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LA CHIESA DI DIO – Tratto da « Lettera ai cercatori di Dio »

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LA CHIESA DI DIO

Tratto da « Lettera ai cercatori di Dio »

La vita del Dio Trinità, che è amore, si partecipa agli uomini radunandoli in una comunità, che è la Chiesa. L’espressione “Chiesa di Dio” viene dalla tradizione biblica, dove designa l’assemblea di Israele convocata da Dio ai piedi del monte Sinai per ricevere lo statuto dell’alleanza.

9. LA CHIESA DI DIO
La vita del Dio Trinità, che è amore, si partecipa agli uomini radunandoli in una comunità, che è la Chiesa. L’espressione “Chiesa di Dio” viene dalla tradizione biblica, dove designa l’assemblea di Israele convocata da Dio ai piedi del monte Sinai per ricevere lo statuto dell’alleanza. Nella tradizione paolina la “Chiesa di Dio” è l’insieme dei credenti battezzati, dispersi nelle piccole comunità del mondo greco-romano. Gli autori dei Vangeli partono dall’esperienza della Chiesa nata nella prima missione cristiana per cercarne le radici e le ragioni nelle parole e nelle azioni di Gesù. Nella tradizione evangelica il gruppo dei dodici e dei discepoli è presentato come il prototipo della comunità cristiana o Chiesa, alla quale sono destinati i quattro Vangeli.

La comunità dei fratelli
Nel Vangelo di Matteo, Gesù parla esplicitamente della sua “Chiesa”, che egli fonderà sulla fede di Pietro. La Chiesa è la comunità dei credenti che riconoscono Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente. In essa Chiesa l’autorità è esercitata nel nome di Gesù per la salvezza dei credenti, che sono tutti fratelli, perché figli del Padre che è nei cieli. L’accoglienza dei piccoli, la correzione fraterna e il perdono stanno alla base dei rapporti nella comunità ecclesiale. Alla Chiesa Dio affida il suo regno e chiede l’attuazione della sua volontà come l’ha rivelata Gesù, il Figlio. Essa è aperta a tutti i popoli della terra, chiamati a diventare discepoli di Gesù.
Secondo Luca, autore del terzo Vangelo e degli Atti degli Apostoli, la Chiesa è una comunità “apostolica”, perché fondata sui dodici apostoli, rappresentanti di tutto Israele: nella sua vita e nella sua storia trovano compimento le promesse di salvezza fatte da Dio al popolo eletto. Con la forza dello Spirito Santo i discepoli sono inviati a rendere testimonianza a Gesù sino agli estremi confini della terra.
Nella festa di Pentecoste, il cinquantesimo giorno dopo la Pasqua di Risurrezione, mediante il dono dello Spirito Santo, che era stato promesso da Gesù risorto, si manifesta la Chiesa. L’autore degli Atti degli Apostoli ne traccia un quadro ideale. Tutti quelli che accolgono la Parola di Dio, proclamata dagli apostoli, e si fanno battezzare nel nome del Signore Gesù formano la comunità dei credenti, che sono “perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere” (2,42), e realizzano una comunità di amici e fratelli, che forma “un cuore solo e un’anima sola” (4,32).

La comunità inviata in missione
L’autore degli Atti degli Apostoli ricostruisce la tappe della prima missione della Chiesa nel mondo ebraico, presentandone i protagonisti e il metodo. Dio sta all’origine della missione cristiana. Per mezzo di Gesù Cristo, il Figlio “inviato” dal Padre, il dono dello Spirito Santo abilita tutti i credenti a proclamare il Vangelo della salvezza a ogni creatura umana, senza distinzione di religione, etnia e cultura. Destinatari della missione sono tutti gli esseri umani, da Israele ai popoli pagani.
La missione si attua mediante l’annuncio e la testimonianza resa con la parola e con la vita. Essa corrisponde alla volontà di Dio, che è stata profeticamente annunciata nella storia di Israele – testimoniata nei libri dell’Antico Testamento – e si compie per mezzo di Gesù Cristo e il dono dello Spirito Santo. Il contenuto dell’annuncio è Gesù di Nazaret, condannato a morte dagli uomini, ma risuscitato da Dio: in lui si compiono le promesse divine, presenti nelle Sacre Scritture, e si apre l’accesso alla salvezza a tutti i possibili cercatori di Dio.
L’annuncio sfocia nell’invito alla conversione per ricevere il perdono dei peccati e il dono dello Spirito Santo, garanzia della salvezza definitiva, cioè di una vita piena e felice nel tempo e per l’eternità.

La comunità dei credenti in Gesù Cristo
La Chiesa di Dio è la “santa convocazione” di quanti hanno accolto il Vangelo di Gesù Cristo e vivono, grazie all’azione interiore dello Spirito Santo, nella fede, nella carità e nella speranza, in attesa della manifestazione gloriosa del Signore. Partendo dall’esperienza della “cena del Signore”, dove i cristiani fanno memoria di Gesù morto e risorto, san Paolo presenta la comunità dei cristiani come “corpo di Cristo”. Tutti i credenti che mangiano l’unico pane che è Cristo, formano, nella comunione con lui, un solo corpo. Essi sono stati battezzati in un solo Spirito per formare l’unico corpo di Cristo.
Lo Spirito donato da Dio per mezzo di Gesù risorto è la fonte dei diversi carismi e compiti, che esprimono e realizzano la vitalità dell’unica Chiesa, corpo di Cristo. L’amore comunicato dallo Spirito Santo tiene uniti tutti i membri della Chiesa. Per la nascita e la crescita della Chiesa, Dio ha stabilito il ministero degli apostoli, dei profeti e dei maestri.
Nella tradizione di san Paolo questa varietà di ministeri al servizio della Parola e della guida della
Chiesa è donata dal Signore risorto perché tutti i credenti partecipino alla crescita del suo corpo nell’unità e nell’amore.
Nella vita della Chiesa la fede dei suoi membri assume diverse forme, legate agli stati di vita e ai doni ricevuti da Dio. Queste forme manifestano la ricchezza e la varietà dell’esperienza cristiana, radicata nella partecipazione alla vita dell’unico Signore Gesù, il Cristo, capo della Chiesa edificata sulla parola degli “apostoli e profeti”. Mediante la proclamazione del Vangelo tutti i popoli sono chiamati a far parte di questa Chiesa, corpo di Cristo.
Nella stessa tradizione di san Paolo si vive l’esperienza della Chiesa come famiglia di Dio, guidata dai pastori che rendono viva e attuale la tradizione dell’apostolo. Essi esercitano un ruolo di sorveglianza (“episcopé”) e saranno chiamati vescovi, con caratteristiche che si preciseranno sempre di più sul fondamento di ciò che è già presente nelle comunità apostoliche delle origini.
Entrare nella Chiesa mediante la fede in Gesù e la conversione del proprio cuore, testimoniate nel battesimo, acquisendo atteggiamenti di amore verso tutti; accettare la guida dei pastori che annunciano la Parola di Dio e offrono il dono dei sacramenti, in cui scorre per noi la vita divina offerta in Gesù Cristo, ci garantisce una vita salvata, cioè libera dalle idolatrie di questo mondo e partecipe nella fede e nella speranza della gioia dell’eternità divina.

La comunità di amici e la “sposa dell’Agnello”
Secondo il Vangelo di Giovanni i credenti in Gesù Cristo, Figlio di Dio, formano una comunità di amici, tenuti insieme, come tralci nella vite, dal comandamento nuovo dell’amore, che ha la fonte e il modello nel dono che Gesù fa della sua vita. Come Gesù i discepoli sono consacrati mediante l’amore e lo Spirito Santo, per essere inviati nel mondo. L’unità di tutti i credenti si fonda sulla preghiera di Gesù, che chiede al Padre che essi siano una cosa sola, partecipando allo stesso dinamismo di amore che costituisce la comunione tra lui e il Padre.
Per l’autore dell’Apocalisse la comunità dei fedeli segue Gesù, l’Agnello ucciso ma ora vivo, senza compromessi con il potere idolatrico, fino al martirio. Sullo sfondo della nuova creazione, il profeta di Patmos immagina la Chiesa come una sposa pronta per le nozze dell’Agnello. Essa è paragonata alla nuova Gerusalemme che scende dal cielo, per essere la dimora di Dio tra gli uomini.
Proprio in quanto è la sposa dell’Agnello, la Chiesa è necessaria per incontrare e accogliere Cristo nel cuore e nella vita. Nella comunità che ascolta e proclama la sua parola, che celebra i sacramenti della salvezza, che vive e testimonia la carità, è lui a rendersi presente, nonostante i peccati e le contro-testimonianze dei figli della Chiesa.
Una comunità dal volto umano, accogliente, viva nella fede e tale da irradiare la gioia del Vangelo è veramente, in rapporto al Signore Gesù, come la luna nei confronti del sole: essa raccoglie da Cristo, vero Sole, i raggi della luce che illumina il mondo e li offre generosamente nella notte del tempo. Così la percepiva e la rappresentava la fede dei più antichi scrittori cristiani:
Questa è la vera luna.
Dall’intramontabile luce dell’astro fraterno
ottiene la luce dell’immortalità e della grazia.
Infatti la Chiesa non rifulge di luce propria,
ma della luce di Cristo.
Trae il suo splendore dal sole della giustizia,
per poter poi dire:
Io vivo, però non son più io che vivo,
ma vive in me Cristo!
(Sant’Ambrogio, Hexaemeron 4, 8, 32).

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The empty tomb, the women

The empty tomb, the women dans immagini sacre Women+at+the+Tomb

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Publié dans:immagini sacre |on 19 avril, 2014 |Pas de commentaires »

MEDITAZIONE SUL SABATO SANTO (2013) – …e già splendevano le luci del sabato (Lc 23, 54).

http://www.diocesinocerasarno.it/2011/vescovo-giuseppe-giudice/documenti/lettere-pastorali/meditazione-sul-sabato-santo-del-vescovo-giuseppe-giudice/

MEDITAZIONE SUL SABATO SANTO DEL VESCOVO GIUSEPPE GIUDICE

† GIUSEPPE, VESCOVO

NOCERA INFERIORE, 30 MARZO 2013, SABATO SANTO

…e già splendevano le luci del sabato (Lc 23, 54).

