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15 GIUGNO 2014 – 11A DOM.: LA SS. TRINITÀ – LECTIO DIVINA : GV 3,16-18

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15 GIUGNO 2014 | 11A DOM.: LA SS. TRINITÀ A – T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

LECTIO DIVINA : GV 3,16-18

In dialogo con Nicodemo, l’ebreo pio che gli si avvicinò di notte, Gesù fa un’affermazione fondamentale: la salvezza dipenderà dalla fede che si ha avuto. L’autore del vangelo ha messo in bocca di Gesù la convinzione della sua comunità; Gesù dice a Nicodemo quello che la comunità cristiana sta proclamando al mondo, Dio ha accondisceso alla morte del Figlio; la sua consegna svela l’amore con il quale Dio ama al mondo. Credere, che sapersi amati da Dio nella morte di Cristo, ottiene la vita eterna, si è salvati per il Figlio. Dio che invia, il Figlio che si dona, l’Amore che si rivela coincidono come agire per la salvezza del mondo che crede. Tutto dipende, dunque, dall’accettazione personale di questo Dio, da una fede che è, soprattutto, amore riconoscente; fede è sapersi coinvolto dalla decisione di Dio e sentirsi obbligato da lei, come debito di una risposta. Non dovrebbe diventare penosa una fede, una salvezza, che si riduce a sapersi amato in tutto da Dio e di ‘tre forme’ differenti.

16 In quel tempo, disse Gesù a Nicodemo: « Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque creda in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
17 Dio, infatti, non ha mandato il suo Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
18 Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.
1. LEGGERE : capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
L’incontro di Gesù con Nicodemo (3,1-21), maestro in Israele, è l’occasione che motiva il primo discorso di Gesù nel quarto vangelo, un discorso nel quale appena si possono distinguere le affermazioni di Gesù dal commento dell’evangelista. Nicodemo è, più che un interlocutore, un pretesto; in realtà, presto sarà dimenticato (a partire da 3,9) e Gesù inizierà un lungo monologo che lo trasforma in rivelatore del Padre (3,11-21).
Il nostro breve testo, parte integrante della prima sezione del discorso (3,12-18), viene dopo le parole di Gesù sulla necessità di ‘rinascere’ di nuovo (= dall’alto, cioè, da Dio per raggiungere la vita eterna. La vita eterna porta con sé il protagonismo di Dio che ama, dà ed invia (3,16-17), tre attuazioni che hanno la consegna del figlio come dimostrazione e garanzia; il figlio donato/inviato (3,16.17.18) è l’unigenito (3,16.18) ed il mondo il suo destino (3, 16.17.19). Se è possibile rinascere, è perché ci fu la consegna del Figlio; se c’è vita eterna per il credente è perché Dio inviò suo Figlio. Così è svelato il suo amore. Dio ama tanto il mondo da dare il suo Unigenito (3,16).
Giovanni utilizza il verbo amare, il più delle volte, per esprimere la relazione tra Dio e Gesù (3,35; 10,17; 14,31; 15,9-10; 17,23-24.26) tra Gesù ed i discepoli (11,5; 13,1.33.34; 14,21; 15,9.12; 21,7.20) e dei discepoli tra di loro (13,34; 15,12.17; 17,269). Per questo motivo è qui significativo il suo impiego, riferito al mondo, il genere umano (3,17). L’amore di Dio precede tutto, perfino l’intera avventura del Figlio. Gesù è dono di Dio al mondo e chiunque lo accetti si libera dalla perdizione ed ottiene la vita eterna.
La consegna del figlio, il suo invio al mondo, aveva come finalità la sua salvezza. Ma benché l’amore del Padre e la missione del Figlio furono gratuiti, la sua accettazione non è libera. La volontà salvifica di Dio deve essere assunta per la fede. La fede è l’accettazione di quel Dono divino e della sua forma di esserci donato, la morte in croce; pertanto, nella fede in questo Cristo dato si decide l’accettazione dell’amore di Dio o il suo rifiuto: l’incontro con Gesù è decisivo, apre alla vita o alla morte. Come l’amore è gratuito e precede la sua accettazione, la perdizione è irremissibile se uno non si sa amato in quella consegna del Figlio.
Gesù dice a Nicodemo quello che crede la comunità cristiana: non basta essere amato dal Padre per essere salvato dal Figlio; bisogna crederlo, accettandosi amato e salvato. Questa è la fede che rende buona, efficace, l’amore di Dio e la missione di Gesù in questo mondo.

