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STUDIO BIBLICO SU GESÙ, IL CRISTO
Myer Pearlman1
1. La Parola di Dio (eterna preesistenza ed attività)
Con la parola l’uomo si esprime e si mette in comunicazione con gli altri, attraverso la parola rende noti i suoi pensieri ed i suoi sentimenti e per essa impartisce ordini e mette ad effetto la sua volontà. La parola che egli pronuncia reca l’impronta dei suoi pensieri e del suo carattere: per le parole di un uomo un’altra persona potrebbe conoscerlo perfettamente, anche se tosse cieca; la vista e l’informazione potrebbero rivelare ben poco circa il carattere d’un uomo, se non si potessero ascoltare le sue parole; la parola dell’uomo è il suo carattere espresso.
Allo stesso modo, la «Parola di Dio» è quella con la quale Egli comunica con gli altri esseri e tratta con loro; è il mezzo con il quale esprime la Sua potenza, intelligenza e volontà. Cristo è quella Parola, perché attraverso di Lui Iddio ha rivelato la Sua attività, la Sua volontà ed il Suo scopo, e perché attraverso di Lui Dio viene a contatto con il mondo. Noi ci esprimiamo attraverso le parole; l’Iddio eterno si esprime attraverso il Suo Figliuolo, il quale è «l’espressa immagine della Sua persona» (cfr. Ebrei 1:3). Cristo è la Parola di Dio perché rivela Dio dimostrandoLo appieno. Egli non solo reca il messaggio, ma è il messaggio di Dio.
È vero che Dio si rivelò attraverso la parola profetica, attraverso i sogni e le visioni ed anche attraverso temporanee manifestazioni. Ma l’uomo bramava una risposta più chiara alla domanda: «Come è Dio?». Per rispondere a questa domanda era necessario il più meraviglioso avvenimento della storia:
«Nel principio era la Parola, e la Parola era con Dio, e la Parola era Dio. … E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiam contemplata la sua gloria, gloria come quella dell’Unigenito venuto da presso al Padre.»
(Giovanni 1:1, 14)
La Parola eterna di Dio prese su di Sé la natura umana e divenne uomo per rivelare l’Iddio eterno attraverso una personalità umana: «Iddio, dopo aver in molte volte e in molte maniere parlato anticamente ai padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi giorni ha parlato a noi mediante il suo Figliuolo» (Ebrei 1:1,2). Pertanto alla domanda: «Come è Dio?» il cristiano risponde: «Dio è come Cristo», perché Cristo è la Parola di Dio stesso. Cristo è «l’espressa immagine della Sua persona», «l’immagine dell’invisibile Iddio» (Colossesi 1: 15).
2. La deità del Figlio di Dio
a. La coscienza che Cristo aveva di Sé
Quale coscienza aveva Gesù di Se stesso, ovvero che cosa sapeva sul proprio conto? Luca riporta un episodio dell’infanzia di Gesù, in cui dice che già da piccolo Egli aveva coscienza di due cose: di una speciale relazione con Dio, che definiva Suo Padre, e di una speciale missione sulla terra, quella di curare «le cose del Padre Mio».
Al fiume Giordano Gesù udì la voce del Padre (Dio) che corroborava e confermava questa Sua consapevolezza (Matteo 3:17) e, nel deserto, Egli resistette valorosamente al tentativo di Satana di mettere in dubbio che Egli fosse il Figliuolo di Dio («se sei il Figliuolo di Dio» Matteo 4:3). Più tardi, durante il Suo ministerio, proclamò beato Pietro perché, ispirato dal cielo, aveva reso testimonianza della Sua Deità e messianicità (Matteo 16:15-17). Quando, davanti al consiglio dei Giudei, avrebbe potuto sfuggire alla morte negando la figliolanza unica ed affermando semplicemente che era un figliuolo di Dio nello stesso modo in cui lo erano gli altri uomini, Egli dichiarò la propria coscienza di Deità pur sapendo che questo significava una condanna a morte (Matteo 26:63-65).
b. Le asserzioni di Cristo
Cristo si metteva fianco a fianco con l’attività divina: «Mio Padre opera fino ad ora, ed Io opero», «Io son proceduto dal Padre» (Giovanni 16:28), «Il Padre mi ha mandato» (Giovanni 20:21). Asseriva di conoscere Dio Padre e di avere comunione con Lui (Matteo 11:27; Giovanni 17:25); sosteneva di svelare l’essere del Padre in Se stesso (Giovanni 14:9-11); si attribuiva delle prerogative divine: onnipresenza (Matteo 18:20), potestà di perdonare i peccati (Marco 2:5-10), potenza di risuscitare i morti (Giovanni 6:39,40,54; Giovanni 11:25; Giovanni 10:17,18); si proclamava Giudice ed Arbitro del destino dell’uomo (Giovanni 5:22; Matteo 25:31-46).
