L’Albero di Jesse nell’altare di S. Leonardo nella Cattedrale di Venafro

http://www.usminazionale.it/2010_12/bissi.htm
LE COLONNE DELLA DIMORA
di ANNA BISSI
Un giorno il piccolo Placido1 ricevette una comunicazione da una figura drappeggiata di raccoglimento, la quale lo istruì in merito alla vita interiore. « La Vita interiore – disse – è una Vita che è interiore ». Il piccolo Placido si precipitò a informare il padre Maestro a proposito della sensazionale rivelazione, che avrebbe sconvolto tutti i monasteri e la cristianità intera, domandandosi se sarebbe stato opportuno avvertire il Santo Padre, il Papa. Il nostro giovane monaco ci rivela così, attraverso la sua « stupefacente scoperta », che la nostra dimora interiore non è una realtà statica, immobile, ma vitale. Questa è la prima colonna su cui possiamo edificare il luogo della nostra interiorità: la consapevolezza che dentro di noi abita una vita.
Vita è un termine difficile da spiegare. Il card. Tomas Spidlik ci propone questa definizione: noi « spontaneamente consideriamo vivo ciò che si muove da sé, che ha il principio del movimento interno e dunque, muovendosi, sviluppa se stesso. Inoltre esigiamo che tale sviluppo sia organico, armonico ».2
Tali parole ci permettono di cogliere altre « colonne » su cui costruire la dimora della coscienza. Innanzitutto il dinamismo, il movimento interno: perché ci sia vita è necessario il superamento della staticità, poiché ogni vita comporta sempre una crescita incessante, uno sviluppo. Ricordo un sacerdote il quale mi confessava la sua sofferenza quando, domandando ai suoi parrocchiani anziani come stavano, si sentiva rispondere: « Tiriamo avanti ». Ancor più doloroso è pensare alle comunità religiose che parlano del loro « tran tran ». Questi termini, che offrono un’immagine della vita come il susseguirsi di istanti da catturare e trattenere, in cui ciò che è importante è il sopravvivere più che il vivere, è fondamentalmente anti-cristiana. La nostra vocazione è, infatti, una chiamata alla vita da intendersi in senso dinamico, un invito alla crescita, allo sviluppo: Gesù è venuto a portarci una vita abbondante (cf Gv10,10).
Siamo allora invitati a riflettere sulla nostra vita e domandarci se essa sia davvero tale. Il rischio, infatti, è quello di ridurre l’esistenza, esperienza spirituale inclusa, a un ritualismo, alla ripetizione di gesti che hanno perso di significato; altro pericolo possibile è quello di irrigidirsi di fronte a ciò che non corrisponde ai nostri desideri e sentirsi così delusi, senza più vita, delle « anime morte » interamente o parzialmente, perché scontente e amareggiate, incapaci di sperare in se stesse e negli altri o, ancor peggio, in Dio. Un invito evangelico ci ammonisce rispetto alla possibilità di non-vita presente anche in coloro che cercano il Signore o a cui egli si rivolge: « Lascia che i morti seppelliscano i loro morti », dice Gesù all’uomo che gli chiede di andare al funerale del padre prima di seguirlo (cf Lc 9,59).
La dimora e le sue leggi
Se la dimora interiore è il luogo dove nasce e cresce la vita, e se questo sviluppo vuole essere organico e armonico, ciò significa che tale costruzione non può essere pensata in termini soggettivi, ma deve rispettare alcune leggi. Nella nostra epoca caratterizzata dal sincretismo, le esperienze più diverse– psicologiche, religiose, di benessere fisico – si possono accostare l’una all’altra, senza apparire contraddittorie. Per il cristiano, al contrario, la vita interiore è vita, se risponde a dei criteri definiti, esterni al soggetto che la vive. Essa è vita se lo mette in relazione, se lo orienta verso colui che è la Vita.
La dimora della coscienza è il luogo dove Dio abita e non tutte le esperienze sono atte a preparargli un posto, in cui egli può venire a dimorare presso di noi (cf Gv 14,23). Essa non si costruisce dunque in modo spontaneo e superficiale e richiede la capacità di andare contro corrente rispetto al riduzionismo contemporaneo. Tale fenomeno tende innanzi tutto a far coincidere la vita interiore con la vita psichica; di questa, poi, prende in considerazione solo le funzioni più primitive e inconsistenti, le emozioni epidermiche, le sensazioni di benessere che pongono allo stesso livello un’esperienza di preghiera e una seduta di ginnastica rilassante, la lettura della Bibbia o il testo di un qualche « santone » indiano.
