Archive pour le 8 avril, 2014

The Power of God’s Mercy

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CRISTIANI POVERI IN UNA CHIESA POVERA (1984)

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=20

CRISTIANI POVERI IN UNA CHIESA POVERA (1984)

sintesi della relazione di Armido Rizzi
Verbania Pallanza, 7-8 gennaio 1984

Il tema della povertà cristiana è denso anche dal punto di vista del discorso; così denso che potrebbe diventare forse una specie di prolegomeno, di introduzione a ogni discorso teologico cristiano.
Non si vogliono suggerire indicazioni pratiche, ma fare una riflessione di fondo sul significato della povertà, sul mysterium paupertatis, che fa tutt’uno col mistero stesso di Dio nella storia. Il povero è il luogo della rivelazione di Dio al punto tale che non è possibile il parlare biblico di Dio se non parlando del povero e viceversa. A partire dal rapporto tra Dio e il povero si prenderà in esame il rapporto chiesa e povero. In un primo momento si parlerà della Chiesa dei poveri nel senso di Chiesa « per » i poveri, dove questi sono l’oggetto (di attenzione e di preoccupazione) della prassi del cristiano; un secondo momento sarà dedicato alla Chiesa « di » poveri, dove i poveri sono il soggetto costitutivo della Chiesa.
la chiesa per i poveri come rivelazione del Dio per i poveri

