La SS. Trinità

http://comunitapastoralecassina.org/ver2/2013/12/dio-e-amore-e-nulla-mai-ci-separera-dal-suo-amore/
“DIO È AMORE, E NULLA MAI CI SEPARERÀ DAL SUO AMORE”
On 20/12/2013,
«Noi abbiamo creduto l’amore che Dio ha per noi» (1Gv 4,16).
I discepoli di Gesù credono nell’amore di Dio per noi, di cui siamo oggetto, ma anche nel suo amore in noi, che s’incarna in noi, dentro ciò che ci fà persone: Dio è l’amore in ogni amore.
Non ci sono due amori, uno del cielo e uno della terra, ma un solo grande amore, che è “il grande mistero” (Ef 5,32).
Dio è amore, tutto l’amore.
Una delle affermazioni più innovative di Benedetto XVI ci restituisce la rivelazione biblica di un Dio in cui non c’è solo agape (amore che si dona) ma anche eros (attrazione, passione, gelosia). Dalle Sacre Scritture emergono diverse sfumature di questo amore.
Amore di sposo – Il Cantico dei Cantici, i Profeti, Gesù stesso, offrono la chiave riassuntiva dell’intero arco della storia della salvezza nella metafora nuziale tra Dio e l’uomo. Da quando Dio ti mette in vita, ti invita alle nozze con lui. La Bibbia stessa si chiude con una visione nuziale: «La città scendeva dal cielo, bella come una sposa pronta per l’incontro d’amore… E lo Spirito e la sposa dicono “Vieni!”. E chi ascolta ripeta: “Vieni!”» (Ap 22, 17).
Il compimento finale è un abbraccio, l’unione con un Dio che cade sul mondo come un bacio.
Amore di innamorato – «Il Signore esulterà di gioia per te, si rallegrerà per te con grida di gioia» (Sof 3, 17). Il profeta Sofonia ha la visione di un Dio felice, che grida a me, a te, ad ogni creatura: “Tu mi fai felice”.
Mai Dio aveva gridato nella Bibbia. Aveva parlato, sussurrato, tuonato, era venuto in forma di angeli, con il Profeta Sofonia per amore Dio grida: “Tu mi fai felice”.
Dio ha messo la sua felicità nelle nostre mani, come fa ogni innamorato. Il profeta aggiunge «Ti rinnoverà con il suo amore»: l’amore è una forza che rende nuova la vita.
Amore amato- Una donna nella casa di Simone il fariseo, per tutti “la peccatrice”, per Gesù la donna che ha molto amato, con un vaso di profumo, prezioso perchè misto a lacrime: il suo cuore si racconta davanti a tutti con il linguaggio delle carezze. La casa si riempie di profumo e di gesti di tenerezza, gesti desiderati da Gesù («Tu Simone non mi hai dato il bacio»), compiuti da una donna senza parole che diventa profetessa. Peccatrice e profeta insieme rivelano quello che è il sogno di Dio: «L’amore io voglio!» (Os 6,6).
Gesù, il Dio che vuole l’amore, nell’ultima sera ripeterà il gesto della peccatrice innamorata, laverà i piedi dei suoi discepoli e li asciugherà. C’è qualcosa di grandioso in questo: Dio imita i gesti di una donna. Gesù fa suo il gesto di una peccatrice. Creatore e creatura, mendicanti d’amore, si incontrano. Quando ama, l’uomo compie gesti divini; e Dio, a sua volta, ama con cuore di carne.
Amore amante – A Betlemme ha fine l’esodo di Dio in cerca dell’uomo, quando la sua passione di unirsi realizza l’Incarnazione, l’impensabile.
L’amore non ha protetto Dio, lo ha esposto consegnandolo alla precarietà della carne e perfino al rischio di essere rifiutato.
«Maria partorì il suo figlio, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia».
La madre avvolge e nutre il Bambino di latte, di sogni, di carezze.
Nel Bambino l’amante diventa l’amato, vivrà solo perchè una madre e un padre gli daranno il loro cuore; potrà essere felice, realizzato, solo perchè, a partire da loro, ha sperimentato l’amore.
Fasce e mangiatoia sono anche simboli che contengono un anticipo del vangelo totale. In molte icone orientali della natività il Bambino è deposto in una culla che ha foma di sarcofago, avvolto in fasce come un defunto nelle bende della sepoltura: il mistero del Natale apre già sul mistero della Pasqua, il legno della mangiatoia evoca il legno della croce.
