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«DIO DÀ INIZIO A UNA STORIA» – Dall’intervento del cardinale Joseph Ratzinger …

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«DIO DÀ INIZIO A UNA STORIA»

Cenni della concezione cristiana di tempo e di eternità. Dall’intervento del cardinale Joseph Ratzinger alla Pontificia Università Lateranense il 15 dicembre 1998 all’interno del Colloquio su «San Tommaso e lo Spirito Santo»

Brani da un intervento del cardinale Joseph Ratzinger alla Pontificia Università Lateranense

Aristotele ha tratteggiato una visione del mondo orientata in modo cosmocentrico, che oggi ancora ci colpisce per la chiarezza della sua logica e la coerenza della sua concezione. Questa visione del mondo è determinata dalla correlazione reciproca di tempo e di non tempo. Il cosmo stesso è perpetuo movimento circolare, che non ha né inizio né fine. Ma questo movimento ha bisogno per così dire di un motore, di una forza, che deve essere come esso stesso infinita, ma non può essere ancora una volta movimento. Il motore immobile è l’energia continua dell’universo. Poiché è immobile, è collocato al di fuori del tempo, dal momento che il tempo dipende dal movimento. La semplice immobilità, immutabilità, eternità è pertanto da caratterizzare come atemporalità. Il tempo è agganciato all’eternità, all’atemporalità. Il tempo dipende da ciò che è atemporale, riceve da lì la sua energia, ma l’eternità non è toccata dal tempo, bensì rimane pura in se stessa. Diversamente infatti sarebbe anch’essa movimento, diverrebbe anch’essa relativa e non potrebbe più sostenere ciò che è relativo. Il condizionato postula l’incondizionato. Poiché però questa realtà senza movimento è per sua essenza senza principio e senza fine, quindi anche il tempo può sempre essere senza principio e senza fine: la sua temporalità non dipende dal cominciare e dal venir meno, ma dalla persistenza del suo muoversi. Il tempo è puro movimento ed è definito dal movimento, come l’eternità è definita dal non movimento, dalla pura semplicità dell’essere.
L’idea che l’eternità sia atemporalità e che così venga descritta l’essenza di Dio ha in qualche modo determinato anche il pensiero cristiano. Tommaso d’Aquino a partire da qui ha insegnato che fondamentalmente un cosmo senza principio e senza fine sarebbe perfettamente conciliabile con la fede cristiana; solo per una specifica rivelazione si verrebbe a conoscere che il mondo ha come creazione un principio e come storia una fine, ma dal punto di vista filosofico questo non sarebbe deducibile e non sarebbe in sé un concetto necessariamente connesso con la fede in Dio. Nel nostro tempo, andando oltre questa certamente convincente concezione aristotelico-cristiana di san Tommaso si è affermato un singolare sviluppo dell’idea di eternità come atemporalità, che è importante per la nostra questione. In una vasta corrente di teologia si sostiene l’opinione che la temporalità è legata alla corporeità e pertanto l’uscire dell’uomo dal corpo nella morte significa anche l’uscire dal tempo nell’atemporalità – un’idea che naturalmente nel sistema aristotelico non poteva emergere. Chi dunque abbandona la corporeità determinata in modo fisico-biologico non potrebbe entrare in una fase intermedia nell’attesa della fine del tempo.
Egli si troverebbe di fatto totalmente al di fuori del tempo nell’eternità, che sarebbe atemporalità. Egli sarebbe situato al di là del tempo. In questo caso il giudizio e la fine del tempo non potrebbero essere pensati come ancora da attendere, perché ciò significherebbe introdurre nuovamente elementi temporali, laddove non esiste più nessun tempo. Essendo situati là ove è Dio, nell’atemporalità dell’eternità, ci si troverebbe ormai nel mondo già compiuto della risurrezione, al di là della storia, perché presso Dio, in quanto totalmente atemporale, tutto è già compiuto e ciò che all’interno del tempo è ancora da attendere là sarebbe già continuo presente. Così la storia come tempo potrebbe continuare tranquillamente senza fine, mentre essa dall’altra parte sarebbe in realtà sempre già compiuta. Le sofferenze, che da una parte vengono patite, sarebbero dall’altra parte sempre già superate nella definitiva vittoria di Dio. L’identificazione di eternità con atemporalità e l’appiattimento di tutto ciò che non è fisico nell’atemporalità introduce qui un dualismo di due mondi, nel quale la storia – a mio parere – perde ogni aspetto di serietà: mentre noi crediamo di operare in essa con fatica, di là essa è ormai già passata. La fine della storia non riguarda la storia stessa, ma si situa laddove semplicemente non vi è nessuna storia.
Devo confessare che questo dualismo rimane per me incomprensibile, per quanto ampiamente oggi esso sia diffuso con la teoria della “risurrezione nella morte”, che di fatto presuppone proprio questa idea della morte come uscita dal tempo, in cui tutto ciò che a noi sembra futuro, già è presente senza tempo. Una cosa comunque, a mio parere, emerge con evidenza: per la chiarificazione del concetto di tempo è necessario anche l’approfondimento del concetto di eternità così come la distinzione dei livelli di tempo. Il tempo non è solo un fenomeno fisico. L’esistenza del tempo non dipende solo dal movimento degli astri, vi è movimento anche nell’ambito del cuore, dello spirito. Ed a partire da qui ci si deve chiedere se la relazione di Dio con il mondo e con il tempo possa essere descritta in modo adeguato semplicemente con il concetto dell’atemporalità. Ciò che nel sistema cosmico di Aristotele è perfettamente logico e corretto diviene contraddittorio se lo si mette in relazione con la concezione cristiana di Dio, con il Dio che non solo muove il mondo restando immobile, ma lo crea – con il Dio che dà inizio ad una storia, che contrae un’alleanza e questo fino al punto che egli stesso diviene un uomo. Naturalmente non può semplicemente essere attribuita a Dio quella medesima modalità di temporalità che caratterizza l’uomo inserito nel cosmo e neppure l’uomo che nella morte è uscito dalla corporeità. Se mi contrappongo qui ad un certo tipo di aristotelismo cristiano, mi contrappongo quindi anche ad Oscar Cullmann, che in comprensibile reazione all’aristotelismo ed al platonismo riteneva che nella Bibbia anche Dio appartenga al tempo e di conseguenza denomina tutto allo stesso modo tempo e storia. Più precisa mi sembra già essere la proposta di Emil Brunner di definire l’eternità di Dio a partire dall’immagine cristiana di Dio, non come atemporalità, ma come dominio del tempo.
Il Dio della Bibbia non è una forza che riposa in se stessa, che tiene in movimento il mondo senza muovere se stessa. Quando Dante definisce Dio «l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Paradiso XXXIII, 145), riecheggia certo chiaramente la visione aristotelica, ma con il concetto di «amor» è nondimeno enunciato qualcosa di nuovo: l’idea della relazione, che assume in sé l’altro e si lascia assumere in lui. L’immagine delle mani, che abbracciano il tempo e così gli divengono contemporanee, mi sembra rendere nel modo migliore una rappresentazione della relazione di Dio con il tempo ed insieme della sua superiorità su di esso. Troppo a lungo siamo qui restati all’interno della struttura concettuale aristotelica. Ripensare l’essenza dell’eternità a partire dalle conoscenze e dalle esperienze della fede cristiana mi sembra essere un compito ancora ampiamente aperto. Quando ci si inoltra in tale via, allora il rigido cosmocentrismo della visione aristotelica si dissolve da solo, perché non conta più soltanto il fenomeno del movimento fisico, ma anche il movimento dello spirito e così la storia, l’uomo, ottiene una sua propria dignità di collocazione.