1. Dio e il povero
Il punto di partenza della rivelazione di Dio nella storia lo troviamo nella storia di Israele. Dobbiamo vedere in che modo si è fatto conoscere in Israele, con quale forma ha sottoscritto il suo rapporto con lui. Vediamo alcuni testi esemplari.
L’incontro di Israele con Dio, in quanto rivelatore del manifestarsi di Dio nella storia di salvezza, è descritto nel libro dell’Esodo (2,23-25): « Avvenne, nel lungo corso di quel tempo, che il re d’Egitto morì. I figli di Israele gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento, e il loro grido dallo stato di servitù salì verso Dio. Allora Dio ascoltò il loro lamento e Dio si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe. Dio guardò la condizione dei figli di Israele e ne prese cura ». Con l’intervento di Dio prende inizio la storia di salvezza, e la storia di Israele come popolo.
C’è in Israele la memoria storica del Dio di Abramo e di Giacobbe, ma è come se fosse stata interrotta. Il grido di Israele è un appello perché il suo Dio torni a farsi vivo dopo un’interruzione, dopo una dimenticanza (a una dimenticanza da parte del suo Dio Israele attribuisce la situazione in cui si trova). Dio si rifà vivo. Si esprime qui come se fosse la prima volta e si ridefinisce.
Siamo soliti partire dal Dio creatore del mondo per arrivare al Dio che interviene quasi come se fosse un gesto contingente, passeggero. Dobbiamo rovesciare l’ordine del discorso, partendo dall’intervento di Dio che risponde al grido di Israele, perché è questo l’episodio in cui Dio definisce la sua figura storica, è questa la partenza del formarsi della rivelazione di Dio nella storia della salvezza.
La stessa definizione di Dio è contenuta nel primo credo di Israele, del quale una delle formule più complete abbiamo in Deuteronomio 26, 5-9: « Mio padre era un arameo errante; scese in Egitto, vi stette come forestiero con poca gente, e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con potente mano e con braccio disteso, con grandi terrori, con segni e con prodigi, e ci ha condotti in questo luogo e ci ha dato questo paese, paese dove scorre latte e miele ». Israele qui definisce se stesso e contemporaneamente Dio. Il centro di questo credo sta nel passaggio dalla negatività alla positività della terra nuova e nel tramite del passaggio che è l’atto di Dio.
Dio, per Israele, non è ancora il creatore del mondo. A questa idea di Dio Israele arriverà dilatando e universalizzando il suo primo incontro con lui. Quando partiamo dal Dio creatore universale, da questo atto di potenza assoluta qual è la creazione, corriamo il pericolo di avere l’immagine di un Dio di cui sottolineiamo la dimensione di potenza (produrre dal nulla). Il racconto biblico della creazione non è un teorema sull’onnipotenza di Dio, ma è la dilatazione su scala universale del Dio che vince la negatività, la schiavitù, il caos. L’asse del concetto biblico di creazione non è la potenza, ma è questo atto di intervento liberatore che doma l’avversario e libera l’uomo e gli prepara un mondo in cui possa vivere liberamente.
Dai salmi emerge l’immagine di un Dio che ascolta, vede, tende l’orecchio su, veglia su, protegge, interviene a vendicare i poveri, coloro che si trovano in situazioni di negatività (schiavitù, miseria, oppressione, ecc.), in quelle situazioni in cui si è trovato Israele in Egitto. Il salmo 146: « Il Signore fa giustizia a quelli che soffrono ingiuria; dà cibo agli affamati. Il Signore scioglie gli incatenati; il Signore illumina i ciechi; il Signore rialza i caduti; il Signore ama giusti. Il Signore è custode dei forestieri; difenderà l’orfano e la vedova e disperderà i disegni dei peccatori ».
Dunque, Dio si definisce nella storia come colui che interviene in favore del povero. Chi è questo povero? Bisogna evitare i due estremi: sia la concezione economicistica del povero ( il povero è colui che non ha i mezzi elementari di sussistenza. Questa è una figura costante nella Bibbia, ma non l’unica; la negatività di Israele in Egitto era in termini non tanto di miseria, quanto di identità di popolo e di libertà), sia la concezione che insiste sull’atteggiamento puramente interiore (il distacco dai beni, indipendentemente dall’averne o no). Per la Bibbia il povero non è colui che ha il cuore distaccato nei confronti dei beni pure posseduti; c’è una povertà effettiva, oggettiva, non solo economica, ma svariata: affamati, menomati fisicamente, vedove e orfani, stranieri o immigrati, calunniati: c’è sempre una carenza di beni oggettivi, qualunque essi siano, una carenza di quell’avere che è necessario all’essere, per cui i poveri sono in qualche modo esclusi o non del tutto inclusi nella creazione buona. Il termine povero non racchiude un concetto di classe, ma indica una o diverse categorie. Tuttavia, anche chi non appartiene a nessuna categoria in certe situazioni può essere povero.
