Juan de Juanes, Cristo consacra l’Eucaristia, Valencia

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LAUDA SION – SEQUENZA DEL CORPUS DOMINI
Il Lauda Sion Salvatorem è una preghiera della tradizione cristiana cattolica. In essa, dopo la lode all’Eucaristia, viene espresso il dogma della transustanziazione e spiegata la presenza completa di Cristo in ogni specie. È ritenuto tra i vertici della poesia religiosa di ogni tempo, per profondità dottrinale e sapienza estetica. Alcuni versi richiamano, quanto al contenuto ed alle espressioni utilizzate, l’inno Pange Lingua.
Testo latino
Lauda Sion Salvatórem
Lauda ducem et pastórem
In hymnis et cánticis.
Quantum potes, tantum aude:
Quia major omni laude,
Nec laudáre súfficis.
Laudis thema speciális,
Panis vivus et vitális,
Hódie propónitur.
Quem in sacræ mensa cœnæ,
Turbæ fratrum duodénæ
Datum non ambígitur.
Sit laus plena, sit sonóra,
Sit jucúnda, sit decóra
Mentis jubilátio.
Dies enim solémnis ágitur,
In qua mensæ prima recólitur
Hujus institútio.
In hac mensa novi Regis,
Novum Pascha novæ legis,
Phase vetus términat.
Vetustátem nóvitas,
Umbram fugat véritas,
Noctem lux elíminat.
Quod in cœna Christus gessit,
Faciéndum hoc expréssit
In sui memóriam.
Docti sacris institútis,
Panem, vinum, in salútis
Consecrámus hóstiam.
Dogma datur Christiánis,
Quod in carnem transit panis,
Et vinum in sánguinem.
Quod non capis, quod non vides,
Animósa firmat fides,
Præter rerum ordinem.
Sub divérsis speciébus,
Signis tantum, et non rebus,
Latent res exímiæ.
Caro cibus, sanguis potus:
Manet tamen Christus totus,
Sub utráque spécie.
A suménte non concísus,
Non confráctus, non divísus:
Integer accípitur.
Sumit unus, sumunt mille:
Quantum isti, tantum ille:
Nec sumptus consúmitur.
Sumunt boni, sumunt mali:
Sorte tamen inæquáli,
Vitæ vel intéritus.
Mors est malis, vita bonis:
Vide paris sumptiónis
Quam sit dispar éxitus.
Fracto demum Sacraménto,
Ne vacílles, sed memento,
Tantum esse sub fragménto,
Quantum toto tégitur.
Nulla rei fit scissúra:
Signi tantum fit fractúra:
Qua nec status nec statúra
Signáti minúitur.
Ecce panis Angelórum,
Factus cibus viatórum:
Vere panis fíliórum,
Non mittendus cánibus.
In figúris præsignátur,
Cum Isaac immolátur:
Agnus paschæ deputátur
Datur manna pátribus.
Bone pastor, panis vere,
Jesu, nostri miserére:
Tu nos pasce, nos tuére:
Tu nos bona fac vidére
In terra vivéntium.
Tu, qui cuncta scis et vales:
Qui nos pascis hic mortales:
Tuos ibi commensáles,
Cohærédes et sodales,
Fac sanctórum cívium.
Amen.
Traduzione letterale in italiano
Allelúja. Loda o Sion il Salvatore,
loda la Guida e il Pastore
in inni e cantici.
Quanto puoi tanto ardisci:
perché (Egli è) superiore ad ogni lode,
e (tu) non basti a lodarlo.
Come tema di lode speciale,
il Pane vivo e datore di vita
viene oggi proposto,
il quale, alla mensa della sacra cena,
alla schiera dei dodici fratelli,
non si dubita dato.
La lode sia piena, sia risonante,
sia lieto, sia appropriato
il giubilo della mente,
poiché si celebra il giorno solenne,
nel quale di questa mensa si ricorda
la prima istituzione.
In questa mensa del nuovo Re,
la nuova Pasqua della nuova legge
pone fine al vecchio tempo.
La novità (allontana) la vetustà,
la verità allontana l’ombra,
la luce elimina la notte.
Ciò che Cristo fece durante la cena
comandò da farsi
in suo ricordo.
Ammaestrati coi sacri insegnamenti,
consacriamo il pane e il vino,
ostia di salute.
Ai cristiani vien dato come dogma
che il pane si cambia in carne,
e il vino in sangue.
Ciò che non comprendi, ciò che non vedi,
ardita assicura la fede,
contro l’ordine delle cose.
Sotto specie diverse,
(che sono) solamente segni e non cose,
si nascondono cose sublimi.
La carne (è) cibo, il sangue bevanda:
eppure Cristo resta intero
sotto ciascuna specie.
Da colui che (lo) assume, non spezzato,
non rotto, non diviso:
(ma) intero è ricevuto.
(Lo) riceve uno, (lo) ricevono mille:
quanto questi tanto quello;
né ricevuto si consuma.
(Lo) ricevono i buoni, (lo) ricevono i malvagi,
ma con ineguale sorte:
di vita o di morte.
È morte per i malvagi, vita per i buoni:
vedi di pari assunzione
quanto sia diverso l’effetto.
Spezzato finalmente il Sacramento,
non tentennare, ma ricorda
che tanto c’è sotto un frammento
quanto si nasconde nell’intero.
Nessuna scissura si fa della sostanza;
si fa rottura solo del segno:
per cui né lo stato né la dimensione
del Segnato è sminuita.
Ecco il pane degli angeli
fatto cibo dei viandanti:
vero pane dei figli
da non gettare ai cani.
Nelle figure è preannunciato,
con Isacco è immolato,
quale Agnello pasquale è designato,
è dato qual manna ai padri.
Buon pastore, pane vero,
o Gesù, abbi pietà di noi:
Tu nutrici, proteggici,
Tu fa’ che noi vediamo le cose buone
nella terra dei viventi.
Tu, che tutto sai e puoi,
che qui pasci noi mortali:
facci lassù Tuoi commensali,
coeredi e compagni
dei santi cittadini.
Amen.
Alleluia.