2 – MEDITARE : Applicare quello che dice il testo alla vita

Guardando bene, il breve testo evangelico non parla della Trinità, mistero centrale della fede cristiana che celebra oggi la liturgia, bensì di due persone divine che sono impegnate – eccome – nella nostra salvezza. Ci consta l’esistenza del Padre e del Figlio, dei quali ci parla il passaggio evangelico, precisamente perché, e nel caso in cui, ci sentiamo amati da essi a tal punto da essere salvati. Per il cristiano l’essere di Dio la sua Trinità ha a che vedere con la sua propria salvezza: scoprendosi salvato il credente scopre un trio di persone divine che, ognuno a suo modo, si impegnarono nella sua salvezza.
Ma oggi, a che cosa ci serve credere che ci sono in Dio tre persone, se riusciamo appena a sentire Dio vicino a noi?
Dio è più grande della nostra capacità di capirlo, sta fuori della nostra logica: è nel suo essere il non essere compreso dagli uomini ed è la nostra fortuna non poter comprenderlo con concetti, né rinchiuderlo in immagini né definirlo dentro i nostri limiti: ci sarà sempre Qualcuno al di sopra del nostro potere ed oltre la nostra impotenza, dietro i nostri difetti o carenze ed oltre il nostro sapere o la nostra ignoranza. Grazie a Dio, Egli sta lì dove finiamo noi, dove non arrivano le nostre forze e terminano le nostre possibilità.
Ma il mistero di Dio non è qualcosa che compete solo a Lui. Certo non possiamo comprenderlo, ma non è da meno che dobbiamo sentirci compresi da Lui. Se crediamo nel Dio Trino rinunciamo coscientemente a capire Dio, ma non rinunciamo a sentirci capiti da Dio, compresi in Lui. Credere non vuol dire intendere quello che si crede, ma affermarlo. Dichiararsi disposti a non capire Dio, perché ci sorpassa, implica cominciare a rispettarlo come Dio: accettarlo come Egli si è manifestato significa amarlo come Egli si aspetta di noi. È ciò che guadagniamo quanti confessiamo Dio e celebriamo il suo mistero trinitario: la sua natura, i suoi pensieri, il suo volere, non stanno all’altezza né alla portata delle nostre possibilità; gli dobbiamo riconoscimento ed amore, obbedienza e paura, fede e fedeltà personale.
Anche nel nostro mondo, nelle relazioni umane – e come poteva essere differente, se siamo stati creati a sua immagine e somiglianza? – le realtà più personali, quelle che più ci soddisfanno e ci danno più serenità, non sono frutto della nostra capacità di comprendere né della nostra abilità di proporzionarceli: l’amore, la fiducia, la fedeltà si danno e si ricevono, gratuitamente, senza capire mai molto bene il perché e senza avere tutta la sicurezza desiderabile. E quanto più diamo, più abbiamo: quanto più riceviamo, più siamo obbligati a restituire. C’è qualcosa di divino, certamente, nell’esperienza umana dell’amore e della fedeltà: o non è vero che ci sentiamo ‘divinamente’, quando ci sappiamo amati e siamo oggetto della fiducia o motivo della fedeltà di chi ci vuole bene?
Non poteva essere altrimenti. Dio, nostro Bene, ha lasciato la sua orma e la sua legge, nei beni che ci fa sperimentare nella terra, affinché scorgiamo come Egli sarà il nostro Bene definitivo nel cielo. Tanto ci ha voluto dare Dio, tanto si è impegnato con noi che si è moltiplicato per tre: il mistero di Dio è un mistero di amore, di consegna disinteressata, di fedeltà e permanenza. Dovremmo essergli riconoscenti, dovremmo solo, se ci fosse possibile, moltiplicarci per dargli la dovuta risposta; inoltre, dovremmo sentirci orgogliosi di avere come Dio un Dio simile che per amarci di più, per volerci più bene, ha voluto amarci di tre forme diverse. Chi avrebbe potuto immaginare un Dio migliore? Chi potrà desiderare maggiore amore dal suo Dio?
I cristiani siamo orgogliosi di un Dio che è Padre, creatore del mondo e dell’uomo: un Dio che ci tirò fuori dal niente per condividere con noi la sua vita e la sua compagnia, tanto vicino che volle farsi compagno della sua creatura, sempre disposto al perdono e ricco in misericordia, tanto fedele ai suoi che non riflette sulla nostra infedeltà, tanto amante nostro che ci inviò il suo unico Figlio per essere, con viso e cuore umani, come uno di noi ed imparare, come uno di noi, ad essere uomo essendo figlio di Maria.
Siamo orgogliosi di avere un Dio che è uomo, Gesù Cristo, che si è incarnato per noi, vivendo tra noi, conoscendo le stesse limitazioni e passando per esperienze simili, coi nostri sentimenti e le nostre facoltà; che morì per noi e fu resuscitato per vivere intercedendo per noi vicino a Dio; che non ci lasciò soli quando abbandonò la terra, perché ci lasciò il suo Spirito ed il mondo come missione.
Siamo orgogliosi di avere un Dio che è Spirito che ci accompagna sempre, benché non si lasci vedere da noi; che possiamo sentirlo col cuore, benché le nostre mani non lo riescono a palpare; che ci fa capire quanto Gesù ci insegnò e che prega in noi quando stiamo davanti al Padre; che è presente nella comunità cristiana, purché questa si dedichi a fare del mondo la scuola del volere di Cristo e lo spazio della fraternità.
Di un Dio così che si è moltiplicato per tre per meglio badare a noi, come non si può essere orgogliosi? Il Dio unico, trinità di persone, vale la nostra fede, le pene che implica, il nostro amore e qualche altro patimento, la nostra totale fiducia benché non lo capiamo del tutto, la nostra fedeltà costi quello che costi. Perché chi può affermare, come noi oggi, di avere un Dio simile al nostro: che ha fatto tanto per noi; che ci ha pensati e ci ha voluti; che ha sofferto e ci ha salvati; che ci accompagna e ci guida costantemente, benché noi non lo vediamo né lo tocchiamo? Come Dio ha mostrato tanta immaginazione avendo tanta onnipotenza, tanto amore come volontà di fare realtà il suo volere?
L’unica risposta possibile per chi si avvicina al mistero personale di Dio l’ottiene non chi lo vuole afferrare con la sua intelligenza e palpare con le sue mani bensì chi si sente afferrato da Dio e mantenuto tra le sue braccia; è il riconoscimento e la gioia, la gratitudine ed il godimento per averlo come Dio, una natura in tre persone l’unica reazione legittima davanti a questo mistero: nessuno potrebbe sognare di essere meglio amato da Dio che chi si sa custodito da tre persone divine, nessuno è più caro di chi è oggetto del triplo volere divino. Troppe ragioni abbiamo noi cristiani per far festa, perché abbiamo un solo Dio da servire e tre persone divine dalle quali siamo serviti.
Chi confessa la Trinità di Dio ha, almeno, tre motivi per vincere le sue paure ed appoggiare la sua speranza. Se veniamo da un Dio Trino e verso Lui ci dirigiamo, contiamo su tre modi differenti, ma sulle tre persone, per relazionarci col nostro unico Dio. Siamo stati amati e siamo protetti, siamo stati creati e siamo mantenuti, da tre Persone diverse: oggi che lo confessiamo, ben merita che lo celebriamo in lungo e in largo.

JUAN JOSE BARTOLOME sdb

The fiery ascent of Prophet Elijah. photo by Fr. Brendan

The fiery ascent of Prophet Elijah. photo by Fr. Brendan dans immagini sacre 2008-AP-01-01

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Publié dans:immagini sacre |on 12 juin, 2014 |Pas de commentaires »

COLTIVERANNO GIARDINI E NE MANGERANNO IL FRUTTO. RM 9,14

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Il tuo volto, signore, io cerco

