Archive pour avril, 2014

Incredulità di San Tommaso

Incredulità di San Tommaso dans immagini sacre DoubtingThomas

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Publié dans:immagini sacre |on 25 avril, 2014 |Pas de commentaires »

COMMENTO AD ATTI 2,42-27

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ARCIDIOCESI DI BITONTO BARI – COMMENTO

“ ERANO ASSIDUI ALL’INSEGNAMENTO DEGLI APOSTOLI, ALLA COMUNIONE, ALLA FRAZIONE DEL PANE E ALLA PREGHIERA” (CFR AT 2,42-47)

Nella celebrazione della prossima Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio 2011) la nostra Chiesa locale è invitata, come ogni anno alla stessa data, a vivere in maniera tutta particolare la comunione di fede e di carità con i fratelli delle chiese ortodosse e delle comunità protestanti, presenti nel mondo intero ed, in particolare, nel territorio barese.
Lo farà, ascoltando l’insegnamento degli Apostoli, contenuto in Atti 2,42-47. Questo brano contiene uno dei tanti “sommari”, o sintesi, in cui viene descritta da Luca la vita della Chiesa primitiva (Cfr Atti 1,14; 2,1; 4,4;4,32-34;5,12-16;6,7;9,31;11,21;12,24); sommari che fondano la ecclesiologia di comunione.
Nella pericope di Atti 42-47 infatti Luca conclude il capitolo 2, narrando la discesa dello Spirito Santo nel giorno di Pentecoste, che le fa da contesto. L’evangelista commenta che, fortificati dalla potenza dello Spirito Santo (Cfr Atti 2,1-13), i discepoli del Signore stavano sempre insieme (cfr Atti 1,4.14), soprattutto nella preghiera e prima e dopo la discesa dello Spirito. Dono di tale straordinario evento fu la loro unità come non si stancheranno di ricordare ed esortare gli Apostoli (Cfr Ebr 10,23). Un primo elemento di questa fraternità sarà l’ascolto della Parola di Dio che li esorterà ad essere “assidui” alla “dottrina degli Apostoli”, all’insegnamento cioè affidato ad essi dal Signore. In tal modo la comunità cristiana diventerà anima di speranza per un mondo nuovo. Gli altri due elementi di comunione vengono indicati da Luca come lo “spezzare il pane” e la preghiera. Lo “spezzare il pane”, che in Atti 20,7 avviene di Domenica, diverrà la espressione ‘tecnica’, anche se poi perdutasi nel tempo, per indicare la celebrazione della Cena del Signore. Lo aveva insegnato il Signore stesso, restando a cena con i due discepoli di Emmaus (Cfr Lc 24,35). Questo gesto, che secondo gli usi ebraici, spettava al capo famiglia, aveva un valore altamente simbolico. Indicava l’unità, significata dal pane unico, moltiplicato per così dire nei partecipanti, i quali, ricevendone un pezzo dalle mani del padre e mangiandone, erano costituiti più fortemente in unità.
L’altro elemento di coesione sarà la preghiera in comune. Con questo termine generico, che proviene dal linguaggio cultuale del Vecchio Testamento, si intendeva e la vita di preghiera, intensa e prolungata della comunità, e la preghiera ‘tipica’ dei salmi e, in special modo il “Padre Nostro”, ossia la preghiera “eucaristica”.
Con questi 3 elementi, l’insegnamento degli apostoli, lo spezzare il pane e la preghiera del “Padre Nostro” vengono indicati i momenti essenziali della celebrazione eucaristica, memoriale del Signore Risorto: la Liturgia della Parola, la Prece eucaristica e la comunione, che saranno fissate per sempre dalla Tradizione delle Chiese fino ad oggi (Cfr Tommaso Federici, Cristo Risorto Amato e Celebrato. Vol. I. Eparchia di Piana degli Albanesi, Palermo 2001, pp.419-423).
Ma l’Eucarestia è oggi fra le comunità cristiane segno di unità? Il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), trattando del “L’Eucarestia e l’unità dei cristiani” (n°1398), ricorda che purtroppo le numerose e gravi divisioni esistenti fra i cristiani impediscono la partecipazione comune alla mensa del Signore. In particolare le Chiese orientali, pur conservando e celebrando validamente tutti e singoli i sette sacramenti, in virtù della successione apostolica, tuttavia non sono in piena comunione visibile con la Chiesa Cattolica Romana. Per questo è possibile con loro una “certa” comunione eucaristica: presentandosi opportune circostanze e con l’approvazione dell’autorità ecclesiastica, non solo sarà possibile, ma anche consigliabile l’ospitalità eucaristica (Codice del Diritto Canonico, canone 844,3).
Con le Comunità cristiane, uscite dalla Riforma protestante, la intercomunione non è possibile, perché tali chiese mancano del sacramento dell’Ordine Sacro “e non hanno conservato la genuina e integra sostanza del Mistero eucaristico” (Concilio Vaticano II, Decreto per l’Ecumenismo, n° 22).
Il Codice di Diritto Canonico elenca le condizioni necessarie perché i ministri cattolici possano amministrare il sacramento dell’Eucarestia (come del resto della Penitenza e dell’Unzione degli Infermi) ai cristiani non in piena comunione con la Chiesa romana (canone 844,4): la presenza di grave necessità, il giudizio del Vescovo Ordinario, la manifestazione della fede cattolica a riguardo dei sacramenti richiesti e le dovute disposizioni per accedervi.
“Quanto più dolorosamente si fanno sentire le divisioni della Chiesa che impediscono la comune partecipazione alla mensa del Signore, tanto più pressanti sono le preghiere al Signore perché ritornino i giorni della piena unità di tutti coloro che credono in lui” (CCC, n°1398).
Per questo, in occasione della Settimana di preghiera per l’Unità dei Cristiani (18-25 gennaio 2011), anche quest’anno il Centro Editoriale Libri Paoline e il Centro pro Unione hanno stampato il sussidio “Uniti nell’insegnamento degli Apostoli, nella comunione, nello spezzare il pane e nella preghiera” (cfr Atti 2,42), contenente, una introduzione teologico-pastorale, il testo biblico e le letture bibliche con il commento per ogni giorno della Settimana.
L’Arcidiocesi di Bari-Bitonto, con riferimento al testo pubblicato dalle Edizioni Paoline, da alcuni anni ha deciso di preparare un suo sussidio che contenga preghiere e proposte, più consone alla sua vocazione ecumenica di “ponte lanciato verso le chiese di Oriente”. Per questo il Centro Ecumenico della Basilica di S. Nicola “S. Manna” e l’Ufficio Diocesano per l’Ecumenismo e il Dialogo interreligioso, che insieme hanno curato la pubblicazione del volumetto “Erano assidui all’insegnamento degli apostoli, all’unione fraterna,alla frazione del pane e alla preghiera” ( Ediz. Levante Bari), sono lieti di offrirlo alle comunità parrocchiali, alle comunità religiose agli istituti secolari, alle arciconfraternite e alle associazioni laicali.

sac. Angelo Romita
Direttore dell’Ufficio Diocesano per l’Ecumenismo e il Dialogo interreligioso

27 APRILE 2014 | 2A DOMENICA DI PASQUA A – LECTIO DIVINA : GV 20,19-31

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27 APRILE 2014 | 2A DOMENICA DI PASQUA A | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

LECTIO DIVINA : GV 20,19-31

Oggi il vangelo ci presenta due scene, e due motivi, dell’unica esperienza pasquale: all’imbrunire del giorno di Pasqua, Gesù irrompe in mezzo ai suoi discepoli e rompe l’isolamento e le paure, dando loro la pace ed una missione nuova, quella di perdonare i peccati. Superata la loro incredulità, alita su di loro il suo spirito di vita nuova e fa di loro degli uomini nuovi con una nuova missione, il perdono universale. Dopo otto giorni, Gesù riappare per vincere l’incredulità del discepolo che, per non essere stato con loro prima, non poteva credere a quanto gli raccontavano gli altri discepoli. La condiscendenza di Gesù ha come obiettivo, più che rendere credente un incredulo, quella di lodare il credente senza la necessità di ‘toccare’ il miracolo; perfino la confessione di Tommaso, tra le migliori in tutta la Scrittura, non è paragonabile con quella di quelli che non debbano ‘vedere’ il Risuscitato per ‘credere’ in lui. Chi crede in realtà nella resurrezione non può permettere che la paura lo rinchiuda in sé e nei suoi problemi familiari; ha il mondo come compito ed il perdono come missione. Per credere nel Risuscitato, non è necessario vederlo vivo, basta credere che egli vive.