Mi ha affascinato, ed ho sempre cercato di viverlo intensamente, il Sabato santo perché è il giorno per me che racchiude in sintesi il grande Mistero cristiano e in cui il silenzio diventa, se lo si sa ascoltare con il cuore, lo sfondo per la lettura di ogni vicenda personale.
Sabato santo: il sepolcro è ormai sigillato; la croce è rimasta vuota; il cenacolo non è più la sala della cena, ma è diventato il luogo che racchiude la paura di poveri uomini.
Succede come quando un amore finisce, un’amicizia si lacera, un paese si lascia, sopraggiunge una malattia e una persona cara non c’è più. È Sabato santo e tu cerchi di ricucire i dettagli, di capire, di rielaborare.
Come proiettati su uno schermo, ritornano alla mente i giorni della gioia, dell’amore consumato insieme nella sala grande e addobbata, ma ritornano anche i momenti incomprensibili della passione, le urla, il sangue, le cadute, i chiodi, il pianto della Madre e, al di sopra di tutto e in tutto, il Suo sguardo che cerca, che ti cerca e, guardandoti, ti perdona.
Ora il silenzio avvolge ogni cosa, ogni situazione, ogni umano dolore. Anche la tua vita, è custodita dal canto del silenzio. Un canto nella notte mi ritorna nel cuore e il mio spirito si va interrogando, così il salmista.
Eppure, nonostante tutti questi segni di delusione e scoraggiamento, cogli nell’aria un’attesa, già respiri la Speranza.
La Chiesa, che ami e ti ama immensamente, spoglia e nuda, ti è ancora compagna accanto al sepolcro nuovo di Giuseppe di Arimatea. Ella si fa speranza nel tuo dolore e, mentre ogni cosa sembra scrivere la parola fine, avverti che tutto sta per ricominciare.
Ti accorgi che sono giunti i dolori del parto e si attendono le prime luci dell’alba, quando zampillerà il vino nuovo e si innalzerà un nuovo inno alla vita. Si sente, nelle fibre più nascoste dell’essere, che non tutto può essere già finito.
C’è qualcosa o Qualcuno che induce ancora a sperare. E il dolore diventa amico, perché ti fa piccolo e ti incammina verso il Regno, più povero e più semplice. Il Sabato santo diventa veramente, concretamente, perché lo vivi nella tua carne segnata dalla Passione, il giorno in cui impari a sperare, diventi alunno della Speranza pasquale.
La fede che preferisco, dice Dio, è la speranza.

La piccola speranza avanza tra le sue grandi sorelle,
ma non le si fa attenzione.
Sulla strada che sale, trascinata,
appesa al braccio delle sue grandi sorelle,
che la tengono per mano,
la piccola speranza avanza.
In realtà è lei che fa camminare le altre due,
e le trascina,
e fa camminare tutti quanti.
…ciò che mi stupisce, dice Dio, è la speranza (Charles Péguy).

Il silenzio del Sabato santo diviene l’ambiente in cui è possibile rileggere i giorni andati e consegnati al Signore. Si comprende come la nostra ora, quella che pesa sul cuore, è inserita nell’ora pasquale di Gesù. Con Lui si può anche gridare verso il Padre, ma alla fine ti accorgi che, come Lui, devi rimetterti nelle sue mani. Umanamente è sempre l’ora della paura, dell’incomprensione, della tristezza e della solitudine. Il Mistero pasquale suppone assurdi umani: il silenzio e la croce. Pasqua è maturità di silenzio e fecondità di croce.
E mai, come nei momenti della sofferenza, senti che tenendo nelle mani l’ostia e il calice, tu compatisci con Lui, sei sacerdote con Lui, nella Chiesa e per tutti.
Si beve al calice e in esso si riflette e si sintetizza l’oscurità del vespro del Venerdì santo e l’alba radiosa di Pasqua.
Vivere il Mistero pasquale, Cristo nostra Pasqua, significa accettare le ore buie, le giornate amare, le incomprensioni, le sconfitte, i perché che bruciano sulle labbra, i limiti fisici come passaggi obbligati, non semplici incidenti, per gli squarci della Risurrezione.
È il doveva accadere che Gesù spiega ai viandanti di Emmaus.
È saper scorgere nel dolore concreto che bussa alla porta un inverno fecondo, che cammina verso primavere impazzite di fiori.
Vuol dire ancora camminare sulla via della croce, quella feriale che percorriamo ogni giorno, sapendoci in compagnia con l’Uomo dei dolori, il Pellegrino che versa olio e vino sulle ferite dell’umanità.
Perché dove l’uomo si rifiuta di toccare il dolore degli altri, non c’è Pasqua. Dove le mani dell’uomo non sono forate per amore dei fratelli, non c’è Pasqua (don Primo Mazzolari).
Ecco donde nasce la speranza del Sabato santo, che ci fa camminare decisamente, indurendo la faccia come Gesù, verso Gerusalemme.

Sabato santo, il tuo chiaror ci abbaglia,
e il nostro cuore fa una lenta maglia
col cielo che ne abbraccia le speranze.
…Sabato santo, la tua luce illumina
solo le mani, unica festa, stanche (Carlo Betocchi).

Sono stanche le mani, stanchi i piedi, è stanco il cuore, a volte può succedere. Non vorrei mai stancarmi però di essere un pellegrino del Mistero; di credere, sperare, non senza fatica, non senza pagare di persona, che ogni Croce prepara una Pasqua, ogni Calvario un Tabor, che ogni Notte partorisce un’Aurora.
Sperare ogni giorno significa spezzare con tutti e per tutti il pane della Speranza, della Fede e della Carità.
Nella celebrazione della Veglia pasquale, Madre di tutte le veglie, la Chiesa, popolo allelujante, accende la sua luce al Cero offerto per illuminare l’oscurità della notte. E la sala della Cena si riaccende di luci; la Pietà si rianima perché la Madre ritrova il Figlio; le donne corrono al Sepolcro ormai vuoto; l’Angelo della Risurrezione nel luogo in cui peccavo non mi trova più, perché Egli è Risorto ed io con Lui, e le prime luci dell’alba diradano le tenebre dal cuore di ogni uomo.
Allora sperare non significa più dire ormai, ma nonostante, ed allora, solo allora è Pasqua!

MEDITAZIONE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI – VENERAZIONE DELLA SANTA SINDONE – « ICONA DEL SABATO SANTO »

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2010/may/documents/hf_ben-xvi_spe_20100502_meditazione-torino_it.html

VISITA PASTORALE A TORINO

VENERAZIONE DELLA SANTA SINDONE – « ICONA DEL SABATO SANTO »

MEDITAZIONE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Domenica, 2 maggio 2010