Cesare Massa

COLTIVERANNO GIARDINI E NE MANGERANNO IL FRUTTO. RM 9,14

IL LAVORO

L’evoluzione dei rapporti umani e, in particolare, quella anche conflittuale delle classi sociali, ha fornito in questi ultimi secoli alla spiritualità cristiana altre motivazioni relative al lavoro umano oltre quella celebre dettata da Benedetto nella sua Regola: « L’ozio è nemico dell’anima e perciò i fratelli in determinate ore devono essere occupati in lavori manuali, in altre nella lettura divina » (RB 48). Si può tuttavia capire questa esigenza facendo riferimento al tempo storico delle antiche fondazioni benedettine.
Oggi preferiamo dare ragioni più positive circa il lavoro. Infatti esso concorre alla formazione integrale della personalità. Anzi, l’esplicazione sollecitata e aiutata dei talenti personali rappresenta l’opportunità di un arricchimento utile a tutta la comunità umana. Più ancora, il lavoro si presenta come un adempimento del comando del Creatore: quello di custodire e trasformare il mondo « con il sudore della propria fronte » (Gen 3,19).
Il salmo 128 accosta ancora di più alla nostra sensibilità il tema del lavoro, dicendo ne la necessità e la dignità: « Vivrai del lavoro delle tue mani » (v. 2). I boschi e le paludi, i campi e le montagne hanno conosciuto da secoli il lavoro dei monaci: essi hanno dato una forma ordinata a porzioni di mondo, salubrità alle terre e ragioni di vita alla gente, ospitalità ai viandanti e ai poveri di ogni provenienza. Questo hanno fatto « con il lavoro delle proprie mani come hanno fatto i nostri padri e gli apostoli », in ciò qualificandosi « come veri monaci » (RE 48). Benedetto doveva avere ben fisso lo sguardo sull’apostolo Paolo quando prescriveva così il lavoro manuale e sentiva anche la fierezza di non essere stato di peso a nessuno: « Alle necessità mie hanno provveduto queste mie mani » (At 20,34).
Doveva essere un precetto tanto prezioso quello di lavorare se l’Apostolo insiste: « Un punto d’onore: lavorare con le nostre mani » (1Ts 4,11) e ingiunge con molto realismo: « Chi non vuole lavorare neppure mangi » (2Ts 3,10). E ben presente che il lavoro vuole fatica, com’è scritto in Genesi 3,17: « Con dolore ne trarrai il cibo ». E Giobbe: « Non ha forse un duro lavoro l’uomo sulla terra? » (Gb 7,1). E Paolo: « Noi abbiamo lavorato con fatica e sforzo » (2Ts 3,8). Questo richiamo monastico al lavoro delle proprie mani percorre anche oggi con sorpresa gli spazi dell’informazione come una novità che corregge l’immagine nobile e aristocratica della vita religiosa quale si è sviluppata dal tardo medioevo a oggi. Viene letta anche come un rimprovero per aver giudicato la manualità dell’ opera umana come inferiore e meno degna rispetto al lavoro intellettuale. Quasi d’istinto si legge tale normativa circa il lavoro manuale come solidarietà a un mondo che per vivere non ha altri strumenti che le proprie mani.
Può un monastero essere assimilato a un cantiere? Certamente no. Talvolta può darne l’impressione la Regola quando stabilisce nei dettagli i tempi, i controlli e le modalità d’uso degli utensili di lavoro. La realtà è invece più simile a quella di una famiglia che conosce il bene di un lavoro svolto nell’ordine e nella pace, con la certezza che ci sarà un frutto, un esito buono, poiché « Dio non è ingiusto da dimenticare il nostro lavoro » (Eb 6,10).
Tuttavia, c’è un’altra fatica indicata fin dal prologo della Regola: la fatica dell’obbedienza. In una prospettiva mondana, essa sarebbe profittevole come una qualsiasi disciplina del lavoro. Ma la prospettiva è totalmente altra poiché obbedisce a quel lavoro severo e alto che viene chiamato l’opus Dei: è l’opera che Dio compie nel cuore del monaco come gesto primo e gratuito dell’amore e che viene continuato dalla pazienza e dalla sollecitudine di Dio lungo tutto l’itinerario monastico. Poi l’opus Dei è anche il lavoro di tutta la comunità quando risponde all’iniziativa di Dio. Allora l’opus Dei è il servizio di lode « al quale nulla deve essere anteposto ». Il monaco sa quale sia in lui la forma dell’obbedienza per consentire a questo « lavoro » di Dio in lui: la docilità. Uno stato del cuore non dimissionario dalla propria libertà, ma uno stato pacificato e generosamente aperto al magistero dei fratelli e, in primo luogo, a quello dell’abate. Questo « stato del cuore » è detto « umiltà », termine bandito dalle letterature del nostro tempo e che tuttavia indica bene l’attualità della condizione umana quando è descritta umilmente, cioè con verità. E la verità della condizione umana è la fragilità, la piccolezza, la precarietà, descritta fino a sottolinearne talvolta la condizione drammatica. Umiltà è dire l’humus di cui siamo fatti ed esserne conseguenti. È constatare ancora una volta che circola nel nostro sangue l’istinto della trasgressione dei « primi parenti » e che solo andando a ritroso con l’obbedienza è possibile « far ritorno a colui dal quale ti sei allontanato con la pigrizia della disobbedienza » (RB Prologo).
In ultimo non ci si può sottrarre alla fatica della fraternità. L’impegno della stabilità non concerne solo un luogo amato o una storia ammirata o un clima felice, ma – e più ancora l’accettazione di quella cerchia di fratelli, così come sono, così come mi sono consegnati dalla loro storia personale, così come me li consegna lo stato del loro percorso spirituale. Il lavoro della fraternità è una meta mai conclusa. È un lavoro continuo da fare su di sé, a ogni passo ponendosi come in riferimento ad altri. È ben riscontrabile nella vita di famiglia: ogni gesto, ogni scelta, ogni parola deve avere la cautela dell’altro e la tensione verso 1′altro in vista dell’accoglienza o del diniego. O di una crescita comune. Forse, nella vita monastica questa attenzione relazionale è più facile, perché essa è più avvolta nel silenzio e più nutrita dalla preghiera. Ma resta un compito dal momento che la finalità della vita monastica non smussa mai del tutto le diversità di sensibilità, di storia e di esperienza. Si sa che, accanto a queste differenze native o acquisite, occorre far conto delle gradualità della vita di fede di ognuno. E non solo tenerne conto, ma in vario modo aiutare il cammino altrui a « diventare fratelli » (cioè a diventare sempre più ciò che si è già).
Diventare sempre più fratelli: è ben un lavoro di tutti i cristiani, là dove essi si trovano. Il presupposto, che può essere una condizione al vivere assieme, sembra essere una sorta di amabilità nativa, cioè una disponibilità più o meno grande ad amare e a lasciarsi amare. Su di essa può crescere il rispetto per l’altro e per il suo mistero personale; la stima per il suo talento e la valorizzazione del dono per la ricchezza spirituale comune; 1′affezione di amicizia capace di superare anche la nozione paritaria della reciprocità e pervenire all’ esperienza tutta evangelica della gratuità e dell’eccedenza del dono. Tanto più se questa affezione da fraterna si trascolora in affezione filiale verso fratelli più saggi, più forti, più anziani. E da affezione fraterna diventa paterna verso chi è giovane di anni o nuovo alla vita cristiana o debole di fronte alle esigenze della vita spirituale.
Questo « lavoro » che si vede all’intorno, quel silenzio che si respira negli ambiti monastici, quella sobria esultanza che è dato cogliere nella lode liturgica, quella lontananza da una sorta di frenesia per la conquista – che appare molte volte così esteriore – del mondo a Cristo hanno esercitato sempre, e particolarmente ai nostri giorni, un fascino speciale, richiamando l’attenzione non solo sui prodotti del lavoro monastico, ma anche su uno stile di vita più proprio all’uomo, in reazione allo stile così stressante proprio dei grandi deserti delle metropoli. E normale che l’immaginazione vada anche al di là del reale monastico e che si pensi al monastero come a « un giardino coltivato » dove maturano frutti copiosi. E come se andando a ritroso si tornasse non solo dalla disobbedienza all’antica obbedienza, ma dal deserto di questo presente al giardino esuberante dell’Eden primigenio.

Publié dans:biblica, lavoro |on 12 juin, 2014 |Pas de commentaires »

ELIA, IL PROFETA CHE INCONTRA DIO NEL SILENZIO

http://www.sermig.org/nponline/164-spiritualita/2552-elia-il-profeta-che-incontra-dio-nel-silenzio

ELIA, IL PROFETA CHE INCONTRA DIO NEL SILENZIO

(prima lettura di questi giorni)

Pubblicato 13 Novembre 2009

Non siamo più abituati al silenzio. Un noto passo della Scrittura racconta l’incontro di Elia con Dio sul monte Oreb avvenuto non nel frastuono, ma nel silenzio e nella quiete.