19 La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: « Pace a voi! « .
20 Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
21 Gesù disse loro di nuovo: « Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi ».
22 Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: « Ricevete lo Spirito Santo;
23 a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi ».
24 Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù.
25 Gli dissero allora gli altri discepoli: « Abbiamo visto il Signore! « . Ma egli disse loro: « Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò ».
26 Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: « Pace a voi! « .
27 Poi disse a Tommaso: « Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente! « .
28 Rispose Tommaso: « Mio Signore e mio Dio! « .
29 Gesù gli disse: « Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno! « .
30 Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro.
31 Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

1. LEGGERE : capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
Il testo ci trasmette la cronaca di due incontri del Risuscitato coi suoi discepoli; benché localizzati ambedue a Gerusalemme, non succedono lo stesso giorno né hanno identico obiettivo. In primo luogo il (Gv 20,19-23) ciò che accade all’imbrunire del giorno di Pasqua, segue lo schema dei racconti delle apparizioni: presentazione inaspettata di Gesù, gioioso riconoscimento e missione universale; il secondo (Gv 20,24-29), una settimana dopo, elabora un motivo ricorrente, quello dell’incapacità di credere nella resurrezione per chi non si sia imbattuto personalmente col Risuscitato. La comunità dei credenti e il credente individuale nacquero, allo stesso modo, da un incontro col Signore Gesù: quando questo si presenta al gruppo e, concorde, gli conferisce una missione universale, nasce la Chiesa; quando si fa conoscere da un discepolo e supera la sua incredulità, lo trasforma in credente.
Il primo racconto è, dunque, il ‘certificato di nascita’ della comunità cristiana: il Risuscitato conferisce il suo potere, lo Spirito, e la sua missione, il perdono dei peccati, al gruppo di discepoli che sceglie come testimoni. Il secondo racconto, invece, drammatizza il cammino individuale per arrivare alla fede nella resurrezione: di chi, non valendosi dell’esperienza dei suoi colleghi, dovette vedere e toccare il Risuscitato; meglio gli sarebbe stato credere senza un altro appoggio che la predicazione apostolica.
Il primo racconto, benché ridotto all’essenziale, è più importante. Gesù Risuscitato incontra il gruppo dei discepoli, rinchiusi in casa e pieni di paura. La morte di Gesù ha riempito di angoscia l’esistenza dei suoi seguaci. Può percepirsi una chiara intenzione apologetica: uomini atterriti non sarebbero usciti coraggiosi predicatori se non avessero avuto un incontro reale con il Signore Gesù. La presenza inaspettata di Gesù in mezzo ad essi restituisce loro l’allegria. L’Inviato di Dio, restituito alla vita e tornato al Padre, incarica i suoi della sua propria missione e fa di loro i suoi inviati (Gv 20,21: come a me…, anche io). L’invio è un atto di investitura ed una prova di fiducia: il passaggio di compiti da Cristo ai cristiani fa di loro uomini nuovi, ricevono dal Risuscitato il suo alito vitale ed una missione che li ricrea. Che l’esperienza pasquale sia l’origine, e la ragione, della missione cristiana è una convinzione presente in tutta la tradizione evangelica (Mc 16,15-16; Mt 28,19-20; Lc 24,47; Atti 1,8). Tipico di Giovanni è contemplare la missione della chiesa come perdono universale del peccato: la comunità cristiana è l’unico posto nel mondo dove ormai non ha futuro il peccato.
Il secondo episodio, più sviluppato, descrive come si deve arrivare, personalmente, alla fede nella risurrezione. Giovanni ha voluto così mostrare che non fu la testimonianza dei discepoli (Gv 20,25) bensì il Risuscitato in persona che guidò i suoi testimoni alla fede in Lui e, contemporaneamente, che non sarà necessario un suo intervento speciale affinché credano quelli che verranno dopo; a questi deve bastare la testimonianza apostolica. Tommaso, uno dei dodici (Gv 11,6; 14,5) personifica l’incapacità dei primi discepoli ad accettare il fatto della resurrezione di Gesù; contemporaneamente, fa vedere la difficoltà di quella seconda generazione cristiana che dovrà credere senza constatare; in realtà, Tommaso non stava con essi quando venne Gesù (Gv 20,24). La sua insistenza di toccare e vedere, palpare per identificare e credere (Gv 20,25; 4,48. Lc 24,37) ha a che vedere con la sua forma di concepire la resurrezione finale dei corpi: non vede impossibile la resurrezione, ma mette condizioni per accettarla. In realtà, Tommaso non chiedeva più di quello che Gesù concedette agli altri (Gv 20,20; 20,18.25). Ma una cosa è che glielo concede, un’altra è che lo esiga. E benché Gesù gli dia quello che chiedeva per credere (Gv 20,27) non gli fa concessione alcuna nella sua risposta: i credenti, quanto più lontani sono dagli eventi pasquali, tanto maggiore opportunità avranno di essere credenti felici. Agli attuali uditori del vangelo va diretta quell’avvertenza e quella promessa: è possibile credere senza toccare tutte le prove; solo questa fede è capace di farci felici.

2 – MEDITARE : Applicare quello che dice il testo alla vita
Giovanni ricorda quello che è successo all’imbrunire di quel primo giorno, quando Gesù, appena Risuscitato, dovette tirare fuori i suoi discepoli dalle paure e dai dubbi e riuscì a convincerli che era realmente vivo. Quel giorno nacque il cristianesimo: ricordare oggi le nostre origini, il momento della fondazione della nostra fede e della nostra vita comune, deve portarci a recuperare la missione che, come cristiani, nascemmo al mondo. Due sono, specialmente, i compiti missionari che furono dati a quanti quel giorno seppero che Gesù era vivo. Riprenderli come proprie, alla distanza di due mila anni, è sicuro che ci farà ritrovare col Risuscitato, l’esperienza che sta alla base della nostra fede cristiana. Questa è la nostra opportunità.
I primi discepoli stavano rinchiusi nelle loro paure e nelle loro case, benché Gesù fosse già risuscitato, la paura degli ebrei li obbligò a riunirsi e condividere l’incertezza: allarmati ancora per quanto era successo a Gesù, non potevano immaginarsi che Dio fosse già intervenuto a suo favore. E Gesù dovette presentarsi riempito di vita e dare un compito: li inviò al mondo col suo Spirito come viatico ed il perdono dei peccati come missione. Strana missione per chi sfuggiva il mondo e non nascondeva le paure! Se il vedere di nuovo il compianto Signore li riempì di allegria, fu il dono del suo Spirito ed il mandato di perdonare che li liberò dalle loro paure e cambiò la loro vita: Gesù alitò e creò in essi nuove possibilità; uomini incapaci ad uscire in strada per paura di morire come il loro Signore si trasformarono in coraggiosi testimoni della sua resurrezione. Per aver accettato la missione di perdonare il mondo che prima temevano tanto, ottennero in proprietà lo Spirito di Gesù Risuscitato: risuscitarono anche essi quel giorno per perdonare il mondo!
Non ci sentiamo specchiati in quei discepoli che preferivano vivere attanagliati per le paure, evitando di trovarsi con l’ostilità dell’ambiente, e che, per la stessa cosa, correvano il rischio di non trovarsi col Signore Risuscitato e perdevano l’opportunità di recuperare l’allegria? Rischiamo di assomigliare a quei primi discepoli, rischiando, come siamo, a perdere l’entusiasmo ed il godimento di essere cristiani: Cristo vive, – è risuscitato!-, ed i cristiani viviamo per confessarlo, senza paure né complessi. Non si può non sapere che Cristo è resuscitato e continuare a vivere come se fosse ancora morto; se realmente ci crediamo che Gesù vive non abbiamo diritto a tacere, rinchiudendoci nelle nostre case e fuggendo la testimonianza: tacendo la nostra esperienza, condanniamo all’anonimato Gesù e rubiamo al mondo il perdono di Dio.
Possiamo rendere inutile la resurrezione di Gesù, se diamo per morto colui il quale è vivo, occultando la nostra fede e nascondendo la nostra vita cristiana. Sapere che Egli vive per sempre è la maggiore allegria per chi lo credeva assente e morto. Se siamo certi di ciò non ci scoraggiamo per l’ostilità dell’ambiente o l’apparente assenza del Signore; sappiamo che contiamo sullo spirito del Risuscitato e possiamo affrontare chi ci sottovaluta per la nostra fede.
E non solo quello: i testimoni del Risuscitato si sanno inviati in quel mondo ostile col preciso compito di perdonarlo. Precisamente perché Gesù, restituito ad una vita senza fine, ha vinto la morte ed il peccato, l’odio e la divisione, i suoi testimoni non possono ridursi a proclamarlo a parole, dovranno portare fatti nuovi; e nient’altro che rinnovatori, nient’altro che vivificanti, nient’altro che divino se non l’offerta universale di perdono. Il cristiano che non può perdonare non è testimone credente della resurrezione; non importano i mali che gli abbia causato il mondo, perché non dipende dal male sofferto la sua capacità di perdonare, bensì dal mandato di Gesù e del dono del suo Spirito.
Il perdono che riusciamo a concedere, la pace che instauriamo, saranno la migliore dimostrazione della resurrezione di Gesù. Perché se di qualcosa ha bisogno il nostro mondo, la società ed il cuore, è quella di vivere riconciliato, pacificato interiormente, guarito in profondità. E solo il cristiano, sicuro come è che Cristo vive, sa che conta sul potere ed il dovere di perdonare gli altri. Se oggi i cristiani non prendiamo sul serio la missione di Gesù Risuscitato, perderemo non solo il suo Spirito ma anche la nostra ragione di essere nel mondo.
Invano Gesù è resuscitato, se dove esiste un cristiano non c’è più una ragione per la pace tra gli uomini, un passo in più verso la riconciliazione, un’offerta rinnovata di perdono. Forse ci sta accadendo come Tommaso che non poteva credere che Gesù era vivo perché egli non l’aveva visto personalmente. Sicuro che ci è simpatico questo apostolo che voleva toccare con le mani per potere credere col cuore! La sua incredulità che ci risulta tanto familiare, si imbatté, non lo dimentichiamo, con « il Rimprovero » di Gesù. E ciò nonostante, dopo avere espresso una delle formule migliori di fede, tanto bella come sincera: ‘Signore mio e Dio mio’. Non gli mancò tempo a Gesù per replicare che è meglio credere senza vedere, che confessare dopo essersi accertato.
Per essere testimoni di Gesù nel mondo, per sapersi suoi inviati col perdono, non è importante, dunque, averlo visto, bensì saperlo vivo: creare pace e riconciliazione, è il modo efficace di credere nella resurrezione di Cristo. Sentiremo vivo Gesù senza necessità di palpare il suo corpo risuscitato, sentiremo nel nostro cuore il suo alito vitale, se viviamo del perdono ricevuto e dare vita ad ogni progetto di riconciliazione tra gli uomini. Il cristiano che ha occupate le sue mani nel perdonare non deve palpare il suo Signore Risuscitato: vive del suo Spirito e della sua missione. Non deve avere di più per credere meglio. Felici noi se, perché sappiamo che Cristo vive, viviamo in pace con noi stessi e pacificando il mondo!.