Cari amici,

questo è per me un momento molto atteso. In diverse altre occasioni mi sono trovato davanti alla sacra Sindone, ma questa volta vivo questo pellegrinaggio e questa sosta con particolare intensità: forse perché il passare degli anni mi rende ancora più sensibile al messaggio di questa straordinaria Icona; forse, e direi soprattutto, perché sono qui come Successore di Pietro, e porto nel mio cuore tutta la Chiesa, anzi, tutta l’umanità. Ringrazio Dio per il dono di questo pellegrinaggio, e anche per l’opportunità di condividere con voi una breve meditazione, che mi è stata suggerita dal sottotitolo di questa solenne Ostensione: “Il mistero del Sabato Santo”.
Si può dire che la Sindone sia l’Icona di questo mistero, l’Icona del Sabato Santo. Infatti essa è un telo sepolcrale, che ha avvolto la salma di un uomo crocifisso in tutto corrispondente a quanto i Vangeli ci dicono di Gesù, il quale, crocifisso verso mezzogiorno, spirò verso le tre del pomeriggio. Venuta la sera, poiché era la Parasceve, cioè la vigilia del sabato solenne di Pasqua, Giuseppe d’Arimatea, un ricco e autorevole membro del Sinedrio, chiese coraggiosamente a Ponzio Pilato di poter seppellire Gesù nel suo sepolcro nuovo, che si era fatto scavare nella roccia a poca distanza dal Golgota. Ottenuto il permesso, comprò un lenzuolo e, deposto il corpo di Gesù dalla croce, lo avvolse con quel lenzuolo e lo mise in quella tomba (cfr Mc 15,42-46). Così riferisce il Vangelo di san Marco, e con lui concordano gli altri Evangelisti. Da quel momento, Gesù rimase nel sepolcro fino all’alba del giorno dopo il sabato, e la Sindone di Torino ci offre l’immagine di com’era il suo corpo disteso nella tomba durante quel tempo, che fu breve cronologicamente (circa un giorno e mezzo), ma fu immenso, infinito nel suo valore e nel suo significato.
Il Sabato Santo è il giorno del nascondimento di Dio, come si legge in un’antica Omelia: “Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme … Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi” (Omelia sul Sabato Santo, PG 43, 439). Nel Credo, noi professiamo che Gesù Cristo “fu crocifisso sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto, discese agli inferi, e il terzo giorno risuscitò da morte”.
Cari fratelli e sorelle, nel nostro tempo, specialmente dopo aver attraversato il secolo scorso, l’umanità è diventata particolarmente sensibile al mistero del Sabato Santo. Il nascondimento di Dio fa parte della spiritualità dell’uomo contemporaneo, in maniera esistenziale, quasi inconscia, come un vuoto nel cuore che è andato allargandosi sempre di più. Sul finire dell’Ottocento, Nietzsche scriveva: “Dio è morto! E noi l’abbiamo ucciso!”. Questa celebre espressione, a ben vedere, è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana, spesso la ripetiamo nella Via Crucis, forse senza renderci pienamente conto di ciò che diciamo. Dopo le due guerre mondiali, i lager e i gulag, Hiroshima e Nagasaki, la nostra epoca è diventata in misura sempre maggiore un Sabato Santo: l’oscurità di questo giorno interpella tutti coloro che si interrogano sulla vita, in modo particolare interpella noi credenti. Anche noi abbiamo a che fare con questa oscurità.
E tuttavia la morte del Figlio di Dio, di Gesù di Nazaret ha un aspetto opposto, totalmente positivo, fonte di consolazione e di speranza. E questo mi fa pensare al fatto che la sacra Sindone si comporta come un documento “fotografico”, dotato di un “positivo” e di un “negativo”. E in effetti è proprio così: il mistero più oscuro della fede è nello stesso tempo il segno più luminoso di una speranza che non ha confini. Il Sabato Santo è la “terra di nessuno” tra la morte e la risurrezione, ma in questa “terra di nessuno” è entrato Uno, l’Unico, che l’ha attraversata con i segni della sua Passione per l’uomo: “Passio Christi. Passio hominis”. E la Sindone ci parla esattamente di quel momento, sta a testimoniare precisamente quell’intervallo unico e irripetibile nella storia dell’umanità e dell’universo, in cui Dio, in Gesù Cristo, ha condiviso non solo il nostro morire, ma anche il nostro rimanere nella morte. La solidarietà più radicale.
In quel “tempo-oltre-il-tempo” Gesù Cristo è “disceso agli inferi”. Che cosa significa questa espressione? Vuole dire che Dio, fattosi uomo, è arrivato fino al punto di entrare nella solitudine estrema e assoluta dell’uomo, dove non arriva alcun raggio d’amore, dove regna l’abbandono totale senza alcuna parola di conforto: “gli inferi”. Gesù Cristo, rimanendo nella morte, ha oltrepassato la porta di questa solitudine ultima per guidare anche noi ad oltrepassarla con Lui. Tutti abbiamo sentito qualche volta una sensazione spaventosa di abbandono, e ciò che della morte ci fa più paura è proprio questo, come da bambini abbiamo paura di stare da soli nel buio e solo la presenza di una persona che ci ama ci può rassicurare. Ecco, proprio questo è accaduto nel Sabato Santo: nel regno della morte è risuonata la voce di Dio. E’ successo l’impensabile: che cioè l’Amore è penetrato “negli inferi”: anche nel buio estremo della solitudine umana più assoluta noi possiamo ascoltare una voce che ci chiama e trovare una mano che ci prende e ci conduce fuori. L’essere umano vive per il fatto che è amato e può amare; e se anche nello spazio della morte è penetrato l’amore, allora anche là è arrivata la vita. Nell’ora dell’estrema solitudine non saremo mai soli: “Passio Christi. Passio hominis”.
Questo è il mistero del Sabato Santo! Proprio di là, dal buio della morte del Figlio di Dio, è spuntata la luce di una speranza nuova: la luce della Risurrezione. Ed ecco, mi sembra che guardando questo sacro Telo con gli occhi della fede si percepisca qualcosa di questa luce. In effetti, la Sindone è stata immersa in quel buio profondo, ma è al tempo stesso luminosa; e io penso che se migliaia e migliaia di persone vengono a venerarla – senza contare quanti la contemplano mediante le immagini – è perché in essa non vedono solo il buio, ma anche la luce; non tanto la sconfitta della vita e dell’amore, ma piuttosto la vittoria, la vittoria della vita sulla morte, dell’amore sull’odio; vedono sì la morte di Gesù, ma intravedono la sua Risurrezione; in seno alla morte pulsa ora la vita, in quanto vi inabita l’amore. Questo è il potere della Sindone: dal volto di questo “Uomo dei dolori”, che porta su di sé la passione dell’uomo di ogni tempo e di ogni luogo, anche le nostre passioni, le nostre sofferenze, le nostre difficoltà, i nostri peccati – “Passio Christi. Passio hominis” -, da questo volto promana una solenne maestà, una signoria paradossale. Questo volto, queste mani e questi piedi, questo costato, tutto questo corpo parla, è esso stesso una parola che possiamo ascoltare nel silenzio. Come parla la Sindone? Parla con il sangue, e il sangue è la vita! La Sindone è un’Icona scritta col sangue; sangue di un uomo flagellato, coronato di spine, crocifisso e ferito al costato destro. L’immagine impressa sulla Sindone è quella di un morto, ma il sangue parla della sua vita. Ogni traccia di sangue parla di amore e di vita. Specialmente quella macchia abbondante vicina al costato, fatta di sangue ed acqua usciti copiosamente da una grande ferita procurata da un colpo di lancia romana, quel sangue e quell’acqua parlano di vita. E’ come una sorgente che mormora nel silenzio, e noi possiamo sentirla, possiamo ascoltarla, nel silenzio del Sabato Santo.
Cari amici, lodiamo sempre il Signore per il suo amore fedele e misericordioso. Partendo da questo luogo santo, portiamo negli occhi l’immagine della Sindone, portiamo nel cuore questa parola d’amore, e lodiamo Dio con una vita piena di fede, di speranza e di carità. Grazie.

Publié dans:Papa Benedetto XVI, Sindone (la) |on 19 avril, 2014 |Pas de commentaires »

Resurrezione

Resurrezione dans immagini sacre Christ+enthroned
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Publié dans:immagini sacre |on 18 avril, 2014 |Pas de commentaires »

DOMENICA DI RESURREZIONE – QUALCHE RIFLESSIONE

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Domenica di Pasqua di Resurrezione – Tempo di Pasqua – Anno A