L’esempio più chiaro è quello di Caino, il quale compie un atto di potenza vittoriosa nei confronti di Abele; eppure, proprio in forza di questo atto, grava su di lui una sorta di verdetto sociale: fratricida, è escluso dall’ambito del vivere sociale, per cui deve vagare, portandosi dietro il peso della sua colpa; sa di essere ormai senza valore e senza dignità a causa di quello che ha compiuto. Dio si mette dalla parte di Abele perché povero congiunturalmente, ma quando è Caino il debole, colui che tutti possono colpire, Dio mette il suo segno su di lui: non è vostra proprietà, non avete il diritto di metter le mani su di lui. Dunque, la povertà è qualcosa di più profondo che non le categorie: c’è una situazione di debolezza congenita alla condizione umana come tale, per cui ogni uomo è allo sbaraglio di interventi altrui che possono distruggerlo. La definizione più radicale di povertà in senso biblico è precarietà, fragilità dell’esistenza dell’uomo, il poter essere privato di beni reali oggettivi e che appartengono all’essere. Colpisce ogni uomo e può esplodere da un momento all’altro.
Il Dio della bibbia è colui che si spende per questo uomo, in quanto è povero; è colui che si definisce dal suo intervento liberatore nei confronti dei poveri; è colui che si manifesta in questo far essere, fa vivere ogni uomo in quanto è povero, è un filo d’erba. Non c’è una definizione più profonda di Dio; in questo gesto, in questo suo intervento c’è la cellula di ogni possibile discorso su Dio.
Nessuna qualità è così abbarbicata all’uomo da non poter essere persa: questo è ciò che definisce radicalmente l’uomo. Può avere anche tutto, ma lo ha nella maniera del poterlo perdere.
2. Gesù e il povero
È Gesù stesso a definire (nel Vangelo di Matteo e di Luca) l’insieme della sua prassi come questo essere vicino ai poveri per farli vivere: « I ciechi vedono, gli storpi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti vengono risuscitati, i poveri ricevono la buona novella » (Matteo 11,5-6).
Come Dio si definisce nella sua divinità rivelata da suo intervenire a favore del povero, così la « cristicità », la messianicità di Gesù si definisce nell’atto di reintegrazione del povero nella bellezza, nella pienezza della creazione, nel dare al povero quell’avere che gli manca per poter essere.
Nell’atto dell’incarnazione Gesù si investe al punto tale nell’intervento per i poveri, da poter leggere l’incarnazione stessa come il primo intervento con cui Gesù è costituito come Dio per i poveri.
Giovanni nel Prologo del suo Vangelo dice: « La Parola si fa carne »: la potenza creatrice si fa fragilità, precarietà, debolezza, provvisorietà.
Paolo, nella prima lettera ai Filippesi, dice che Gesù annientò se stesso, prendendo la natura di schiavo, e divenendo simile agli uomini. Gesù che vive nella forma di Dio, assume la condizione di uomo in quanto schiavo. Dio si costituisce, nella sua presenza personale nella storia, come uno dei poveri, colui che tutti li rappresenta e li riassume. Dalla gloria alla condizione di schiavo.
Paolo, nella seconda lettera ai Corinzi, formula l’incarnazione dicendo che Gesù, ricco qual era, si è fatto povero per arricchire voi. La ricchezza si fa povertà.
Dal di dentro dell’assunzione in proprio della povertà radicale, Gesù medica, lenisce, guarisce alcune espressioni della povertà fattuale (ciechi, storpi…).
3. La Chiesa e il povero
Nella comunità dell’Antico Testamento, Dio esprime un codice di comportamento: la legge dell’alleanza (Esodo 20, 23). Tre quarti del contenuto riguarda i rapporti con l’altro in situazione di carenza: con il povero. Il codice si esprime al negativo: Non condurre il tuo fratello in quella situazione nella quale ti trovavi in Egitto, cioè: comportati con solidarietà nei confronti dei poveri, perché tu hai provato in Egitto cosa significa essere povero. Questo comportamento è un prolungare l’intervento liberatore di Dio verso Israele povero in Egitto.
Nella comunità del Nuovo Testamento, Luca (Atti, cap 2,4) presenta un’immagine ideale della comunità primitiva di Gerusalemme. Non ci sono più poveri, indigenti, perché tutti sono padroni.
Paolo, nella 2 Corinzi, dice che non sono i carismi i fenomeni che definiscono la comunità in quanto tale. Il vero carisma, il vero dono che definisce la presenza dello Spirito è l’agape, l’amore gratuito, la capacità di stabilire rapporti. I carismi hanno valore solo se servono alla costruzione della comunità, della casa, costituita dalla capacità di stabilire relazioni, non in modo psicologistico, ma dando ad ognuno ciò di cui ha bisogno per sconfiggere l’indigenza.
la chiesa di poveri