Dal numero di Nuntium del giugno 1999

LA CHIESA DI DIO – Tratto da « Lettera ai cercatori di Dio »

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=125092

LA CHIESA DI DIO

Tratto da « Lettera ai cercatori di Dio »

La vita del Dio Trinità, che è amore, si partecipa agli uomini radunandoli in una comunità, che è la Chiesa. L’espressione “Chiesa di Dio” viene dalla tradizione biblica, dove designa l’assemblea di Israele convocata da Dio ai piedi del monte Sinai per ricevere lo statuto dell’alleanza.

9. LA CHIESA DI DIO
La vita del Dio Trinità, che è amore, si partecipa agli uomini radunandoli in una comunità, che è la Chiesa. L’espressione “Chiesa di Dio” viene dalla tradizione biblica, dove designa l’assemblea di Israele convocata da Dio ai piedi del monte Sinai per ricevere lo statuto dell’alleanza. Nella tradizione paolina la “Chiesa di Dio” è l’insieme dei credenti battezzati, dispersi nelle piccole comunità del mondo greco-romano. Gli autori dei Vangeli partono dall’esperienza della Chiesa nata nella prima missione cristiana per cercarne le radici e le ragioni nelle parole e nelle azioni di Gesù. Nella tradizione evangelica il gruppo dei dodici e dei discepoli è presentato come il prototipo della comunità cristiana o Chiesa, alla quale sono destinati i quattro Vangeli.