di Rosanna Tabasso

Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo, da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì Elia si coprì il volto con il mantello. Uscì e si fermò all’ingresso della caverna. Ed ecco venne a lui una voce che gli diceva: che cosa fai qui Elia? (1Re 19,11-13)
La Sacra Scrittura al cap. 19 del primo libro dei Re presenta Elia che fugge verso l’Oreb, dove incontra Dio e riceve la missione che dovrà compiere. Nel Regno del Nord – siamo intorno all’ 850 a.C. – il re Acab e sua moglie Gezabele avevano introdotto il culto di Baal. L’autore sacro ci racconta al cap. 18 come Elia sul monte Carmelo sconfigge e distrugge i profeti di Baal. Naturalmente si sente fiero e protagonista perché ha riportato la verità. Gezabele si infuria e promette che Elia sarà ucciso entro una giornata. Elia si impaurisce e fugge nel deserto.
Elia aveva fatto tutto per Dio, ma non aveva ancora capito che era Dio a voler fare tutto per lui. E c’è voluta una crisi, c’è voluta una prova, c’è voluto un momento duro perché questo uomo, pieno di zelo per il Signore, si fermasse e interrompesse la sua “guerra santa”. Allora Dio lo conduce nel deserto e lì Elia apre il suo cuore, parla a Dio: “Basta Signore, prendi la mia vita, perché non sono migliore dei miei padri”. (1Re 19,4)
Inizia a ripensare a sé. Dice la Scrittura che il sonno lo coglie; ma più che un sonno è una fuga, è un desiderio di morte. È voler lasciare la missione per cui si era sentito chiamato da Dio. È successo anche agli apostoli, nell’orto degli ulivi, quando Gesù si preparava alla Passione: non son stati capaci di vegliare, si sono addormentati. Si reagisce a volte così, quando si avverte il fallimento. Elia pensa che sia per lui l’inizio della fine. Pensa realmente alla morte.
Ma Dio ha preparato per lui altre strade. Ci sarà una morte, sì, ma non quella fisica. Ci sarà la morte di se stesso, la morte del suo orgoglio, morirà il suo sentirsi “giusto servitore di Dio”. Dovrà passare attraverso il deserto, purificare il suo cuore e imparare la strada dell’umiltà, perché l’umiltà è la sola strada che conduce a Dio. Dio non si lascia trovare se non da un cuore umile. Dio non forza mai la mano, ma prepara; a volte permette che questa preparazione passi anche attraverso eventi drammatici, come è successo ad Elia, ma anche nella prova più grande non si allontana mai dall’amico.
Così, nel deserto, il deserto del suo cuore più che quello di sabbia, Dio manda ad Elia un angelo a nutrirlo. Il comando è perentorio: “Alzati e mangia” (1Re 19,5), non sei qui per morire. Alzati e mangia, alzati, ascolta la mia parola, nutriti della mia parola, e cammina. La professione di fede di Israele “Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio” (Dt 6,4) è ciò che è chiesto ad Elia nel tempo di deserto della sua vita. Elia deve ascoltare. Con la forza di quel cibo camminerà 40 giorni, 40 notti fino al monte di Dio, all’Oreb. Ripercorrerà il viaggio di Mosè e del popolo nel deserto, il viaggio della salvezza, verso la terra promessa. Lo rivivrà sulla sua pelle: anche là il popolo era stato nutrito da Dio con la manna; anche là Mosè aveva implorato Dio che scaturisse acqua dalla roccia. Anche là Mosè era salito fino all’Oreb, da solo. E lì, da solo, aveva visto Dio faccia a faccia, mentre la sua gente rimasta a valle, costruiva il vitello d’oro – ancora una divinità pagana – e tradiva il Dio unico di Mosè. Ma intanto Mosè aveva incontrato Dio faccia a faccia. Elia ripercorre la strada di Mosè, la strada della salvezza del popolo di Israele, e si ritrova sul monte, chiuso in una caverna, per passare la notte.
La caverna, quasi come un utero dove rinascere un’altra volta. Così avviene nella vita spirituale di ognuno di noi, quando ci si ritira in deserto: si arriva ad un tempo in cui si rinasce. Elia si è rifugiato in una caverna per passare la sua notte. La notte è il tempo in cui non si vede nulla, e si attende la luce dell’alba. È il tempo della ricerca, il tempo dell’attesa.
Lì Dio si rivela a Elia. Gli rivolge la Sua Parola: “Che fai qui Elia?”. Nei deserti della nostra vita, nel buio della notte della nostra fede, la parola di Dio prima o poi, arriva sempre, ci trova sempre e non passa senza che una traccia resti nella mente e nel cuore di ognuno di noi. Se ascoltiamo. La parola di Dio, piano, piano, aiuta Elia a fare luce dentro di sé, a fare la verità, anche di se stesso. E mentre Elia spiega a Dio ciò che è successo, comprende meglio se stesso, si spiega: “Sono qui, Signore. Sono pieno di zelo per Te. Io voglio servirti, io volevo liberare questa terra dagli dei stranieri, Signore, ma tutti Ti hanno abbandonato. Sono rimasto solo, cercano di togliermi la vita”.
Elia non si nasconde più la verità, non si nasconde più la sua paura, non pensa più a morire. Finalmente guarda dentro di sé. Guarda se stesso e comincia a leggere la storia di Dio nella sua vita. È pronto finalmente ad incontrare Dio: faccia a faccia. Il Signore lo chiama di nuovo: “Esci, fermati lì, alla mia presenza”. Elia adesso è pronto, attende il Signore nella sua vita; lui che aveva fatto tanto per Dio adesso, fermo, nella notte, nella caverna, in silenzio, finalmente attende l’incontro personale con Dio.
Non sa come riconoscere la Presenza; si rifà alla tradizione del suo tempo e aspetta che Dio gli parli attraverso qualche evento atmosferico: un uragano, un terremoto, un fuoco. Ma Dio parla al cuore, ed Elia avverte la Presenza di Dio “nel sussurro di una brezza leggera”. È una presenza forte, viva, tutta per lui ed Elia si copre il volto con il mantello. Mosè si era tolto i sandali quando aveva avvertito la Presenza nel roveto che ardeva e non bruciava. Quando si incontra Dio ci si copre sempre il volto parchè l’incontro con Lui ci rivela la nostra povertà, la nostra fragilità, il nostro peccato, la nostra inadeguatezza: non siamo mai pronti ad incontrare Dio.
Elia lascia tutto, si ritira in un luogo deserto, silenzioso, lontano da tutti e lì comprende che il Dio di Israele è il suo Dio, comprende che Dio è Dio per lui. Noi dovremmo conoscere “il sussurro di brezza leggera”, dovremmo riconoscere il tocco di Dio, perché l’abbiamo tante volte avvertito nella nostra vita e tante volte l’abbiamo incontrato nei passi del Nuovo Testamento, leggendo la vita di Gesù. Quante volte questo soffio passa da Gesù a qualcuno dei suoi amici, fino al soffio dello Spirito che Gesù risorto dona ai suoi riuniti nel Cenacolo. Eppure anche noi facciamo una gran fatica a cercare spazi di silenzio. Anche noi facciamo fatica a ritirarci da qualche parte, soli, con noi stessi, a cercare l’incontro con Dio. Forse perché abbiamo paura di trovare la miseria che c’è dentro di noi, come aveva paura Elia. Eppure è solo lì che avviene l’incontro.
Quando incontriamo Dio faccia a faccia, quando nel nostro cuore si realizza questo incontro, non siamo più quelli di prima. Come succede a Elia, siamo pronti a riprendere la strada. Elia riceve subito il mandato da Dio: viene riconfermato. Dio gli dice: “Su, ritorna sui tuoi passi”. Gli svela che non è rimasto il solo a credere in Lui, ma che si è riservato un resto: vai da quel resto di gente che mi sono riservato, torna a essere il loro profeta. L’incontro personale con Dio non ci allontana mai dalla gente, non ci allontana mai dalla nostra missione. Anzi, è solo quando incontriamo Dio che incontriamo veramente noi stessi e che incontriamo veramente la missione.
Ogni volta che accogliamo la Parola capita anche a noi di ripercorrere la storia della salvezza, di ritrovare le ribellioni, i tradimenti, le fragilità di chi ci ha preceduto e di trovare anche la nostra vita. E capita anche a noi di ritornare a Dio con tutto il cuore. Questo è ciò che la Parola produce in noi ogni volta che l’accogliamo con il cuore umile che Dio cerca di donare al suo profeta più grande, a Elia. Ho sperimentato tante volte nella mia vita, che devo solo all’incontro con Dio se sono stata vicino alla gente, vicina alle persone che hanno bisogno di me.
Quando si conosce un Amore grande, non si desidera altro che di comunicarlo a tutti quelli che si incontrano. Mi ripeto che vale la pena cercare del tempo per ritirarci in qualche caverna, per ritirarci un po’ dentro noi stessi, e nel silenzio lasciare che Dio faccia rinascere in noi la sua profezia per il nostro tempo.

Arsenale della Pace
Rosanna Tabasso

 

Annunciation Saint Gabriel Blessed Virgin

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http://www.angel-words-and-art.com/2013/02

Publié dans:immagini sacre |on 11 juin, 2014 |Pas de commentaires »

UNGARETTI E LA RICERCA DI DIO – ATTRAVERSO LA PORTA DEL DUBBIO

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/2011/043q04a1.html

UNGARETTI E LA RICERCA DI DIO

ATTRAVERSO LA PORTA DEL DUBBIO

Pubblichiamo alcuni stralci dal primo capitolo del libro Interrogare la fede. Le domande di chi crede oggi (Torino, Lindau, 2011 pagine 99, euro 12).