SANTA MESSA E PROCESSIONE EUCARISTICA NELLA SOLENNITÀ DEL SANTISSIMO CORPO E SANGUE DI CRISTO
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Sagrato della Basilica di San Giovanni in Laterano
Giovedì, 19 giugno 2014
«Il Signore, tuo Dio, … ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi» (Dt 8,2).
Queste parole del Deuteronomio fanno riferimento alla storia d’Israele, che Dio ha fatto uscire dall’Egitto, dalla condizione di schiavitù, e per quarant’anni ha guidato nel deserto verso la terra promessa. Una volta stabilito nella terra, il popolo eletto raggiunge una certa autonomia, un certo benessere, e corre il rischio di dimenticare le tristi vicende del passato, superate grazie all’intervento di Dio e alla sua infinita bontà. Allora le Scritture esortano a ricordare, a fare memoria di tutto il cammino fatto nel deserto, nel tempo della carestia e dello sconforto. L’invito è quello di ritornare all’essenziale, all’esperienza della totale dipendenza da Dio, quando la sopravvivenza era affidata alla sua mano, perché l’uomo comprendesse che «non vive soltanto di pane, ma … di quanto esce dalla bocca del Signore» (Dt 8,3).
Oltre alla fame fisica l’uomo porta in sé un’altra fame, una fame che non può essere saziata con il cibo ordinario. E’ fame di vita, fame di amore, fame di eternità. E il segno della manna – come tutta l’esperienza dell’esodo – conteneva in sé anche questa dimensione: era figura di un cibo che soddisfa questa fame profonda che c’è nell’uomo. Gesù ci dona questo cibo, anzi, è Lui stesso il pane vivo che dà la vita al mondo (cfr Gv 6,51). Il suo Corpo è il vero cibo sotto la specie del pane; il suo Sangue è la vera bevanda sotto la specie del vino. Non è un semplice alimento con cui saziare i nostri corpi, come la manna; il Corpo di Cristo è il pane degli ultimi tempi, capace di dare vita, e vita eterna, perché la sostanza di questo pane è l’Amore.
Nell’Eucaristia si comunica l’amore del Signore per noi: un amore così grande che ci nutre con Sé stesso; un amore gratuito, sempre a disposizione di ogni persona affamata e bisognosa di rigenerare le proprie forze. Vivere l’esperienza della fede significa lasciarsi nutrire dal Signore e costruire la propria esistenza non sui beni materiali, ma sulla realtà che non perisce: i doni di Dio, la sua Parola e il suo Corpo.
Se ci guardiamo attorno, ci accorgiamo che ci sono tante offerte di cibo che non vengono dal Signore e che apparentemente soddisfano di più. Alcuni si nutrono con il denaro, altri con il successo e la vanità, altri con il potere e l’orgoglio. Ma il cibo che ci nutre veramente e che ci sazia è soltanto quello che ci dà il Signore! Il cibo che ci offre il Signore è diverso dagli altri, e forse non ci sembra così gustoso come certe vivande che ci offre il mondo. Allora sogniamo altri pasti, come gli ebrei nel deserto, i quali rimpiangevano la carne e le cipolle che mangiavano in Egitto, ma dimenticavano che quei pasti li mangiavano alla tavola della schiavitù. Essi, in quei momenti di tentazione, avevano memoria, ma una memoria malata, una memoria selettiva. Una memoria schiava, non libera.
Ognuno di noi, oggi, può domandarsi: e io? Dove voglio mangiare? A quale tavola voglio nutrirmi? Alla tavola del Signore? O sogno di mangiare cibi gustosi, ma nella schiavitù? Inoltre, ognuno di noi può domandarsi: qual è la mia memoria? Quella del Signore che mi salva, o quella dell’aglio e delle cipolle della schiavitù? Con quale memoria io sazio la mia anima?
Il Padre ci dice: «Ti ho nutrito di manna che tu non conoscevi». Recuperiamo la memoria. Questo è il compito, recuperare la memoria. E impariamo a riconoscere il pane falso che illude e corrompe, perché frutto dell’egoismo, dell’autosufficienza e del peccato.
Tra poco, nella processione, seguiremo Gesù realmente presente nell’Eucaristia. L’Ostia è la nostra manna, mediante la quale il Signore ci dona se stesso. A Lui ci rivolgiamo con fiducia: Gesù, difendici dalle tentazioni del cibo mondano che ci rende schiavi, cibo avvelenato; purifica la nostra memoria, affinché non resti prigioniera nella selettività egoista e mondana, ma sia memoria viva della tua presenza lungo la storia del tuo popolo, memoria che si fa “memoriale” del tuo gesto di amore redentivo. Amen.
22 GIUGNO 2014 | 12A DOM.: CORPUS DOMINI A – T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO
LECTIO DIVINA : GV 6,51-58
Come ben capirono i suoi uditori ebrei, Gesù, dopo aver esigito la fede nella sua parola, si presenta come vero alimento: assicura la vita al suo commensale. Il realismo del linguaggio di Gesù si scontra, anche oggi, con l’incomprensione; continua ad essere attuale l’obiezione degli ebrei. E tuttavia, ripete Gesù, non c’è un’altra possibilità di vivere oltre la morte che quella di alimentarsi di lui. Come la manna, la sua origine è Dio: ma a differenza della manna, non alimenta per la morte. Gesù sta parlando a persone che hanno sofferto la fame e che si sono visti miracolosamente alimentate da lui; più che del miracolo che come la fame può ripetersi sempre, vuole legare a sé l’uditorio. La cosa importante non è sostentarsi di un prodigio isolato bensì di chi è capace di realizzarlo di nuovo. Ma quello che esige, prenderlo come alimento, è troppo per essere credibile; il problema è che chi creda possibile poter salvarsi senza alimentarsi di Cristo rimane condannato a morire per sempre. L’avvertimento è fatto, lo stesso come la promessa. Chi obietta la logica di Gesù, si espone a soccombere: la morte definitiva è il suo futuro.
In quel tempo, Gesù disse alla folla:
51- »Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo ».
52 Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro:
« Come può costui darci la sua carne da mangiare? ».
53 Gesù disse loro:
« In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. 54Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno.
55 Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
56 Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui.
57 Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me.