La comunità dei fratelli
Nel Vangelo di Matteo, Gesù parla esplicitamente della sua “Chiesa”, che egli fonderà sulla fede di Pietro. La Chiesa è la comunità dei credenti che riconoscono Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente. In essa Chiesa l’autorità è esercitata nel nome di Gesù per la salvezza dei credenti, che sono tutti fratelli, perché figli del Padre che è nei cieli. L’accoglienza dei piccoli, la correzione fraterna e il perdono stanno alla base dei rapporti nella comunità ecclesiale. Alla Chiesa Dio affida il suo regno e chiede l’attuazione della sua volontà come l’ha rivelata Gesù, il Figlio. Essa è aperta a tutti i popoli della terra, chiamati a diventare discepoli di Gesù.
Secondo Luca, autore del terzo Vangelo e degli Atti degli Apostoli, la Chiesa è una comunità “apostolica”, perché fondata sui dodici apostoli, rappresentanti di tutto Israele: nella sua vita e nella sua storia trovano compimento le promesse di salvezza fatte da Dio al popolo eletto. Con la forza dello Spirito Santo i discepoli sono inviati a rendere testimonianza a Gesù sino agli estremi confini della terra.
Nella festa di Pentecoste, il cinquantesimo giorno dopo la Pasqua di Risurrezione, mediante il dono dello Spirito Santo, che era stato promesso da Gesù risorto, si manifesta la Chiesa. L’autore degli Atti degli Apostoli ne traccia un quadro ideale. Tutti quelli che accolgono la Parola di Dio, proclamata dagli apostoli, e si fanno battezzare nel nome del Signore Gesù formano la comunità dei credenti, che sono “perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere” (2,42), e realizzano una comunità di amici e fratelli, che forma “un cuore solo e un’anima sola” (4,32).

La comunità inviata in missione
L’autore degli Atti degli Apostoli ricostruisce la tappe della prima missione della Chiesa nel mondo ebraico, presentandone i protagonisti e il metodo. Dio sta all’origine della missione cristiana. Per mezzo di Gesù Cristo, il Figlio “inviato” dal Padre, il dono dello Spirito Santo abilita tutti i credenti a proclamare il Vangelo della salvezza a ogni creatura umana, senza distinzione di religione, etnia e cultura. Destinatari della missione sono tutti gli esseri umani, da Israele ai popoli pagani.
La missione si attua mediante l’annuncio e la testimonianza resa con la parola e con la vita. Essa corrisponde alla volontà di Dio, che è stata profeticamente annunciata nella storia di Israele – testimoniata nei libri dell’Antico Testamento – e si compie per mezzo di Gesù Cristo e il dono dello Spirito Santo. Il contenuto dell’annuncio è Gesù di Nazaret, condannato a morte dagli uomini, ma risuscitato da Dio: in lui si compiono le promesse divine, presenti nelle Sacre Scritture, e si apre l’accesso alla salvezza a tutti i possibili cercatori di Dio.
L’annuncio sfocia nell’invito alla conversione per ricevere il perdono dei peccati e il dono dello Spirito Santo, garanzia della salvezza definitiva, cioè di una vita piena e felice nel tempo e per l’eternità.