Gesù richiedeva un arrendimento ed una fedeltà che solo Dio può avere il diritto di pretendere; insisteva sul completo arrendimento del proprio essere da parte dei Suoi seguaci: essi dovevano essere pronti a rompere il più caro ed il più stretto dei legami, perché chiunque avesse amato anche il padre o la madre più di Lui non era degno di Lui (Matteo 10:37; Luca 14:25-33).
Queste elevatissime asserzioni venivano fatte da Uno che viveva come il più umile degli uomini e venivano esposte con la stessa naturalezza con la quale, ad esempio, Paolo avrebbe potuto dire: «Io sono un uomo giudeo». Per arrivare alla conclusione che Cristo era divino ci dovevano porre due premesse: primo, che Gesù non era un uomo malvagio e, secondo, che non era demente. Se Egli diceva di essere divino, mentre sapeva di non esserlo, non poteva essere buono; se Egli immaginava falsamente di essere Dio, non poteva essere savio. Ma nessuna persona di senno avrebbe potuto negare il Suo perfetto carattere o la Sua superiore sapienza. Di conseguenza, si può concludere che Egli era ciò che asseriva di essere: il Figliuolo di Dio.
c. L’autorità di Cristo
Negli insegnamenti di Cristo si nota l’assenza di espressioni come «È mia opinione», «può darsi», «penso che…», «possiamo allo stesso modo supporre», ecc. Uno studioso razionalista ebreo ammise che Egli parlò con l’autorità dell’Iddio Onnipotente stesso. Il Dott. Henry van Dyke mette in rilievo che nel sermone sul monte, ad esempio, abbiamo:
La visione sorprendente di un Ebreo credente, che si mette al di sopra della regola della sua fede; di un umile maestro che mostra un’autorità suprema sopra la condotta umana; di un riformatore morale che scarta ogni altro fondamento e dice: «Chiunque ode queste mie parole e le mette in pratica sarà paragonato ad un uomo avveduto che ha edificata la sua casa sopra la roccia» (Matteo 7:24). Quarantanove volte, in questa breve descrizione dei discorsi di Gesù, ricorre la frase solenne con la quale Egli autentica la verità: «In verità io ti dico».
d. L’irreprensibilità di Cristo
Nessun predicatore che chiami gli uomini al ravvedimento e alla giustizia può fare a meno di riferirsi alla propria imperfezione ed ai propri peccati; infatti, quanto più santo sarà, tanto più lamenterà e riconoscerà la propria limitazione. Ma, nei detti e nelle parole di Gesù, vi è una completa assenza di coscienza e di confessione del peccato. Egli aveva la più profonda conoscenza del male e del peccato, ma nessun’ombra o macchia di esso si rifletteva sull’anima Sua. Anzi, Lui che era il più umile degli uomini, lancia la sfida: «Chi di voi mi convince di peccato?» (Giovanni 8:46).
Anche le beffe dei pagani sono una testimonianza della Deità di Cristo. Su una parete di un antico palazzo romano (che non va oltre il terzo secolo) è stato trovato un disegno raffigurante una figura umana con la testa di asino appesa alla croce, mentre un uomo sta ritto davanti ad essa in attitudine di adorazione; sotto, un’iscrizione dice: «Alexamenos adora il suo Dio». Henry van Dyke commenta:
Pertanto i canti e le preghiere dei credenti, le accuse dei persecutori, le beffe degli scettici ed i grossolani motteggi degli schernitori si uniscono per provare che, senza ombra di dubbio, i cristiani primitivi rendevano onori divini al Signor Gesù… Non vi è ragione di dubitare che i cristiani dell’era apostolica vedessero in Cristo una rivelazione personale di Dio, più di quanto non si possa dubitare che gli amici ed i seguaci di Abramo Lincoln guardavano questo Presidente come un bravo e leale cittadino americano di razza bianca.