Quel Bambino è già il Cristo nel suo destino di solidarietà assoluta con ogni carne: neppure il suo sangue ha tenuto per sè, neppure il suo respiro, neppure il suo corpo.
La passione di Dio di unirsi all’uomo giunge al culmine, e prosegue, ripresa da ogni Eucarestia: il luogo dove l’Amante si trasforma in un banchetto d’amore per l’amato, si fa pane, si lascia mangiare, diventa una stessa carne con l’amato.
Amore di mendicante – Tre domande Gesù rivolgerà a Pietro. Tre domande sempre uguali, ogni volta diverse: «Simone, mi ami più di tutti?». Gesù usa il verbo dell’amore grande, totale, divino (Agapas me?). Pietro risponde con il verbo umile dell’amicizia e dell’affetto: «Ti voglio bene» (Fileo se). Nella seconda domanda Gesù riduce le attese, cancella il confronto con gli altri: «Simone, mi ami?». Nella terza domanda succede qualcosa di straordinario. Gesù adotta il verbo di Pietro, si abbassa, lo raggiunge là dov’è: «Simone mi vuoi bene?».
Dammi affetto se l’amore è troppo; amicizia, se l’amore ti mette paura. E mi basterà, perchè il tuo desiderio d’amore è già amore. Dio mendicante d’amore.
Amare significa dire tu non morirai. Dio è padre solo se ha figli vivi per sempre, se il loro legame è più forte della morte: «Nè vita nè morte, nè angeli nè demoni…, nulla mai ci separerà dall’amore di Dio» (Rm 8, 38-39).
Nulla, e sono convocate tutte le creature del cielo, della terra, degli inferi; mai, ed è convocata tutta la storia, i secoli e gli istanti: nulla mai ci separerà.
Il futuro è amore inseparato, il nome dell’uomo è “amato-per-sempre”.
(padre Ronchi Ermes )
CANTATE A DIO CON ARTE – CARD. RAVASI
PUBBLICATO COL TITOLO: ARRIVARE A DIO CON ARTE SU UNA SCALA DI NOTE SU IL MESSAGGERO, N. 241 (05/09/2011).
«Il canto è la scala di Giacobbe che gli angeli hanno dimenticato sulla terra». È famosa la visione notturna del patriarca biblico: «Una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa» (Genesi 28, 12). L’immagine è assunta da Elie Wiesel, il noto scrittore ebreo Nobel per la pace, per applicarla alla scala musicale in cui le note sono angeli di Dio. Ed effettivamente in tutte le grandi culture alla genesi della musica è connessa una teofania. Per la Bibbia la creazione avviene attraverso un evento sonoro: «In principio … Dio disse: Sia la luce!» (Genesi 1, 3). «In principio era la Parola», ripete l’inno del prologo del Vangelo di Giovanni (1, 1).
Anche nei Veda la divinità è un suono primordiale (Prajapati) che si sfrangia nella molteplicità delle creature, simili a note di un canto cosmico, mentre nel IV Inno omerico è Hermes che estrae dalla materia l’armonia insita, tendendo semplicemente le corde sul guscio di tartaruga nel quale s’era imbattuto. Anche la storia umana è svelata nel suo senso profondo attraverso un’epifania sonora divina, come si legge nel libro biblico del Deuteronomio, che così evoca l’evento del Sinai: «Dio vi parlò di mezzo al fuoco: suono di parole voi ascoltaste, immagine alcuna non vedeste, solo una voce» (4, 12). E l’approdo ultimo della storia è rappresentato dall’Apocalisse attraverso una palinodia per soli, coro e orchestra che pervade tutto quel libro sacro.
In questa luce la musica è strutturalmente un discorso trascendente, è una “teo-logia”, ossia un parlare di Dio, dove il genitivo è contemporaneamente soggettivo (è Dio stesso che si rivela attraverso di essa) e oggettivo (è con la musica che noi intuiamo Dio). Da un lato, quindi, con Edmond Jabès dobbiamo riconoscere che «dopo il silenzio, ciò che più si avvicina a esprimere l’ineffabile è la musica». D’altro lato, aveva ragione l’agnostico scrittore franco-rumeno Emile Cioran quando paradossalmente rimproverava i teologi di aver ignorato che la maggior prova dell’esistenza di Dio era nella musica di Bach: dopo aver ascoltato una sua cantata o una Passione o la Messa in Si minore, «Dio deve esistere».