3 – PREGARE : Prega il testo e desidera la volontà di Dio: cosa dico a Dio?
Presentandoti risuscitato ai tuoi discepoli, Signore, hai dato loro la pace ed il tuo spirito, e li inviasti al mondo. Da questo incontro nacque la tua chiesa ed il mondo ebbe chi lo perdonava. Incontrati con noi di nuovo, Signore, che il mondo continui ad aver bisogno del tuo perdono e noi dell’allegria di saperti vivo. Incontrati con noi di nuovo, Signore, che ti seguiamo rinchiusi nelle nostre paure e nel nostro silenzio: riempici del tuo spirito ed ordinaci di perdonare. Oggi il mondo ha tanto bisogno di perdono e pace, come la tua chiesa del tuo Spirito.
Continuiamo a volere, come Tommaso un giorno, toccare per fidarci di te, vederti vivo per saperti risuscitato. Lasciami che mi afferri a te per non soccombere sotto il peso dei miei dubbi. Toccami il cuore e fammi credente. Non permettere che smetta di vivere in comunità di apostoli, benché sia catturato dalle mie paure, affinché in qualunque situazione mi trovi, tu mi riempi di pace e del tuo Spirito. E se non ci sono quando tu vieni, ritorna e recuperami, mio Signore e mio Dio.

JUAN JOSE BARTOLOME sdb

I discepoli di Emmaus

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Publié dans:immagini sacre |on 24 avril, 2014 |Pas de commentaires »

SAN MARCO EVANGELISTA – 25 APRILE

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SAN MARCO EVANGELISTA

25 APRILE

SEC. I

Ebreo di origine, nacque probabilmente fuori della Palestina, da famiglia benestante. San Pietro, che lo chiama «figlio mio», lo ebbe certamente con sè nei viaggi missionari in Oriente e a Roma, dove avrebbe scritto il Vangelo. Oltre alla familiarità con san Pietro, Marco può vantare una lunga comunità di vita con l’apostolo Paolo, che incontrò nel 44, quando Paolo e Barnaba portarono a Gerusalemme la colletta della comunità di Antiochia. Al ritorno, Barnaba portò con sè il giovane nipote Marco, che più tardi si troverà al fianco di san Paolo a Roma. Nel 66 san Paolo ci dà l’ultima informazione su Marco, scrivendo dalla prigione romana a Timoteo: «Porta con te Marco. Posso bene aver bisogno dei suoi servizi». L’evangelista probabilmente morì nel 68, di morte naturale, secondo una relazione, o secondo un’altra come martire, ad Alessandria d’Egitto. Gli Atti di Marco (IV secolo) riferiscono che il 24 aprile venne trascinato dai pagani per le vie di Alessandria legato con funi al collo. Gettato in carcere, il giorno dopo subì lo stesso atroce tormento e soccombette. Il suo corpo, dato alle fiamme, venne sottratto alla distruzione dai fedeli. Secondo una leggenda due mercanti veneziani avrebbero portato il corpo nell’828 nella città della Venezia. (Avvenire)

Patronato: Segretarie
Etimologia: Marco = nato in marzo, sacro a Marte, dal latino

Emblema: Leone
Martirologio Romano: Festa di san Marco, Evangelista, che a Gerusalemme dapprima accompagnò san Paolo nel suo apostolato, poi seguì i passi di san Pietro, che lo chiamò figlio; si tramanda che a Roma abbia raccolto nel Vangelo da lui scritto le catechesi dell’Apostolo e che abbia fondato la Chiesa di Alessandria.
La figura dell’evangelista Marco, è conosciuta soltanto da quanto riferiscono gli Atti degli Apostoli e alcune lettere di s. Pietro e s. Paolo; non fu certamente un discepolo del Signore e probabilmente non lo conobbe neppure, anche se qualche studioso lo identifica con il ragazzo, che secondo il Vangelo di Marco, seguì Gesù dopo l’arresto nell’orto del Getsemani, avvolto in un lenzuolo; i soldati cercarono di afferrarlo ed egli sfuggì nudo, lasciando il lenzuolo nelle loro mani.
Quel ragazzo era Marco, figlio della vedova benestante Maria, che metteva a disposizione del Maestro la sua casa in Gerusalemme e l’annesso orto degli ulivi.
Nella grande sala della loro casa, fu consumata l’Ultima Cena e lì si radunavano gli apostoli dopo la Passione e fino alla Pentecoste. Quello che è certo è che fu uno dei primi battezzati da Pietro, che frequentava assiduamente la sua casa e infatti Pietro lo chiamava in senso spirituale “mio figlio”.

