Archive pour le 12 juin, 2014

The fiery ascent of Prophet Elijah. photo by Fr. Brendan

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COLTIVERANNO GIARDINI E NE MANGERANNO IL FRUTTO. RM 9,14

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Il tuo volto, signore, io cerco

Cesare Massa

COLTIVERANNO GIARDINI E NE MANGERANNO IL FRUTTO. RM 9,14

IL LAVORO

L’evoluzione dei rapporti umani e, in particolare, quella anche conflittuale delle classi sociali, ha fornito in questi ultimi secoli alla spiritualità cristiana altre motivazioni relative al lavoro umano oltre quella celebre dettata da Benedetto nella sua Regola: « L’ozio è nemico dell’anima e perciò i fratelli in determinate ore devono essere occupati in lavori manuali, in altre nella lettura divina » (RB 48). Si può tuttavia capire questa esigenza facendo riferimento al tempo storico delle antiche fondazioni benedettine.
Oggi preferiamo dare ragioni più positive circa il lavoro. Infatti esso concorre alla formazione integrale della personalità. Anzi, l’esplicazione sollecitata e aiutata dei talenti personali rappresenta l’opportunità di un arricchimento utile a tutta la comunità umana. Più ancora, il lavoro si presenta come un adempimento del comando del Creatore: quello di custodire e trasformare il mondo « con il sudore della propria fronte » (Gen 3,19).
Il salmo 128 accosta ancora di più alla nostra sensibilità il tema del lavoro, dicendo ne la necessità e la dignità: « Vivrai del lavoro delle tue mani » (v. 2). I boschi e le paludi, i campi e le montagne hanno conosciuto da secoli il lavoro dei monaci: essi hanno dato una forma ordinata a porzioni di mondo, salubrità alle terre e ragioni di vita alla gente, ospitalità ai viandanti e ai poveri di ogni provenienza. Questo hanno fatto « con il lavoro delle proprie mani come hanno fatto i nostri padri e gli apostoli », in ciò qualificandosi « come veri monaci » (RE 48). Benedetto doveva avere ben fisso lo sguardo sull’apostolo Paolo quando prescriveva così il lavoro manuale e sentiva anche la fierezza di non essere stato di peso a nessuno: « Alle necessità mie hanno provveduto queste mie mani » (At 20,34).
Doveva essere un precetto tanto prezioso quello di lavorare se l’Apostolo insiste: « Un punto d’onore: lavorare con le nostre mani » (1Ts 4,11) e ingiunge con molto realismo: « Chi non vuole lavorare neppure mangi » (2Ts 3,10). E ben presente che il lavoro vuole fatica, com’è scritto in Genesi 3,17: « Con dolore ne trarrai il cibo ». E Giobbe: « Non ha forse un duro lavoro l’uomo sulla terra? » (Gb 7,1). E Paolo: « Noi abbiamo lavorato con fatica e sforzo » (2Ts 3,8). Questo richiamo monastico al lavoro delle proprie mani percorre anche oggi con sorpresa gli spazi dell’informazione come una novità che corregge l’immagine nobile e aristocratica della vita religiosa quale si è sviluppata dal tardo medioevo a oggi. Viene letta anche come un rimprovero per aver giudicato la manualità dell’ opera umana come inferiore e meno degna rispetto al lavoro intellettuale. Quasi d’istinto si legge tale normativa circa il lavoro manuale come solidarietà a un mondo che per vivere non ha altri strumenti che le proprie mani.
Può un monastero essere assimilato a un cantiere? Certamente no. Talvolta può darne l’impressione la Regola quando stabilisce nei dettagli i tempi, i controlli e le modalità d’uso degli utensili di lavoro. La realtà è invece più simile a quella di una famiglia che conosce il bene di un lavoro svolto nell’ordine e nella pace, con la certezza che ci sarà un frutto, un esito buono, poiché « Dio non è ingiusto da dimenticare il nostro lavoro » (Eb 6,10).