QUALCHE RIFLESSIONE

In questo giorno così importante mi preme illustrare dapprima tutta la 2^ lettura domenicale. Eccola : «Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria». Spesso questo brano viene dato ad intendere come se la nostra fede avesse a che fare con l’oppio, mollando le cose della TERRA e stando poi buoni buoni ad aspettare il premio infinito da LASSU’. San Paolo voleva effettivamente portare una antitesi e ha ritenuto di fare ricorso ai paragoni spaziali di terra e cielo, ma in realtà, coerentemente con la sua stessa dinamica vita, mai si è sognato di predicare l’evasione dalla realtà a beneficio delle alienazioni, come ha voluto farci credere la sinistra propaganda anticristiana. Infatti in altri passi, egli parla con altre immagini, e basterebbe sostituire “quaggiù” con “uomo vecchio / carne / peccato” che nel battesimo o nel rinnovamento delle promesse battesimali sono lasciati alle spalle, e poi sostituire “lassù” con “uomo nuovo / spirito / grazia” che può essere la realtà del cristiano in quanto di già è una vita nuova nascosta (custodita come un seme nella terra) in Cristo, e che inevitabilmente si manifesterà nella stagione della pienezza futura.
Eccoci al grandioso Vangelo di oggi, che a quanto si dice fin dal primo versetto, accade nel primo giorno dopo il sabato. In ebraico il sabato (Shabat) era ed è il solenne giorno, settimo giorno, in cui Dio aveva compiuto tutta la sua opera e si riposò, modellando così con il suo agire quella unità di tempo che è la settimana. E’ chiaro che se il sabato si colloca al 7° posto di questo tempo, necessariamente il giorno dopo il sabato è per forza il giorno con la maglietta nuovamente al numero 1. Ogni giorno dopo il sabato, ogni giorno che indossa la maglietta numero 1, è una rievocazione del primo giorno, quello in cui iniziò la creazione. Chissà se in omaggio all’opera luminosa e creatrice di Dio che i popoli di lingua inglese chiamano questo giorno come SUNDAY, cioè giorno del sole. Io penso di no : l’omaggio a Dio avrebbe avuto senso se codesto giorno si fosse chiamato LIGHTDAY, cioè giorno della luce, unica cosa che Dio creò nel primo giorno. Mi viene da pensare, che quindi questo nome abbia una radice idolatrica poiché tutti i popoli primitivi del mondo hanno adorato il sole. Tutti tranne uno, che subito ha definito il sole e la luna come due semplicissime lampade appositamente create, e ciò sta scritto a pagina uno della Genesi, grosso modo al 4° o 5° giorno della creazione : e appurato che sole e luna non sono “dei” ma cose create, resta il dilemma di come chiamare il giorno con la maglietta numero 1, in quanto “giorno del sole” fa un po’ acqua. Ebbene, la frase introduttiva del Vangelo di oggi, rende giustizia al nome “Dies Domini”, giorno del Signore, Domenica, giorno in cui un uomo ha vinto la morte, giorno numero 1, GIORNO IN CUI SI PUO’ ADDIRITTURA PARLARE DI UNA NUOVA CREAZIONE PERSINO PIU’ GRANDE DI QUEL “IN PRINCIPIO” – PRIMO GIORNO – IN CUI IL MONDO FU STORICAMENTE CREATO.
E’ risorto. Questa è la base della fede cristiana. Questo è l’annuncio che deve essere a fondamento di ogni altro annuncio. Cristo è stato crocifisso, è morto, ma è risorto nella mattina di Pasqua, e da oggi questo giorno, che è il giorno seguente il Sabato, si chiama Domenica in quanto per sempre sarà una piccola Pasqua che ci deve ricordare UN FATTO, e un fatto non si discute, un fatto non è una teoria o un sentimento o un moto dell’anima. Un fatto è qualcosa che è accaduto. Al più si è autorizzati a dire “Non ci credo che è accaduto, e respingo per insufficienza le prove che mi portate su questo fatto”.
D’accordo, ma da questo momento preparati ad una schizofrenia di fondo, poiché la tua vita registrerà è vero qualche evento cui crederai in forza di prove più decisive di questa (ad esempio ti scotterai le labbra e sinceramente crederai al fatto che il caffè è bollente per merito di questa prova), ma dopo queste sciocchezzuole, tutti i grandi temi della tua vita ti troverai a berli senza uno straccio di prova che mai sia più concreto di questa resurrezione. Mentre rifiuterai il Dio vero per correre dietro gli oroscopi o altre bugie di vario tipo, questa Grazia starà qui ad aspettarti, e sono facile profeta se dico che il Signore farà carte false affinché non ti vada sprecata. Comunque rimane, per chi crede, la centralità di questo annuncio cristiano fondato, e quindi non bisogna accodarsi alla lettura della fede come qualcosa di apologetico o di spirituale, o peggio un fatto rituale, filosofico, sociale, pietistico. Queste cose lasciamoli ai telegiornali atei o agli spifferi anticristiani. Cristo è risorto e tutte le sue promesse sono vere. E palla al centro.
Ormai il mondo votato alla morte è adesso percorso anche dalla vita, la storia fatta di guerre e di illusori incerti progressi conosce adesso la speranza, l’uomo da anonimo si trasforma in un figlio adottivo, che non vuol dire un figlio di seconda categoria, ma vuol dire che diviene erede e possessore dei doni di Dio pur non essendo Dio, qualcosa che non gli appartiene gli viene donato, come accade ad un bambino dell’orfanotrofio (senza casa e senza famiglia e senza beni) quando arriva un padre e … un fratello maggiore …. Gesù Cristo, vero figlio di diritto … che ti indica e dice “Papà, adottiamo quel fratellino lì ” e da quel momento, giudice e notaio stabiliscono che hai una casa, una famiglia, una ricchezza, un futuro …. Ma ciò è pur sempre un grazioso paragone …. La vita eterna donataci dal Risorto è molto di più !!!
Da oggi nasce un senso. Se ci pensi nasce anche un impegno, ma un impegno facile e addirittura gioioso nella Grazia di Dio e cercando le cose di lassù, e pensando alle cose di lassù !!! Altro che oppio che rimbecillisce !!! C’è una parola dell’economia che tutti desideriamo, e questa parola è accreditare o credito (il contrario di debito e di addebitare). Oggi è Pasqua e Cristo ci è stato accreditato, lo dobbiamo citare nella dichiarazione dei redditi, è una ricchezza aggiunta alle nostre ricchezze che già, chi più chi meno, possedevamo.
Lo ha detto san Pietro pieno di Spirito santo (a proposito di Trinità) allorquando gettato via l’UOMO VECCHIO (rinnegatore e fifone) si è rivestito dell’uomo nuovo e uscendo dal Cenacolo travolto dalla effusione pentecostale, si rivolse alla folla (Atti 2,22) e disse “Uomini di Israele, Gesù di Nazaret – uomo ACCREDITATO da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni ….” Capito ?? I miracoli del Figlio tra noi, servono a Dio per dirci “Gesù è a vostro credito, sta sul vostro conto in banca”.
Oggi in banca ci è arrivato un accredito che ha schiantato il nostro conto e ha mandato in tilt i computers della banca. Alleluia, Cristo è risorto, il senso si è posato sulla nostra piatta esistenza, la salvezza è giunta tra noi !
Quante notti ci sono state dalla creazione del mondo ad oggi ? Ebbene, di tutte queste notti, le più straordinarie sono due indicate dalla fede ed entrambe attraversate da una luce soprannaturale. Sto parlando della notte di Natale e della notte di Pasqua. Nella prima Dio si affaccia nel mondo con il volto di un bambino, e nella seconda, dopo essere stato ucciso, risorge mostrando la sua superiorità (la sua vittoria) sul male e sulla morte che del male è la parente più stretta. La prima notte ha la luce della tenerezza, la seconda ha lo splendore della potenza irresistibile.
“Se sei il figlio di Dio scendi dalla croce”. Non era sceso, e la conclusione dei sbeffeggiatori, ed anche dei suoi discepoli, era che quell’uomo non era il figlio di Dio, il figlio della Potenza soprannaturale, ma un pover’uomo del tutto simile a noi che non era in grado di salvare nessuno. Indipendentemente da questa amara realtà, la Maddalena andava comunque al sepolcro per tributargli la sua umana personale dedizione di pietà. Ma non le fu possibile poiché quel sepolcro era vuoto in quanto si era verificato il più grande evento nella storia dell’umanità : la morte era stata vinta, ed il nuovo Adamo apriva una frontiera percorribile anche da noi nella direzione della vita eterna, divina ed immortale. Da quel giorno è accaduto che per 40 giorni è stato visto, ascoltato, TOCCATO dai suoi discepoli che hanno anche mangiato insieme a Lui, e dopo l’Ascensione ogni altro suo fedele ha potuto sperimentare la sua viva presenza nella propria vita. Attenzione bene : non è la dottrina di Gesù o i suoi ideali che vivono ancora, MA LUI IN PERSONA tant’è che ogni cristiano può parlargli, confidarsi, ascoltarlo, come accade con il più caro dei propri amici.
La forza (anche storica) della morte non ha radice primitiva nel corpo ma ha una radice spirituale che sta in quel pungiglione di nome peccato e che porta poi alla corruzione anche del corpo. Gesù ha distrutto questo potere di “avvelenare” e uccidere, lo ha distrutto dal di dentro e lo ha fatto “consegnandosi” alla morte, e quasi replicando la tecnica del cavallo di Troia. Nella notte di Natale gli Angeli in cielo avevano invocato la pace sulla terra, ma è nella notte di Pasqua che essa è stata donata agli uomini. Non ha celebrato davvero la Pasqua – e quindi è rimasto ancora nella morte – chi di noi ha ancora oggi il peso della pietra del peccato, dell’egoismo, del risentimento (assenza di perdono) dentro di sè. Gesù che ha distrutto la morte, ma quale fatica farà mai nel distruggere il mio e il tuo peccato, il mio ed il tuo male, se glielo consegniamo ?
Cosa sarebbe la nostra vita nell’oppressione costante del peso di una maledizione di dover morire, sapendo che Dio non esiste, che siamo figli del caso e degli scimmioni di Darwin come dicono “le maggioranze” dell’intellighenzia nel dominio dell’informazione, e che quindi essendo noi nati per caso, la lotteria finirà e tutto precipiterà poi nel baratro del niente. Ma se la resurrezione è vera, allora Gesù ha detto il vero e quindi nel mio futuro è legittimata la speranza e nel mio presente è legittimo il sorriso, poiché la nostra vita sarà portata su ali d’aquila (così dicevano i profeti che non conoscevano ancora l’Ascensione) direttamente alle sorgenti dell’amore trinitario. La scoperta iniziata con la Maddalena ci ha fatto riscontrare, in linea con le parole di Gesù, che davvero Egli si è caricato dei miei peccati ma che, per l’immenso amore che aveva per me e per te, ha avuto la forza di sopportare questo dolore, ed ha bevuto “il calice amaro” dei miei tradimenti (non ancora terminati nella mia vita), delle mie ingiurie, sarcasmi, spine e flagelli nel corso della mia esistenza e che nel disegno divino furono concretamente “rappresentati”, in piena aderenza, dai miei simili delegati del venerdi santo lungo la Via Crucis.