Discepolo degli Apostoli e martirio
Nel 44 quando Paolo e Barnaba, parente del giovane, ritornarono a Gerusalemme da Antiochia, dove erano stati mandati dagli Apostoli, furono ospiti in quella casa; Marco il cui vero nome era Giovanni usato per i suoi connazionali ebrei, mentre il nome Marco lo era per presentarsi nel mondo greco-romano, ascoltava i racconti di Paolo e Barnaba sulla diffusione del Vangelo ad Antiochia e quando questi vollero ritornarci, li accompagnò.
Fu con loro nel primo viaggio apostolico fino a Cipro, ma quando questi decisero di raggiungere Antiochia, attraverso una regione inospitale e paludosa sulle montagnae del Tauro, Giovanni Marco rinunciò spaventato dalle difficoltà e se ne tornò a Gerusalemme.
Cinque anni dopo, nel 49, Paolo e Barnaba ritornarono a Gerusalemme per difendere i Gentili convertiti, ai quali i giudei cristiani volevano imporre la legge mosaica, per poter ricevere il battesimo.
Ancora ospitati dalla vedova Maria, rividero Marco, che desideroso di rifarsi della figuraccia, volle seguirli di nuovo ad Antiochia; quando i due prepararono un nuovo viaggio apostolico, Paolo non fidandosi, non lo volle con sé e scelse un altro discepolo, Sila e si recò in Asia Minore, mentre Barnaba si spostò a Cipro con Marco.
In seguito il giovane deve aver conquistato la fiducia degli apostoli, perché nel 60, nella sua prima lettera da Roma, Pietro salutando i cristiani dell’Asia Minore, invia anche i saluti di Marco; egli divenne anche fedele collaboratore di Paolo e non esitò di seguirlo a Roma, dove nel 61 risulta che Paolo era prigioniero in attesa di giudizio, l’apostolo parlò di lui, inviando i suoi saluti e quelli di “Marco, il nipote di Barnaba” ai Colossesi; e a Timoteo chiese nella sua seconda lettera da Roma, di raggiungerlo portando con sé Marco “perché mi sarà utile per il ministero”.
Forse Marco giunse in tempo per assistere al martirio di Paolo, ma certamente rimase nella capitale dei Cesari, al servizio di Pietro, anch’egli presente a Roma. Durante gli anni trascorsi accanto al Principe degli Apostoli, Marco trascrisse, secondo la tradizione, la narrazione evangelica di Pietro, senza elaborarla o adattarla a uno schema personale, cosicché il suo Vangelo ha la scioltezza, la vivacità e anche la rudezza di un racconto popolare.
Affermatosi solidamente la comunità cristiana di Roma, Pietro inviò in un primo momento il suo discepolo e segretario, ad evangelizzare l’Italia settentrionale; ad Aquileia Marco convertì Ermagora, diventato poi primo vescovo della città e dopo averlo lasciato, s’imbarcò e fu sorpreso da una tempesta, approdando sulle isole Rialtine (primo nucleo della futura Venezia), dove si addormentò e sognò un angelo che lo salutò: “Pax tibi Marce evangelista meus” e gli promise che in quelle isole avrebbe dormito in attesa dell’ultimo giorno.
Secondo un’antichissima tradizione, Pietro lo mandò poi ad evangelizzare Alessandria d’Egitto, qui Marco fondò la Chiesa locale diventandone il primo vescovo.
Nella zona di Alessandria subì il martirio, sotto l’imperatore Traiano (53-117); fu torturato, legato con funi e trascinato per le vie del villaggio di Bucoli, luogo pieno di rocce e asperità; lacerato dalle pietre, il suo corpo era tutta una ferita sanguinante.
Dopo una notte in carcere, dove venne confortato da un angelo, Marco fu trascinato di nuovo per le strade, finché morì un 25 aprile verso l’anno 72, secondo gli “Atti di Marco” all’età di 57 anni; ebrei e pagani volevano bruciarne il corpo, ma un violento uragano li fece disperdere, permettendo così ad alcuni cristiani, di recuperare il corpo e seppellirlo a Bucoli in una grotta; da lì nel V secolo fu traslato nella zona del Canopo.

Il Vangelo
Il Vangelo scritto da Marco, considerato dalla maggioranza degli studiosi come “lo stenografo” di Pietro, va posto cronologicamente tra quello di s. Matteo (scritto verso il 40) e quello di s. Luca (scritto verso il 62); esso fu scritto tra il 50 e il 60, nel periodo in cui Marco si trovava a Roma accanto a Pietro.
È stato così descritto: “Marco come fu collaboratore di Pietro nella predicazione del Vangelo, così ne fu pure l’interprete e il portavoce autorizzato nella stesura del medesimo e ci ha per mezzo di esso, trasmesso la catechesi del Principe degli Apostoli, tale quale egli la predicava ai primi cristiani, specialmente nella Chiesa di Roma”.
Il racconto evangelico di Marco, scritto con vivacità e scioltezza in ognuno dei sedici capitoli che lo compongono, seguono uno schema altrettanto semplice; la predicazione del Battista, il ministero di Gesù in Galilea, il cammino verso Gerusalemme e l’ingresso solenne nella città, la Passione, Morte e Resurrezione.
Tema del suo annunzio è la proclamazione di Gesù come Figlio di Dio, rivelato dal Padre, riconosciuto perfino dai demoni, rifiutato e contraddetto dalle folle, dai capi, dai discepoli. Momento culminante del suo Vangelo, è la professione del centurione romano pagano ai piedi di Gesù crocifisso: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio”, è la piena definizione della realtà di Gesù e la meta cui deve giungere anche il discepolo.

Le vicende delle sue reliquie – Patrono di Venezia
La chiesa costruita al Canopo di Alessandria, che custodiva le sue reliquie, fu incendiata nel 644 dagli arabi e ricostruita in seguito dai patriarchi di Alessandria, Agatone (662-680), e Giovanni di Samanhud (680-689).
E in questo luogo nell’828, approdarono i due mercanti veneziani Buono da Malamocco e Rustico da Torcello, che s’impadronirono delle reliquie dell’Evangelista minacciate dagli arabi, trasferendole a Venezia, dove giunsero il 31 gennaio 828, superando il controllo degli arabi, una tempesta e l’arenarsi su una secca.
Le reliquie furono accolte con grande onore dal doge Giustiniano Partecipazio, figlio e successore del primo doge delle Isole di Rialto, Agnello; e riposte provvisoriamente in una piccola cappella, luogo oggi identificato dove si trova il tesoro di San Marco.
Iniziò la costruzione di una basilica, che fu portata a termine nell’832 dal fratello Giovanni suo successore; Dante nel suo memorabile poema scrisse. “Cielo e mare vi posero mano”, ed effettivamente la Basilica di San Marco è un prodigio di marmi e d’oro al confine dell’arte.
Ma la splendida Basilica ebbe pure i suoi guai, essa andò distrutta una prima volta da un incendio nel 976, provocato dal popolo in rivolta contro il doge Candiano IV (959-976) che lì si era rifugiato insieme al figlio; in quell’occasione fu distrutto anche il vicino Palazzo Ducale.
Nel 976-978, il doge Pietro Orseolo I il Santo, ristrutturò a sue spese sia il Palazzo che la Basilica; l’attuale ‘Terza San Marco’ fu iniziata invece nel 1063, per volontà del doge Domenico I Contarini e completata nei mosaici e marmi dal doge suo successore, Domenico Selvo (1071-1084).
La Basilica fu consacrata nel 1094, quando era doge Vitale Falier; ma già nel 1071 s. Marco fu scelto come titolare della Basilica e Patrono principale della Serenissima, al posto di s. Teodoro, che fino all’XI secolo era il patrono e l’unico santo militare venerato dappertutto.
Le due colonne monolitiche poste tra il molo e la piazzetta, portano sulla sommità rispettivamente l’alato Leone di S. Marco e il santo guerriero Teodoro, che uccide un drago simile ad un coccodrillo.
La cerimonia della dedicazione e consacrazione della Basilica, avvenuta il 25 aprile 1094, fu preceduta da un triduo di penitenza, digiuno e preghiere, per ottenere il ritrovamento delle reliquie dell’Evangelista, delle quali non si conosceva più l’ubicazione.
Dopo la Messa celebrata dal vescovo, si spezzò il marmo di rivestimento di un pilastro della navata destra, a lato dell’ambone e comparve la cassetta contenente le reliquie, mentre un profumo dolcissimo si spargeva per la Basilica.
Venezia restò indissolubilmente legata al suo Santo patrono, il cui simbolo di evangelista, il leone alato che artiglia un libro con la già citata scritta: “Pax tibi Marce evangelista meus”, divenne lo stemma della Serenissima, che per secoli fu posto in ogni angolo della città ed elevato in ogni luogo dove portò il suo dominio.
San Marco è patrono dei notai, degli scrivani, dei vetrai, dei pittori su vetro, degli ottici; la sua festa è il 25 aprile, data che ha fatto fiorire una quantità di detti e proverbi.

Autore: Antonio Borrelli

Publié dans:Santi Evangelisti |on 24 avril, 2014 |Pas de commentaires »

GESU’ IN CAMMINO CON I DISCEPOLI DI EMMAUS – Lc.24,13-35 (Vangelo di oggi)

http://www.adonaj.net/old/parabole/gesu_in_cammino.htm

GESU’ IN CAMMINO CON I DISCEPOLI DI EMMAUS – Lc.24,13-35 (Vangelo di oggi)