Tuttavia, c’è un’altra fatica indicata fin dal prologo della Regola: la fatica dell’obbedienza. In una prospettiva mondana, essa sarebbe profittevole come una qualsiasi disciplina del lavoro. Ma la prospettiva è totalmente altra poiché obbedisce a quel lavoro severo e alto che viene chiamato l’opus Dei: è l’opera che Dio compie nel cuore del monaco come gesto primo e gratuito dell’amore e che viene continuato dalla pazienza e dalla sollecitudine di Dio lungo tutto l’itinerario monastico. Poi l’opus Dei è anche il lavoro di tutta la comunità quando risponde all’iniziativa di Dio. Allora l’opus Dei è il servizio di lode « al quale nulla deve essere anteposto ». Il monaco sa quale sia in lui la forma dell’obbedienza per consentire a questo « lavoro » di Dio in lui: la docilità. Uno stato del cuore non dimissionario dalla propria libertà, ma uno stato pacificato e generosamente aperto al magistero dei fratelli e, in primo luogo, a quello dell’abate. Questo « stato del cuore » è detto « umiltà », termine bandito dalle letterature del nostro tempo e che tuttavia indica bene l’attualità della condizione umana quando è descritta umilmente, cioè con verità. E la verità della condizione umana è la fragilità, la piccolezza, la precarietà, descritta fino a sottolinearne talvolta la condizione drammatica. Umiltà è dire l’humus di cui siamo fatti ed esserne conseguenti. È constatare ancora una volta che circola nel nostro sangue l’istinto della trasgressione dei « primi parenti » e che solo andando a ritroso con l’obbedienza è possibile « far ritorno a colui dal quale ti sei allontanato con la pigrizia della disobbedienza » (RB Prologo).
In ultimo non ci si può sottrarre alla fatica della fraternità. L’impegno della stabilità non concerne solo un luogo amato o una storia ammirata o un clima felice, ma – e più ancora l’accettazione di quella cerchia di fratelli, così come sono, così come mi sono consegnati dalla loro storia personale, così come me li consegna lo stato del loro percorso spirituale. Il lavoro della fraternità è una meta mai conclusa. È un lavoro continuo da fare su di sé, a ogni passo ponendosi come in riferimento ad altri. È ben riscontrabile nella vita di famiglia: ogni gesto, ogni scelta, ogni parola deve avere la cautela dell’altro e la tensione verso 1′altro in vista dell’accoglienza o del diniego. O di una crescita comune. Forse, nella vita monastica questa attenzione relazionale è più facile, perché essa è più avvolta nel silenzio e più nutrita dalla preghiera. Ma resta un compito dal momento che la finalità della vita monastica non smussa mai del tutto le diversità di sensibilità, di storia e di esperienza. Si sa che, accanto a queste differenze native o acquisite, occorre far conto delle gradualità della vita di fede di ognuno. E non solo tenerne conto, ma in vario modo aiutare il cammino altrui a « diventare fratelli » (cioè a diventare sempre più ciò che si è già).
Diventare sempre più fratelli: è ben un lavoro di tutti i cristiani, là dove essi si trovano. Il presupposto, che può essere una condizione al vivere assieme, sembra essere una sorta di amabilità nativa, cioè una disponibilità più o meno grande ad amare e a lasciarsi amare. Su di essa può crescere il rispetto per l’altro e per il suo mistero personale; la stima per il suo talento e la valorizzazione del dono per la ricchezza spirituale comune; 1′affezione di amicizia capace di superare anche la nozione paritaria della reciprocità e pervenire all’ esperienza tutta evangelica della gratuità e dell’eccedenza del dono. Tanto più se questa affezione da fraterna si trascolora in affezione filiale verso fratelli più saggi, più forti, più anziani. E da affezione fraterna diventa paterna verso chi è giovane di anni o nuovo alla vita cristiana o debole di fronte alle esigenze della vita spirituale.
Questo « lavoro » che si vede all’intorno, quel silenzio che si respira negli ambiti monastici, quella sobria esultanza che è dato cogliere nella lode liturgica, quella lontananza da una sorta di frenesia per la conquista – che appare molte volte così esteriore – del mondo a Cristo hanno esercitato sempre, e particolarmente ai nostri giorni, un fascino speciale, richiamando l’attenzione non solo sui prodotti del lavoro monastico, ma anche su uno stile di vita più proprio all’uomo, in reazione allo stile così stressante proprio dei grandi deserti delle metropoli. E normale che l’immaginazione vada anche al di là del reale monastico e che si pensi al monastero come a « un giardino coltivato » dove maturano frutti copiosi. E come se andando a ritroso si tornasse non solo dalla disobbedienza all’antica obbedienza, ma dal deserto di questo presente al giardino esuberante dell’Eden primigenio.