Non dobbiamo, però, concludere che la Chiesa primitiva non adorasse Dio Padre, perché avveniva perfettamente l’opposto. Era pratica generale pregare il Padre nel nome di Gesù e ringraziarLo per il dono del Suo Figliuolo. Ma per loro era così reale la Deità di Cristo e l’unità tra le due Persone, che era perfettamente naturale invocare il nome di Gesù. Fu la loro perfetta aderenza all’insegnamento dell’Antico Testamento sull’Unicità di Dio, unita alla loro ferma credenza nella Deità di Cristo, che li portò a formulare la dottrina della Trinità.
La seguente definizione tratta dal credo Niceno (quarto secolo) sono state, e sono tuttora, recitate da molti in modo formale, ma esse esprimono fedelmente la profonda convinzione del cuore di quei fedeli.
Noi crediamo in un Signore: Gesù Cristo, il Figliuolo di Dio, unigenito del Padre, cioè della sostanza del Padre, Dio da Dio, Luce di Luce, vero Dio di vero Dio, generato e non creato, essendo di una sostanza con il Padre; per il quale tutte le cose furono fatte che sono in cielo ed in terra; il Quale, per noi uomini e per la nostra salvezza, discese, e fu incarnato e fu fatto uomo; e soffrì, e risuscitò il terzo giorno ed ascese al cielo, e ritornerà per giudicare i vivi ed i morti.
3. Significato del titolo di “figliuolo dell’uomo”
Secondo l’uso ebraico, «figliuolo di» denota relazione e partecipazione. Ad esempio: «i figliuoli del regno» (Matteo 8:12) sono quelli che devono partecipare alle sue verità e alle sue benedizioni; «i figliuoli della resurrezione» (Luca 20:36) sono coloro che sono risorti; un «figliuolo di pace» (Luca 10:6) è colui che possiede una disposizione pacifica; un «figliuolo di perdizione» (Giovanni 17:12) è colui che è destinato alla condanna e alla rovina. Quindi «figliuol d’uomo» indica, in primo luogo, colui che è partecipe della natura umana e delle umane qualità: l’espressione mette in risalto i caratteri di debolezza e di impotenza tipici dell’uomo (Numeri 23:19; Giobbe 16:21; Giobbe 25:6). In questo senso, il titolo viene applicato per circa ottanta volte ad Ezechiele, per ricordargli la sua debolezza e la sua caducità e indurlo all’umiltà nel compimento del suo ministerio profetico.
Applicato a Cristo, «Figliuol d’uomo» Lo designa come partecipe della natura e delle qualità umane e soggetto alle infermità umane, ma, allo stesso tempo, questo titolo implica la Sua Deità. Perché, se qualcuno dichiarasse enfaticamente: «Io sono un figliuol d’uomo», la gente gli risponderebbe: «Lo credo bene! Tutti lo sanno»; sulle labbra di Gesù, invece, l’espressione significava che Egli proveniva dal cielo ed aveva identificato Se stesso con l’umanità per divenirne il rappresentante e il Salvatore. Notate anche che Egli è il e non un figliuol d’uomo.
Il titolo è connesso alla Sua vita terrena (Marco 2:10; Marco 2:28; Matteo 8:20; Luca 19:10), alle Sue sofferenze a favore dell’umanità (Marco 8:31), alla Sua esaltazione e al Suo dominio sull’umanità (Matteo 25:31; Matteo 26:24; cfr. Daniele 7:14).
Riferendosi a Se stesso come al «Figliuol dell’uomo», Gesù comunicava, in pratica, il seguente messaggio: «Io, il Figliuolo di Dio, sono venuto come Uomo, in debolezza, in sofferenza fino alla morte. Però sono tuttora in contatto con il cielo da dove sono venuto e sono Dio, infatti posso rimettere i peccati (Matteo 9:6); inoltre, sono al di sopra dei regolamenti religiosi, che hanno solo un significato temporaneo e nazionale (Matteo 12:8). La mia natura umana non cesserà quando sarò passato attraverso gli ultimi stadi della sofferenza e della morte, che devo sopportare per la salvezza dell’uomo, perché Io risorgerò e porterò la mia natura umana con Me, in cielo, da dove ritornerò per regnare sopra coloro la cui natura ho assunto».
L’umanità del Figliuolo di Dio era reale e non simbolica; Egli soffrì realmente la fame, la sete, la stanchezza e ogni dolore.