Il Vangelo fra poco ci dirà con forza « Cristo è veramente risorto ». Tuttavia nessuno (se non il Padre e neppure la madre Maria Santissima) ha assistito alla sua resurrezione, e l’unica testimonianza che abbiamo è « Che è risorto ».
La resurrezione è il gesto di infinita tenerezza con cui il Padre con lo Spirito Santo ridestò Gesù dopo l’immane sofferenza della passione (e questo accadrà anche a noi). I famosi testimoni umani intervengono dopo, intervengono nei momenti citati dal Vangelo odierno, ma la primizia della resurrezione si è svolta tra i soli componenti della Trinità, e all’inizio della messa di Pasqua le prime parole che la Chiesa mette in bocca a Gesù sono un grido di gioia che egli rivolge al Padre « Sono risorto e sono ancora con te ! Hai posto su di me la tua mano! » e, precisa Pietro pieno di Spirito negli Atti, « sciogliendolo dalle angosce della morte ». Il verbo più usuale nella Scrittura sulla resurrezione è « ridestare » da morte. Per usare un frasario umano, il Padre si è accostato al sepolcro come ci si accosta delicatamente alla culla di un neonato che dorme, e lo ha destato dal sonno. A Naim Gesù fece spontaneamente un miracolo non richiestogli dalla vedova che seguiva il corteo funebre del suo bambino : si accostò alla bara e disse « Ragazzo, dico a te, alzati ! » e questo fanciullo si alzò e così lo rese a sua madre. Provo un senso di vertigini nel ricordare l’insistenza con cui Giovanni Paolo II° ha sempre sostenuto che Maria, seppur senza trascrizione evangelica, ha ricevuto la visita del Risorto prima degli altri testimoni, e questo episodio della vedova di Naim ne sembra quasi un prototipo autobiografico dove Dio gli dice « Bambino mio, figlio mio, sono io che ti parlo (e la parola di Dio . . . . crea), alzati ! » e con l’ausilio dello Spirito Santo (che è Signore e dà la vita) che ha fatto irruzione nel corpo esanime di Gesù, lo ha vivificato e fatto entrare nella vita secondo lo Spirito. Quando sarà il nostro turno, il nostro corpo aspetterà una purificazione mentre da subito vivremo anche noi nello Spirito.
E’ da questa resurrezione (attimo in cui la morte si trasformò in vita e il tempo divenne eternità) che hanno preso le mosse tutte le cose e le persone della Chiesa (riti, sacramenti, parola, istituzioni) e che ancor oggi evolvono.
L’apostolo Paolo, scrivendo ai cristiani di Corinto, a non più di venticinque anni di distanza dai fatti, elenca tutte le persone che hanno visto Gesù dopo la sua risurrezione, la maggioranza dei quali era ancora in vita (1Cor 15,6). Di quale fatto dell’antichità abbiamo testimonianze così forti come di questo?
Dopo la morte di Gesù i discepoli si sono dispersi; il suo caso è chiuso: «Noi speravamo che fosse lui…» (Lc 24,21), dicono i discepoli di Emmaus. Evidentemente, non lo sperano più. Ed ecco che, improvvisamente, vediamo questi stessi uomini proclamare unanimi che Gesù è vivo, affrontando processi e persecuzioni, fino al martirio. Che cosa ha determinato un cambiamento così totale, se non la certezza che Gesù era risorto?
Hanno parlato e mangiato con lui dopo la sua risurrezione. E poi erano uomini pratici, tutt’altro che facili a esaltarsi: essi stessi sulle prime dubitarono. Neppure possono aver voluto ingannare gli altri, perché, se Gesù non era risorto, i primi a essere stati traditi e a rimetterci (la stessa vita!) erano proprio loro. Senza il fatto della risurrezione, la nascita del cristianesimo e della Chiesa diventa un mistero ancora più difficile da spiegare che la risurrezione stessa.
Ma la prova più forte che Gesù Cristo è risorto sta nel fatto che è vivo! Vivo, non perché noi lo teniamo in vita parlandone, ma perché lui tiene in vita noi, ci comunica il senso della sua presenza, ci fa sperare.
Le visioni immaginarie arrivano di solito a chi le aspetta e le desidera intensamente, ma gli apostoli, dopo i fatti del Venerdì santo, non aspettavano più nulla. La risurrezione di Cristo è, per l’universo spirituale, quello che fu per l’universo fisico, secondo una teoria moderna, il big bang: un’esplosione d’energia tale da imprimere al cosmo quel movimento di espansione che dura ancora oggi, a distanza di miliardi di anni.
Tutti credono che Gesù sia morto, anche i pagani e gli agnostici lo credono. Ma solo i cristiani credono che Gesù è anche risorto, e non si è cristiani se non lo si crede. Risuscitandolo dalla morte, è come se Dio avallasse l’operato di Cristo, come se vi imprimesse il suo sigillo. «Dio ha dato a tutti gli uomini una prova sicura su Gesù, risuscitandolo dai morti» (At 17,31).
La risurrezione è il centro dell’esperienza della fede dei primi cristiani, ma è difficile parlarne: non è una esperienza che riguarda i sensi, non è il frutto di una riflessione. Risurrezione è qualcosa che viene da Dio, è opera di Dio, e noi possiamo riconoscere questo mistero solo attraverso la fede, confidando e credendo che Dio può arrivare là dove noi non possiamo. Ma allo stesso tempo, anche se la risurrezione non dipende da noi, tutta la nostra vita è un anelito di resurrezione, contiene la speranza di una vita piena al di là dei nostri limiti e delle nostre imperfezioni.
Maria Maddalena si reca alla tomba, ultimo segno visibile della presenza del maestro, per piangere la sua morte e si imbatte in qualcosa di inatteso: il sepolcro chiuso la sera del venerdì è aperto. Corre ad avvisare i discepoli: una spiegazione del sepolcro è quella del furto, e così lei spiega ai discepoli. Essi si mettono in moto per verificare quanto detto dalla donna. Pietro, entrando, vede di più: le bende e il lenzuolo, ed esclude l’ipotesi del furto. Infine il discepolo che Gesù amava entra, vede e crede, passa dalla constatazione del sepolcro vuoto al credere che Gesù è di nuovo vivo oltre la morte.
Di fronte al sepolcro vuoto, il discepolo amato fa per primo il passo della fede. Nel testo di Atti è Pietro che prende la parola in casa del centurione Cornelio per parlare del piano di salvezza di Dio. Dopo il discepolo amato, anche Pietro ha creduto nella risurrezione.
Chi crede in Gesù costituito giudice dei vivi e dei morti ottiene il perdono dei peccati, è riconciliato con Dio, è salvo.
Il cristiano battezzato è colui che entra nello stesso mistero di morte e risurrezione. Il vero significato della sua vita lo può scoprire solo a partire dal progetto di Dio, dalle “cose di lassù”, senza lasciarsi guidare dagli istinti terreni. Ma questo processo di risurrezione interiore è graduale, non accade in una sola volta, deve essere voluto e scelto liberamente da ciascuno. In questo modo, gradualmente, la risurrezione di Gesù che entrò in noi nel battesimo ci rende liberi dal modo di valutare le cose solo orizzontale e ci permette di vivere già ora l’attesa dell’incontro definitivo.
Per nessuno di noi è facile credere nella risurrezione; a volte ci chiediamo se non stiamo dando spazio a storie inventate, se non dovremmo occuparci d qualcosa di più concreto. Ogni giorno facciamo esperienza che, nonostante il battesimo, pensiamo e agiamo ancora molto condizionati dalle “cose di quaggiù”. Ma la risurrezione è il mistero di Dio che entra nella nostra carne e scava il posto per una speranza che non muore. Il giorno della nostra risurrezione è un giorno che il Signore fa. A noi è chiesto solo, come al discepolo amato, a Pietro, a Maria Maddalena, a Cornelio e tanti altri, di avere fede.
Gesù è stato risuscitato da Dio in risposta al suo modo di vivere nell’amore fino all’estremo: così ci ha aperto una strada da percorrere qui sulla terra e poi nell’aldilà della morte, grazie al suo esempio ma soprattutto ai suoi meriti.
La Maddalena era stata una donna peccatrice, abitata da sette demoni (Lc 8,2), ma nell’incontro con Gesù era rifiorita come una nuova creatura: egli si era preso cura di lei, aveva messo in lei la fiducia nella possibilità della conversione, di una vita nuova, e ora lei si prende cura di Gesù, abbandonato da tutti. Ma una novità inaudita l’attende.
Uno arriva per primo al sepolcro a causa dell’amore di cui è amato, l’altro entra per primo a causa dell’elezione a « Roccia » della comunità da parte del Signore.
Pietro, pur «vedendo le bende per terra e il sudario piegato in un luogo a parte», non comprende nella fede l’evento straordinario della risurrezione. Per il discepolo amato, invece, le cose stanno diversamente: «Entrò anche l’altro discepolo… e vide e credette». Cosa ha visto? Nessun oggetto, è l’assenza stessa che, interpretata dall’amore, rivela al suo cuore una presenza. Nell’amore che lo lega a Gesù, il discepolo amato fa spazio in sé alla buona notizia per eccellenza, che anche Pietro poi proclamerà: «Dio ha risuscitato Gesù» (At 2,24).
La fede pasquale nasce dall’amore: solo l’amore per Gesù permette di comprendere la parola di Dio contenuta nelle Scritture e di discernere, a partire da una tomba vuota, che «Cristo è risorto secondo le Scritture» (1Cor 15,4).
Dio non vuole la croce ma dal momento che esiste, a causa del peccato, Egli l’ha fatta sua e in questo modo l’ha trasformata da uno strumento di tortura in uno strumento di salvezza.
«Di ‘certo’ nella vita c’è solo la morte». Ebbene, dalla Pasqua di Cristo in poi, di ‘certo’ nella vita non c’è solo la morte ma anche la risurrezione. «Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future» (Spe Salvi, 7).
«Il presente, anche un presente faticoso può essere vissuto o accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino» (Spe Salvi, 1).
Vivo, non perché noi lo teniamo in vita parlandone, ma perché lui tiene in vita noi, ci comunica il senso della sua presenza, ci fa sperare. “Tocca Cristo chi crede in Cristo”, diceva sant’Agostino e i veri credenti fanno l’esperienza della verità di questa affermazione.
Tutti credono che Gesù sia morto, anche i pagani, gli agnostici lo credono. Ma solo i cristiani credono che è anche risorto e non si è cristiani se non lo si crede. Risuscitandolo da morte, è come se Dio avallasse l’operato di Cristo, vi imprimesse il suo sigillo. “Dio ha dato a tutti gli uomini una prova sicura su Gesú, risuscitandolo da morte” (Atti 17,31).