58 Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno. »
1. LEGGERE : capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
Dopo aver soddisfatto la fame della moltitudine (6,1-16), Gesù si occupa, in un lungo discorso (6,25-71), di saziare l’anima dei suoi uditori; offre, in primo luogo, la sua parola, poi, la sua persona, a chi prima aveva dato solo pane. Il segno fu realizzato nel monte, vicino al lago (6,1.3); il discorso, a Cafarnao, nella sinagoga (6,24.59); due scenari diversi, con gli stessi protagonisti: Gesù, la moltitudine, i discepoli.
Il breve passaggio che appartiene alla seconda parte del discorso (6,48-58) e ha gli ebrei come destinatari, è ben incorniciato (6,51.58): colui che mangia questo pane vivrà per sempre. Inteso ovviare qualunque malinteso che potesse sorgere dall’essersi presentato non come colui che dà alimento bensì come chi lo è, Gesù ripete che bisogna mangiarlo e berlo. Come è abituale in Gv, Gesù non risolve, neanche chiarisce, la questione; reitera la sua affermazione e la ingrandisce, portando lo scandalo al parossismo: mangiare e bere hanno come funzione il mantenersi in vita. È il cibo e la bevanda ciò che mette difficoltà, perché bisognerà mangiare la carne e bere il sangue del figlio dell’uomo per avere la vita; questa è la forma concreta di accogliere il Gesù che si dà. Compie la funzione di dare vita perché sazia la fame e la sete di vita in forma autentica: è vero cibo e vera bevanda (6,52-55). E lo sazia in quanto essere umano, fragile e mortale; carne e sangue può alludere, precisamente, all’umanità di Gesù. Emerge, così, un nuovo – inaudito – dato nel dialogo di rivelazione: dal credere in lui, nella sua parola, bisogna passare ad alimentarsi di lui, della sua carne (6,51c). Il modo di relazionarsi con Cristo è ora tanto concreto come insolito: non basta credere in Lui, bisognerà alimentarsi di Lui.
La vita che il corpo mangiato di Gesù propone non è transitoria, come fu il caso degli israeliti nel deserto (6,58). Chi mangia, rimane in Gesù, nella sua vita (6,56; cf. 8,31; 15,4-9.10); invece di assimilarlo come alimento chi lo mangia abita in Lui; la separazione tra cibo e commensale sparisce. La permanenza reciproca tra il Padre ed il Figlio è il modello, e la possibilità stessa, della relazione tra il Figlio ed il credente. La vita è il nesso che unisce i tre: il Padre, fonte di vita, il suo Apostolo vivente, ed il credente che, alimentato di lui, vivrà. Non si esige, dunque, una semplice adesione spirituale: la fede che si chiede al credente non è assenso mentale né inclinazione sentimentale; è unione intima, assunzione corporale, associazione per appropriazione, adesione permanente. Il cristiano non è un mero credente, è un commensale di Cristo. L’Israele che, alimentato nel deserto con il pane del cielo morì, non è la comunità dei commensali di Cristo.
2 – MEDITARE : Applicare quello che dice il testo alla vita
Corpus Christi ricorda la decisione di Dio che, incarnandosi in Gesù, ci fu fatto alimento, permanente sostentamento e forza vitale. Davanti a tale ed inspiegabile opzione, che cosa fare se non ammirare e tacere, sentirsi grato e farsi commensale? Il testo evangelico viene in nostro aiuto per dare contenuto alla nostra adorazione comune del Dio eucaristico, pane per la nostra fame e bevanda per la nostra sete.
Davanti alle nostre necessità vitali, gli uomini normalmente ci preoccupiamo, ci mettiamo a lavorare. E nonostante i nostri migliori sforzi, non è alla nostra portata il procurarci tutto quello che assicura un giorno, un momento in più alla nostra vita. Abbiamo più necessità di ciò che riusciamo a soddisfare: le nostre fami sono più numerose e costanti degli alimenti; il nostro cuore desidera più di quanto le nostre mani riescono a darci; le nostre necessità, spirituali o materiali, sono sempre maggiori che la nostra capacità per colmarli. Continuiamo a sentire fame, benché possiamo alimentarci tutti i giorni; non smettiamo di bere, né smettiamo di sentire sete. Questa ‘curiosa’ forma di essere noi ha ‘obbligato’ Dio a farsi nostro alimento.
Nel vangelo Gesù ci è presentato come pane vivo che assicura non solo a mantenerci in vita, allontanando la morte, ma anche ad ottenerci una vita senza morte. La nostra nostalgia di pienezza, il desiderio profondo di vederci finalmente un giorno soddisfatti, la necessità di calmare fame e sete per sempre, trovano risposta nell’impegno di Dio di darsi come soluzione ai nostri bisogni più vitali: Egli è oggi il nostro alimento e domani sarà la nostra vita. Questa è la nostra speranza, perché tale è la sua promessa. Chi non trova in ciò ragione per il godimento e la pace, la celebrazione e la festa, anche tra molte sofferenza?
Abbiamo, dunque, un Dio sensibile alle nostre carenze che si lascia impressionare dalle nostre deficienze. Credere in lui significa essere sicuri che le nostre fami non ci divoreranno che non affogheremo nelle nostre debolezze che neanche la morte vincerà la vita in noi. Dovremmo imparare, come gli israeliti nel deserto, a scoprire Dio là dove sono presenti le nostre necessità; dove più opprime la fame, si ricorda meglio l’alimento; dove c’è più sete, si desidera di più l’acqua; dove più ci manca la vita, o l’abbiamo meno assicurata, lì può aspettarci Dio. Dio può lasciarci insoddisfatti finché ci decidiamo, una volta per tutte, a seguirlo. Non ci fa pensare che, ora che non soffriamo la fame, crediamo che possiamo vivere anche senza Dio? Questo è il dramma della nostra società, una società che non è oramai cristiana, e del nostro cuore che può vivere anche senza esserlo: credersi liberi di Dio perché si è liberati della sua necessità; stufi di pane, siamo stufi di Dio; soddisfatti di noi stessi, non sentiamo la necessità di alimentare e di soddisfare la nostra fame di Dio.