La dimora della coscienza si costruisce invece là dove la dimensione psichica si lascia illuminare dalla luce ricevuta nel Battesimo. Essa ci abita interiormente e, se glielo permettiamo, può informare tutto il nostro vissuto, orientando le scelte, il sentire, il riflettere e tutte quelle capacità psicologiche che possono essere messe al servizio del fine per cui costruiamo la dimora: l’incontro con Dio.
Relazioni intime e profonde
La dimora della coscienza è, quindi, il laboratorio dove si apprende la vita relazionale nel senso più vero e profondo del termine, vale a dire dell’apice a cui possono giungere i legami: l’amore. Non è la meditazione in cui si dilettano molti nostri contemporanei, non è la preghiera recitata con le labbra, ma senza toccare il cuore. Non è nemmeno la riflessione teologica, che talvolta può ridursi a un insieme di elucubrazioni teoriche. Ciò che rende la nostra vita veramente interiore è piuttosto una vita in cui si intrecciano rapporti, si creano dei nessi, si coglie il filo d’oro dell’amore, capace di tenere insieme tutte le realtà. La dimora della coscienza è l’ambito dove si intessono i legami, in cui il nostro spirito impara a integrare le varie dimensioni dell’esistenza, cogliendo in esse un senso, un significato sempre uguale e, nello stesso tempo, sempre diverso: l’amore di Dio donato all’uomo.
La dimora della coscienza è il luogo della relazione, ma gli incontri che in essa avvengono devono avere due caratteristiche: l’intimità e la profondità. Una coscienza matura, infatti, presuppone la capacità di un vero incontro con l’altro e dunque la presenza di un Io che ha superato modalità primitive di mettersi in relazione, basate sulla gratificazione e sul rapporto strumentale, dove l’altro è usato – anche se spesso inconsapevolmente – per i propri scopi personali. Essa tende piuttosto al vero incontro, fatto di dono e di accoglienza, di dimenticanza di sé e di generosa disponibilità. I legami instaurati da una persona interiore, inoltre, hanno la caratteristica dell’intimità, vale a dire della capacità di stare davanti all’Altro/ altro così come si è, senza il bisogno di difendersi, proteggersi, mascherarsi e apparire diversi.
Un laboratorio di simboli
Infine, la dimora interiore è un laboratorio, dove tutta la realtà può venire letta in chiave simbolica. Per l’uomo interiore, che mantiene salda la relazione con Dio e con i fratelli, tutto – in particolar modo il cosmo e la storia – diventa un simbolo, vale a dire una realtà che lega, tiene insieme il visibile e l’invisibile o manifesta la presenza dell’invisibile nel visibile. Per questo l’uomo interiore è un po’ come l’innamorata, che vede le tracce dell’amato in tutto ciò che la circonda. La vocazione dell’uomo alla relazione, all’amore, è data infatti a una creatura inserita in un mondo con cui è necessario creare un legame. La dimora interiore è dunque il luogo in cui si riacquista una giusta relazione con il cosmo: innanzi tutto attraverso un atteggiamento rispettoso nei confronti della natura, dove l’uomo non si pone come colui che usa e sfrutta, ma come chi accoglie e ha cura. Il cosmo, però, è anche il dono che Dio ha fatto alla sua creatura ed esso acquista valore prima di tutto perché ci parla del donatore, di colui da cui l’abbiamo ricevuto.
La vita interiore è la vita in cui colleghiamo costantemente il dono accolto alla persona di colui che ce l’ha donato, in un gioco di continui rimandi: per l’uomo interiore tutto è un richiamo a un Amore da cui tutto proviene.
La vita interiore diventa allora lo spazio in cui la persona esercita il suo ministero regale, risponde alla vocazione di introdurre il cosmo creato nel mondo spirituale, di creare il nesso tra il visibile e l’invisibile, perché, come dice Gregorio di Nazianzo, tutto l’universo, visibile e invisibile, « sia riempito della gloria di Dio, dal momento che tutto è di Dio ».3 La vita interiore è anche il luogo in cui si esercita la profezia. La capacità simbolica, animata dallo Spirito Santo, trasforma anche il modo di interpretare la storia: essa non si configura più come un susseguirsi di eventi, ma come una realtà attraversata dal Mistero, in cui le vicende personali e collettive sono interpretate alla luce della Pasqua.
Nella dimora della coscienza si creano così dei nessi tra funzione simbolica e relazione: la capacità di interpretare la realtà al di là dei fatti specifici che la attraversano si associa alla fiducia, grazie alla quale è possibile trascendere il dato reale e l’apparenza, per cogliere tutto ciò che avviene, a livello personale e nella storia degli uomini, come segno della presenza di un amore, da rintracciare oltre il visibile. Allora, come scrive Olivier Clément:4 « Nella contemplazione della natura » – ma noi potremmo anche aggiungere: e in quella dei volti e della storia – « il cuore intelligente diventa … « dimora di luce » che raggiunge la luce segreta delle cose ».
