavia sappiamo che tutto ciò che possiamo sperimentare o realizzare non è ciò che bramiamo. Questa «cosa» ignota è la vera «speranza» che ci spinge e il suo essere ignota è, al contempo, la causa di tutte le disperazioni come pure di tutti gli slanci positivi o distruttivi verso il mondo autentico e l’autentico uomo.
La parola «vita eterna» cerca di dare un nome a questa sconosciuta realtà conosciuta. Necessariamente è una parola insufficiente che crea confusione. «Eterno», infatti, suscita in noi l’idea dell’interminabile, e questo ci fa paura; «vita» ci fa pensare alla vita da noi conosciuta, che amiamo e non vogliamo perdere e che, tuttavia, è spesso allo stesso tempo più fatica che appagamento, cosicché mentre per un verso la desideriamo, per l’altro non la vogliamo. Possiamo soltanto cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della quale siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l’eternità non sia un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell’immergersi nell’oceano dell’infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più.
Possiamo soltanto cercare di pensare che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastità dell’essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia. Così lo esprime Gesù nel Vangelo di Giovanni: «Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia»
(16,22). Dobbiamo pensare in questa direzione, se vogliamo capire a che cosa mira la speranza cristiana, che cosa aspettiamo dalla fede, dal nostro essere con Cristo.

ALZATE GLI OCCHI AL CIELO (Don Bosco)

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=126985

ALZATE GLI OCCHI AL CIELO (Don Bosco)

Io piango nel rimirare la luna che da tanti secoli compare con regolarità a rischiarare le tenebre della notte, senza mai disobbedire agli ordini del Creatore, mentre io che sono tanto giovane, io che sono ragionevole l’ho disobbedito tante volte…