Perché, se Gesù non è pane per la nostra fame e bevanda per la nostra sete, è evidente che non può proporsi di colmare la nostra fame di pane né spegnere la sete di acqua. Come nel deserto un giorno, l’alimento che Dio dà ai suoi non è un pane da portare alla bocca, bensì ogni parola che voglia dirci: ‘non di solo pane vive l’uomo, bensì di tutto quello che esce dalla bocca di Dio.’ Vivere per fare il volere di Dio significherebbe vivere soddisfatti, saziati nei nostri migliori e maggiori desideri; alimentare invece la nostra fame coi nostri propri progetti ci porterà disgraziatamente a non sentire la necessità di Dio.
E’ bene, non aver paura di soffrire del necessario, se questa è la strada per recuperare Dio; volgiamoci a Cristo spinti dalle nostre carenze, evidenti o invisibili, materiali o spirituali. Non abbiamo niente da temere di un Dio che si è fatto sostentamento per la nostra debolezza ed appoggio della nostra stanchezza; né dobbiamo temere la nostra fame, se ci obbliga a mettere la fiducia nel nostro Dio, vero alimento. Non essere autosufficienti, non poterci assicurare alimento e vita per sempre, non è una tragedia: abbiamo un Dio ostinato a soddisfare la nostra ansia di Lui e le nostre necessità più profonde. Se realmente soffriamo la fame di Dio, perché non lo trasformiamo nel nostro sostentamento? Fuggendo dall’Eucaristia, alimentiamo la nostra fame di Dio e la nostra insoddisfazione. Mentre abbiamo l’occasione che Egli alimenti la nostra vita per sempre, alimentiamoci di Lui, facendo della sua Parola e del suo Corpo il nostro alimento.
Siamo molti quelli che compartiamo il pane, e sono molto di più i nostri desideri e le nostre necessità, ma l’alimento del quale sostentarci è uno solo. Comunicare con un solo Dio dovrebbe renderci possibile e più facile la comunicazione con chi è vicino a noi e si sazia di Dio: saziare la nostra necessità di Dio non può lasciarci indifferenti davanti al prossimo insoddisfatto, bisognoso di Dio e di noi. Rimanere soli, assorti, dopo essersi riuniti per mangiare dello stesso pane e bere dello stesso sangue, ci farebbe indegni del corpo di Cristo: lasciare insoddisfatto il prossimo che condivide con noi fede ed Eucaristia ci condannerebbe a rimanere insoddisfatti con Dio, anche se con molta fede celebriamo l’eucaristia.
Dovremmo domandarci se non è questa la ragione che, nonostante tanta eucaristia celebrata, nonostante tanto corpo di Cristo ricevuto, non ci sentiamo soddisfatti di Dio né di noi stessi: chi trascura il prossimo e si disinteressa delle sue necessità, non può sentire l’interesse di Dio né sarà oggetto delle sue attenzioni. Avvicinarsi a Cristo suppone avvicinarsi al cristiano. Solo così adoriamo il mistero che celebriamo: perché solo così incominciamo a fare realtà quello in cui crediamo.
Dio sarà alimento della nostra fame, se alimentiamo il fratello affamato. Né più né meno. Chissà se Dio non starà aumentando la nostra fame ed ingrandendo la nostra insoddisfazione, quanto più accumuliamo beni e cose con che alimentarci, perché stiamo lasciando il prossimo senza alimento! La partecipazione all’Eucaristia non deve essere solo frequente, affinché Dio badi alle nostre necessità più vitali; deve essere, soprattutto, tanto efficace che ci trasformi in pane che soddisfa la necessità del prossimo. Solo così è degna la nostra celebrazione del mistero che è il Corpo di Cristo: riceve Cristo come alimento efficace solo chi si converte in alimento del suo fratello.
JUAN JOSE BARTOLOME sdb,
http://www.comunitanext.org/2012/06/giovanni-paolo-iie-il-corpus-domini/
GIOVANNI PAOLO II E IL CORPUS DOMINI
di don Mariusz Frukacz
6 giugno 2012
CZESTOCHOWA, (ZENIT.org)- Un giorno alla Solennità del Corpus Domini, una ricorrenza cui il beato Giovanni Paolo II era molto legato. Sull’argomento Zenit ha intervistato monsignor Stanislaw Nowak, arcivescovo di Czestochowa.
Eccellenza, come ricorda il giorno in cui Giovanni Paolo II ha rinnovato la tradizione della processione del Corpus Domini a Roma?
Mons. Stanislaw Nowak: Ricordo sempre quanto si parlava a Cracovia dei primi giorni del pontificato di Giovanni Paolo II e di quanto succedeva a Roma dopo l’elezione del cardinale Wojtyla sul Trono di San Pietro.
Soprattutto ricordo che si parlava tanto del fatto che Giovanni Paolo II avrebbe rinnovato la processione del Corpus Domini a Roma. Si diceva che il Santo Padre aveva voluto compiere questo gesto perché amava infinitamente questa processione, di cui era molto coinvolto anche in quanto vescovo di Cracovia.
Va detto, infatti, che, già come vescovo di Cracovia, Karol Wojtyla attribuiva una grande importanza nella processione Corpus Domini in quanto “professione di fede in Dio sulla strada”, al centro della città. Aveva sofferto molto quando, ai tempi del comunismo, fu interrotta la grande tradizione di Cracovia – risalente a prima della seconda guerra mondiale – di svolgere la processione eucaristica fino alla piazza principale della città.
Il grande arcivescovo di Cracovia suo predecessore, Adam Sapieha, aveva guidato questa processione fino alla piazza principale, attraversando con il Santissimo Sacramento le strade della centro storico. Durante la dura era comunista, purtroppo, non fu possibile organizzare tutto questo: la processione aveva luogo soltanto sulla collina del castello di Wawel ed era vietato andare per le strade della città.
Da cardinale, quindi, Karol Wojtyla lottò tanto per riportare la processione del Corpus Domini per le strade.
Perché, dunque, la processione del Corpus Domini sulle strade della città è stata così importante per il cardinale Wojtyla?
Mons. Stanislaw Nowak: In Polonia esisteva la grande tradizione dei quattro altari durante la processione pubblica del Corpus Domini e come cardinale di Cracovia, il beato Wojtyla ha predicato la parola di Dio con grande attualità in ciascuno dei quattro altari.