Ed era proprio Bach, la cui biblioteca era sorprendentemente composta in forma quasi esclusiva di testi sacri e spirituali, a non esitare nell’affermare che «il finis della musica non dovrebbe mai essere altro che la gloria di Dio e la ricreazione della mente». Non per nulla egli spesso imponeva alle sue partiture la sigla SDG (Soli Deo Gloria) e talora via apponeva in finale l’altra sigla J.J. (Jesu Juva!), svelando non solo nei testi ma nella sua intenzione la matrice religiosa della sua opera. È, però, significativo che egli parlasse anche di “ricreazione della mente”.
Senza essere né descrittiva o informativa né parenetica o performativa in senso diretto, la musica ha una funzione trasfiguratrice dell’anima, della mente, del cuore umano. Curiosamente Lutero e Cervantes si incrociavano senza saperlo quando il primo nella sua Frau Musika scriveva che «non può esserci animo cattivo laddove cantano bene gli amici» e il secondo nel suo Don Chisciotte ribadiva che «dove c’è musica non può esserci nulla di cattivo». Eppure si ha anche la consapevolezza che nelle mani fragili e spesso colpevoli dell’uomo la potenza efficace della musica può essere sorgente di tragedia. Non si può dimenticare infatti l’aspetto “dionisiaco”, orgiastico e depressivo della musica, secondo una famosa linea interpretativa della tradizione classica.
La celebre Sonata a Kreutzer del racconto di Tolstoj ne è l’emblema drammatico: «Dicono che la musica abbia per effetto di elevare l’anima… sciocchezze! Non è vero. Agisce, agisce tremendamente … ma niente affatto nel senso di elevare l’anima: non la eleva né l’abbassa: l’esaspera». Ed è per questa via che si può assistere anche a una degenerazione della musica, non tanto nel senso della retorica del cosiddetto “rock satanico” quanto piuttosto nella devastazione dell’armonia facendola scadere nella bruttezza, nella banalità, nel rumore, nel cattivo gusto. Flaubert usava un’immagine vigorosa: «Noi spesso battiamo su una caldaia incrinata una musica da far ballare gli orsi e invece vorremmo commuovere le stelle!».
È un po’ ciò che accade talvolta nella liturgia, soprattutto in questi ultimi tempi. Ed è ingiusto accusare la riforma del Concilio Vaticano II perché nella Sacrosanctum Concilium (nn. 112-121) si offrivano indicazioni significative, a partire dall’asserto di base: «La musica è parte integrante della liturgia, esprime dolcemente la preghiera, favorisce l’unanimità; e il repertorio accumulato nei secoli costituisce un patrimonio di valore da conservare». Le direttrici concrete, poi, passavano attraverso capitoli che sarebbero tutti non solo da condividere ma da attuare in pienezza: la funzione delle scholae cantorum, la seria formazione musicale del clero e degli operatori pastorali, il ruolo del canto gregoriano, l’esaltazione dell’organo come strumento principe del culto cattolico (e anche protestante), il dialogo con la contemporaneità.
Quest’ultimo capitolo, che è decisivo, è stato purtroppo e spesso malamente e affrettatamente declinato; eppure è in sé necessario, come ha attestato la grande eredità della tradizione. Solo per fare un esempio, si pensi, infatti, all’innovazione impressionante (e forse allora anche scandalizzante) introdotta dalla polifonia rispetto alla purezza monodica del canto gregoriano. Ma questo avveniva ad alto livello con autori di grande originalità e preparazione, ed è ciò che è mancato ai nostri giorni. La musica contemporanea con la sua nuova grammatica deve incontrarsi col sacro, che ha canoni, testi e temi propri, per un incrocio che permetta una nuova fioritura.
Il percorso è, certo, arduo e lungo, sia a causa del divorzio che si è operato tra culto e musica di qualità, sia per la secolarizzazione e l’allontanamento radicale della società da ogni visione religiosa, sia per l’auto-reclusione della liturgia in forme scontate o superficialmente innovative oppur di mero ricalco del passato. L’impegno è, dunque, necessario e grave proprio per impedire quello che già nel VI secolo minacciava un originale scrittore cristiano come Cassiodoro che nelle sue Institutiones ammoniva: «Se continueremo a commettere ingiustizia, Dio ci lascerà senza la musica». Il desiderio sempre più diffuso di far rivivere il patrimonio tradizionale da una parte, e dall’altra i contatti sempre più frequenti e appassionati tra musicisti contemporanei e teologi o operatori pastorali fanno sperare che Dio non stia abbandonando l’umanità pur peccatrice. E la sua parola continua a ribadire con forza: «Cantate inni a Dio, cantate inni, cantate inni al nostro re, cantate inni; cantate a Dio con arte!» (Salmo 47, 7-8).