http://www.stpauls.it/madre06/0607md/0607md03.htm
IL PIANTO DI MARIA E IL NOSTRO PIANTO
DI STEFANO DE FIORES
L’Addolorata che piange sul Figlio morto è paradigma particolarmente efficace del senso cristiano del dolore e del nostro pianto.
Dobbiamo ammettere che l’evangelista Giovanni non si preoccupa minimamente di farci comprendere la situazione interiore della Madre di Gesù né di comunicarci il suo eventuale pianto. In questo senso ha ragione Sant’Ambrogio quando osserva: « Leggo che [Maria] era presente, non leggo che era piangente ». Infatti, resta fuori della prospettiva giovannea offrire informazioni di ordine psicologico o di cronaca: egli mira soprattutto al significato storico-salvifico.
Tuttavia, tre argomenti ci conducono a ricuperare il pianto di Maria: il ricorso alle usanze ebraiche di cordoglio funebre, la profezia della spada nell’anima e il paragone della donna partoriente cui ricorre Gesù, per parlare agli Apostoli della ripercussione in loro del mistero pasquale.
Le lacrime di « Nostra Signora della Esperanza », Macarena di Siviglia [Spagna] e nel riquadro
A. Mantegna, Presentazione di Gesù al Tempio e profezia di Simeone – Galleria degli Uffizi, Firenze.
Le lacrime nella Bibbia
Poiché le lacrime appartengono alla natura degli esseri umani, esse caratterizzano parecchi personaggi biblici, uomini e donne; e, contrariamente alla filosofia che si disinteressa delle lacrime, il Giudaismo le considera essenziali.
Le lacrime di Giacobbe, quelle di Esaù, di Lia o ancora di Giuseppe, per esempio, poi quelle dei Profeti, soprattutto d’Isaia e di Geremia, ma anche quelle del Salmista, incitano così a riflettere sulle diverse emozioni che esse significano.
Il pianto non risparmia Dio, cui si attribuiscono lacrime segrete, e neppure il Messia che secondo il Talmud e lo Zohar « piange sul male che regna nel mondo senza rassegnarvisi ». Ne consegue che non tutte le lacrime della Bibbia sono ascrivibili al cordoglio funebre. Secondo il ‘chassidismo’ esse sgorgano dall’incontro del cuore spezzato dalla tristezza e dalle prove con il Dio vicino che si lascia sperimentare. « Esse svelano una verità umana decisiva: la presenza dell’infinito nel finito », perciò sono una breccia e insieme una grazia.
Mentre il silenzio si consuma nella solitudine, piangere è sempre rivolgersi a qualcuno, sia pure assente o sconosciuto. Le lacrime vegliano su questa destinazione, interpellano una relazione, sperano una visita.
Le lacrime di cui si parla nella Bibbia sono dunque polisemiche. Denotano la situazione religiosa del fedele israelita che vive in esilio nell’incomprensione dell’ambiente per cui si consuma nella tristezza e nel pianto: « Le lacrime sono mio pane giorno e notte, mentre mi dicono sempre: ‘Dov’è il tuo Dio?’ » (Sal 42, 4). Oppure esternano la commozione, come nel caso di Giuseppe che scoppia in lacrime nell’abbracciare i suoi fratelli e quando il padre lo benedice: la sua sensibilità al bene lo fa piangere [cfr. Gen 45, 2.14-15; 50, 1].
Più spesso, le lacrime sono legate al cordoglio funebre. Il profondo dolore per la morte di un congiunto si esprime nel pianto e nel lamento, come avviene per Abramo che piange Sara [cfr. Gen 23, 1-2] o per Giacobbe che « fece lutto sul figlio [Giuseppe] per molti giorni » (Gen 37, 34-35). Il lutto israelitico non viene combattuto, se non nelle forme più aspre che includono incisioni corporali [cfr. Dt 14, 1], ma diviene un’istituzione con l’intervento delle prefiche o lamentatrici, i cui lamenti venivano trasmessi oralmente o in apposite raccolte: « Attenti, chiamate le lamentatrici, che vengano! […] Accorrano e facciano presto, per intonare su di noi un lamento. Sgorghino lacrime dai nostri occhi, il pianto scorra dalle nostre ciglia » (Ger 9, 16-17).
« Beati quelli che piangono »
A noi interessa legare il pianto di Maria a quello delle madri d’Israele, alle lacrime di cordoglio sparse secondo l’uso ebraico sui loro figli uccisi. L’ecatombe della grande deportazione a Babilonia scatena le lacrime incontenibili di Rachele: « Una voce si ode in Rama, lamento e pianto amaro: Rachele piange i suoi figli, rifiuta di essere consolata perché non sono più » (Ger 31, 15).
Il Talmud associa il pianto di Rachele alle due lacrime che scorrono dagli occhi di Dio quando pensa ai suoi figli esiliati; esse, cadendo in mare, producono un rumore simile a un terremoto che si estende alle estremità della terra. I figli di Rachele sono i figli di Dio stesso: entrambi si rifiutano di rassegnarsi alla loro scomparsa in paese nemico. Il pianto di Rachele assume un carattere riparatorio e finisce per essere ascoltato da Dio che le fa una promessa consolatrice: « Dice il Signore: ‘Trattieni la voce dal pianto, i tuoi occhi dal versare lacrime, perché c’è un compenso per le tue pene; essi torneranno dal paese nemico. C’è una speranza per la tua discendenza: i tuoi figli ritorneranno entro i loro confini’ » (Ger 31, 16-17).