Egli parlò di libertà, chiedendo il rispetto da parte dello Stato per le tradizioni cattoliche e del ripristino della Facoltà di Teologia a Cracovia. La processione del Corpus Domini, quindi, all’epoca di Wojtyla era, da un lato, una grande confessione di fede e, dall’altro, un richiamo alle autorità dello Stato a ristabilire la giustizia in Polonia.
Alla luce di questo, possiamo dire che esiste una relazione interessante fra il rinnovamento della processione del Corpus Domini a Roma e quella di Cracovia. Quando l’allora cardinale Karol Wojtyla fu eletto Papa, rinnovando e celebrando la prima processione a Roma, allo stesso tempo le autorità comuniste diedero il permesso cha la processione del Corpus Domini tornasse nella piazza principale di Cracovia. E questo, per noi polacchi fu una grande gioia.
*Mons. Stanislaw Nowak è nato l’11 luglio 1935 in Jeziorzany. Ordinato sacerdote il 22 giugno 1958 dall’Arcivescovo di Cracovia Eugeniusz Baziak, iniziò il ministero pastorale nell’Arcidiocesi di Cracovia – come un vicario – in Choczni vicino a Wadowice, in Ludzmierz e Rogoznik Podhale.
Negli anni 1963-1979 è stato il padre spirituale del Seminario di Cracovia e, allo stesso tempo, ha proseguito gli studi specializzati in teologia negli anni dal 1967 al 1971 presso l’Istituto Cattolico di Parigi.
Dal 1971 è stato, poi, docente alla cattedra di Teologia della vita interiore della Pontificia Facoltà di Teologia a Cracovia e, dal 1981, alla Facoltà di Teologia della Pontificia Accademia di Teologia. Nei anni 1984-1992 mons. Nowak è stato il quarto ordinario vescovo della diocesi di Czestochowa e, dal 1992 è il primo Metropolita di Czestochowa.
Durante i miei studi a Roma ho potuto partecipare per tre volte alla processione del Corpus Domini, guidata da Giovanni Paolo II, negli anni 2001-2003, dunque nell’ultimo periodo del suo grande Pontificato.
Il Santo Padre era già un uomo che aveva patito molte sofferenze; allo stesso tempo, però, era un uomo di straordinaria forza spirituale, e per questo posso dire che, durante la processione del Corpus Domini, il beato Wojtyla ha dato una grande testimonianza dell’amore di Cristo presente nel Santissimo Sacramento.
Ricordo che una volta andai molto vicino al Santo Padre e avvertii subito la sua grande fede e il profondo amore che da lui traspariva. Quando guardò Cristo fu davvero un’emozione unica, perché amava veramente Cristo: lo ha portato con sé fino alla fine, con la Sua croce, quando, nonostante la sofferenza, guidò la processione del Corpus Domini.
Questa processione, infatti, è stata per me un’esperienza profonda, una lezione di fede, di amore e di umiltà. Credo che quando Giovanni Paolo II ha seguito Cristo per le strade della Città Eterna, dalla Basilica di San Giovanni in Laterano fino alla Basilica di Santa Maria Maggiore, ha insegnato a tutti a rivolgere il nostro sguardo a Cristo, imparando quindi a guardare con amore, ma anche con umiltà e pace, dentro il cuore di ogni persona che incontriamo sul cammino della nostra vita.
La solennità del Corpus Domini risale al 1264, per volontà di Papa Urbano IV che istituì la festa «affinché il popolo cristiano riscoprisse il valore del mistero eucaristico». A distanza di più di 700 anni la tradizione continua ininterrotta: Benedetto XVI, infatti, presiederà, questo giovedì, la Santa Messa sul sagrato di San Giovanni in Laterano, per poi guidare la processione del Corpo di Cristo fino alla basilica di Santa Maria Maggiore.
“Un momento importante per la fede dei cristiani e per la vita ecclesiale della Diocesi di Roma” ha dichiarato il cardinale Vicario, Agostino Vallini. Soprattutto un’occasione “per ringraziare il Signore del dono inestimabile dell’Eucaristia, per testimoniare pubblicamente la nostra fede e l’unità della Chiesa di Roma intorno al suo Vescovo”.
In vista di tale evento, ZENIT ha incontrato padre Giuseppe Midili, O.Carm., direttore dell’Ufficio Liturgico del Vicariato di Roma, che ci ha raccontato la storia e il significato di questa festa in cui “la Chiesa si manifesta come Corpo unico e unitario”.
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Il Corpus Domini celebra l’Eucarestia, fulcro della fede cristiana. Qual è il significato di questa solennità?
Padre Midili: Eucaristia significa rendimento di grazie. Ogni giorno – specialmente la domenica – la Chiesa si raduna per celebrare i santi misteri e rendere grazie al Padre per il dono del Figlio, che ha offerto la sua vita in sacrificio per noi e ci ha meritato la salvezza. La solennità del Corpo e del Sangue del Signore è l’occasione liturgica di un ringraziamento speciale. La comunità cristiana si raduna per prendere coscienza che solo nell’Eucaristia trova il culmine e la fonte di tutta la sua vita. Ogni atto di fede, ogni forma di pietà, di devozione, ogni forma di autentica carità non può prescindere mai da questo sacramento, che è costitutivo del cristiano.
A quando risale la nascita di tale ricorrenza?
Padre Midili: La solennità del Corpo e del Sangue del Signore fu istituita nel 1264 da papa Urbano IV, perché il popolo cristiano potesse partecipare con speciale devozione alla Santa Messa e alla processione e così testimoniasse la fede in Gesù, che ha voluto rimanere presente sotto le specie del pane e del vino consacrati. Nel corso dei secoli questa solennità ha costituito il punto più alto di devozione eucaristica, perché ha unito l’adorazione devota a quell’evento originante imprescindibile che è la celebrazione della Messa.
La celebrazione del Corpus Domini a san Giovanni in Laterano è entrata nella tradizione della diocesi di Roma grazie a Giovanni Paolo II. Perché il beato Papa ha voluto dargli una così grande
importanza?