4. Significato del titolo di “Cristo”
a. La profezia
«Cristo» è la forma greca della parola ebraica «Messia», che letteralmente significa «l’unto». La parola è suggerita dalla pratica di ungere con olio, simbolo della consacrazione divina al servizio. Quantunque anche i sacerdoti, e qualche volta i profeti, fossero unti quando s’insediavano nel loro ufficio, il titolo «Unto» veniva applicato particolarmente ai re d’Israele, che governavano come rappresentanti di Yahwê(h) (II Samuele 1:14). In certi casi il simbolo dell’unzione era seguito dalla realtà spirituale, cosicché la persona diveniva l’unto del Signore in senso vero e proprio (I Samuele 10:1,6; I Samuele 16:13).
Saul venne meno, mentre Davide, che gli succedette, fu un uomo «secondo il cuore di Dio», un re che poneva la volontà di Dio come sovrana nella propria vita e che si riteneva un rappresentante di Dio. Molti re successivi a Davide si allontanarono dalla regola divina, conducendo il popolo all’idolatria, ed anche alcuni dei re migliori non furono senza macchia. In contrasto con questo sfondo oscuro, i profeti proclamavano la promessa che sarebbe venuto un re della casa di Davide, molto maggiore di Davide. Lo Spirito del Signore sarebbe stato sopra di Lui con una potenza mai conosciuta prima (Isaia 9:5,6; Geremia 23:5,6); a differenza di quello di Davide il Suo regno sarebbe stato eterno e tutte le nazioni sarebbero state sotto il Suo dominio. Questo Re era l’Unto, o il Messia, o il Cristo, e sopra di Lui Israele fondava le proprie speranze.
b. Il compimento
È testimonianza continua del Nuovo Testamento che Gesù asserì di essere il Messia, il Cristo promesso nell’Antico Testamento.
Come il presidente del nostro Paese viene prima eletto e poi insediato, così Gesù Cristo fu stabilito nell’eternità ad essere il Messia, o il Cristo, e poi pubblicamente “insediato”, al Giordano, nel Suo ufficio messianico. Come Samuele prima unse Saul e poi gli spiegò il significato dell’unzione (I Samuele 10:1), così Dio Padre unse il Suo Figliuolo con lo Spirito della potenza e Gli confermò verbalmente il significato della Sua unzione: «Tu sei il mio diletto Figliuolo; in te mi sono compiaciuto» (Marco 1:11).
Il popolo in mezzo al quale Gesù doveva servire aspettava la venuta del Messia, ma disgraziatamente le loro speranze erano colorate di politica. Essi aspettavano un «uomo forte», che fosse una combinazione fra il soldato e l’uomo di Stato. Gesù sarebbe stato un Messia di tal genere? Lo Spirito Lo condusse nel deserto a combattere contro Satana, il quale astutamente Gli suggerì di adottare la piattaforma della popolarità per raggiungere il potere attraverso una via più breve. «Appaga le loro brame materiali», suggeriva il tentatore (cfr. Matteo 4:3,4; e Giovanni 6:14,15,26), abbagliali saltando dal Tempio (e, tra l’altro, fatti una buona reputazione presso il sacerdozio), mettiti in mostra come un campione del popolo e guidali alla guerra (cfr. Matteo 4:6-9 e Apocalisse 13:2-4).
Gesù sapeva che Satana, ispirato dal proprio spirito egoistico e violento, propugnava la politica della popolarità ed è certo che un simile sistema avrebbe condotto allo spargimento di sangue e alla rovina. No! Egli avrebbe seguito la via di Dio e avrebbe fatto assegnamento solo sulle armi spirituali, per conquistare il cuore degli uomini; anche se sapeva che quel sentiero avrebbe fatto capo all’incomprensione, alla sofferenza e alla morte, Gesù nel deserto scelse la croce e la scelse perché faceva parte del piano di Dio per la Sua vita.
Il Maestro non si sviò mai da quella scelta, sebbene fosse spesso tentato dall’esterno ad abbandonare la via della croce. Vedi, ad esempio, Matteo 16:22.