di LUCIO COCO
Il poeta Ungaretti è un uomo ferito (cfr. Pietà in: Giuseppe Ungaretti, Vita di un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 1972, p. 168) che chiede a Dio di chinarsi sulla sua e nostra debolezza e di mostrarci una traccia: « Dio, guarda la nostra debolezza. / / Vorremmo una certezza ». Ma può registrare solo il vuoto, « il gran vuoto della sua anima, la sua consapevolezza d’essere stato abbandonato a sé, la tremenda sua solitudine » (Giuseppe Ungaretti, Vita di un uomo. Saggi e interventi, Mondadori, Milano, 1974, p. 200), e riconoscere in questa vertigine del sentimento dell’assenza il terrore del vuoto e « l’orrore di un mondo privo di Dio ». Egli sente, ed è un sentire che è anche testimonianza, che Dio è divenuta una parola impronunciabile oggi: « Dio, coloro che t’implorano / Non ti conoscono più che di nome » (Pietà, p. 168). La sua immagine si è frammentata sotto la furia iconoclasta del secolo e si è ritirata in una zona grigia e oscura che confina con il sogno: « E tu non saresti che un sogno, Dio? » (Pietà, p. 170).
È profondo il solco lasciato da queste domande irrisolte: « Ma Dio cos’è? / / E la creatura / atterrita / sbarra gli occhi » (Risvegli, in: Vita di un uomo. Tutte le poesie, p. 36), che consegnano l’uomo a una percezione abissale e confusa di sé: « In questo oscuro / (…) // Mi vedo abbandonato nell’infinito » (Un’altra notte, in: Vita di un uomo. Tutte le poesie, p. 72), e affidano il mondo a una dimensione enigmatica e obliqua.
Sotto la lente di un osservatore « sbigottito di non sapere » si consuma il dramma non solo conoscitivo ma anche teologico ed esistenziale dell’uomo moderno perché « dove la distruzione di Dio è compiuta, dove non è più dibattuto il problema divino, con che cosa [la mente] colmerà il vuoto lasciato in essa e che la potenza dei secoli e degli istinti mantiene spalancato? » (Vita di un uomo. Saggi e interventi, p. 230). Ma forse è anche necessario che sia così, perché possiamo imparare a conoscere e a chiamare Dio con altri nomi, che pure sono i suoi nomi, e a trovarlo con altri modi e in altre circostanze, per certi versi inusuali, come l’interrogazione, il dubbio, la domanda che non trova risposta: « La speranza d’un mucchio d’ombra / E null’altro la nostra sorte? » (Pietà, p. 170).
Il Dio di questo secolo è qui, su questo discrimine di senso e non-senso, che vuole essere cercato e trovato. Diversamente si correrebbe il rischio di coltivare una vana spiritualità che non può soddisfare le menti problematiche oppure incerte della modernità. Trovare Dio dove la scena è ormai distrutta e muta: questo è il compito che Dio dà al poeta e a noi.
Come una cifra segreta risalta nel paesaggio sconsacrato la nudità dell’anima del poeta: « Ma ben sola e nuda / senza miraggio / porto la mia anima » (Peso, in: Vita di un uomo. Tutte le poesie, p. 34) e il suo essere solo (cfr. Pietà, p. 168).
Dio ora vuole essere interrogato dalla solitudine dell’uomo, dal suo lamento che non trova senso. Troppe cose ricordano all’uomo la sua precarietà, il suo destino che non riuscirà mai a ricomporre la sua vita in un disegno chiaro. Egli vuole che si arrivi a Lui attraverso questo passaggio dell’anima stretta che dubita e medita.
Dio resta « l’eterno tormento degli uomini, sia che s’ingegnino a crearlo sia a distruggerlo » (Vita d’un uomo. Saggi e interventi, p. 230) perciò la sua dimostrazione deve essere cercata pur nell’impossibilità che ha l’uomo di dimostrarne l’esistenza. È vero.
C’è troppo dolore intorno, troppo caos, troppo sangue innocente perché si possa dire « Credo »: « Nel cuore dell’uomo non c’è, come sempre, che notte, non ci sono, come sempre, che crolli » (Vita d’un uomo. Saggi e interventi, p. 782). E anche Cristo si unisce a questo silenzio. Anch’egli partecipa di questo distacco, di questa separazione, della diastasi della divinità dal mondo. Lo scenario devastato della seconda guerra lo rivela in maniera evidente e mette ancor di più in luce la solitudine dell’uomo. Come la domanda su Dio anche la domanda su Cristo sembra non trovare risposta. E se al colmo della crisi solo nel negativo della bestemmia, che viene letta come una preghiera rovesciata, è possibile farsi un’idea di Dio: « E per pensarti, Eterno, / Non ha che le bestemmie ». (Pietà, p. 171), analogamente al poeta giunge a risultare « blasfemo » – « Ora che osano dire / le mie blasfeme labbra » – anche il quesito che chiede al Figlio di Dio il perché di tanto scempio al mondo: « Cristo pensoso palpito, / Perché la Tua bontà / S’è tanto allontanata? » (Mio fiume anche tu, p. 228).
Ma per quanto fragile possa essere l’uomo, « per quanto impotente nel fondo della sua notte elementare » (Vita d’un uomo. Saggi e interventi, p. 525), il semplice dubbio che « la sua vita non è pura sordità, che qualche cosa c’è da fare su questa terra » assume quasi il significato di una prova di Dio. L’uomo si è trasformato in una domanda; l’uomo della modernità non può più dare risposte. Eppure tutto ancora deve compiersi nell’orizzonte di un qualcosa (« un punto, una formula ») che « esiste e dà alla vita il suo senso, il suo oriente » (Vita d’un uomo. Saggi e interventi, p. 525). La difficoltà ad affermare Dio e la facilità a negarlo sono ancora sua regione e suo territorio, provincia di Dio nella quale abitano gli uomini di oggi.
Il suo volto odierno è così, un volto incerto, che non dà certezze. Eppure anche la sua non risposta alla domanda che è l’uomo, ne connota l’essenza e introduce l’uomo nella dimensione della fede, quella più ineffabile e sfumata, quella dove il sì e il no quasi non si distinguono.
È così infatti la fede dell’uomo: una domanda continua, ininterrotta che confina sempre con il silenzio, che strappa al silenzio qualcosa, ma poi si richiude in se stessa. L’esperienza religiosa di Ungaretti è strettamente legata a questa intuizione: « Chiuso fra cose mortali / / (Anche il cielo stellato finirà) / / perché bramo Dio? » (Dannazione, in: Vita d’un uomo. Tutte le poesie, p. 35).
La domanda dell’uomo può bastare perché possa recuperare il senso della trascendenza e farsi un’immagine .dell’Assoluto, se mai ne sia possibile una in questo secolo e se non sia stato sempre così e sempre la stessa è la distanza tra l’uomo e l’Infinito. « L’essere umano, lo voglia o no, è nella sua responsabilità legato al segreto universale dell’essere, a Dio ».

(L’Osservatore Romano 21-22 febbraio 2011)

LA CATECHESI DI PAPA FRANCESCO DURANTE L’UDIENZA GENERALE DI OGGI

http://www.zenit.org/it/articles/nessuno-puo-portare-con-se-dall-altra-parte-ne-i-soldi-ne-il-potere-ne-la-vanita-ne-l-orgoglio

LA CATECHESI DI PAPA FRANCESCO DURANTE L’UDIENZA GENERALE DI OGGI

Citta’ del Vaticano, 11 Giugno 2014 (Zenit.org)

Riportiamo di seguito la catechesi tenuta questa mattina da papa Francesco durante la tradizionale Udienza Generale del mercoledì, svoltasi in piazza San Pietro.

Al termine dell’incontro odierno con i fedeli, il Papa ha lanciato anche un appello in occasione della Giornata mondiale contro lo sfruttamento del lavoro minorile.