Padre Midili: Sin dall’anno 1979 Papa Giovanni Paolo II volle che a Roma la solennità del Corpo e Sangue del Signore si celebrasse il giovedì, perché proprio il giovedì santo Gesù radunò i suoi discepoli e durante la cena istituì il nuovo ed eterno sacrificio, il convito nuziale dell’amore. Mentre nella sera del giovedì santo si rivive il mistero di Cristo che si offre nel pane spezzato e nel vino versato, nella ricorrenza del Corpus Domini questo stesso mistero viene proposto all’adorazione e alla meditazione del Popolo di Dio.
Il Papa volle celebrare nella Cattedrale di Roma, insieme con tutti i sacerdoti e i fedeli della città, perché l’Eucaristia è mistero di comunione con Dio, ma anche tra le persone. La migliore immagine di Chiesa, infatti, è quella che si costituisce intorno al Vescovo, per celebrare i divini misteri, mangiare e bere del Corpo e Sangue del Signore, rendere grazie e così testimoniare la comunione e l’amore che Gesù ha insegnato.
Qual è il senso di celebrare questa festa nella piazza antistante la Basilica di San Giovanni?
Padre Midili: Piazza S. Giovanni è allo stesso tempo il sagrato della Basilica Cattedrale di Roma, ma è anche il luogo delle manifestazioni pubbliche per la città e per l’Italia; spesso è teatro di concerti, di eventi politici e purtroppo anche di scontri; è l’agorà degli antichi. È diventata un simbolo del nostro paese, è un sagrato-piazza.
Celebrare la Santa Messa in un luogo così significativo nel giorno della festa dell’Eucaristia ribadisce che Gesù è in mezzo al suo popolo in ogni momento della vita. Con la sua presenza egli santifica la quotidianità, vede e risana la sofferenza, è per tutti un segno di speranza. Gesù non è lontano da noi e dalla nostra vita, ma è sempre presente, si è fatto vicino. Possiamo incontrarlo nell’Eucaristia celebrata e nel pane consacrato. Egli ci viene incontro.
Il Corpus Domini è un momento fondamentale per il popolo cristiano. Soprattutto la processione, guidata dal Santo Padre, è un evento di grande impatto la cui idea centrale è che “Cristo cammina in mezzo a noi”….
Padre Midili: La Santa Messa e la processione nella solennità del Corpo e del Sangue del Signore sono un unico evento, che manifesta la Chiesa come Chiesa. É la festa della comunità radunata. I credenti si ritrovano insieme per celebrare il sacrificio di Cristo e nella celebrazione rendono grazie a Dio per tutto quello che hanno ricevuto. La migliore immagine di Chiesa è quella che si raduna intorno al suo Vescovo per celebrare i santi misteri, mangiare e bere del Corpo e del Sangue del Signore, rendere grazie e così testimoniare la comunione e l’amore che Gesù ci ha insegnato.
L’adorazione è prosecuzione dell’Eucaristia celebrata, testimonianza d’amore e di fede verso Gesù, prolungamento del ringraziamento dopo ogni S. Comunione. La processione è cammino di sequela. Ancora una volta la Chiesa si identifica con il popolo in cammino, che segue il suo maestro. Si ripete l’esperienza dei discepoli di Emmaus, che percorrono un tratto di strada con Gesù e lo ascoltano mentre li istruisce. Nella processione eucaristica la comunità cammina con Gesù, ma non lo riconosce più mentre spezza il pane. Noi riconosciamo il Maestro presente in quel pane.
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EUCARISTIA, PANE DEL CAMMINO, FONTE E CULMINE DELLA VITA CRISTIANA
Cristiani: “… non si nasce, si diventa …”– come ha ben detto Tertulliano (Apologetico 18, 4) – e questo avviene con un progressivo inserimento nel mistero di Cristo e della sua Chiesa.
« Il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane » (1 Cor 10, 16-17)
Non trovo espressione più adeguata per entrare nel merito di questi due versetti dell’Apostolo ai cristiani di Corinto del commento di S. Agostino, il quale scrive: « Se vuoi comprendere il corpo di Cristo, ascolta l’apostolo che dice ai fedeli: Voi però siete il corpo di Cristo, le sue membra (1 Cor 12,27). Se voi, dunque, siete il corpo di Cristo e le sue membra, sulla mensa del Signore viene posto il vostro sacro mistero: il vostro sacro mistero voi ricevete. A ciò che voi siete, voi rispondete Amen e, rispondendo, lo sottoscrivete. Odi infatti: « Il corpo di Cristo » e rispondi: « Amen ». Sii veramente corpo di Cristo, perché l’Amen (che pronunci) sia vero! » (Disc. 272). In questa semplice parola: « amen » è sintetizzata la realtà più preziosa che ogni uomo possiede, la fede. Ogni volta che ci poniamo dinanzi all’eucaristia dovremmo sentire forte il bisogno di rinnovare la fede, che purtroppo percepiamo sempre troppo debole, per entrare con coerenza all’interno di quel mistero che per grazia siamo chiamati a celebrare. La fede è in grado di suscitare in noi quello « stupore eucaristico » (EdE 6), mediante il quale scopriamo che sempre qualcosa di nuovo è posto sotto i nostri occhi.
L’eucaristia ci consente di essere partecipi di un mistero mediante il quale Cristo continua a vivere realmente in mezzo ai suoi e permane come una presenza viva e perenne nella vita della sua Chiesa. Il mistero dell’altare, infatti, dà la prova che Dio non è un’idea astratta, ma una persona opera e agisce nella storia, in mezzo all’umanità come una presenza unica, insostituibile, anche se ancora una volta, espressa nel linguaggio umano che obbliga a una kenosi perenne di quell’iniziale spogliarsi della gloria di Dio per entrare nel mondo degli uomini. L’eucaristia, da questa prospettiva, è davvero la continuazione e amplificazione del mistero dell’Incarnazione. La trasformazione che lo Spirito Santo compie del pane nel Corpo di Cristo non è altro che il rinnovarsi di quel primo momento con il quale il Figlio di Dio venne concepito nel seno della Vergine per divenire uno di noi. Quanto il pane della vita possa essere di genuino sostegno nella nostra vita lo percepiamo ogni volta che nell’eucaristia poniamo i nostri pensieri, le nostre attese e le nostre difficoltà. Sull’altare c’è davvero la nostra vita; nella quotidianità della celebrazione si condensa il giorno dopo giorno del nostro ministero in una circolarità tale che mentre, da una parte, sappiamo dove porre il nostro lavoro, dall’altra, abbiamo certezza della strada che dobbiamo seguire.