De Martino nota che « la crisi decisiva del lamento funebre come rito pagano ha luogo soltanto con l’avvento del Cristianesimo », poiché con la morte e risurrezione di Cristo il morire umano è sottratto alla disperazione.
Già durante la sua vita terrena Gesù, pur offrendo l’esempio di uno scoppio di pianto al sepolcro di Lazzaro [cfr. Gv 11, 35], e facendo perfino l’elogio del pianto: « Beati quelli che piangono, perché saranno consolati » (Mt 5, 5); « Beati voi, che ora piangete » (Lc 6, 21), frena i tradizionali lamenti della « moltitudine in clamore » presso la figlia morta del capo della Sinagoga: « Ritiratevi! » [cfr. Mt 9, 24], così pure ingiunge affettuosamente alla vedova di Naim: « Non piangere! » (Lc 7, 13).
Infine, sulla via del Calvario, Gesù rimprovera le donne che lo seguono battendosi il petto e facendo lamenti su di lui: « Non piangete su di me… » (Lc 23, 28), spostando il pianto dalla morte fisica a quella morale causata dal peccato.
Le lacrime di Maria
Considerando il contesto dell’Antico Testamento e della tradizione ebraica, che permetteva ed esigeva il pianto funebre purché non parossistico, ed insieme tenendo conto del freno posto da Gesù alle lacrime sui defunti e su se stesso, possiamo concludere che Maria sotto la Croce si trovava in una posizione paradossale.
Doveva piangere secondo l’uso ebraico e in forza della pressione naturale del sentimento materno, eppure doveva tener conto del monito del Figlio alle donne, con le quali si trovava verosimilmente anche lei sulla via del Calvario: « Non piangete su di me… » (Lc 23, 28).
Da una parte si vedeva inclusa nella profezia di Zaccaria, che Giovanni applicherà a Cristo crocifisso [cfr. Gv 19, 37], la quale prevedeva ed autorizzava un pianto universale su di lui, a cominciare dalla madre che prorompe in lacrime per la morte violenta del suo primogenito: « Guarderanno a colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito » (Zac 12, 10).
E dall’altra parte Maria si sente spinta dalle parole del Figlio a dirottare l’oggetto delle sue lacrime da Gesù innocente al mondo peccatore, in particolare a Gerusalemme ingrata e chiusa alla visita divina su cui Gesù stesso aveva pianto [cfr. Lc 19, 4].
Il piangere di Maria evita l’esagerazione e il difetto, e si risolve in un pianto sommesso e allargato alle dimensioni del mondo. Ella piange il suo primogenito secondo l’uso ebraico, evitando il parossismo, ma esterna con le lacrime il suo dolore di madre colpita nel più caro degli affetti.
Maria piange per un comprensibile sfogo della natura, ma si eleva al piano salvifico seguendo Gesù nell’orientare il pianto verso il peccato, causa della rovina dell’uomo ma di cui egli si è caricato per espiarlo. Ella si unisce al suo Unigenito offrendo le sofferenze per la redenzione del mondo.
Il pianto cristiano
Un simile pianto di Maria sconfigge in anticipo l’interpretazione stoica che le attribuisce un cuore impassibile e un ciglio asciutto, soprannaturalizzandola eccessivamente sia pure con l’intento d’immetterla nell’orbita storico-salvifica, ma rischiando di assimilarla al filosofo che rimane immoto anche se il mondo gli cade accanto. Ma esso neutralizza pure la corrente apocrifo-popolare, tradotta anche nelle espressioni artistiche medievali, che attribuisce a Maria il pianto funebre parossistico, con urla, lamenti, percussione del petto e graffi del volto, oppure l’attassamento [lo stato "di immobilità fisica che riflette un vero e proprio blocco psichico più o meno accentuato"].
Generalmente, la Chiesa batte una via intermedia: esclude il parossismo e l’attassamento e attribuisce a Maria una sofferenza profonda, esternata in un pianto sommesso. è la linea seguita dallo Stabat Mater, in cui l’interiore patire della Vergine « si ravviva e si umanizza in un contemplare velato di lacrime ». Il pianto di Maria non è disperato, non solo perché sa che il Figlio muore per la salvezza degli uomini, ma pure perché crede nella promessa della risurrezione. Maria diviene così il modello del pianto cristiano, un paradigma particolarmente efficace per cristianizzare il cordoglio funebre. Da San Giovanni Crisostomo a San Luca di Bova ritorna la polemica contro il perdurare del costume pagano del cordoglio funebre. Più che prediche e canoni occorreva un modello con funzione trasfiguratrice del lamento rituale.
Il grande strumento pedagogico del nuovo ethos cristiano di fronte alla morte fu la figura della Mater dolorosa, così integralmente umana nel suo dolore per il Figlio morto, tuttavia così interiore e raccolta nel suo silenzioso « stare » velato di lacrime davanti alla Croce.