***
I doni dello Spirito Santo: 7. Il Timore di Dio

Cari fratelli e sorelle, buongiorno.
Il dono del timore di Dio, di cui parliamo oggi, conclude la serie dei sette doni dello Spirito Santo. Non significa avere paura di Dio: sappiamo bene che Dio è Padre, e che ci ama e vuole la nostra salvezza, e sempre perdona, sempre; per cui non c’è motivo di avere paura di Lui! Il timore di Dio, invece, è il dono dello Spirito che ci ricorda quanto siamo piccoli di fronte a Dio e al suo amore e che il nostro bene sta nell’abbandonarci con umiltà, con rispetto e fiducia nelle sue mani. Questo è il timore di Dio: l’abbandono nella bontà del nostro Padre che ci vuole tanto bene.
1. Quando lo Spirito Santo prende dimora nel nostro cuore, ci infonde consolazione e pace, e ci porta a sentirci così come siamo, cioè piccoli, con quell’atteggiamento – tanto raccomandato da Gesù nel Vangelo – di chi ripone tutte le sue preoccupazioni e le sue attese in Dio e si sente avvolto e sostenuto dal suo calore e dalla sua protezione, proprio come un bambino con il suo papà! Questo fa lo Spirito Santo nei nostri cuori: ci fa sentire come bambini nelle braccia del nostro papà. In questo senso, allora, comprendiamo bene come il timore di Dio venga ad assumere in noi la forma della docilità, della riconoscenza e della lode, ricolmando il nostro cuore di speranza. Tante volte, infatti, non riusciamo a cogliere il disegno di Dio, e ci accorgiamo che non siamo capaci di assicurarci da noi stessi la felicità e la vita eterna. È proprio nell’esperienza dei nostri limiti e della nostra povertà, però, che lo Spirito ci conforta e ci fa percepire come l’unica cosa importante sia lasciarci condurre da Gesù fra le braccia di suo Padre.
2. Ecco perché abbiamo tanto bisogno di questo dono dello Spirito Santo. Il timore di Dio ci fa prendere coscienza che tutto viene dalla grazia e che la nostra vera forza sta unicamente nel seguire il Signore Gesù e nel lasciare che il Padre possa riversare su di noi la sua bontà e la sua misericordia. Aprire il cuore, perché la bontà e la misericordia di Dio vengano a noi. Questo fa lo Spirito Santo con il dono del timore di Dio: apre i cuori. Cuore aperto affinché il perdono, la misericordia, la bontà, le carezza del Padre vengano a noi, perché noi siamo figli infinitamente amati.
3. Quando siamo pervasi dal timore di Dio, allora siamo portati a seguire il Signore con umiltà, docilità e obbedienza. Questo, però, non con atteggiamento rassegnato, passivo, anche lamentoso, ma con lo stupore e la gioia di un figlio che si riconosce servito e amato dal Padre. Il timore di Dio, quindi, non fa di noi dei cristiani timidi, remissivi, ma genera in noi coraggio e forza! È un dono che fa di noi cristiani convinti, entusiasti, che non restano sottomessi al Signore per paura, ma perché sono commossi e conquistati dal suo amore! Essere conquistati dall’amore di Dio! E questo è una cosa bella. Lasciarci conquistare da questo amore di papà, che ci ama tanto, ci ama con tutto il suo cuore.
Ma, stiamo attenti, perché il dono di Dio, il dono del timore di Dio è anche un “allarme” di fronte alla pertinacia nel peccato. Quando una persona vive nel male, quando bestemmia contro Dio, quando sfrutta gli altri, quando li tiranneggia, quando vive soltanto per i soldi, per la vanità, o il potere, o l’orgoglio, allora il santo timore di Dio ci mette in allerta: attenzione! Con tutto questo potere, con tutti questi soldi, con tutto il tuo orgoglio, con tutta la tua vanità, non sarai felice. Nessuno può portare con sé dall’altra parte né i soldi, né il potere, né la vanità, né l’orgoglio. Niente! Possiamo soltanto portare l’amore che Dio Padre ci dà, le carezze di Dio, accettate e ricevute da noi con amore. E possiamo portare quello che abbiamo fatto per gli altri. Attenzione a non riporre la speranza nei soldi, nell’orgoglio, nel potere, nella vanità, perché tutto ciò non può prometterci niente di buono! Penso per esempio alle persone che hanno responsabilità sugli altri e si lasciano corrompere; voi pensate che una persona corrotta sarà felice dall’altra parte? No, tutto il frutto della sua corruzione ha corrotto il suo cuore e sarà difficile andare dal Signore. Penso a coloro che vivono della tratta di persone e del lavoro schiavo; voi pensate che questa gente che tratta le persone, che sfrutta le persone con il lavoro schiavo ha nel cuore l’amore di Dio? No, non hanno timore di Dio e non sono felici. Non lo sono. Penso a coloro che fabbricano armi per fomentare le guerre; ma pensate che mestiere è questo. Io sono sicuro che se faccio adesso la domanda: quanti di voi siete fabbricatori di armi? Nessuno, nessuno. Questi fabbricatori di armi non vengono a sentire la Parola di Dio! Questi fabbricano la morte, sono mercanti di morte e fanno mercanzia di morte. Che il timore di Dio faccia loro comprendere che un giorno tutto finisce e che dovranno rendere conto a Dio.
Cari amici, il Salmo 34 ci fa pregare così: «Questo povero grida e il Signore lo ascolta, lo salva da tutte le sue angosce. L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono, e li libera» (vv. 7-8). Chiediamo al Signore la grazia di unire la nostra voce a quella dei poveri, per accogliere il dono del timore di Dio e poterci riconoscere, insieme a loro, rivestiti della misericordia e dell’amore di Dio, che è il nostro Padre, il nostro papà. Così sia.

[Appello del Papa:]
Domani, 12 giugno, si celebra la Giornata mondiale contro lo sfruttamento del lavoro minorile. Decine di milioni di bambini, avete sentite bene? Decine di milioni sono costretti a lavorare in condizioni degradanti, esposti a forme di schiavitù e di sfruttamento, come anche ad abusi, maltrattamenti e discriminazioni.

Auspico vivamente che la Comunità internazionale possa estendere la protezione sociale dei minori per debellare questa piaga dello sfruttamento dei bambini. Rinnoviamo tutti il nostro impegno, in particolare le famiglie, per garantire ad ogni bambino e bambina la salvaguardia della sua dignità e la possibilità di una crescita sana. Una fanciullezza serena permette ai bambini di guardare con fiducia alla vita e al futuro. Vi invito tutti a pregare la Madonna, che ha avuto il Bambino Gesù in braccio, per questi bambini e bambine che sono sfruttati con il lavoro e anche con gli abusi. Ave Maria…

[Saluto finale ai pellegrini italiani:]

Rivolgo un cordiale benvenuto ai fedeli di lingua italiana. Sono lieto di accoglierei partecipanti al Congresso su etica e finanza presso l’Augustinianum – davvero le finanze hanno bisogno di etica oggi -, e al Seminario promosso dal Pontificio Consiglio per la Famiglia. Saluto i fedeli di Castel San Giovanni, che ricordano il centenario della nascita del Card. Agostino Casaroli; bravo uomo questo Casaroli! Il pellegrinaggio dei detenuti lungo la Via Francigena e quello dei ciclisti dell’Associazione “Mi so tuto” sulle strade di San Francesco. Saluto inoltre i militari, le famiglie associate alla Scuola di preghiera “Figli in Cielo” e gli operai dello stabilimento FIAT di Pomigliano d’Arco. Auguro a tutti che la visita alle Tombe degli Apostoli susciti in ciascuno rinnovati propositi di gioiosa testimonianza cristiana nella famiglia e nella società.

Un pensiero speciale rivolgo ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli. Nel mese di giugno la liturgia ci invita a pregare il Sacro Cuore di Gesù. Tale devozione insegni a voi, cari giovani, specialmente i fidanzati della Diocesi di Oria, accompagnati dal Vescovo Mons. Vincenzo Pisanello, ad amare con la stessa intensità; renda forti voi, cari ammalati, nel portare con pazienza la croce della sofferenza; e sia di sostegno a voi, cari sposi novelli, nell’edificare la vostra famiglia sulla fedeltà e il timore di Dio.

El Greco, Holy Trinity

El Greco, Holy Trinity dans immagini sacre HolyTrinityElGreco

 

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STUDIO BIBLICO SU GESÙ, IL CRISTO

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STUDIO BIBLICO SU GESÙ, IL CRISTO