La comunità dei credenti in Gesù Cristo
La Chiesa di Dio è la “santa convocazione” di quanti hanno accolto il Vangelo di Gesù Cristo e vivono, grazie all’azione interiore dello Spirito Santo, nella fede, nella carità e nella speranza, in attesa della manifestazione gloriosa del Signore. Partendo dall’esperienza della “cena del Signore”, dove i cristiani fanno memoria di Gesù morto e risorto, san Paolo presenta la comunità dei cristiani come “corpo di Cristo”. Tutti i credenti che mangiano l’unico pane che è Cristo, formano, nella comunione con lui, un solo corpo. Essi sono stati battezzati in un solo Spirito per formare l’unico corpo di Cristo.
Lo Spirito donato da Dio per mezzo di Gesù risorto è la fonte dei diversi carismi e compiti, che esprimono e realizzano la vitalità dell’unica Chiesa, corpo di Cristo. L’amore comunicato dallo Spirito Santo tiene uniti tutti i membri della Chiesa. Per la nascita e la crescita della Chiesa, Dio ha stabilito il ministero degli apostoli, dei profeti e dei maestri.
Nella tradizione di san Paolo questa varietà di ministeri al servizio della Parola e della guida della
Chiesa è donata dal Signore risorto perché tutti i credenti partecipino alla crescita del suo corpo nell’unità e nell’amore.
Nella vita della Chiesa la fede dei suoi membri assume diverse forme, legate agli stati di vita e ai doni ricevuti da Dio. Queste forme manifestano la ricchezza e la varietà dell’esperienza cristiana, radicata nella partecipazione alla vita dell’unico Signore Gesù, il Cristo, capo della Chiesa edificata sulla parola degli “apostoli e profeti”. Mediante la proclamazione del Vangelo tutti i popoli sono chiamati a far parte di questa Chiesa, corpo di Cristo.
Nella stessa tradizione di san Paolo si vive l’esperienza della Chiesa come famiglia di Dio, guidata dai pastori che rendono viva e attuale la tradizione dell’apostolo. Essi esercitano un ruolo di sorveglianza (“episcopé”) e saranno chiamati vescovi, con caratteristiche che si preciseranno sempre di più sul fondamento di ciò che è già presente nelle comunità apostoliche delle origini.
Entrare nella Chiesa mediante la fede in Gesù e la conversione del proprio cuore, testimoniate nel battesimo, acquisendo atteggiamenti di amore verso tutti; accettare la guida dei pastori che annunciano la Parola di Dio e offrono il dono dei sacramenti, in cui scorre per noi la vita divina offerta in Gesù Cristo, ci garantisce una vita salvata, cioè libera dalle idolatrie di questo mondo e partecipe nella fede e nella speranza della gioia dell’eternità divina.

La comunità di amici e la “sposa dell’Agnello”
Secondo il Vangelo di Giovanni i credenti in Gesù Cristo, Figlio di Dio, formano una comunità di amici, tenuti insieme, come tralci nella vite, dal comandamento nuovo dell’amore, che ha la fonte e il modello nel dono che Gesù fa della sua vita. Come Gesù i discepoli sono consacrati mediante l’amore e lo Spirito Santo, per essere inviati nel mondo. L’unità di tutti i credenti si fonda sulla preghiera di Gesù, che chiede al Padre che essi siano una cosa sola, partecipando allo stesso dinamismo di amore che costituisce la comunione tra lui e il Padre.
Per l’autore dell’Apocalisse la comunità dei fedeli segue Gesù, l’Agnello ucciso ma ora vivo, senza compromessi con il potere idolatrico, fino al martirio. Sullo sfondo della nuova creazione, il profeta di Patmos immagina la Chiesa come una sposa pronta per le nozze dell’Agnello. Essa è paragonata alla nuova Gerusalemme che scende dal cielo, per essere la dimora di Dio tra gli uomini.
Proprio in quanto è la sposa dell’Agnello, la Chiesa è necessaria per incontrare e accogliere Cristo nel cuore e nella vita. Nella comunità che ascolta e proclama la sua parola, che celebra i sacramenti della salvezza, che vive e testimonia la carità, è lui a rendersi presente, nonostante i peccati e le contro-testimonianze dei figli della Chiesa.
Una comunità dal volto umano, accogliente, viva nella fede e tale da irradiare la gioia del Vangelo è veramente, in rapporto al Signore Gesù, come la luna nei confronti del sole: essa raccoglie da Cristo, vero Sole, i raggi della luce che illumina il mondo e li offre generosamente nella notte del tempo. Così la percepiva e la rappresentava la fede dei più antichi scrittori cristiani:
Questa è la vera luna.
Dall’intramontabile luce dell’astro fraterno
ottiene la luce dell’immortalità e della grazia.
Infatti la Chiesa non rifulge di luce propria,
ma della luce di Cristo.
Trae il suo splendore dal sole della giustizia,
per poter poi dire:
Io vivo, però non son più io che vivo,
ma vive in me Cristo!
(Sant’Ambrogio, Hexaemeron 4, 8, 32).

Publié dans:CHIESA CATTOLICA, STUDI |on 22 avril, 2014 |Pas de commentaires »

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