Gesù evitò scrupolosamente di confondersi con la situazione politica contemporanea. A volte proibiva a coloro che erano stati da Lui guariti di spandere la Sua fama, affinché il Suo ministerio non fosse mal compreso e non fosse scambiato per un tentativo di sollevare il popolo contro Roma. In Matteo 12:15,16 e Luca 23:5 il Suo successo Gli fu rivolto contro come un’accusa. Egli rifiutò deliberatamente di capeggiare un movimento popolare (Giovanni 6:15) e proibì la pubblica proclamazione della Sua messianicità e la testimonianza della Sua trasfigurazione, affinché non venissero sollevate false speranze fra il popolo (Matteo 16:20; Matteo 17:9). Con grande sapienza, sfuggì ad una trappola abilmente tesaGli per screditarLo davanti al popolo come «non patriottico», o per farLo trovare in difficoltà con il governo romano (Matteo 22:15-21). In tutto questo, il Signor Gesù adempì la profezia di Isaia che l’Unto di Dio avrebbe proclamato la verità divina e non sarebbe stato un violento agitatore, cioè un uomo che solleva il popolo a Suo favore (Matteo 12:16-21), come erano stati alcuni dei falsi messia che Lo avevano preceduto (Giovanni 10:8; Atti 5:36; Atti 21:38). Egli non perseguì fini terreni, ma solo fini spirituali, tanto che Pilato, il rappresentante di Roma, poteva testimoniare: «Io non trovo colpa alcuna in quest’uomo» (Luca 23:4).
Abbiamo visto che Gesù cominciò il Suo ministerio fra un popolo che aveva una giusta speranza nel Messia, ma una errata concezione della Sua Persona e dell’opera Sua. Essendo consapevole di ciò, Gesù dapprima non si proclamò pubblicamente Messia (Matteo 16:20), perché sapeva che questo sarebbe stato un segnale di ribellione contro Roma. Egli parlava, piuttosto, del regno descrivendo le sue norme e la sua natura spirituale, per suscitare nel popolo la brama di un regno spirituale che lo avrebbe, a sua volta, condotto a desiderare un Messia spirituale. I Suoi sforzi in questo senso non furono assolutamente privi di risultati, perché Giovanni, l’Apostolo, ci dice (Giovanni 1) che fin dal principio vi fu un gruppo di persone che Lo riconobbe come il Cristo; inoltre, di tanto in tanto, si rivelò ad individui che erano spiritualmente pronti (Giovanni 4:25,26; Giovanni 9:35-37).
Ma la nazione, nel suo insieme, non vedeva relazione tra il ministerio spirituale di Gesù e il concetto ch’essa aveva del Messia. Era pronta ad ammettere che Egli era un grande dottore, un potente predicatore e perfino un profeta (Matteo 16:13,14), ma non quel capo militare e politico che doveva essere, secondo il suo concetto, il Messia. Non possiamo biasimare il popolo d’Israele per questa idea che s’era fatta della persona e dell’opera del Messia, perché Dio aveva veramente promesso di instaurare un regno terreno (Zaccaria 14:9-21; Amos 9:11-15; Geremia 22:5); solo che prima di questo doveva verificarsi una purificazione morale ed una rigenerazione spirituale della nazione (Ezechiele 36:25-27; cfr. Giovanni 3:1-3). Tanto Giovanni Battista che Gesù avevano fatto capire chiaramente che la nazione, nella condizione in cui si trovava, non poteva entrare nel regno, perciò esortavano: «Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino». Ma, mentre le parole «regno dei cieli» commuovevano profondamente il popolo, la parola «ravvedetevi» faceva poca impressione: sia i capi (Matteo 21:31,32), sia il popolo (Luca 13:1-3; Luca 19:41-44) rifiutarono di ottemperare alle condizioni del regno e conseguentemente perdettero il privilegio del regno stesso (Matteo 21:43).
Iddio, nella Sua onniscienza, aveva antiveduto il fallimento di Israele (Isaia 6:9,10; Isaia 53:1; Giovanni 12:37-40) e, nella Sua onnipotenza, aveva fatto sì che questo fallimento servisse alla realizzazione di un piano tenuto segreto fino a quel momento. Il piano era il seguente: la reiezione di Israele avrebbe offerto a Dio l’opportunità di scegliere un popolo fra i Gentili (Romani 11:11; Atti 15:13,14; Romani 9:25,26) che, con i credenti Giudei, avrebbe costituito un organismo conosciuto come la Chiesa (Efesini 3:4-6). Gesù stesso lasciò intravedere questo periodo (l’Era della Chiesa), che doveva inserirsi fra il Suo primo e il Suo secondo avvento, e chiamava queste rivelazioni «misteri», perché esse non erano rivelate ai veggenti dell’Antico Testamento (Matteo 13:11-17). Un giorno la fede incrollabile di un centurione Gentile, che contrastava nettamente con la mancanza di fede di molti Israeliti, richiamò alla Sua mente ispirata lo spettacolo dei Gentili che, provenienti da ogni nazione, entravano nel Regno respinto (Matteo 8:10-12) da Israele.