Nell’eucaristia, la Chiesa ci chiede di rendere grazie al Padre per esprimere in maniera visibile ciò che essa stessa è: segno della presenza del Signore risorto e strumento di comunione tra i fratelli. Solo a questa condizione comprendiamo cosa significa per noi appartenere e presiedere « un’assemblea santa », una « stirpe sacerdotale », « popolo chiamato a rendere il culto al Signore » (cf. 1 Pt 2,9). Nel celebrare l’eucaristia, « fonte e culmine » della vita della Chiesa e quindi dell’opera di evangelizzazione, noi celebriamo il mistero della nostra esistenza di fede. In un periodo come il nostro, carico di una cultura che impone l’acquisizione di ogni cosa solo in forza del desiderio di possedere, l’eucaristia insegna come percepire l’essenziale della vita. Senza la scoperta della gratuità, d’altronde, difficilmente potremmo pensare di raggiungere obiettivi che qualifichino la nostra stessa esistenza umana. Senza la scoperta della gratuità verrebbe meno ogni possibile comprensione dell’amore genuino, che nulla chiede in cambio e si cadrebbe nella sola pretesa dell’egoismo che ci farebbe cadere giorno dopo giorno in un abisso di illusione. La vita cristiana se non ha alla base la gratuità della nostra donazione non può essere realmente efficace e l’unità che siamo chiamati a rendere visibile rischia di essere precaria o, al massimo, riesce a diventare un palliativo emotivo, ma non un segno del Corpo di Cristo.
Se viviamola nostra vita in maniera eucaristica, allora più facilmente scopriremo che la gratuità del dono trasforma a tal punto da divenire noi stessi un dono. Ricevo Cristo, ma divento nello stesso istante offerta che si dona a lui e ai fratelli. Nutrirsi di Cristo diventa per noi porsi in un cammino irreversibile che mentre ci pone dinanzi a ciò che il Padre vuole per noi e da noi, nello stesso tempo ci consente di sapere che diventiamo noi stessi « corpo » che viene donato. Qui, infatti non siamo dinanzi a un « darsi » generico di Dio, ma è sempre un donarsi « per noi ».
Nutrirsi del corpo e del sangue di Cristo realizza con lui un’unità talmente inscindibile, « un solo corpo », che a noi non è più permesso partecipare a nessun’altra mensa sacra (cfr. vv 19-22), né condividere il nostro corpo con altri (cfr. 1 Cor 6,15-20); ciò significa che la nostra vita, appartiene solo a lui. « Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito… Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte »: Paolo non poteva trovare espressione più forte di questa per indicare l’unità basilare che sta a fondamento del nostro essere cristiano. L’essere espropriato di sé per divenire corpo di Cristo è quanto attesta il sacramento dell’eucaristia.
Il nostro impegno a costruire la comunità giorno dopo giorno è possibile solo se la fondiamo sulla comunione eucaristica. Questa un’unità è già stata data nel mistero pasquale, ma deve essere da noi conservata perché il mondo creda. Questo ci fa dire che verso la celebrazione dell’eucaristia devono convergere tutte le strade della nostra pastorale. Niente come l’eucaristia attesta al mondo che sono superate realmente tutte le barriere e le divisioni: di razza, di popolo, di lingua, di condizione sociale, di costume, di pensiero, di progettazione…
Diamo, pertanto, spazio all’azione dello Spirito che permette alla Chiesa di celebrare l’eucaristia come promessa di comunione e germe di unità. La preghiera contenuta nell’anafora di Ippolito Romano, unitamente all’esempio dei santi e tanti altri beati e servi di Dio, che hanno fatto dell’eucaristia il centro focale della loro esistenza, possano essere di sostegno per rendere il nostro sacerdozio un’eucaristia viva: « Fa scendere il tuo Santo Spirito sull’offerta della santa Chiesa, e dopo averli riuniti, concedi a tutti i santi che la ricevono di essere ripieni di Spirito Santo per fortificarli nella fede e nella verità, affinché ti lodiamo e glorifichiamo tramite tuo Figlio Gesù Cristo, per mezzo del quale a te viene la gloria e l’onore, Padre e Figlio con lo Spirito Santo nella santa Chiesa ora e nei secoli dei secoli » (Tradizione apostolica, 4).
Mons Pasquale Morelli
PAPA FRANCESCO
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 18 giugno 2014
LA CHIESA: 1. DIO FORMA UN POPOLO
Cari fratelli e sorelle, buongiorno. E complimenti a voi perché siete stati bravi, con questo tempo che non si sa se viene l’acqua, se non viene l’acqua… Bravi! Speriamo di finire l’udienza senza acqua, che il Signore abbia pietà di noi.
Oggi incomincio un ciclo di catechesi sulla Chiesa. E’ un po’ come un figlio che parla della propria madre, della propria famiglia. Parlare della Chiesa è parlare della nostra madre, della nostra famiglia. La Chiesa infatti non è un’istituzione finalizzata a se stessa o un’associazione privata, una ONG, né tanto meno si deve restringere lo sguardo al clero o al Vaticano… “La Chiesa pensa…”. Ma la Chiesa siamo tutti! “Di chi parli tu?” “No, dei preti…”. Ah, i preti sono parte della Chiesa, ma la Chiesa siamo tutti! Non restringerla ai sacerdoti, ai vescovi, al Vaticano… Queste sono parti della Chiesa, ma la Chiesa siamo tutti, tutti famiglia, tutti della madre. E la Chiesa è una realtà molto più ampia, che si apre a tutta l’umanità e che non nasce in un laboratorio, la Chiesa non è nata in laboratorio, non è nata improvvisamente. E’ fondata da Gesù ma è un popolo con una storia lunga alle spalle e una preparazione che ha inizio molto prima di Cristo stesso.