20 APRILE 2014 – S. PASQUA A – PASQUA – OMELIA

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20 APRILE 2014 – S. PASQUA A | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

LECTIO DIVINA : GV 20,1-9

Il racconto ci situa nei momenti iniziali dell’esperienza pasquale e ci racconta come, davanti al sepolcro vuoto, nacque la fede nel Risuscitato. Non tutti, meglio, solo uno, di quanti trovarono la tomba aperta ritrovò la fede. Né Maria né Pietro seppero vedere e credere: erano così sicuri della morte del loro maestro che non capirono che Dio lo aveva restituito alla vita, una vita senza morte né sudari. Solo il discepolo che sapeva dell’amore del suo Signore seppe che era vivo, quando vide che Egli non stava nella tomba e che non aveva bisogno oramai del sudario. Pietro ed il discepolo amato percorsero la stessa strada, allarmati da Maria, ma credette solo il discepolo che si sapeva amato: sentire in se stesso l’amore di Gesù è oggi il modo di sentirlo vivo
1 Il primo giorno della settimana, Maria di Magdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro.
2 Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: « Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto! ». 3 Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. 4 Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. 5 Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. 6 Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, 7 e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. 8 Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. [9 Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti].
1. LEGGERE : capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
Mentre i sinottici insistono nella proclamazione della resurrezione di Gesù (Mc 16,6; Mt 28,6-7; Lc 24,5-6.34) Giovanni la narra facendo la cronaca degli incontri personali del Risuscitato a Gerusalemme, il primo giorno della settimana (20,1.19). Gv 20 è diviso in due scene: all’alba, nel sepolcro (20,1-18), si constata la sparizione del cadavere (20,2.13.15); quando imbrunì, in una casa particolare (20,19-29), si impose la presenza del Risuscitato (20,18.25.29). Gesù, nominato fino a quattordici volte, domina il racconto.
Il nostro passaggio raccoglie il primo episodio (20,1-9) della scena intorno alla tomba vuota (20,1-18). Era ancora buio e col buio arrivarono Maria e Pietro davanti al sepolcro aperto e vuoto. Il racconto, benché verosimile, è, soprattutto, descrizione di una dimensione di fede: vedere è passo previo e necessario per credere (20,8), ma l’avere visto non porta necessariamente alla fede (20,1.7): trovarsi con la tomba vuota e coi sudari inutili non è sufficiente per credere vivo il crocefisso.
La tomba vuota, scoperta all’alba, porta l’oscurità ambientale al cuore stesso del protagonista. Maria, una delle donne che assistette alla morte di Gesù (Gv 21,1; 19,25). Niente si dice dell’intenzione che spinge Maria ad andare al sepolcro (Mc 16,1; Lc 24,1: le donne portano aromi per ungere il cadavere; Mt 28,1: andarono a contemplare la tomba). La Maddalena (Gv 20,16.18), benché ancora prima spettatrice del trionfo di Gesù sulla morte, non è credente; immagina che il cadavere – ‘logicamente’ – è stato rubato e corre a dirlo, logicamente, a Pietro e all »altro’ discepolo. C’è in questa reazione di Maria un doppio motivo teologico: da un lato, la visione della tomba aperta non porta da sola alla fede nella resurrezione (20,10); dall »altro, il fatto che il primo che va al sepolcro lo trovi già aperto scarta, senza affermarlo esplicitamente, il rapimento del corpo (cf. Mt 27,64; 28,11-15).
Dietro questa prima, infruttuosa, visita, si narra la fretta dei due discepoli che competono per arrivare prima al sepolcro (20,3-4). Pietro è menzionato in primo luogo, entra per primo nel sepolcro (20,6) e vede tele e veli solamente (20,6-7). Il discepolo anonimo (19,25-26) è il primo ad arrivare alla tomba (20,4), vede i veli (20,5; 19,40) e, soprattutto, arriva alla fede (20,8). Coloro che entrarono nella tomba, urtarono con l’assenza di Gesù; chi aveva convissuto con lui e, insieme, assistito alla sua passione (18,15-16), può certificare solo la sparizione del cadavere. Qui, i discepoli, e non delle donne (Lc 24,24), sono ancora testimoni di morte (20,5-6).
Ma uno di essi, quello che arrivò per primo al sepolcro e non entrò (20,8), che si distingue per l’amore a Gesù (20,2) vede e crede. Vede quello che Pietro ha visto, una tomba vuota ed alcuni sudari ben disposti; ma crede che l’Assente ha vinto la morte. Per Giovanni, in contrasto con la tradizione sinottica, il discepolo che meglio crede è chi si crede più amato, la prima credente nel Risuscitato è il suo migliore amante: poiché l’amore penetra una peculiare e profonda forma di riconoscimento, solo chi ama tra i discepoli è capace di vedere senza prove o, meglio, di credere nella vita del suo Signore amato quando contempla solo il suo sudario. Per il discepolo amato andrà diretta anche la beatitudine che chiude il quarto vangelo, dato che egli cominciò a credere, senza bisogno di avere visto (20,8.29).
Un’annotazione redazionale diretto ai lettori conclude il racconto; esprime una convinzione cristiana molto antica: la Scrittura stessa non portò alla fede nella resurrezione, benché in lei era predetta; l’intelligenza della Scrittura non precede, segue l’esperienza pasquale (20,9. Cf. Lc 24,25-27.44-45). Pietro e Maria tornano a casa sapendo che Gesù non sta nella tomba (20,10): non sanno dove il suo cadavere può essere. Tornano senza sapere che è vivo; sono già, ma solo, testimoni della sua sparizione. Per saperlo vivo, bisogna sapersi amato da Lui.

2 – MEDITARE : Applicare quello che dice il testo alla vita
Oggi il vangelo ci situa nell’origine stessa dell’esperienza pasquale. Dio si anticipò ai più mattinieri e restituì Gesù a vita nuova e migliore; tanto mattiniero fu Dio il giorno di Pasqua che beccò sprovveduti perfino i più primaticci tra i discepoli di Gesù. Preoccupati come erano di occuparsi di un cadavere non poterono sospettare che Dio si fosse già occupato a dargli vita, anticipando il giorno e le loro attenzioni. Muto segno del passo di Dio era quella tomba aperta che tanto li allarmò: la morte, il suo potere, erano spezzati, vinti. Ma i discepoli, impegnati ancora a lavorare come becchini, non potevano crederlo.
Portiamo ancora qualcosa del suo depistaggio, di quella prima incertezza e tristezza che cadde su quei discepoli: siamo tanto sensibili per la sua perdita, tanto quanto siamo orfani di Gesù, quanto siamo persi senza di lui nel nostro mondo che andiamo cercandolo tra i morti, non cercandolo tra i vivi, dandolo per sviato senza sapere dove se ne sia andato. Continuiamo come quei buoni discepoli ad essere dei becchini bene intenzionati, quando quello di cui ha bisogno Gesù sono testimoni coraggiosi della sua resurrezione. Questa è l’impressione che possiamo dare a chi ci vede preoccupati per tante cose che non sono quelle di Dio.
Ritorniamo alle nostre origini. Torniamo a proclamare quello che sappiamo già: che non sta tra i morti chi vive per sempre che non appartiene a nessun sepolcro chi è risuscitato. Trasformiamo la nostra pena in godimento e parliamo agli altri della nostra esperienza: dove oggi si sente la sua mancanza, è necessario un cristiano che lo proclami vivo e presente; dove oggi egli è dato per perso, offriamo come cristiani l’opportunità di trovarlo; dove oggi egli è dato ancora per morto o scomparso, dobbiamo trovare lo slancio e le parole per proclamarlo risuscitato. La testimonianza che dobbiamo dare al mondo non può sminuirsi, a mere parole: la sua nuova vita si proclama con una vita nuova, una vita che non risponda già solo ai criteri che lo condannarono a morte, una vita che possa essere comprensibile nel caso in cui realmente è viva.
Ma, come arriveremo alla convinzione che in realtà vive, che è risuscitato? Seguendo la stessa strada che percorsero il giorno di Pasqua Pietro ed il discepolo che Gesù amava. Allarmati ambedue dalle parole di Maria, si misero a correre verso il sepolcro, simili per la loro incertezza e per la loro fretta, senza poter credere a quanto la donna aveva detto loro e senza immaginarsi quanto Dio aveva già fatto. Fecero una strada in comune, senza che importasse loro l’angoscia che condividevano né la loro incredulità; compagni di fretta e di perplessità, arrivarono insieme alla tomba che trovarono aperta e vuota, con la morte vinta, il cadavere assente e i sudari. I due videro le stesse cose, ma uno solo credette, il discepolo che Gesù amava; il più amato fu colui che per primo arrivò alla fede: sapere del suo amore gli fece sapere del suo amato.
Per convertirci in testimoni di Cristo Risuscitato è necessario sentirci amati da lui, come il primo credente. Arrivò prima alla convinzione che Gesù viveva non per essere arrivato per primo alla sua tomba bensì perché sempre si seppe amato. L’amore vede più nel vuoto, si arrende meno di fronte alle apparenze, vince meglio la disperazione, comprende prima l’oscuro e bandisce con maggior convinzione quello che sente già. Come nell’alba della prima Pasqua, Gesù vive oggi in quanti si sanno amati; nei quali non alberga alcun dubbio che egli vive; è amore che si sente ed è amore che si regge. La fede nella Resurrezione non è tanto un’opzione contro ogni evidenza, bensì l’evidenza che dà di sentirsi caro; la fede non è sforzo personale, ma affermazione di quello che non si vede, accettazione dell’amore gratuito, affermazione di quanto si sperimenta già. Sicuri del suo amore non dovremmo vederlo per crederlo vivo né trovarlo personalmente per saperci personalmente amati.
Oggi bisogna ribellarsi contro coloro che, in qualsiasi forma – perché sono migliaia i modi d’uso -, vogliono seppellire di nuovo Gesù; ci giochiamo in ciò l’amore che ha per noi. Bisogna osare dichiarare vinta ogni morte ed aperta qualunque tomba, dato che Gesù è risuscitato; nessuno ha diritto a tacere la nuova vita di Gesù Risuscitato: ci sarebbe rifiutato il diritto di sentirci amati da lui. Bisogna accettare che Dio continua ad anticipare il nostro dolore e le nostre morti, come quel primo giorno di Pasqua; e bisogna tornare a proclamare quello che sappiamo: che la sua tomba è vuota perché il nostro cuore è pieno di Lui. Chi lo dice, sarà il testimone di Cristo che Dio, ed il nostro mondo, necessitano oggi. Dunque, mentre diciamo quello che sappiamo, che Gesù vive, ci sapremo i suoi testimoni amati.
Non è difficile, dunque, recuperare di essere cristiani; solamente basta che ci mettiamo a dire quello che sappiamo: che Dio continua ad alzarsi presto più di qualunque becchino, che il sepolcro di Gesù è vuoto e che la sua morte è stata vinta. E che non possiamo tacerlo, perché perderemmo oggi il suo amore e la vita senza fine dopo la morte. È troppo quello che rischiamo per non pensare di sentirci amati da Cristo vivo. Egli vive oggi per amarci e noi per amarlo vivremo sempre.
3 – PREGARE : Prega il testo e desidera la volontà di Dio: cosa dico a Dio?
Ti lodo, Signore Risuscitato: la tua vittoria sulla morte riempie di speranza la mia vita mortale. Dammi la capacità di confessarti vivo dove tutti, compreso io, noto più la tua assenza, vienimi incontro quando io trovo morte e desolazione intorno a me. Il tuo sepolcro vuoto, fu la culla della mia fede: che sia per la tua Chiesa il posto della rinascita!
Fa’ che senta il tuo amore, benché non goda della tua presenza fisica; così mi sarà facile vedere le prove della tua morte, palpare la tua assenza, e credere che sei vivo.
Se mi concedi di sentirmi amato, ti confesserò risuscitato. Ti lodo, Padre del mio Signore Gesù, perché ti sei alzato presto quel primo giorno per non permettere che tuo figlio conoscesse la corruzione, avendo conosciuto la morte, e che morte!
Anticipandoti all’aurora ed ai discepoli mattinieri, recuperasti Gesù per te…, e non ci hai lasciati soli in questo mondo. Che percepisca nell’oscurità la tua presenza che presenta nella solitudine la tua compagnia che affronta la morte, mia e dei miei, con la convinzione che solo sarà una tappa transitoria che viva oggi sperando di essere compagno un giorno, e per sempre, del tuo figlio, mio Signore.