Myer Pearlman1

1. La Parola di Dio (eterna preesistenza ed attività)

Con la parola l’uomo si esprime e si mette in comunicazione con gli altri, attraverso la parola rende noti i suoi pensieri ed i suoi sentimenti e per essa impartisce ordini e mette ad effetto la sua volontà. La parola che egli pronuncia reca l’impronta dei suoi pensieri e del suo carattere: per le parole di un uomo un’altra persona potrebbe conoscerlo perfettamente, anche se tosse cieca; la vista e l’informazione potrebbero rivelare ben poco circa il carattere d’un uomo, se non si potessero ascoltare le sue parole; la parola dell’uomo è il suo carattere espresso.
Allo stesso modo, la «Parola di Dio» è quella con la quale Egli comunica con gli altri esseri e tratta con loro; è il mezzo con il quale esprime la Sua potenza, intelligenza e volontà. Cristo è quella Parola, perché attraverso di Lui Iddio ha rivelato la Sua attività, la Sua volontà ed il Suo scopo, e perché attraverso di Lui Dio viene a contatto con il mondo. Noi ci esprimiamo attraverso le parole; l’Iddio eterno si esprime attraverso il Suo Figliuolo, il quale è «l’espressa immagine della Sua persona» (cfr. Ebrei 1:3). Cristo è la Parola di Dio perché rivela Dio dimostrandoLo appieno. Egli non solo reca il messaggio, ma è il messaggio di Dio.
È vero che Dio si rivelò attraverso la parola profetica, attraverso i sogni e le visioni ed anche attraverso temporanee manifestazioni. Ma l’uomo bramava una risposta più chiara alla domanda: «Come è Dio?». Per rispondere a questa domanda era necessario il più meraviglioso avvenimento della storia:
«Nel principio era la Parola, e la Parola era con Dio, e la Parola era Dio. … E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiam contemplata la sua gloria, gloria come quella dell’Unigenito venuto da presso al Padre.»
(Giovanni 1:1, 14)
La Parola eterna di Dio prese su di Sé la natura umana e divenne uomo per rivelare l’Iddio eterno attraverso una personalità umana: «Iddio, dopo aver in molte volte e in molte maniere parlato anticamente ai padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi giorni ha parlato a noi mediante il suo Figliuolo» (Ebrei 1:1,2). Pertanto alla domanda: «Come è Dio?» il cristiano risponde: «Dio è come Cristo», perché Cristo è la Parola di Dio stesso. Cristo è «l’espressa immagine della Sua persona», «l’immagine dell’invisibile Iddio» (Colossesi 1: 15).

2. La deità del Figlio di Dio
a. La coscienza che Cristo aveva di Sé
Quale coscienza aveva Gesù di Se stesso, ovvero che cosa sapeva sul proprio conto? Luca riporta un episodio dell’infanzia di Gesù, in cui dice che già da piccolo Egli aveva coscienza di due cose: di una speciale relazione con Dio, che definiva Suo Padre, e di una speciale missione sulla terra, quella di curare «le cose del Padre Mio».
Al fiume Giordano Gesù udì la voce del Padre (Dio) che corroborava e confermava questa Sua consapevolezza (Matteo 3:17) e, nel deserto, Egli resistette valorosamente al tentativo di Satana di mettere in dubbio che Egli fosse il Figliuolo di Dio («se sei il Figliuolo di Dio» Matteo 4:3). Più tardi, durante il Suo ministerio, proclamò beato Pietro perché, ispirato dal cielo, aveva reso testimonianza della Sua Deità e messianicità (Matteo 16:15-17). Quando, davanti al consiglio dei Giudei, avrebbe potuto sfuggire alla morte negando la figliolanza unica ed affermando semplicemente che era un figliuolo di Dio nello stesso modo in cui lo erano gli altri uomini, Egli dichiarò la propria coscienza di Deità pur sapendo che questo significava una condanna a morte (Matteo 26:63-65).

b. Le asserzioni di Cristo
Cristo si metteva fianco a fianco con l’attività divina: «Mio Padre opera fino ad ora, ed Io opero», «Io son proceduto dal Padre» (Giovanni 16:28), «Il Padre mi ha mandato» (Giovanni 20:21). Asseriva di conoscere Dio Padre e di avere comunione con Lui (Matteo 11:27; Giovanni 17:25); sosteneva di svelare l’essere del Padre in Se stesso (Giovanni 14:9-11); si attribuiva delle prerogative divine: onnipresenza (Matteo 18:20), potestà di perdonare i peccati (Marco 2:5-10), potenza di risuscitare i morti (Giovanni 6:39,40,54; Giovanni 11:25; Giovanni 10:17,18); si proclamava Giudice ed Arbitro del destino dell’uomo (Giovanni 5:22; Matteo 25:31-46).
Gesù richiedeva un arrendimento ed una fedeltà che solo Dio può avere il diritto di pretendere; insisteva sul completo arrendimento del proprio essere da parte dei Suoi seguaci: essi dovevano essere pronti a rompere il più caro ed il più stretto dei legami, perché chiunque avesse amato anche il padre o la madre più di Lui non era degno di Lui (Matteo 10:37; Luca 14:25-33).
Queste elevatissime asserzioni venivano fatte da Uno che viveva come il più umile degli uomini e venivano esposte con la stessa naturalezza con la quale, ad esempio, Paolo avrebbe potuto dire: «Io sono un uomo giudeo». Per arrivare alla conclusione che Cristo era divino ci dovevano porre due premesse: primo, che Gesù non era un uomo malvagio e, secondo, che non era demente. Se Egli diceva di essere divino, mentre sapeva di non esserlo, non poteva essere buono; se Egli immaginava falsamente di essere Dio, non poteva essere savio. Ma nessuna persona di senno avrebbe potuto negare il Suo perfetto carattere o la Sua superiore sapienza. Di conseguenza, si può concludere che Egli era ciò che asseriva di essere: il Figliuolo di Dio.

c. L’autorità di Cristo
Negli insegnamenti di Cristo si nota l’assenza di espressioni come «È mia opinione», «può darsi», «penso che…», «possiamo allo stesso modo supporre», ecc. Uno studioso razionalista ebreo ammise che Egli parlò con l’autorità dell’Iddio Onnipotente stesso. Il Dott. Henry van Dyke mette in rilievo che nel sermone sul monte, ad esempio, abbiamo:
La visione sorprendente di un Ebreo credente, che si mette al di sopra della regola della sua fede; di un umile maestro che mostra un’autorità suprema sopra la condotta umana; di un riformatore morale che scarta ogni altro fondamento e dice: «Chiunque ode queste mie parole e le mette in pratica sarà paragonato ad un uomo avveduto che ha edificata la sua casa sopra la roccia» (Matteo 7:24). Quarantanove volte, in questa breve descrizione dei discorsi di Gesù, ricorre la frase solenne con la quale Egli autentica la verità: «In verità io ti dico».

d. L’irreprensibilità di Cristo
Nessun predicatore che chiami gli uomini al ravvedimento e alla giustizia può fare a meno di riferirsi alla propria imperfezione ed ai propri peccati; infatti, quanto più santo sarà, tanto più lamenterà e riconoscerà la propria limitazione. Ma, nei detti e nelle parole di Gesù, vi è una completa assenza di coscienza e di confessione del peccato. Egli aveva la più profonda conoscenza del male e del peccato, ma nessun’ombra o macchia di esso si rifletteva sull’anima Sua. Anzi, Lui che era il più umile degli uomini, lancia la sfida: «Chi di voi mi convince di peccato?» (Giovanni 8:46).
Anche le beffe dei pagani sono una testimonianza della Deità di Cristo. Su una parete di un antico palazzo romano (che non va oltre il terzo secolo) è stato trovato un disegno raffigurante una figura umana con la testa di asino appesa alla croce, mentre un uomo sta ritto davanti ad essa in attitudine di adorazione; sotto, un’iscrizione dice: «Alexamenos adora il suo Dio». Henry van Dyke commenta:
Pertanto i canti e le preghiere dei credenti, le accuse dei persecutori, le beffe degli scettici ed i grossolani motteggi degli schernitori si uniscono per provare che, senza ombra di dubbio, i cristiani primitivi rendevano onori divini al Signor Gesù… Non vi è ragione di dubitare che i cristiani dell’era apostolica vedessero in Cristo una rivelazione personale di Dio, più di quanto non si possa dubitare che gli amici ed i seguaci di Abramo Lincoln guardavano questo Presidente come un bravo e leale cittadino americano di razza bianca.
Non dobbiamo, però, concludere che la Chiesa primitiva non adorasse Dio Padre, perché avveniva perfettamente l’opposto. Era pratica generale pregare il Padre nel nome di Gesù e ringraziarLo per il dono del Suo Figliuolo. Ma per loro era così reale la Deità di Cristo e l’unità tra le due Persone, che era perfettamente naturale invocare il nome di Gesù. Fu la loro perfetta aderenza all’insegnamento dell’Antico Testamento sull’Unicità di Dio, unita alla loro ferma credenza nella Deità di Cristo, che li portò a formulare la dottrina della Trinità.
La seguente definizione tratta dal credo Niceno (quarto secolo) sono state, e sono tuttora, recitate da molti in modo formale, ma esse esprimono fedelmente la profonda convinzione del cuore di quei fedeli.
Noi crediamo in un Signore: Gesù Cristo, il Figliuolo di Dio, unigenito del Padre, cioè della sostanza del Padre, Dio da Dio, Luce di Luce, vero Dio di vero Dio, generato e non creato, essendo di una sostanza con il Padre; per il quale tutte le cose furono fatte che sono in cielo ed in terra; il Quale, per noi uomini e per la nostra salvezza, discese, e fu incarnato e fu fatto uomo; e soffrì, e risuscitò il terzo giorno ed ascese al cielo, e ritornerà per giudicare i vivi ed i morti.