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ELIA, IL PROFETA CHE INCONTRA DIO NEL SILENZIO

http://www.sermig.org/nponline/164-spiritualita/2552-elia-il-profeta-che-incontra-dio-nel-silenzio

ELIA, IL PROFETA CHE INCONTRA DIO NEL SILENZIO

(prima lettura di questi giorni)

Pubblicato 13 Novembre 2009

Non siamo più abituati al silenzio. Un noto passo della Scrittura racconta l’incontro di Elia con Dio sul monte Oreb avvenuto non nel frastuono, ma nel silenzio e nella quiete.

di Rosanna Tabasso

Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo, da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì Elia si coprì il volto con il mantello. Uscì e si fermò all’ingresso della caverna. Ed ecco venne a lui una voce che gli diceva: che cosa fai qui Elia? (1Re 19,11-13)
La Sacra Scrittura al cap. 19 del primo libro dei Re presenta Elia che fugge verso l’Oreb, dove incontra Dio e riceve la missione che dovrà compiere. Nel Regno del Nord – siamo intorno all’ 850 a.C. – il re Acab e sua moglie Gezabele avevano introdotto il culto di Baal. L’autore sacro ci racconta al cap. 18 come Elia sul monte Carmelo sconfigge e distrugge i profeti di Baal. Naturalmente si sente fiero e protagonista perché ha riportato la verità. Gezabele si infuria e promette che Elia sarà ucciso entro una giornata. Elia si impaurisce e fugge nel deserto.
Elia aveva fatto tutto per Dio, ma non aveva ancora capito che era Dio a voler fare tutto per lui. E c’è voluta una crisi, c’è voluta una prova, c’è voluto un momento duro perché questo uomo, pieno di zelo per il Signore, si fermasse e interrompesse la sua “guerra santa”. Allora Dio lo conduce nel deserto e lì Elia apre il suo cuore, parla a Dio: “Basta Signore, prendi la mia vita, perché non sono migliore dei miei padri”. (1Re 19,4)
Inizia a ripensare a sé. Dice la Scrittura che il sonno lo coglie; ma più che un sonno è una fuga, è un desiderio di morte. È voler lasciare la missione per cui si era sentito chiamato da Dio. È successo anche agli apostoli, nell’orto degli ulivi, quando Gesù si preparava alla Passione: non son stati capaci di vegliare, si sono addormentati. Si reagisce a volte così, quando si avverte il fallimento. Elia pensa che sia per lui l’inizio della fine. Pensa realmente alla morte.
Ma Dio ha preparato per lui altre strade. Ci sarà una morte, sì, ma non quella fisica. Ci sarà la morte di se stesso, la morte del suo orgoglio, morirà il suo sentirsi “giusto servitore di Dio”. Dovrà passare attraverso il deserto, purificare il suo cuore e imparare la strada dell’umiltà, perché l’umiltà è la sola strada che conduce a Dio. Dio non si lascia trovare se non da un cuore umile. Dio non forza mai la mano, ma prepara; a volte permette che questa preparazione passi anche attraverso eventi drammatici, come è successo ad Elia, ma anche nella prova più grande non si allontana mai dall’amico.
Così, nel deserto, il deserto del suo cuore più che quello di sabbia, Dio manda ad Elia un angelo a nutrirlo. Il comando è perentorio: “Alzati e mangia” (1Re 19,5), non sei qui per morire. Alzati e mangia, alzati, ascolta la mia parola, nutriti della mia parola, e cammina. La professione di fede di Israele “Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio” (Dt 6,4) è ciò che è chiesto ad Elia nel tempo di deserto della sua vita. Elia deve ascoltare. Con la forza di quel cibo camminerà 40 giorni, 40 notti fino al monte di Dio, all’Oreb. Ripercorrerà il viaggio di Mosè e del popolo nel deserto, il viaggio della salvezza, verso la terra promessa. Lo rivivrà sulla sua pelle: anche là il popolo era stato nutrito da Dio con la manna; anche là Mosè aveva implorato Dio che scaturisse acqua dalla roccia. Anche là Mosè era salito fino all’Oreb, da solo. E lì, da solo, aveva visto Dio faccia a faccia, mentre la sua gente rimasta a valle, costruiva il vitello d’oro – ancora una divinità pagana – e tradiva il Dio unico di Mosè. Ma intanto Mosè aveva incontrato Dio faccia a faccia. Elia ripercorre la strada di Mosè, la strada della salvezza del popolo di Israele, e si ritrova sul monte, chiuso in una caverna, per passare la notte.
La caverna, quasi come un utero dove rinascere un’altra volta. Così avviene nella vita spirituale di ognuno di noi, quando ci si ritira in deserto: si arriva ad un tempo in cui si rinasce. Elia si è rifugiato in una caverna per passare la sua notte. La notte è il tempo in cui non si vede nulla, e si attende la luce dell’alba. È il tempo della ricerca, il tempo dell’attesa.