JUAN JOSE BARTOLOME sdb

Crocifissione

Crocifissione dans immagini sacre crucifixion
http://cacina.wordpress.com/2012/10/page/2/

Publié dans:immagini sacre |on 18 avril, 2014 |Pas de commentaires »

CON PRIMO MAZZOLARI – SONO ANCH’IO UN CROCIFISSO

http://www.paoline.it/Idee-per-pregare/SETTIMANA-SANTA/articoloRubrica_arb825.aspx

CON PRIMO MAZZOLARI

SONO ANCH’IO UN CROCIFISSO

Questa sera il tabernacolo è vuoto, la croce è nuda, chiuso il sepolcro, gli altari desolati, ma la Messa continua sugli ignoti calvari di una terra ove ogni picco, ogni greco, ogni preda è un tabernacolo, un altare, una croce.
Il mio prete ha tolto anche i grossi candelieri di ferro battuto: sull’altare non c’è che il grande crocifisso e la sua ombra fatta anche più grande.
Questa nudità m’agghiaccia.
Ho l’impressione di trovarmi per la prima volta in faccia alla morte, all’ingiustizia, al dolore, alla guerra… Come siano arrivate queste nostre tristezze fin sull’altare, non so: come si siano legate a quel tronco, fatte una sola cosa col crocifisso, non so…
So che ci sono anch’io lassù, sul legno, inchiodato sul legno…
inchiodato con la fame di tutti gli uomini,
con l’esilio di tutti,
con la desolazione di tutti,
con l’odio che fa la guerra,
con la menzogna che fa l’ingiustizia.
Son venuto per vedere e mi trovo inchiodato. Sono anch’io un crocifisso!
Quanti siamo qui o anche gli altri…, tutti dei crocifissi.

Ogni tentativo di fuga mi è impossibile questa sera. Cristo mi fa uomo con lui, come lui, uomo di dolore, uomo di offerta.
Le mie ragioni non tengono: i miei alibi son falsi; ci sono arrivato per tutte le strade, con tutti i disperati, i percossi, gli affamati, con tutti i felici, gli oppressori, i sazi…
Il crocifisso è mio: io sono nel crocifisso.

Chi mi ha condotto in chiesa questa sera? Chi m’ha gettato contro codesto crocifisso enorme proprio in questo Venerdì santo?Tutti e nessuno.
Bisognava pure che quel «resto» senza nome, che nessuno vuole, che nessuno capisce, lo mostrassi a qualcuno: bisognava trovargli un nome (c’è troppa orfanezza nel mio cuore!), un rifugio.
E adesso che ne so il nome, che ne vedo il volto, cos’ho guadagnato?
Quando troverò uno che ha fame… non gli potrò più dire (era così spiccio e comodo!): «Non so chi tu sia», perché ti ho visto.
Davanti allo sguardo mortificato del mio operaio, al quale nego l’aumento del salario, adesso che tutto cresce, non potrò più voltargli le spalle dignitoso e sdegnato, perché io non ti posso più licenziare, o Cristo. Se vedrò piangere, non potrò più scantonare, perché sei tu che piangi.
Quando leggerò dei morti che la guerra ammucchia, non potrò pensare che i miei dividendi crescono per la sola ragione che gli altri muoiono, perché tu mi obbligheresti a guardarmi le mani. E chi può guardare delle mani, le proprie mani che grondano sangue? Questo ho guadagnato stasera.
Il «resto» che da anni e anni, con sforzi disumani ero riuscito a serrare in un angolo morto della mia anima, ha rotto gli argini, m’inonda e mi sommerge. Per la prima volta, a faccia aperta, ho fissato in volto il mio male.

Crocifissi come te.
Ma tu, dall’alto della tua croce, invochi perdono: noi, dalla nostra croce, odiamo;
tu doni il Paradiso a un ladrone, noi togliamo il pane anche all’orfano.
Tu sulla croce, sei nudo, sei l’uomo. Noi siamo obbligati a portare la maschera dell’uomo forte, dell’uomo grande, dell’uomo implacabile… fin sulla croce.
Signore, toglimi questa maschera, fammi vedere come sono, come siamo per avere almeno pietà gli uni degli altri.
Tu ci hai comandato di amarci gli uni gli altri come tu ci ami.
Ho paura che quel giorno sia ancora molto lontano, troppo lontano.
Almeno potessimo arrivare ad aver pietà gli uni degli altri!
A vivere e a morire da uomini, da poveri uomini come siamo, in pace con noi stessi!

Primo Mazzolari, Tempo di passione, Paoline 2005

 