1 Personaggio uscito dalla penna di suor G. Gallois che, sotto le apparenze di un fumetto, presenta
in modo ricco e profondo la vita monastica. G. GALLOIS, La vita del piccolo san Placido, Gribaudi, Milano
1993, 29.
2 T. SPIDLIK, Maranatha. La vita dopo la morte, Lipa, Roma 2007, 37.
3 GREGORIO DI NAZIANZO, Orazione 39, 13.
4 O. CLÉMENT, I volti dello Spirito, Qiqajon, Bose 2004, 145.
Anna Bissi
Psicoterapeuta
Basilica sant’Andrea
p.za Roma 35 – 13100 Vercelli
http://www.ilfaro-it.net/Brevi%20meditazioni%20bibliche%20Scuderi1.
DIO È PER NOI UN RIFUGIO ED UNA FORZA
“Dio è per noi un rifugio ed una forza, un aiuto sempre pronto nella difficoltà. Perciò non temiamo se la terra è sconvolta, se i monti si smuovono in mezzo al mare, se le sue acque rumoreggiano, schiumano e si gonfiano, facendo tremare i monti.
C’è un fiume, i cui ruscelli rallegrano la città di Dio, il luogo santo della dimora dell’Altissimo. Dio si trova in essa: non potrà vacillare; Egli fa udire la sua voce, la terra si scioglie. Il Signore degli eserciti è con noi, il Dio di Giacobbe è il nostro rifugio.
Venite, guardate le opere del Signore, Egli fa sulla terra cose stupende. Fa cessare le guerre fino all’estremità della terra. “fermatevi”, dice “e riconoscete che io sono Dio. Io sarò glorificato fra le nazioni, sarò glorificato sulla terra”. Il Signore degli eserciti è con noi; il Dio di Giacobbe è il nostro.
(Salmo 46)
Il Salmo inizia con una certezza di fede: “Dio è per noi un rifugio ed una forza”. Questa è una constatazione che si basa sulle esperienze vissute. Perciò, visto quello che è successo, visto il manifestarsi della potenza di Dio, è scritto “noi non temiamo”, parola che esprime la certezza della fede, dell’essere sicuri perché fondati su quanto è avvenuto nel passato. Così cantava l’antico Israele. Anche oggi la fede nell’azione di Dio nel passato fonda la certezza per l’azione di Dio nel futuro. La fede cristiana infatti è ancorata alla fedeltà di Dio, all’azione divina della storia. Il nostro domani è nelle mani di Dio fedele alle promesse di salvezza e di amore per il suo popolo e per tutti gli uomini.
Ma il Salmo continua: “perciò non temiamo se la terra è sconvolta”. Facciamoci una domanda: oggi possiamo anche noi dire come il salmista: “perciò non temiamo?”.
Consideriamo la nostra situazione oggi. Il testo infatti accenna a possibili situazioni negative. Parla di “terra sconvolta” e “montagne scosse”, questo fa pensare ai terremoti. Il testo parla di “acque che rumoreggiano, schiumano e si gonfiano facendo tremare i monti”, questo fa pensare a nubifragi, frane e maremoti. Siamo così lontani da questa realtà?
Abbiamo ancora eventi naturali che scuotono e che ci danno un forte senso di impotenza. Ma ciò che spesso ci sconvolge è che questi eventi non sono casuali, ma sono la risposta naturale alle manomissioni dell’uomo sulla natura trattata nono come dono di Dio, ma come preda da spartire e violentare per l’arricchimento di pochi. Accanto a questi sconvolgimenti poi esistono i grandi smottamenti dovuti al normale assesto idrogeologico; sconvolgimenti che avvengono solitamente a distanza di secoli, ma che abbiamo vissuto ultimamente. Quanto scritto nel Salmo è storia di oggi.
Ma questo non basta. Il Salmo parla anche di nazioni che rumoreggiano, regni che vacillano. Impossibile elencare la grande quantità di guerre e conflitti etnici esistenti nel mondo. Ci Sono continuamente conferenze e riunioni internazionali nel tentativo di risolvere queste crisi che sorgono all’improvviso o che durano da secoli. Anche in questo Salmo si racconta la storia dei nostri giorni: una situazione negativa che investe il mondo.
Ma qual è la nostra reazione a questa situazione generale?