Il racconto, strutturato come parabola, relativo all’apparizione di Gesù ai discepoli in cammino verso Emmaus, esercita sempre un certo fascino anche in chi non sa cogliere le sfumature del linguaggio del Vangelo.
Non scordiamo, per comprendere appieno il senso di questa parte del Vangelo di Luca, che Gesù profeta riunisce attorno a sé, con l’efficacia del suo insegnamento e dei suoi prodigi, un gruppo di uomini, per lo più pescatori, associandoli al suo ministero di uomo-Dio. Un progetto di uomo nuovo, alla maniera di Gesù Cristo, è proposto proprio a loro che lo seguono verso Gerusalemme.
Nel Vangelo di Luca, il viaggio storico di Gesù diventa il cammino ideale, la “strada dei discepoli”, che seguono il loro maestro. E rappresenta anche il cammino ideale per ogni credente, proprio perché chi segue Gesù è una persona che ha fatto una scelta radicale, ben ponderata.
Tuttavia, può accadere che nell’arco del cammino possono succedere fatti imprevisti o cose che ci lasciano perplessi, o che nascano dubbi e amarezze.
I due discepoli lasciano Gerusalemme tristi e delusi per poi ritornarvi commossi, entusiasti, felici e colmi di speranza. Tra l’andare e il tornare c’è di mezzo l’incontro con il pellegrino sconosciuto che sta all’origine del loro mutamento. Noi tutti conosciamo la vera identità del pellegrino, e questo sapere ci crea un clima di attesa e di partecipazione emotiva alla vicenda dei due discepoli.
Nel volgere di una settimana a Gerusalemme è avvenuto di tutto. Gesù è stato accolto in maniera trionfante, acclamato come un re; ha trasmesso il comandamento dell’amore; durante la cena per festeggiare la Pasqua ha rivelato il valore del servizio con la lavanda dei piedi, ha garantito la sua presenza reale spezzando il pane e versando il vino; è stato arrestato; ha sopportato tradimenti e rinnegamenti; processato, ingiuriato, torturato, condannato a morte, trafitto su una croce, sepolto…Tutto è finito: sogni, idee, bisogni, certezze, amicizie, progetti, speranze e illusioni tessuti pazientemente durante l’arco di tre anni di sequela fedele a attenta. Tutto è definitivamente sigillato e oscurato dietro la gran pietra rotolata contro l’ingresso del sepolcro scavato nella roccia. Tutta la struttura di quello stupefacente periodo vissuto accanto al Maestro è crollata con la sua crocifissione.
In quello stesso giorno, quello della scoperta della tomba vuota, la domenica della resurrezione, due discepoli delusi e tristi, si mettono in cammino verso Emmaus, un villaggio distante da Gerusalemme una decina di chilometri, conversando di tutto quello che era accaduto. La loro decisione è di abbandonare e scordare la vicenda di Gesù, per dirigersi verso il definitivo ritorno alla realtà precedente, al quotidiano di ogni giorno.
Se non conoscessimo l’esito della vicenda è facile intuire le reazioni con gli altri: “Fate come volete…pazienza, è stato bello, è stato un sogno…andiamo…peggio per voi…siete adulti e vaccinati…insomma, arrangiatevi!”
Ma qualcuno non pensa così. Mentre conversano e discutono insieme, Gesù in persona si affianca e cammina con loro facendosi compagno di quella strada. Tuttavia i loro occhi sono incapaci di riconoscerlo.
E’ a quel punto che Gesù prende l’iniziativa e chiede loro: “Che sono questi discorsi che state facendo tra voi durante il cammino?”
Si fermano un istante, col volto triste; uno di loro, di nome Cleopa, gli dice: “Tu solo sei cos’ forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi accaduto in questi giorni?” Domandò, Gesù: “Che cosa?” Di fronte ad uno così non verrebbe voglia di rispondergli: “Ma scusa, dove vivi? Da dove vieni? Dove hai la testa? A causa della ferita che è forte nell’animo, anzi è talmente bruciante che li rode dentro, e avvertono la sensazione di essere stati ingannati, tanto che avvertono la necessità di sfogarsi. Gli risposero: “Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l’hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; nonostante tutto sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi di mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto”.
Mentre i discepoli parlano Gesù li ascolta facendo in modo che esprimano le proprie ansie, le proprie amarezze e angosce. L’iniziativa dell’incontro, dicevo, parte da Gesù. I discepoli non solo non fanno nulla perché l’incontro possa accadere, quasi accettano il viandante con indifferenza, a malincuore e frappongono l’ostacolo della delusione, della rinuncia a credere e a sperare. Gesù però dà rilievo alla libertà dei discepoli, che dapprima scoraggiata e rinunciataria, viene via via rigenerata e aperta alla speranza, alla fiducia nel disegno di Dio sulla storia dell’uomo.
E dice loro: “Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” E iniziando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: “Resta con noi perché si fa sera e il giorno volge già al declino”. Entrò per restare con loro. Nel momento in cui fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora fu come se si aprisse un sipario, lo riconobbero. Ma Gesù sparì dalla loro vista. Ed essi si dissero l’un l’altro: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?” (Lc.24,13-22).
Cari fratelli e sorelle in questo racconto possiamo cogliere quattro esperienze umane fondamentali (come afferma l’autorevole cardinale Carlo Maria Martini): il cammino, l’ospitalità, la frazione del pane, l’apertura degli occhi.
Il cammino: l’esperienza dell’itineranza, dell’andare verso un luogo. Luca parla spesso di Gesù come “colui che fa cammino”, cioè è in cammino. Anche il particolare quando Gesù pone la domanda, i due si fermano e poi riprendono a camminare, rivela che è data molta importanza a questa esperienza sotto la quale può essere vista la storia di ogni uomo. La vita umana è un dinamismo, va avanti, è protesa verso una direzione e Dio viene incontro all’uomo per accompagnarlo e per camminare con lui.
L’ospitalità: l’accoglienza è un altro simbolo centrale e antichissimo dell’uomo che supera l’istintivo timore del viandante che bussa alla porta. Nel racconto è espressa con parole meravigliose e amorevoli: “Resta con noi”, dicono i due a Gesù, non andartene, vogliamo stare insieme. La loro diffidenza iniziale verso lo sconosciuto si scioglie lentamente sino a diventare fraternità: vieni a casa mia, tu che sei mio ospite. Come abbiamo potuto cogliere dalla “Storia del popolo ebraico”, l’ospitalità è uno dei pilastri del costume, è il modo di essere uomini veri: saper accogliere chiunque, a qualunque ora, in qualunque tempo, senza mai irritarsi, preparando subito tutto con gioia, è un preciso dovere tramandatoci dalla Bibbia. Ed è un simbolo che ci interpella, che interpella gli abitanti delle nostre città che, vivendo magari nello stesso condominio, con gli appartamenti sulle stesse scale, si ignorano per anni senza avvertire il bisogno di salutarsi, di frequentarsi, di conoscersi, di accogliersi.
La frazione del pane: il gesto ha una sua simbologia umana e storica: “Mentre si sedevano con lui, prese del pane, lo benedisse, lo spezzò e lo diede loro”. La partecipazione del medesimo pane è più dell’ospitalità, è la condivisione della mensa che rende veramente fratelli, è come una cerimonia di alleanza, di amicizia: cioè metto in comune il pane che è un mio bene. Luca, con la frase, “spezzò il pane” ha in mente l’Eucaristia, vuole rilevare che Gesù, ormai Risorto e vivo, si dona ai due manifestandosi nella carità perfetta dell’Eucaristia. Ma la condivisione è, di fatto, un simbolo umano e per questo Gesù l’ha scelto come simbolo eucaristico, come segno del dono della sua vita all’uomo.
L’apertura degli occhi: siamo in opposizione al tema della chiusura degli occhi: “i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo”, cioè erano come accecati. Anche Maria di Magdala, in un primo momento, aveva scambiato Gesù per i custode del giardino. Come mai pur conoscendo bene il suo volto, pur essendo suoi fedeli discepoli, non capivano che era Gesù? Gli occhi di Maria erano chiusi dalle lacrime, dal dolore, dalla ricerca sbagliata; i due di Emmaus sono accecati dall’aver perso ogni speranza, dal non aver compreso le parole di Dio contenute nella Scrittura. A un tratto “si aprirono i loro occhi e lo riconobbero”.
Noi umani, immersi nell’ordinaria quotidianità, non vediamo le meraviglie dell’amore di Dio che ci circondano, non sappiamo leggere la Scrittura nella maniera giusta, temiamo che il Dio di Gesù, di cui sentiamo parlare, ci impedisca di essere felice, di vivere come intendiamo vivere limitandoci la libertà. Quando invece, nel nostro cammino di ricerca faticosa, apriamo gli occhi, per la grazia del Signore Risorto, è in quel momento che scopriamo con stupore e con gioia che Dio ci ama, ci è amico, ci è Padre, che Gesù ci è fratello, che la fede è la chiave della vita veramente umana.
I due discepoli conoscevano le Scritture, ma non ne avevano colto il significato più profondo. Gesù gliele spiega, spiega il mistero dell’uomo, della storia, degli avvenimenti, delle vicende ed ecco che il loro cuore arde: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto…quando ci spiegava le Scritture?”. Il fuoco che brucia produce scuotimento, sconvolgimento interno, emozione forte, inquietudine e tormento; è l’esperienza che nasce dall’ascolto vero della Parola di Dio. Ora hanno compreso che ogni pagina della Bibbia, dal primo all’ultimo Libro, contiene quella Parola vivente che è Gesù morto e risorto.
Ne consegue un insegnamento prezioso: è basilare conoscere la Scrittura per scoprire l’amore di Dio per l’uomo e la sua lunga storia d’amore per noi tutti che si è dispiegata nella storia della salvezza.
Conclusione: nell’insieme, l’apparizione di Gesù ai due discepoli ci rammenta che noi umani siamo esseri in cammino e bisognosi di significati; che in questo cammino siamo chiamati a riconoscere la Parola di Dio che ci incalza, ci interpella continuamente sulla direzione del nostro viaggio per spiegarcene il senso; che la libertà e la felicità di noi umani consiste nell’accogliere questa Parola, nel non rifiutarla, nell’aprire gli occhi e il cuore al disegno di Dio rivelatoci pienamente nel mistero del suo Figlio Gesù morto e risorto per noi, vivo e operante in mezzo a noi.
Amen,alleluia,amen.