LA TUNICA ERA SENZA CUCITURE DI P.RANIERO CANTALAMESSA

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LA TUNICA ERA SENZA CUCITURE DI P.RANIERO CANTALAMESSA

2008-03-21- Predica del Venerdì Santo nella Basilica di San Pietro

“I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti e ne fecero quattro parti, una per ciascun soldato, e la tunica. Ora quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo.
Perciò dissero tra loro: Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca. Così si adempiva la Scrittura: Si sono divise tra loro le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte” (Gv 19, 23-24).
Ci si è chiesti sempre che cosa abbia voluto dire l’evangelista con l’importanza che da a questo particolare della Passione. Una spiegazione recente è che la tunica ricorda il paramento del sommo sacerdote e che Giovanni, perciò, abbia voluto affermare che Gesú morì non soltanto come re, ma anche come sacerdote. Della tunica del sommo sacerdote non si dice, però, nella Bibbia, che doveva essere senza cuciture (cf. Es 28, 4; Lev 16,4); per questo i più autorevoli esegeti preferiscono attenersi alla spiegazione tradizionale secondo cui la tunica inconsutile simboleggia l’unità della Chiesa[1].
Qualunque sia la spiegazione che si da del testo, una cosa è certa: l’unità dei discepoli e, attraverso di essi, di tutto il genere umano, è, per Giovanni, lo scopo per cui Cristo muore: “Gesù doveva morire… per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11, 51-52). Nell’ultima cena lui stesso aveva detto: “Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17, 20-21).
La lieta notizia da proclamare il Venerdì Santo è che l’unità, prima che un traguardo da raggiungere, è un dono da accogliere. Che la tunica fosse tessuta “dall’alto in basso”, scrive san Cipriano, significa che “l’unità recata da Cristo proviene dall’alto, dal Padre celeste, e non può perciò essere scissa da chi la riceve, ma deve essere accolta integralmente” [2].
I soldati fecero in quattro pezzi “la veste”, o “il mantello” (ta imatia), cioè l’indumento esteriore di Gesú, non la tunica, il chiton, che era l’indumento intimo, portato a diretto contatto con il corpo. Un simbolo anche questo. Noi uomini possiamo dividere la Chiesa nel suo elemento umano e visibile, ma non la sua unità profonda che si identifica con lo Spirito Santo. La tunica di Cristo non è stata e non potrà mai essere divisa. È la fede che professiamo con le parole: “Credo la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica”.
* * *Ma se l’unità deve servire da segno “perché il mondo creda”, essa deve essere una unità anche visibile, comunitaria. È questa unità che è andata perduta e che dobbiamo ritrovare. Essa è ben più che dei rapporti di buon vicinato; è la stessa unità mistica interiore, in quanto accolta, vissuta e manifestata, di fatto, dai credenti: “Un solo corpo, un solo Spirito, una sola speranza, un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio Padre di tutti” (Ef 4, 4-6). Una unità che non è compromessa dalla pluriformità, ma anzi si esprime in essa.
Dopo la Pasqua gli apostoli chiesero a Gesú: “Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?”. Oggi rivolgiamo spesso a Dio la stessa domanda: È questo il tempo in cui ricostituirai l’unità visibile della tua Chiesa? Anche la risposta è la stessa di allora: “Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni” (At 1, 6-8).
Lo ricordava il Santo Padre nell’omelia tenuta, il 25 Gennaio scorso, nella Basilica di san Paolo fuori le Mura, a conclusione della settimana per l’unità dei cristiani: “L’unità con Dio e con i nostri fratelli e sorelle, diceva, è un dono che viene dall’Alto, che scaturisce dalla comunione d’amore tra Padre, Figlio e Spirito Santo e che in essa si accresce e si perfeziona. Non è in nostro potere decidere quando o come questa unità si realizzerà pienamente. Solo Dio potrà farlo! Come san Paolo, anche noi riponiamo la nostra speranza e fiducia nella grazia di Dio che è con noi ». Anche oggi, sarà lo Spirito Santo, se ci lasciamo guidare, a condurci all’unità.
Come fece lo Spirito Santo a realizzare la prima fondamentale unità della Chiesa: quella tra giudei e pagani? Venne su Cornelio e la sua casa nello stesso modo con cui a Pentecoste era venuto sugli apostoli. Sicché a Pietro non rimase che tirare la conclusione: « Se dunque Dio ha dato a loro lo stesso dono che a noi per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio? » (At 11,17).
Ora, da un secolo a questa parte, noi abbiamo visto ripetersi sotto i nostri occhi questo stesso prodigio, su scala mondiale. Dio ha effuso il suo Spirito Santo, in modo nuovo e inconsueto, su milioni di credenti, appartenenti a quasi tutte le denominazioni cristiane e, affinché non ci fossero dubbi sulle sue intenzioni, lo ha effuso con le stesse identiche manifestazioni. Non è questo un segno che lo Spirito ci spinge a riconoscerci a vicenda come discepoli di Cristo e a tendere insieme all’unità?
Questa unità spirituale e carismatica da sola, è vero, non basta. Lo vediamo già all’inizio della Chiesa. L’unità tra giudei e gentili è appena fatta che è già minacciata dallo scisma. Nel cosiddetto concilio di Gerusalemme vi fu una « lunga discussione » e alla fine fu raggiunto un accordo, annunciato alle Chiesa con la formula: « Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi… »(Atti 15, 28). Lo Spirito Santo opera, dunque, anche attraverso un’altra via che è il confronto paziente, il dialogo e perfino il compromesso tra le parti, quando non è in gioco l’essenziale della fede. Opera attraverso le « strutture » umane e i « ministeri » posti in atto da Gesú, soprattutto il ministero apostolico e petrino. È quello che chiamiamo oggi ecumenismo dottrinale e istituzionale.
* * *Anche questo ecumenismo dottrinale, o di vertice, non è però sufficiente e non avanza, se non è accompagnato da un ecumenismo spirituale, di base. Ce lo ripetono con sempre maggiore insistenza proprio i massimi promotori dell’ecumenismo istituzionale. Nel centenario dell’istituzione della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (1908-2008), ai piedi della croce, vogliamo meditare su questo ecumenismo spirituale: in che consiste e come possiamo avanzare in esso.L’ecumenismo spirituale nasce dal pentimento e dal perdono e si alimenta con la preghiera. Nel 1977 partecipai a un congresso ecumenico carismatico a Kansas City, nel Missouri. C’erano quarantamila presenti, metà cattolici (tra cui il cardinal Suenens) e metà di altre denominazioni cristiane. Una sera, al microfono, uno degli animatori cominciò a parlare in un modo, per me, a quel tempo, strano: “Voi sacerdoti e pastori, piangete e fate lamento, perché il corpo del mio Figlio è spezzato… Voi laici, uomini e donne, piangete e fare lamento perché il corpo del mio Figlio è spezzato”.
Cominciai a vedere le persone cadere una dopo l’altra in ginocchio intorno a me e molte di esse singhiozzare di pentimento per le divisioni nel corpo di Cristo. E tutto questo mentre una scritta campeggiava da una parte all’altra dello stadio: “Jesus is Lord, Gesú è il Signore”. Io ero lì come un osservatore ancora assai critico e distaccato, ma ricordo che pensai tra me: Se un giorno tutti i credenti saranno riuniti a formare una sola Chiesa, sarà così: mentre saremo tutti in ginocchio, con il cuore contrito e umiliato, sotto la grande signoria di Cristo.
Se l’unità dei discepoli deve essere un riflesso dell’unità tra il Padre e il Figlio, essa deve essere anzitutto una unità d’amore, perché tale è l’unità che regna nella Trinità. La Scrittura ci esorta a « fare la verità nella carità » (veritatem facientes in caritate) (Ef 4, 15). E sant’Agostino afferma che « non si entra nella verità se non attraverso la carità »: non intratur in veritatem nisi per caritatem [3]. La cosa straordinaria, circa questa via all’unità basata sull’amore, è che essa è già ora spalancata davanti a noi. Non possiamo « bruciare le tappe » circa la dottrina, perché le differenze ci sono e vanno risolte con pazienza nelle sedi appropriate. Possiamo invece bruciare le tappe nella carità, ed essere uniti, fin d’ora. Il vero, sicuro segno della venuta dello Spirito non è, scrive sant’Agostino, il parlare in lingue, ma è l’amore per l’unità: “Sappiate che avete lo Spirito Santo quando acconsentite a che il vostro cuore aderisca all’unità attraverso una sincera carità” [4].Ripensiamo all’inno alla carità di san Paolo. Ogni sua frase acquista un significato attuale e nuovo, se applicata all’amore tra membri delle diverse Chiese cristiane, nei rapporti ecumenici:
« La carità è paziente….La carità non è invidiosa…Non cerca solo il suo interesse (o solo l’interesse della propria Chiesa). Non tiene conto del male ricevuto (semmai, del male arrecato agli altri!). Non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità (non gode delle difficoltà delle altre Chiese, ma si rallegra dei loro successi spirituali). Tutto crede, tutto spera, tutto sopporta » ( l Cor 13,4 ss).
Questa settimana abbiamo accompagnato alla sua dimora eterna una donna, Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei focolari. Ella è stata una pioniera e un modello di questo ecumenismo spirituale dell’amore. Ha dimostrato che la ricerca dell’unità tra i cristiani non porta alla chiusura verso il resto del mondo; è anzi il primo passo e la condizione per un dialogo più vasto con i credenti di altre religioni e con tutti gli uomini che hanno a cuore le sorti dell’umanità e della pace
* * *
“Amarsi, è stato detto, non significa guardarsi l’un l’altro, ma guardare insieme nella stessa direzione”. Anche tra cristiani, amarsi significa guardare insieme nella stessa direzione che è Cristo. “Egli è la nostra pace” (Ef 2,14). Se ci convertiremo a Cristo e andremo insieme verso di lui, noi cristiani ci avvicineremo anche tra di noi, fino a essere, come lui ha chiesto, “una cosa sola con lui e con il Padre”. Succede come per i raggi di una ruota. Essi partono da punti distanti della circonferenza, ma a mano a mano che si avvicinano al centro, si avvicinano anche tra di loro, fino a formare un punto solo. Ciò che potrà riunire i cristiani divisi sarà solo il diffondersi tra di essi, per opera dello Spirito Santo, di un’ondata nuova di amore per Cristo. È ciò che sta avvenendo nella cristianità e che ci riempie di stupore e di speranza. “L’amore di Cristo ci spinge, al pensiero che uno è molto per tutti” (2 Cor 5,14). Il fratello di un’altra Chiesa –anzi, ogni essere umano – è “uno per cui Cristo è morto” (Rom 14,16), come è morto per me.
* * *Un motivo deve soprattutto spingerci avanti in questo cammino. La posta in gioco all’inizio del terzo millennio, non è più la stessa che all’inizio del secondo millennio, quando si produsse la separazione tra oriente e occidente; neppure è la stessa che a metà dello stesso millennio, quando si produsse la separazione tra cattolici e protestanti. Possiamo dire che la maniera esatta di procedere dello Spirito Santo dal Padre o il modo in cui avviene la giustificazione dell’empio siano i problemi che appassionano gli uomini di oggi e con cui sta o cade la fede cristiana? Il mondo è andato avanti e noi e siamo rimasti inchiodati a problemi e formule di cui il mondo non conosce più neppure il significato. Nelle battaglie medievali c’era un momento in cui, superati i fanti, gli arcieri e la cavalleria, la mischia si concentrava intorno al re. Lì si decideva l’esito finale dello scontro. Anche per noi la battaglia oggi è intorno al re. Esistono edifici o strutture metalliche così fatti che se si tocca un certo punto nevralgico, o si leva una certa pietra, tutto crolla. Nell’edificio della fede cristiana questa pietra angolare è la divinità di Cristo. Tolta questa, tutto si sfalda e, prima di ogni altra cosa, la fede nella Trinità.
Da ciò si vede come ci siano oggi sono due ecumenismi possibili: un ecumenismo della fede e un ecumenismo dell’incredulità; uno che riunisce tutti quelli che credono che Gesù è il Figlio di Dio, che Dio è Padre Figlio e Spirito Santo, e che Cristo è morto per salvare tutti gli uomini, e uno che riunisce tutti quelli che, in ossequio al simbolo di Nicea, continuano a proclamare queste formule, ma svuotandole del loro vero contenuto. Un ecumenismo in cui, al limite, tutti credono le stesse cose, perché nessuno crede più a niente, nel senso che la parola “credere“ ha nel Nuovo Testamento.“Chi è che vince il mondo, scrive Giovanni nella Prima Lettera, se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?”, (1 Gv 5,5). Stando a questo criterio, la fondamentale distinzione tra i cristiani non è tra cattolici, ortodossi e protestanti, ma tra coloro che credono che Cristo è il Figlio di Dio e coloro che non lo credono.
* * *“L’anno secondo del re Dario, il primo giorno del sesto mese, questa parola del Signore fu rivolta per mezzo del profeta Aggeo a Zorobabele figlio di Sealtièl, governatore della Giudea, e a Giosuè figlio di Iozedàk, sommo sacerdote…: Vi sembra questo il tempo di abitare tranquilli nelle vostre case ben coperte, mentre la mia casa è ancora in rovina?” (Ag 1, 1-4). Questa parola del profeta Aggeo è rivolta oggi a noi. È questo il tempo di continuare a preoccuparci solo di quello che riguarda il nostro ordine religioso, il nostro movimento, o la nostra Chiesa? Non sarà proprio questa la ragione per cui anche noi “seminiamo molto, ma raccogliamo poco” (Ag 1, 6)? Predichiamo e ci diamo da fare in tutti i modi, ma il mondo si allontana, anziché convertirsi a Cristo.
Il popolo d’Israele ascoltò il richiamo del profeta; smisero di abbellire ognuno la propria casa per ricostruire insieme il tempio di Dio. Dio allora inviò di nuovo il suo profeta con un messaggio di consolazione e di incoraggiamento che è anche per noi: “Ora, coraggio, Zorobabele – oracolo del Signore – coraggio, Giosuè figlio di Iozedàk, sommo sacerdote; coraggio, popolo tutto del paese, dice il Signore, e al lavoro, perché io sono con voi” (Ag 2,4). Coraggio, voi tutti che avete a cuore la causa dell’unità dei cristiani, e al lavoro, perché io sono con voi, dice il Signore!

 

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