Lì Dio si rivela a Elia. Gli rivolge la Sua Parola: “Che fai qui Elia?”. Nei deserti della nostra vita, nel buio della notte della nostra fede, la parola di Dio prima o poi, arriva sempre, ci trova sempre e non passa senza che una traccia resti nella mente e nel cuore di ognuno di noi. Se ascoltiamo. La parola di Dio, piano, piano, aiuta Elia a fare luce dentro di sé, a fare la verità, anche di se stesso. E mentre Elia spiega a Dio ciò che è successo, comprende meglio se stesso, si spiega: “Sono qui, Signore. Sono pieno di zelo per Te. Io voglio servirti, io volevo liberare questa terra dagli dei stranieri, Signore, ma tutti Ti hanno abbandonato. Sono rimasto solo, cercano di togliermi la vita”.
Elia non si nasconde più la verità, non si nasconde più la sua paura, non pensa più a morire. Finalmente guarda dentro di sé. Guarda se stesso e comincia a leggere la storia di Dio nella sua vita. È pronto finalmente ad incontrare Dio: faccia a faccia. Il Signore lo chiama di nuovo: “Esci, fermati lì, alla mia presenza”. Elia adesso è pronto, attende il Signore nella sua vita; lui che aveva fatto tanto per Dio adesso, fermo, nella notte, nella caverna, in silenzio, finalmente attende l’incontro personale con Dio.
Non sa come riconoscere la Presenza; si rifà alla tradizione del suo tempo e aspetta che Dio gli parli attraverso qualche evento atmosferico: un uragano, un terremoto, un fuoco. Ma Dio parla al cuore, ed Elia avverte la Presenza di Dio “nel sussurro di una brezza leggera”. È una presenza forte, viva, tutta per lui ed Elia si copre il volto con il mantello. Mosè si era tolto i sandali quando aveva avvertito la Presenza nel roveto che ardeva e non bruciava. Quando si incontra Dio ci si copre sempre il volto parchè l’incontro con Lui ci rivela la nostra povertà, la nostra fragilità, il nostro peccato, la nostra inadeguatezza: non siamo mai pronti ad incontrare Dio.
Elia lascia tutto, si ritira in un luogo deserto, silenzioso, lontano da tutti e lì comprende che il Dio di Israele è il suo Dio, comprende che Dio è Dio per lui. Noi dovremmo conoscere “il sussurro di brezza leggera”, dovremmo riconoscere il tocco di Dio, perché l’abbiamo tante volte avvertito nella nostra vita e tante volte l’abbiamo incontrato nei passi del Nuovo Testamento, leggendo la vita di Gesù. Quante volte questo soffio passa da Gesù a qualcuno dei suoi amici, fino al soffio dello Spirito che Gesù risorto dona ai suoi riuniti nel Cenacolo. Eppure anche noi facciamo una gran fatica a cercare spazi di silenzio. Anche noi facciamo fatica a ritirarci da qualche parte, soli, con noi stessi, a cercare l’incontro con Dio. Forse perché abbiamo paura di trovare la miseria che c’è dentro di noi, come aveva paura Elia. Eppure è solo lì che avviene l’incontro.
Quando incontriamo Dio faccia a faccia, quando nel nostro cuore si realizza questo incontro, non siamo più quelli di prima. Come succede a Elia, siamo pronti a riprendere la strada. Elia riceve subito il mandato da Dio: viene riconfermato. Dio gli dice: “Su, ritorna sui tuoi passi”. Gli svela che non è rimasto il solo a credere in Lui, ma che si è riservato un resto: vai da quel resto di gente che mi sono riservato, torna a essere il loro profeta. L’incontro personale con Dio non ci allontana mai dalla gente, non ci allontana mai dalla nostra missione. Anzi, è solo quando incontriamo Dio che incontriamo veramente noi stessi e che incontriamo veramente la missione.
Ogni volta che accogliamo la Parola capita anche a noi di ripercorrere la storia della salvezza, di ritrovare le ribellioni, i tradimenti, le fragilità di chi ci ha preceduto e di trovare anche la nostra vita. E capita anche a noi di ritornare a Dio con tutto il cuore. Questo è ciò che la Parola produce in noi ogni volta che l’accogliamo con il cuore umile che Dio cerca di donare al suo profeta più grande, a Elia. Ho sperimentato tante volte nella mia vita, che devo solo all’incontro con Dio se sono stata vicino alla gente, vicina alle persone che hanno bisogno di me.
Quando si conosce un Amore grande, non si desidera altro che di comunicarlo a tutti quelli che si incontrano. Mi ripeto che vale la pena cercare del tempo per ritirarci in qualche caverna, per ritirarci un po’ dentro noi stessi, e nel silenzio lasciare che Dio faccia rinascere in noi la sua profezia per il nostro tempo.

Arsenale della Pace
Rosanna Tabasso

 

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