3. Significato del titolo di “figliuolo dell’uomo”
Secondo l’uso ebraico, «figliuolo di» denota relazione e partecipazione. Ad esempio: «i figliuoli del regno» (Matteo 8:12) sono quelli che devono partecipare alle sue verità e alle sue benedizioni; «i figliuoli della resurrezione» (Luca 20:36) sono coloro che sono risorti; un «figliuolo di pace» (Luca 10:6) è colui che possiede una disposizione pacifica; un «figliuolo di perdizione» (Giovanni 17:12) è colui che è destinato alla condanna e alla rovina. Quindi «figliuol d’uomo» indica, in primo luogo, colui che è partecipe della natura umana e delle umane qualità: l’espressione mette in risalto i caratteri di debolezza e di impotenza tipici dell’uomo (Numeri 23:19; Giobbe 16:21; Giobbe 25:6). In questo senso, il titolo viene applicato per circa ottanta volte ad Ezechiele, per ricordargli la sua debolezza e la sua caducità e indurlo all’umiltà nel compimento del suo ministerio profetico.
Applicato a Cristo, «Figliuol d’uomo» Lo designa come partecipe della natura e delle qualità umane e soggetto alle infermità umane, ma, allo stesso tempo, questo titolo implica la Sua Deità. Perché, se qualcuno dichiarasse enfaticamente: «Io sono un figliuol d’uomo», la gente gli risponderebbe: «Lo credo bene! Tutti lo sanno»; sulle labbra di Gesù, invece, l’espressione significava che Egli proveniva dal cielo ed aveva identificato Se stesso con l’umanità per divenirne il rappresentante e il Salvatore. Notate anche che Egli è il e non un figliuol d’uomo.
Il titolo è connesso alla Sua vita terrena (Marco 2:10; Marco 2:28; Matteo 8:20; Luca 19:10), alle Sue sofferenze a favore dell’umanità (Marco 8:31), alla Sua esaltazione e al Suo dominio sull’umanità (Matteo 25:31; Matteo 26:24; cfr. Daniele 7:14).
Riferendosi a Se stesso come al «Figliuol dell’uomo», Gesù comunicava, in pratica, il seguente messaggio: «Io, il Figliuolo di Dio, sono venuto come Uomo, in debolezza, in sofferenza fino alla morte. Però sono tuttora in contatto con il cielo da dove sono venuto e sono Dio, infatti posso rimettere i peccati (Matteo 9:6); inoltre, sono al di sopra dei regolamenti religiosi, che hanno solo un significato temporaneo e nazionale (Matteo 12:8). La mia natura umana non cesserà quando sarò passato attraverso gli ultimi stadi della sofferenza e della morte, che devo sopportare per la salvezza dell’uomo, perché Io risorgerò e porterò la mia natura umana con Me, in cielo, da dove ritornerò per regnare sopra coloro la cui natura ho assunto».
L’umanità del Figliuolo di Dio era reale e non simbolica; Egli soffrì realmente la fame, la sete, la stanchezza e ogni dolore.

4. Significato del titolo di “Cristo”

a. La profezia
«Cristo» è la forma greca della parola ebraica «Messia», che letteralmente significa «l’unto». La parola è suggerita dalla pratica di ungere con olio, simbolo della consacrazione divina al servizio. Quantunque anche i sacerdoti, e qualche volta i profeti, fossero unti quando s’insediavano nel loro ufficio, il titolo «Unto» veniva applicato particolarmente ai re d’Israele, che governavano come rappresentanti di Yahwê(h) (II Samuele 1:14). In certi casi il simbolo dell’unzione era seguito dalla realtà spirituale, cosicché la persona diveniva l’unto del Signore in senso vero e proprio (I Samuele 10:1,6; I Samuele 16:13).
Saul venne meno, mentre Davide, che gli succedette, fu un uomo «secondo il cuore di Dio», un re che poneva la volontà di Dio come sovrana nella propria vita e che si riteneva un rappresentante di Dio. Molti re successivi a Davide si allontanarono dalla regola divina, conducendo il popolo all’idolatria, ed anche alcuni dei re migliori non furono senza macchia. In contrasto con questo sfondo oscuro, i profeti proclamavano la promessa che sarebbe venuto un re della casa di Davide, molto maggiore di Davide. Lo Spirito del Signore sarebbe stato sopra di Lui con una potenza mai conosciuta prima (Isaia 9:5,6; Geremia 23:5,6); a differenza di quello di Davide il Suo regno sarebbe stato eterno e tutte le nazioni sarebbero state sotto il Suo dominio. Questo Re era l’Unto, o il Messia, o il Cristo, e sopra di Lui Israele fondava le proprie speranze.

b. Il compimento
È testimonianza continua del Nuovo Testamento che Gesù asserì di essere il Messia, il Cristo promesso nell’Antico Testamento.
Come il presidente del nostro Paese viene prima eletto e poi insediato, così Gesù Cristo fu stabilito nell’eternità ad essere il Messia, o il Cristo, e poi pubblicamente “insediato”, al Giordano, nel Suo ufficio messianico. Come Samuele prima unse Saul e poi gli spiegò il significato dell’unzione (I Samuele 10:1), così Dio Padre unse il Suo Figliuolo con lo Spirito della potenza e Gli confermò verbalmente il significato della Sua unzione: «Tu sei il mio diletto Figliuolo; in te mi sono compiaciuto» (Marco 1:11).
Il popolo in mezzo al quale Gesù doveva servire aspettava la venuta del Messia, ma disgraziatamente le loro speranze erano colorate di politica. Essi aspettavano un «uomo forte», che fosse una combinazione fra il soldato e l’uomo di Stato. Gesù sarebbe stato un Messia di tal genere? Lo Spirito Lo condusse nel deserto a combattere contro Satana, il quale astutamente Gli suggerì di adottare la piattaforma della popolarità per raggiungere il potere attraverso una via più breve. «Appaga le loro brame materiali», suggeriva il tentatore (cfr. Matteo 4:3,4; e Giovanni 6:14,15,26), abbagliali saltando dal Tempio (e, tra l’altro, fatti una buona reputazione presso il sacerdozio), mettiti in mostra come un campione del popolo e guidali alla guerra (cfr. Matteo 4:6-9 e Apocalisse 13:2-4).
Gesù sapeva che Satana, ispirato dal proprio spirito egoistico e violento, propugnava la politica della popolarità ed è certo che un simile sistema avrebbe condotto allo spargimento di sangue e alla rovina. No! Egli avrebbe seguito la via di Dio e avrebbe fatto assegnamento solo sulle armi spirituali, per conquistare il cuore degli uomini; anche se sapeva che quel sentiero avrebbe fatto capo all’incomprensione, alla sofferenza e alla morte, Gesù nel deserto scelse la croce e la scelse perché faceva parte del piano di Dio per la Sua vita.
Il Maestro non si sviò mai da quella scelta, sebbene fosse spesso tentato dall’esterno ad abbandonare la via della croce. Vedi, ad esempio, Matteo 16:22.
Gesù evitò scrupolosamente di confondersi con la situazione politica contemporanea. A volte proibiva a coloro che erano stati da Lui guariti di spandere la Sua fama, affinché il Suo ministerio non fosse mal compreso e non fosse scambiato per un tentativo di sollevare il popolo contro Roma. In Matteo 12:15,16 e Luca 23:5 il Suo successo Gli fu rivolto contro come