The Resurrection from the Main Altar, Notre Dame Cathedral, Ottawa

The Resurrection from the Main Altar, Notre Dame Cathedral, Ottawa dans immagini sacre

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Publié dans:immagini sacre |on 23 avril, 2014 |Pas de commentaires »

GIOVANNI PAOLO II – (SALMO 26,7-14) (SALMO 31) (2004)

http://www.collevalenza.it/riviste/2004/Riv0604/Riv0604_02.htm

GIOVANNI PAOLO II – 28 APRILE E 19 MAGGIO 2004

«ABBI PIETÀ DI ME! RISPONDIMI»

PREGHIERA DELL’INNOCENTE PERSEGUITATO (SALMO 26,7-14)

«MEA CULPA» PRIMO PASSO SUL CAMMINO DEL PERDONO (SALMO 31)

1. La seconda parte di questo canto di fiducia si leva al Signore nel giorno tenebroso dell’assalto del male. Sono i versetti 7-14 del Salmo: essi cominciano con un grido lanciato verso il Signore: “Abbi pietà di me! Rispondimi” (v. 7), poi esprimono una intensa ricerca del Signore, con il timore doloroso di essere abbandonato da lui (cfr vv. 8-9), infine dipingono davanti ai nostri occhi un orizzonte drammatico ove gli stessi affetti familiari vengono meno (cfr v. 10) mentre vi si muovono “nemici” (v. 11), “avversari” e “falsi testimoni” (v. 12).
Ma anche ora, come nella prima parte del Salmo, l’elemento decisivo è la fiducia dell’orante nel Signore, che salva nella prova e sostiene durante la bufera. Bellissimo, al riguardo, è l’appello che in finale il Salmista rivolge a se stesso: “Spera nel Signore, sii forte, si rinfranchi il tuo cuore e spera nel Signore” (v. 14; cfr Sal 41,6.12 e 42,5).
Anche in altri Salmi era viva la certezza che dal Signore si ottiene fortezza e speranza: “Il Signore protegge i suoi fedeli e ripaga oltre misura l’orgoglioso. Siate forti, riprendete coraggio, o voi tutti che sperate nel Signore” (Sal 30,24-25). E già il profeta Osea esorta così Israele: “Osserva la bontà e la giustizia e nel tuo Dio poni la tua speranza, sempre” (Os 12,7).
2. Ora ci contentiamo di mettere in luce tre elementi simbolici di grande intensità spirituale. Il primo è quello negativo dell’incubo dei nemici (cfr Sal 26,12). Essi sono tratteggiati come una belva che “brama” la sua preda e poi, in modo più diretto, come “falsi testimoni” che sembrano soffiare dalle loro narici violenza, proprio come le fiere davanti alle loro vittime.
C’è, dunque, nel mondo un male aggressivo, che ha in Satana la guida e l’ispiratore, come ricorda san Pietro: “Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare” (1Pt 5,8).
3. La seconda immagine illustra in modo chiaro la fiducia serena del fedele, nonostante l’abbandono perfino da parte dei genitori: “Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto” (Sal 26,10).
Anche nella solitudine e nella perdita degli affetti più cari, l’orante non è mai totalmente solo perché su di lui si china Dio misericordioso. Il pensiero corre a un celebre passo del profeta Isaia, che assegna a Dio sentimenti di compassione e di tenerezza più che materna: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio del suo seno? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai!” (Is 49,15).
A tutte le persone anziane, malate, dimenticate da tutti, alle quali nessuno farà mai una carezza, ricordiamo queste parole del Salmista e del profeta, perché sentano la mano paterna e materna del Signore toccare silenziosamente e con amore i loro volti sofferenti e forse rigati dalle lacrime.
4. Giungiamo, così, al terzo e ultimo simbolo, reiterato più volte dal Salmo: “Cercate il suo volto; il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto” (vv. 8-9). È, dunque, il volto di Dio la meta della ricerca spirituale dell’orante. In finale emerge una certezza indiscussa, quella di poter “contemplare la bontà del Signore” (v. 13).
Nel linguaggio dei Salmi “cercare il volto del Signore” è spesso sinonimo dell’ingresso nel tempio per celebrare e sperimentare la comunione col Dio di Sion. Ma l’espressione comprende anche l’esigenza mistica dell’intimità divina mediante la preghiera. Nella liturgia, dunque, e nell’orazione personale ci è concessa la grazia di intuire quel volto che non potremo mai direttamente vedere durante la nostra esistenza terrena (cfr Es 33,20). Ma Cristo ha rivelato a noi, in una forma accessibile, il volto divino e ha promesso che nell’incontro definitivo dell’eternità – come ci ricorda san Giovanni – “noi lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,2). E san Paolo aggiunge: “Allora vedremo a faccia a faccia” (1Cor 13,12).
5. Commentando questo Salmo, il grande scrittore cristiano del terzo secolo Origene, così annota: “Se un uomo cercherà il volto del Signore, vedrà la gloria del Signore in modo svelato e, divenuto uguale agli angeli, vedrà sempre il volto del Padre che è nei cieli” (PG 12, 1281). E sant’Agostino, nel suo commento ai Salmi, così continua la preghiera del Salmista: “Non ho cercato da te qualche premio che sia all’infuori di te, ma il tuo volto. « Il tuo volto, Signore, ricercherò ». Con perseveranza insisterò in questa ricerca; non cercherò infatti qualcosa di poco conto, ma il tuo volto, o Signore, per amarti gratuitamente, dato che non trovo niente di più prezioso… « Non ti allontanare adirato dal tuo servo », affinché cercando te, non mi imbatta in qualcos’altro. Quale pena può esser più grave di questa per chi ama e cerca la verità del tuo volto?” (Esposizioni sui Salmi, 26,1, 8-9, Roma 1967, pp. 355-357).