La crisi antiveduta nel deserto venne e Gesù si preparò a fornire delle tristi notizie ai Suoi discepoli. Con tatto, Egli cominciò a fortificare la loro fede: prima, attraverso la testimonianza della Sua messianicità, ispirata dal cielo a Simon Pietro; poi, con la predizione di un avvenimento straordinario (Matteo 16:18,19) che può essere parafrasata così: «La congregazione di Israele (o «chiesa», Atti 7:38) mi ha respinto come Messia e i loro capi scomunicheranno Me che sono la pietra angolare della nazione (Matteo 21:42). Ma il piano di Dio non fallirà per questo, perché Io stabilirò un’altra congregazione («chiesa»), composta di uomini come te, Pietro (I Pietro 2:4-9), che credi nella mia divinità e nella mia messianicità. Tu sarai un conduttore ed un ministro di questa congregazione, avrai il privilegio di aprire le sue porte con la chiave della verità evangelica e tu ed i tuoi fratelli l’amministrerete».
Poi Cristo fece un annuncio che i Suoi discepoli non compresero appieno se non dopo la Sua resurrezione (Luca 24:25-48), l’annuncio cioè, che la croce rientrava nel programma di Dio per il Messia: «Da quell’ora Gesù cominciò a dichiarare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrir molte cose dagli anziani, dai capi sacerdoti e dagli scribi, ed esser ucciso, e risuscitare il terzo giorno» (Matteo 16:21).
A suo tempo la profezia si adempì. E quando Gesù sarebbe potuto sfuggire alla morte negando la Sua divinità, quando avrebbe potuto essere rilasciato se avesse negato di essere re, Egli persistette nella Sua testimonianza e morì su di una croce che recava l’iscrizione: «QUESTO È IL RE DEI GIUDEI».
Ma il Messia sofferente (Isaia 53:7-9) risuscitò dai morti (Isaia 53:10,11) e, come Daniele aveva antiveduto, ascese alla destra di Dio (Daniele 7:14; Matteo 28:18), da dove deve venire a giudicare i vivi e i morti.
Ora che abbiamo esaminato l’insegnamento dell’Antico e del Nuovo Testamento, siamo in condizione di definire il significato del titolo «Messia»: il Messia è Colui che Dio ha autorizzato a salvare Israele e le nazioni dal peccato e dalla morte, ed a regnare sopra loro come il Signore e il Maestro della loro vita. I Giudei riconoscono che queste affermazioni implicano la Deità, ma sono per essi « una pietra d’inciampo ».
Claude Montefiore, un noto studioso giudeo, disse: «Se potessi credere che Gesù era Dio, Egli sarebbe, per conseguenza naturale, il mio Maestro. Perché il mio Maestro, il Maestro dei Giudei moderni è, e può essere, solo Dio».
1. Note sull’Autore:
Myer Pearlman, ebreo, nacque a Edimburgo il 19 dicembre 1898. Istruito in una Scuola Ebraica nutrì una profonda avversione per il Cristianesimo, finché, emigrato negli Stati Uniti, cominciò ad essere attratto dalla persona di Cristo. Una sera, passando davanti a una Missione cristiana, e udendo la comunità cantare con gioia si sentì spinto ad entrare. In quell’occasione accettò il Signore Gesù Cristo come il Messia promesso e come suo personale Salvatore e Signore. Ecco come ci descrive la sua conversione: « Non ero emozionato, né mi attendevo che dovesse accadere qualcosa, non stavo pregando, ma, mentre ero lì in piedi, sentii una particolare potenza cadere su me in modo indescrivibile, che mi riempì di gioia. Non vidi nessuno, né udii nessuna voce, ma questa esperienza rivoluzionò la mia vita! Il mio viaggio verso il santuario ignoto era concluso. Avevo trovato la realtà del Cristo. Qualche giorno appresso, non appena m’inginocchiai, mi accorsi con somma meraviglia che stavo pronunziando parole sconosciute (Pearlman conosceva l’ebraico, il greco, lo spagnolo, il francese e l’italiano). Quest’esperienza [il battesimo dello Spirito Santo] mi elevò in una sfera più alta e mi diede il senso dell’intimità con Dio