Se la conoscenza di Dio è fondamentale per poterlo amare, il modo più semplice per conoscerlo, che Don Bosco indica ai suoi ragazzi, è quello di scoprirne la bellezza attraverso la contemplazione del creato. La sua meditazione sembra risentire delle riflessioni di Mamma Margherita, quando aiutava i suoi bambini a vedere Dio nella natura che li circondava, a vedere l’amore di Dio creatore per le sue creature: «Se la notte era bella e il cielo stellato Mamma Margherita diceva: “È Dio che ha creato il mondo e ha messo lassù tante stelle”. Quando i prati erano pieni di fiori, mormorava: “Quante cose belle ha fatto il Signore per noi”» (Don Bosco, una biografia nuova, Elledici).
L’eco di questa esperienza di Dio, Don Bosco sembra trasmetterla nel libro di preghiera per i suoi ragazzi: «Alzate gli occhi, o figlioli miei, ed osservate quanto esiste nel cielo e sulla terra. Il sole, la luna, le stelle, l’aria, l’acqua, il fuoco sono tutte cose che un tempo non esistevano. Dio con la sua onnipotenza tutte le trasse dal niente creandole, e perciò si chiama Creatore».
Crediamo quanto mai opportuno educare i giovani alla contemplazione del creato nel quale si riflette la bellezza del Creatore. È il primo libro che i ragazzi e i giovani devono imparare a leggere. Dobbiamo chiedere loro di alzare gli occhi, che normalmente i ragazzi non usano per guardarsi intorno, e ammirare i panorami che la natura presenta. Aiutarli a vivere momenti intensi di preghiera, cioè di colloquio spontaneo con Lui, immergendo i loro occhi nella maestosità delle montagne con il candore delle loro nevi e dei ghiacciai, o il perdersi nell’orizzonte del mare, o nei colori variegati delle colline, o nella trasparenza dei laghi di montagna.
Sarebbe bello che i diversi movimenti ecologisti, che si presentano ai nostri giorni come i custodi del creato e di una certa etica di difesa della natura, aiutassero i loro membri a risalire al Creatore dell’universo e scoprissero la sua bellezza.
Questo primo invito alla contemplazione del creato doveva avere impressionato in particolare Michele Magone, questo povero tredicenne sbandato di Carmagnola, che incontra Don Bosco e tutto cambia nella sua giovane esistenza.
È già stato richiamato questo episodio della sua vita, avvenuto durante una delle famose passeggiate autunnali, quando Michele si trova ai Becchi, in una bella sera stellata di ottobre. I suoi compagni dormono sul fienile della casa di Giuseppe, mentre Michele è seduto a terra con le spalle appoggiate al muretto del cortile e fissa il cielo e piange. Don Bosco dalla sua cameretta lo sente e scende a consolarlo e gli domanda:
«– Che hai Magone? ti senti male? – Io piango nel rimirare la luna che da tanti secoli compare con regolarità a rischiarare le tenebre della notte, senza mai disobbedire agli ordini del Creatore, mentre io che sono tanto giovane, io che sono ragionevole, che avrei dovuto essere fedelissimo alle leggi del mio Dio, l’ho disobbedito tante volte e l’ho in mille modi offeso».
Veramente il peccato è il primo disastro ecologico che inquina il mondo ed è da tanti ignorato.
L’uomo capolavoro del creato
Continua Don Bosco: «Questo Dio, che sempre fu e sempre sarà, dopo aver creato le cose che nel cielo e nella terra si contengono, diede esistenza all’uomo, il quale di tutte le creature visibili è la più perfetta. Onde i nostri occhi, la bocca, la lingua, le orecchie, le mani, i piedi sono tutti doni del Signore».
Veramente l’uomo è il capolavoro del creato e il suo corpo sembra riassumere in sé tutte le meraviglie delle altre creature, esaltandone l’ordine e l’armonia. Che orrore dunque il pensare alle manipolazioni genetiche già sull’embrione umano e poi alle varie degradazioni dell’amore cui viene sottoposto il corpo umano.
Da questa riflessione sulla bellezza di Dio, che si manifesta nelle sue creature ed in particolare nell’uomo, nasce spontanea la necessità di educare i giovani a ringraziare per il dono della vita e a mai metterla in pericolo; ad apprezzare l’uso degli occhi che sono le finestre dell’anima e l’uso della lingua, questo piccolo membro che può diffondere tanto bene fino a manifestare le espressioni più alte dell’amore, o a fare tanto male. Così si può dire di tutti gli altri sensi, dei quali sentiamo la necessità specie quando vengono meno, mentre bisogna evitare di servirsene per operare il male.
Il gusto del bello
Abbiamo urgente, assoluto bisogno di recuperare il senso del bello nella nostra vita. La bellezza risulta essere una straordinaria forza che ci attira verso Dio, che è in sé armonia, bellezza, pienezza, verità.
Ci pare dunque doveroso aiutare i nostri giovani a ritrovare il gusto del bello attraverso all’ordine, alla pulizia, all’abito bello, indossato in particolare nel giorno del Signore, mentre una certa moda in questi decenni ha propagandato il brutto, a partire dall’abito sporco, strappato, scolorito, sensuale. È ora di reagire a queste mode che allontanano da Dio.
L’abito più bello è quello di un giovane abitato dalla grazia di Dio, con quegli occhi trasparenti come dei laghetti di montagna, nel quale si può vedere fino in fondo. Come è bello da riscoprire questo abito spirituale. Don Bosco è stato capace di rivestire di questo abito i suoi poveri ragazzi ricoperti di stracci. È l’abito dal quale traspare l’anima spirituale e tutta la sua vita interiore.
Chi salva l’anima salva tutto
Continua Don Bosco richiamando ai suoi giovani la creazione dell’uomo: «L’uomo si distingue da tutti gli altri animali specialmente perché è fornito di un’anima la quale pensa, ragiona, vuole e conosce ciò che è bene e ciò che è male.
Questa anima, essendo un puro spirito, non può morire col corpo; ma, quando questo sarà portato al sepolcro, essa andrà a cominciare un’altra vita, che non finirà più. Se fece bene, sarà sempre beata con Dio in Paradiso, dove godrà tutti i beni in eterno, se operò male, verrà punita con un terribile castigo nell’inferno dove patirà per sempre il fuoco e ogni sorta di pene.
Badate per altro, o miei figlioli, che noi siamo tutti creati per il Paradiso, e Dio, che è padre amoroso, condanna all’inferno soltanto chi se lo merita per i suoi peccati. Oh, quanto ci ama il Signore, e quanto desidera che noi facciamo buone opere per poterci poi rendere partecipi di quella grande felicità, che tiene a tutti preparata in eterno nel Cielo!»
La bellezza di Dio si riflette in particolare nell’uomo creato a sua immagine e somiglianza e noi lo vediamo soprattutto nella sua espressione spirituale che è l’anima. Don Bosco vedeva le meraviglie che Dio operava nei cuori di tanti animi buoni dei suoi giovani, mentre era angosciato davanti ai pericoli che potevano incontrare di perdersi. Anche di notte in sogno, combatteva per loro per la salvezza della loro anima. Ancora pochi mesi prima di morire scriveva su delle immagini: «Chi salva l’anima salva tutto, chi perde l’anima perde tutto».
Aiutava per questo i suoi ragazzi a meditare sulla vita oltre la morte e a pensare spesso al Paradiso e alla felicità eterna e alla possibilità di perderlo divenendo schiavi dei propri peccati, garanzia dell’inferno già in questa vita.
Quante persone colte, ricche e potenti non pensano mai alla vita oltre la morte, mentre fanno dei sacrifici esagerati per i beni di questo mondo. Per loro risuonano ancora le parole: «A che serve guadagnare il mondo, se uno perde la sua anima?»

Publié dans:meditazioni |on 1 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

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