«Mea culpa»
primo passo sul cammino del perdono (Salmo 31)
1. “Beato l’uomo a cui è rimessa la colpa, e perdonato il peccato!”. Questa beatitudine, che apre il Salmo 31 appena proclamato, ci fa subito comprendere perché esso è stato accolto dalla tradizione cristiana nella serie dei sette salmi penitenziali. Dopo la duplice beatitudine iniziale (cfr vv. 1-2), troviamo non una generica riflessione sul peccato e sul perdono, ma la testimonianza personale di un convertito.
La composizione del salmo è piuttosto complessa: dopo la testimonianza personale (cfr vv. 3-5) vengono due versetti che parlano di pericolo, di preghiera e di salvezza (cfr vv. 6-7), poi una promessa divina di consiglio (cfr v. 8) e un ammonimento (cfr v. 9), infine un detto sapienziale antitetico (cfr v. 10) e un invito a gioire nel Signore (cfr v. 11).
2. Riprendiamo ora soltanto alcuni elementi di questa composizione. Innanzitutto l’orante descrive la sua penosissima situazione di coscienza quando “taceva” (cfr v. 3): avendo commesso gravi colpe, egli non aveva il coraggio di confessare a Dio i suoi peccati. Era un tormento interiore terribile, descritto con immagini impressionanti. Le ossa gli si consumavano quasi sotto una febbre dissecante, l’arsura attanagliava il suo vigore dissolvendolo, il suo gemito era ininterrotto. Il peccatore sentiva pesare su di sé la mano di Dio, consapevole come era che Dio non è indifferente al male perpetrato dalla sua creatura, perché Egli è il custode della giustizia e della verità.
3. Non potendo più resistere, il peccatore ha deciso di confessare la sua colpa con una dichiarazione coraggiosa, che sembra anticipare quella del figlio prodigo della parabola di Gesù (cfr Lc 15,18). Ha detto, infatti, con la sincerità del cuore: “Confesserò al Signore le mie colpe”. Sono poche parole, ma che nascono dalla coscienza; Dio vi risponde subito con un generoso perdono (cfr Sal 31,5).
Il profeta Geremia riferiva questo appello di Dio: “Ritorna, Israele ribelle, dice il Signore. Non ti mostrerò la faccia sdegnata, perché io sono pietoso, dice il Signore. Non conserverò l’ira per sempre. Su, riconosci la tua colpa, perché sei stata infedele al Signore tuo Dio” (3,12-13).
Si schiude così davanti ad “ogni fedele” pentito e perdonato un orizzonte di sicurezza, di fiducia, di pace, nonostante le prove della vita (cfr Sal 31,6-7). Può giungere ancora il tempo dell’angoscia ma la marea avanzante della paura non prevarrà, perché il Signore condurrà il suo fedele in un luogo sicuro: “Tu sei il mio rifugio, mi preservi dal pericolo, mi circondi di esultanza per la salvezza” (v. 7).
4. A questo punto, prende la parola il Signore, per promettere di guidare ormai il peccatore convertito. Non basta, infatti, essere stati purificati; bisogna poi camminare sulla giusta via. Perciò, come nel Libro di Isaia (cfr Is 30,21), il Signore promette: “T’indicherò la via da seguire” (Sal 31,8) ed invita alla docilità. L’appello si fa premuroso, venato di un po’ di ironia con il vivace paragone del mulo e del cavallo, simboli di ostinazione (cfr v. 9). La vera sapienza, infatti, induce alla conversione, lasciando alle spalle il vizio e il suo oscuro potere di attrazione. Ma soprattutto conduce al godimento di quella pace che scaturisce dall’essere liberati e perdonati.
San Paolo nella Lettera ai Romani si riferisce esplicitamente all’inizio del nostro salmo per celebrare la grazia liberatrice di Cristo (cfr Rm 4,6-8). Noi potremmo applicarlo al sacramento della riconciliazione. In esso, alla luce del salmo, si sperimenta la coscienza del peccato, spesso offuscata ai nostri giorni, e insieme la gioia del perdono. Al binomio “delitto-castigo” si sostituisce il binomio “delitto-perdono”, perché il Signore è un Dio “che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato” (Es 34,7).
5. San Cirillo di Gerusalemme (IV sec.) userà il Salmo 31 per insegnare ai catecumeni il profondo rinnovamento del battesimo, radicale purificazione da ogni peccato (Procatechesi n. 15). Anch’egli esalterà, attraverso le parole del salmi sta, la misericordia divina. Con le sue parole concludiamo la nostra catechesi: “Dio è misericordioso e non lesina il suo perdono… Non supererà la grandezza della misericordia di Dio il cumulo dei tuoi peccati: non supererà la destrezza del sommo Medico la gravità delle tue ferite: purché a lui ti abbandoni con fiducia. Manifesta al Medico il tuo male, e parlagli con le parole che disse Davide: « Ecco, confesserò al Signore l’iniquità che mi sta sempre dinanzi ». Così otterrai che si avverino le altre: « Tu hai rimesse le empietà del mio cuore »” (Le catechesi, Roma 1993, pp. 52-53).

IL CANTO DELLA SPERANZA

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IL CANTO DELLA SPERANZA

di Don Giuseppe Liberto

Il cuore che spera già possiede il non ancora della pienezza d’amore che attende. Alla fine del libro dell’Apocalisse lo sposo promette: Sì, vengo presto! La sposa gli risponde: Vieni, Signore Gesù! (22,20). Questo grido invocativo riprende un canto aramaico della Chiesa dei primi secoli che attendava impaziente la parusia: Maranà tha!
Il canto della speranza sgorga dalla pienezza del cuore che crede e dalla forza della fede vissuta. L’uomo senza speranza fa soltanto spettacolo di una fede vacua, apparente e coreografica. Il canto della fede che spera è espressione viva di entusiasmo interiore che incendia il cuore e dà voce alla profezia e alla lode, al rendimento di grazie e allo stupore, alla gioia e alla contemplazione, alla supplica e al pentimento. E’ questa l’esperienza dell’uomo biblico, creatura sempre entusiasta: dal canto di gioia di Adamo, all’Amen dei redenti nell’Apocalisse; dall’appassionata difesa di Dio da parte di Mosè e dei profeti, al Magnificat di Maria e all’ebbrezza della Chiesa a Pentecoste. Si tratta di un canto ora di chi si trova direttamente coinvolto nell’azione di Dio, ora di chi desidera farne memoria viva. Questo canto non è finalizzato a creare una qualche atmosfera coreografica e superficiale ma è inno che, mentre celebra nell’entusiasmo della fede le meraviglie di Dio, allo stesso tempo le fa conoscere agli altri uomini come speranza realizzata.
Se gli ebrei, seduti lungo i fiumi di Babilonia, piangendo, appendono le loro cetre ai salici amari e si rifiutano di cantare, è perché la drammatica esperienza dell’esilio li ha allontanati da quella patria in cui soltanto potevano fare esperienza del loro Dio. Al contrario, Maria di Nazareth, Elisabetta, Zaccaria, Simeone, Anna, esplodono nel grido di gioia e di lode perché sperimentano le ragioni della speranza compiuta nella propria vita.
Il canto della speranza, come tensione e attesa, è slancio verso il futuro che trasfigura il presente. E’ aurora dell’atteso nuovo giorno che tutto illumina con la sua luce. La speranza è necessaria poiché l’uomo è veramente se stesso solo quando è aperto verso il domani. La speranza non si esaurisce dentro il destino individuale dell’uomo ma avvolge e coinvolge il cammino dell’umanità verso il futuro.
La speranza cristiana, scrive Paolo a Timoteo, è attesa di un orizzonte di felicità che coinvolge tutti gli uomini e che Dio stesso ha promesso. Dio, infatti, vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità (1Tim 2.4). La fede garantisce la realtà del futuro promesso perché, attraverso di esso, l’uomo pone la sua fiducia in Dio da cui ogni futuro dipende: La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono (Eb 11,1). Fede non è soltanto slancio verso l’avvenire ma anche anticipazione e pregustazione della realtà che si attendono. La fede attira dentro il presente, il futuro, così che quest’ultimo non è più il puro “non ancora”. Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura e così le cose future si riversano in quelle presente e le presenti in quelle future (Spe salvi n. 7).
Se la fede ha la priorità nella declinazione della vita teologale, la speranza ha il primato esistenziale nella vita del cristiano: senza la fede, la speranza si riduce a mera utopia; senza la speranza, la fede è morta ed è incapace di tradursi in vita concreta. La fede, infatti, vede ciò che è, la speranza intuisce ciò che sarà, l’amore ama e armonizza ciò che è e ciò che sarà. In tal senso la speranza è forza liberante che spinge in avanti l’arduo cammino faticoso della storia.
L’uomo che vive di speranza impara a stupirsi dinanzi alle sorprese di Dio che quotidianamente entra nella trama delle vicende umane. La speranza è stupore dell’uomo di fronte alle meraviglie che Dio opera nella storia. Stupore che esplode in pienezza di canto che sgorga dall’entusiasmo del cuore. Canta chi percepisce di essere inserito nell’azione salvifica di Dio e nella luce delle sue epifanie. Il canto del credente non è gesto di vuota spensieratezza, di superficiale ilarità o di puro estetismo che talvolta degenerano in pericolosa idolatria, esso è espressione di un cuore colmo di stupore e di gratitudine per le rivelazioni d’amore con cui Dio crea e redime.
I cristiani cantano perché Cristo risorto e glorioso vive in loro e li salva; cantano, sia che si trovino nella gioia sia che soffrano nel pianto; cantano perché il cuore è ricolmo di fiducia e di speranza. Lì dove il canto muore, cedendo il posto al mutismo, lì muore la speranza. L’uomo senza speranza è incapace di sciogliere le labbra agli inni di lode e di gratitudine. Dopo il passaggio del Mar Rosso, Maria intona il cantico di vittoria perché la speranza della liberazione si è finalmente realizzata: Voglio cantare in onore del Signore, perché ha mirabilmente trionfato…Mia forza e mio canto è il Signore, egli è stato la mia salvezza. E’ il mio Dio e lo voglio lodare, è il Dio di mio padre e lo voglio esaltare! (Es 15, 1.2). Senza fede in Dio che salva per amore, non si può effondere il canto d’amore fedele della speranza.
La celebrazione liturgica è il luogo privilegiato in cui lo stupore della fede si fa entusiasmo di preghiera in canto. Mentre credendo prego, imparo la sublime arte dello sperare. Quando non posso più parlare con nessuno, quando non ho nessuno da invocare, scrive Benedetto XVI, Dio mi ascolta ancora. Se non posso più parlare con nessuno, più nessuno invocare, a Dio posso sempre parlare. Se non c’è nessuno che possa aiutarmi…Egli può aiutarmi. Se sono relegato in estrema solitudine…l’orante non è mai totalmente solo (Spe salvi n. 32).
Al disopra di tutto, fondamento e anticipazione di ogni speranza, rimane sempre il mistero dell’Eucaristia, “farmaco d’immortalità” e “seme d’incorruttibilità”. Ecco perché tutte le preghiere eucaristiche si chiudono con il ricordo della gloria verso la quale tende ogni celebrazione del mistero pasquale. Esemplare rimane la conclusione della IV Prece eucaristica: …e con tutte le creature, liberate dalla corruzione del peccato e della morte, canteremo la tua gloria.
Il canto della preghiera liturgica è tutto carico di attesa e di pregustazione escatologica perché partecipa all’Alleluia del Risorto che rivela e anticipa il termine della storia. Ogni canto della preghiera liturgica deve esprimere la quieta tensione tra un’incarnazione nell’affascinante e drammatica trama dell’oggi storico e umano e la nostalgia colma di speranza dell’incontro con la terra promessa di un futuro annunziato e, in qualche modo già presente, il cui desiderio e la cui realizzazione nella gloria è dono ineffabile dello Spirito Santo.