1. Questa storia, o “preistoria”, della Chiesa si trova già nelle pagine dell’Antico Testamento. Abbiamo sentito il Libro della Genesi: Dio scelse Abramo, nostro padre nella fede, e gli chiese di partire, di lasciare la sua patria terrena e andare verso un’altra terra, che Lui gli avrebbe indicato (cfr Gen 12,1-9). E in questa vocazione Dio non chiama Abramo da solo, come individuo, ma coinvolge fin dall’inizio la sua famiglia, la sua parentela e tutti coloro che sono a servizio della sua casa. Una volta in cammino, – sì, così incomincia a camminare la Chiesa – poi, Dio allargherà ancora l’orizzonte e ricolmerà Abramo della sua benedizione, promettendogli una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia sulla riva del mare. Il primo dato importante è proprio questo: cominciando da Abramo Dio forma un popolo perché porti la sua benedizione a tutte le famiglie della terra. E all’interno di questo popolo nasce Gesù. E’ Dio che fa questo popolo, questa storia, la Chiesa in cammino, e lì nasce Gesù, in questo popolo.
2. Un secondo elemento: non è Abramo a costituire attorno a sé un popolo, ma è Dio a dare vita a questo popolo. Di solito era l’uomo a rivolgersi alla divinità, cercando di colmare la distanza e invocando sostegno e protezione. La gente pregava gli dei, le divinità. In questo caso, invece, si assiste a qualcosa di inaudito: è Dio stesso a prendere l’iniziativa. Ascoltiamo questo: è Dio stesso che bussa alla porta di Abramo e gli dice: vai avanti, vattene dalla tua terra, incomincia a camminare e io farò di te un grande popolo. E questo è l’inizio della Chiesa e in questo popolo nasce Gesù. Dio prende l’iniziativa e rivolge la sua parola all’uomo, creando un legame e una relazione nuova con lui. “Ma, padre, com’è questo? Dio ci parla?” “Sì”. “E noi possiamo parlare a Dio?” “Sì”. “Ma noi possiamo avere una conversazione con Dio?” “Sì”. Questo si chiama preghiera, ma è Dio che ha fatto questo dall’inizio. Così Dio forma un popolo con tutti coloro che ascoltano la sua Parola e che si mettono in cammino, fidandosi di Lui. Questa è l’unica condizione: fidarsi di Dio. Se tu ti fidi di Dio, lo ascolti e ti metti in cammino, questo è fare Chiesa. L’amore di Dio precede tutto. Dio sempre è primo, arriva prima di noi, Lui ci precede. Il profeta Isaia, o Geremia, non ricordo bene, diceva che Dio è come il fiore del mandorlo, perché è il primo albero che fiorisce in primavera. Per dire che Dio sempre fiorisce prima di noi. Quando noi arriviamo Lui ci aspetta, Lui ci chiama, Lui ci fa camminare. Sempre è in anticipo rispetto a noi. E questo si chiama amore, perché Dio ci aspetta sempre. “Ma, padre, io non credo questo, perché se lei sapesse, padre, la mia vita, è stata tanto brutta, come posso pensare che Dio mi aspetta?” “Dio ti aspetta. E se sei stato un grande peccatore ti aspetta di più e ti aspetta con tanto amore, perché Lui è primo. E’ questa la bellezza della Chiesa, che ci porta a questo Dio che ci aspetta! Precede Abramo, precede anche Adamo.
3. Abramo e i suoi ascoltano la chiamata di Dio e si mettono in cammino, nonostante non sappiano bene chi sia questo Dio e dove li voglia condurre. E’ vero, perché Abramo si mette in cammino fidandosi di questo Dio che gli ha parlato, ma non aveva un libro di teologia per studiare cosa fosse questo Dio. Si fida, si fida dell’amore. Dio gli fa sentire l’amore e lui si fida. Questo però non significa che questa gente sia sempre convinta e fedele. Anzi, fin dall’inizio ci sono le resistenze, il ripiegamento su sé stessi e sui propri interessi e la tentazione di mercanteggiare con Dio e risolvere le cose a modo proprio. E questi sono i tradimenti e i peccati che segnano il cammino del popolo lungo tutta la storia della salvezza, che è la storia della fedeltà di Dio e dell’infedeltà del popolo. Dio, però, non si stanca, Dio ha pazienza, ha tanta pazienza, e nel tempo continua a educare e a formare il suo popolo, come un padre con il proprio figlio. Dio cammina con noi. Dice il profeta Osea: “Io ho camminato con te e ti ho insegnato a camminare come un papà insegna a camminare al bambino”. Bella questa immagine di Dio! E così è con noi: ci insegna a camminare. Ed è lo stesso atteggiamento che mantiene nei confronti della Chiesa. Anche noi infatti, pur nel nostro proposito di seguire il Signore Gesù, facciamo esperienza ogni giorno dell’egoismo e della durezza del nostro cuore. Quando però ci riconosciamo peccatori, Dio ci riempie della sua misericordia e del suo amore. E ci perdona, ci perdona sempre. Ed è proprio questo che ci fa crescere come popolo di Dio, come Chiesa: non è la nostra bravura, non sono i nostri meriti – noi siamo poca cosa, non è quello -, ma è l’esperienza quotidiana di quanto il Signore ci vuole bene e si prende cura di noi. È questo che ci fa sentire davvero suoi, nelle sue mani, e ci fa crescere nella comunione con Lui e tra di noi. Essere Chiesa è sentirsi nelle mani di Dio, che è padre e ci ama, ci accarezza, ci aspetta, ci fa sentire la sua tenerezza. E questo è molto bello!
Cari amici, questo è il progetto di Dio; quando ha chiamato Abramo, Dio pensava a questo: formare un popolo benedetto dal suo amore e che porti la sua benedizione a tutti i popoli della terra. Questo progetto non muta, è sempre in atto. In Cristo ha avuto il suo compimento e ancora oggi Dio continua a realizzarlo nella Chiesa. Chiediamo allora la grazia di rimanere fedeli alla sequela del Signore Gesù e all’ascolto della sua Parola, pronti a partire ogni giorno, come Abramo, verso la terra di Dio e dell’uomo, la nostra vera patria, e così diventare benedizione, segno dell’amore di Dio per tutti i suoi figli. A me piace pensare che un sinonimo, un altro nome che possiamo avere noi cristiani sarebbe questo: siamo uomini e donne, siamo gente che benedice. Il cristiano con la sua vita deve benedire sempre, benedire Dio e benedire tutti. Noi cristiani siamo gente che benedice, che sa benedire. E’ una bella vocazione questa!