Come credenti partecipiamo alla vita degli uomini e non possiamo estraniarci dalle responsabilità e dall’impegno umano per arginare le crisi. Ogni tentativo, ogni azione, ogni aiuto umanitario, ogni lotta che la società intraprende per tentare una via di soluzione deve vedere i credenti in prima linea solidali con chi sacrifica se stesso ed i propri interessi per creare a tutti uno spazio vitale, una società aperta e nuova. In questo senso come singoli e come comunità partecipiamo con le nostre voci, con la nostra presenza ed il nostro aiuto a tutte quelle iniziative che rivendicano la pace e la necessità di tutti gli esseri umani senza distinzione, di avere le stesse opportunità e lo stesso diritto alla vita che ha bisogno anche di cibo, vestiti, medicine e tutto il necessario. La tecnica del riccio che quando avverte il pericolo si appallottola su se stessi e tira fuori le spine è irresponsabile sintomo di rinuncia e di viltà. I credenti che si chiudono sono i primi ad essere trascinati nella rovina delle strutture inique della società così come il riccio per quanto spinoso verrebbe travolto dalle “acque schiumeggianti” del nostro testo.
Partecipare alle lotte degli uomini come credenti però significa parteciparvi con metodi e contenuti diversi da quelli dettati dalle parti in causa. Il credente è portatore dei metodi e del messaggio di salvezza di Dio per la storia e per gli uomini e questa la vocazione specifica del popolo di Dio che vive della Sua presenza e su questa fonda la propria azione, la propria testimonianza quotidiana e la certezza della vittoria.
L’antico Israele vedeva la presenza di Dio in Gerusalemme, nel tempio con le sue mura e l’arca, nella città santa, sicuro rifugio. Per noi la presenza di Dio è legata non ad un luogo, ma ad una persona: Gesù Cristo, Dio per noi. E’ con Cristo che deve confrontarsi la storia degli uomini perché Cristo è il Signore degli uomini e della storia. Il credente sa che non saranno le soluzioni umane a salvare l’umanità, ma solo una conversione a Cristo, a Colui che rappresenta un rifugio ed una forza, la roccia su cui fondarci.
Ma per far questo, il Salmo ci grida un messaggio urgente, una visione profetica. E’ un messaggio di richiamo alla realtà: “fermatevi e riconoscete che io sono Dio” (verso 10).
“Fermatevi” significa dire all’uomo che la sua corsa al progresso senza limiti, alla supremazia dell’uomo sull’uomo e delle nazioni, la corsa al denaro, al benessere, è una corsa verso la rovina. La corsa verso soluzioni centrate sull’uomo è soltanto una fuga dalle responsabilità perché tutto ciò che è umano è provvisorio e noi viviamo in questa provvisorietà.
“Riconoscete che io sono Dio” vuol dire date a Dio il primo posto nella vita, vuol dire riscoprite la sovranità di Dio. Riconoscete Dio come Signore vuol dire ritrovare il senso dei propri limiti. Riscoprire l’uomo alla luce di Dio vuol dire avere una nuova etica sociale del lavoro, politica, personale, coniugale. E questo resta valido di fronte a qualsiasi terremoto, sia esso mondiale, sia esso personale quando situazioni avverse, egoismi, malvagità, incapacità nostre od altrui ci hanno portato ad una crisi profonda fino al punto da non farci più sentire la voce di Colui che ci ama.
Dove l’essere umano sa fermarsi per considerare la maestà di Dio lì nasce l’uomo nuovo che vince la crisi e vive la propria storia in modo responsabile per il bene di tutta l’umanità. Chi crede nell’Iddio vivente ed operante ha una visione profetica perché vede come già realizzato il futuro: “egli fa sulla terra cose stupende. Fa cessare le guerre fino all’estremità della terra”. Questo versetto è l’invito a vedere la vittoria di Dio allora sul campo assiro distrutto ed abbandonato, oggi sui disastri della terra e sulle sicurezze costruite dagli uomini. Questo versetto diviene profezia della vittoria del Regno di Dio come regno di pace in cui non ci sarà più alcuna guerra.
I credenti testimoniano perché questo Regno venga, pur sapendo che la venuta del Regno è nelle mani di Dio e la sua realizzazione non sarà frutto delle soluzioni umane. Il nostro compito è indicare agli uomini che solo in Cristo e nel riconoscimento della sua Signoria è l’unica soluzione ai problemi. Predicare questa vittoria sul male è credere che Dio agisce, è operare per manifestare che già in noi Egli è il Signore, è indicare le cose grandi e le soluzioni di Dio e
non noi stessi e la nostra provvisorietà. Allora una Chiesa operante e potente potrà portare frutti di pace e di salvezza e essere segno delle cose grandi di Dio.
Operiamo con fede, testimoniamo con fermezza perché “Dio è per noi un rifugio ed una forza, un aiuto sempre pronto nelle difficoltà” ed Egli “glorificato sulla terra”.
Di Marco Scuderi