«DIO DÀ INIZIO A UNA STORIA» – Dall’intervento del cardinale Joseph Ratzinger …

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«DIO DÀ INIZIO A UNA STORIA»

Cenni della concezione cristiana di tempo e di eternità. Dall’intervento del cardinale Joseph Ratzinger alla Pontificia Università Lateranense il 15 dicembre 1998 all’interno del Colloquio su «San Tommaso e lo Spirito Santo»

Brani da un intervento del cardinale Joseph Ratzinger alla Pontificia Università Lateranense

Aristotele ha tratteggiato una visione del mondo orientata in modo cosmocentrico, che oggi ancora ci colpisce per la chiarezza della sua logica e la coerenza della sua concezione. Questa visione del mondo è determinata dalla correlazione reciproca di tempo e di non tempo. Il cosmo stesso è perpetuo movimento circolare, che non ha né inizio né fine. Ma questo movimento ha bisogno per così dire di un motore, di una forza, che deve essere come esso stesso infinita, ma non può essere ancora una volta movimento. Il motore immobile è l’energia continua dell’universo. Poiché è immobile, è collocato al di fuori del tempo, dal momento che il tempo dipende dal movimento. La semplice immobilità, immutabilità, eternità è pertanto da caratterizzare come atemporalità. Il tempo è agganciato all’eternità, all’atemporalità. Il tempo dipende da ciò che è atemporale, riceve da lì la sua energia, ma l’eternità non è toccata dal tempo, bensì rimane pura in se stessa. Diversamente infatti sarebbe anch’essa movimento, diverrebbe anch’essa relativa e non potrebbe più sostenere ciò che è relativo. Il condizionato postula l’incondizionato. Poiché però questa realtà senza movimento è per sua essenza senza principio e senza fine, quindi anche il tempo può sempre essere senza principio e senza fine: la sua temporalità non dipende dal cominciare e dal venir meno, ma dalla persistenza del suo muoversi. Il tempo è puro movimento ed è definito dal movimento, come l’eternità è definita dal non movimento, dalla pura semplicità dell’essere.
L’idea che l’eternità sia atemporalità e che così venga descritta l’essenza di Dio ha in qualche modo determinato anche il pensiero cristiano. Tommaso d’Aquino a partire da qui ha insegnato che fondamentalmente un cosmo senza principio e senza fine sarebbe perfettamente conciliabile con la fede cristiana; solo per una specifica rivelazione si verrebbe a conoscere che il mondo ha come creazione un principio e come storia una fine, ma dal punto di vista filosofico questo non sarebbe deducibile e non sarebbe in sé un concetto necessariamente connesso con la fede in Dio. Nel nostro tempo, andando oltre questa certamente convincente concezione aristotelico-cristiana di san Tommaso si è affermato un singolare sviluppo dell’idea di eternità come atemporalità, che è importante per la nostra questione. In una vasta corrente di teologia si sostiene l’opinione che la temporalità è legata alla corporeità e pertanto l’uscire dell’uomo dal corpo nella morte significa anche l’uscire dal tempo nell’atemporalità – un’idea che naturalmente nel sistema aristotelico non poteva emergere. Chi dunque abbandona la corporeità determinata in modo fisico-biologico non potrebbe entrare in una fase intermedia nell’attesa della fine del tempo.
Egli si troverebbe di fatto totalmente al di fuori del tempo nell’eternità, che sarebbe atemporalità. Egli sarebbe situato al di là del tempo. In questo caso il giudizio e la fine del tempo non potrebbero essere pensati come ancora da attendere, perché ciò significherebbe introdurre nuovamente elementi temporali, laddove non esiste più nessun tempo. Essendo situati là ove è Dio, nell’atemporalità dell’eternità, ci si troverebbe ormai nel mondo già compiuto della risurrezione, al di là della storia, perché presso Dio, in quanto totalmente atemporale, tutto è già compiuto e ciò che all’interno del tempo è ancora da attendere là sarebbe già continuo presente. Così la storia come tempo potrebbe continuare tranquillamente senza fine, mentre essa dall’altra parte sarebbe in realtà sempre già compiuta. Le sofferenze, che da una parte vengono patite, sarebbero dall’altra parte sempre già superate nella definitiva vittoria di Dio. L’identificazione di eternità con atemporalità e l’appiattimento di tutto ciò che non è fisico nell’atemporalità introduce qui un dualismo di due mondi, nel quale la storia – a mio parere – perde ogni aspetto di serietà: mentre noi crediamo di operare in essa con fatica, di là essa è ormai già passata. La fine della storia non riguarda la storia stessa, ma si situa laddove semplicemente non vi è nessuna storia.
Devo confessare che questo dualismo rimane per me incomprensibile, per quanto ampiamente oggi esso sia diffuso con la teoria della “risurrezione nella morte”, che di fatto presuppone proprio questa idea della morte come uscita dal tempo, in cui tutto ciò che a noi sembra futuro, già è presente senza tempo. Una cosa comunque, a mio parere, emerge con evidenza: per la chiarificazione del concetto di tempo è necessario anche l’approfondimento del concetto di eternità così come la distinzione dei livelli di tempo. Il tempo non è solo un fenomeno fisico. L’esistenza del tempo non dipende solo dal movimento degli astri, vi è movimento anche nell’ambito del cuore, dello spirito. Ed a partire da qui ci si deve chiedere se la relazione di Dio con il mondo e con il tempo possa essere descritta in modo adeguato semplicemente con il concetto dell’atemporalità. Ciò che nel sistema cosmico di Aristotele è perfettamente logico e corretto diviene contraddittorio se lo si mette in relazione con la concezione cristiana di Dio, con il Dio che non solo muove il mondo restando immobile, ma lo crea – con il Dio che dà inizio ad una storia, che contrae un’alleanza e questo fino al punto che egli stesso diviene un uomo. Naturalmente non può semplicemente essere attribuita a Dio quella medesima modalità di temporalità che caratterizza l’uomo inserito nel cosmo e neppure l’uomo che nella morte è uscito dalla corporeità. Se mi contrappongo qui ad un certo tipo di aristotelismo cristiano, mi contrappongo quindi anche ad Oscar Cullmann, che in comprensibile reazione all’aristotelismo ed al platonismo riteneva che nella Bibbia anche Dio appartenga al tempo e di conseguenza denomina tutto allo stesso modo tempo e storia. Più precisa mi sembra già essere la proposta di Emil Brunner di definire l’eternità di Dio a partire dall’immagine cristiana di Dio, non come atemporalità, ma come dominio del tempo.
Il Dio della Bibbia non è una forza che riposa in se stessa, che tiene in movimento il mondo senza muovere se stessa. Quando Dante definisce Dio «l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Paradiso XXXIII, 145), riecheggia certo chiaramente la visione aristotelica, ma con il concetto di «amor» è nondimeno enunciato qualcosa di nuovo: l’idea della relazione, che assume in sé l’altro e si lascia assumere in lui. L’immagine delle mani, che abbracciano il tempo e così gli divengono contemporanee, mi sembra rendere nel modo migliore una rappresentazione della relazione di Dio con il tempo ed insieme della sua superiorità su di esso. Troppo a lungo siamo qui restati all’interno della struttura concettuale aristotelica. Ripensare l’essenza dell’eternità a partire dalle conoscenze e dalle esperienze della fede cristiana mi sembra essere un compito ancora ampiamente aperto. Quando ci si inoltra in tale via, allora il rigido cosmocentrismo della visione aristotelica si dissolve da solo, perché non conta più soltanto il fenomeno del movimento fisico, ma anche il movimento dello spirito e così la storia, l’uomo, ottiene una sua propria dignità di collocazione.

Dal numero di Nuntium del giugno 1999

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