Alle Beatitudini sono state date diverse interpretazioni. Forse nessuna convince totalmente. D’altra parte, Gesù ha parlato in seconda persona: Beati voi poveri: lo capiscono quelli a cui Gesù si rivolge, non siamo noi i destinatari. Le beatitudini sono piene di contraddizioni sul piano intellettuale. Fondamentalmente la contraddizione è: beati i poveri. I poveri sono i non beati: mancando di beni, di averi appartenenti al mondo dell’essere, non sono integrati nella creazione, non ne fruiscono appieno. In che modo Gesù può dire al cieco, al sordo, allo storpio, al prigioniero: siete beati? Luca risolve il problema con i due tempi. Beati voi che oggi siete poveri perché allora il Regno dei cieli vi apparterrà. I poveri avranno l’altro mondo, il mondo che viene oltre la storia. Probabilmente Gesù non pensava a questo dopo.
Matteo rilegge le beatitudini in modo diverso. Dice: Beati adesso, già oggi, perché i poveri sono ricchi su di un altro piano, sul piano dello spirito. Forse Matteo spiritualizza eccessivamente la categoria del povero.
Cosa intendeva dire Gesù? Seguendo la linea di Sofonia, povero è colui che nella sua carenza scopre la presenza di Dio, possibilità negata a chi non è povero, a chi ha. La carenza del povero diventa luogo, occasione di un’altra ricchezza: la pienezza di esperienza della presenza di Dio. Gesù voleva dire: voi poveri siete dentro il disegno di Dio. Solo voi lo porterete avanti; diversamente non si realizzerà, resterà inadempiuto.
Paolo riprenderà questi concetti più tardi, nella 1Corinzi 1,27-28: « Ma Dio ha scelto ciò che è stoltezza nel mondo per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che è debolezza del mondo per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che è ignobile nel mondo e ciò che è disprezzato e ciò che è nulla per annientare le cose che sono ». La negatività del povero, la sua esperienza di emarginazione sono il luogo della manifestazione piena della positività di Dio. Là dove la povertà radicale, che è di tutti, è povertà attuale, qui è il luogo disponibile per l’accendersi della gloria di Dio, della sua manifestazione. Il modo giusto per leggere evangelicamente questa pagina di Paolo consiste nel ricondurla alle beatitudini.
La vita del povero è quasi organicamente intrisa di spiritualità. La spiritualità, la religiosità, l’esperienza di Dio sono l’unica ricchezza di umanità di cui i poveri-poveri possono fruire, ciò che permette loro di sopravvivere, di non cadere nel vortice del non senso.
Questa spiritualità di base del povero può essere sintetizzata in tre voci: assumere, lottare, fruire.
Assumere
Accettare la vita, dire di sì alla vita. E per chi la vita non è altro che miseria, solo un peso opprimente, accettarla è l’atto fondamentale della santità. È ciò che Gesù ha fatto nell’incarnazione: è entrato nella condizione umana di carne (Giovanni), di schiavo (Filippesi), di povero, (1 Corinzi), ha assunto l’esistenza umana in quanto fallita e lì dentro ha detto sì a Dio. Il povero ha più ragioni per suicidarsi che campare. Di fronte alla realtà nella sua durezza può avere la tentazione o di ribellarsi (nel senso di pestare i piedi, di rompere tutto, come nel senso di fare male a se stesso) o di scappare (evadendo con l’alcool o con la droga). Accettare di esistere, non scappare, non ribellarsi per il povero non è un atto casuale, ma è l’atto fondamentale dell’obbedienza alla creazione, del fare la volontà di Dio. Vivere in un mondo facile quale il nostro può diventare un’evasione dall’incarnarsi nel fondo dell’esistenza, un vivere in superficie, uno sfiorare la realtà, senza guardare mai in faccia la propria radicale povertà. Il povero non può fare questo: vive a confronto con la sua radicale povertà, perché questa da radicale è sempre attuale. Egli o è eroe o è traditore, non può essere una persona mediamente per bene perché a questo livello già accettare la vita è una forma di eroismo, la cui alternativa è il rifiuto della vita stessa o sopprimendosi o evadendo.
Lottare
Percepire che nel disegno di Dio questa situazione di miseria non è ciò che egli vuole e, di conseguenza, sposare il disegno di liberazione di Dio; percependo che nella creazione c’è una dimensione di promessa ancora inadempiuta, dire di sì ad essa. Lottare è un atto di promozione nella solidarietà. Lottare per i beni essenziali ha in sé, quasi fisiologicamente, quella dimensione di giustizia, di obbedienza al disegno di Dio che invece manca di mano in mano che la lotta diventa ricerca del superfluo e quindi, automaticamente, lotta corporativa e individualistica.
Fruire
Il povero, dentro quel deserto che è la sua vita, sa trovare occasioni di fruizione, di gioia, di festa.
Nell’umanità povera la donna ha avuto sempre una posizione di privilegio: la capacità di assumere, di lottare, di fruire è sempre stata più delle donne che degli uomini.
Il problema ora consiste nel togliere le carenze, nel reintegrare i poveri nelle strutture oggettive della creazione senza togliere la soggettività propria del povero. La strada su cui l’occidente è incamminato è sbagliata: noi, che abbiamo raggiunto i beni della creazione, siamo soggetti inetti a viverli secondo lo spirito della creazione; i poveri, che sono più dentro di noi nell’orizzonte della creazione, non hanno ancora quei beni. Non ancora: cioè un qualcosa può ancora venire, e se verrà, verrà da qui.
considerazioni

considerazione storica
Si tratta di vedere come, nella Chiesa, il logos, il discorso, il modo di guardare la realtà, che ha costituito gli « occhi di fede » della comunità credente, non è partito dall’idea del povero come rivelazione di Dio, della gloria Dei nella vita pauperis.
La Chiesa come comunità dei credenti è stata limitata nel suo essere Chiesa per i poveri e di poveri da alcune riserve.
Una prima remora è l’escatologismo, quella concezione per cui la vita terrena dell’uomo è solo un breve passaggio, non ha peso autonomo, ma è funzionale alla vita ultraterrena. Do da mangiare a chi ha fame, da bere a chi ha sete, ma mi chiedo: a cosa serve, se tutto passa? Ecco la riserva, il limite intrinseco, la relativizzazione di quello che faccio. In fondo, se vale la pena dar da mangiare al povero, è perché questo è la piattaforma per evangelizzarlo, per parlargli di Dio. È una seconda intenzione che guasta, avvelena, corrompe finemente l’approccio al povero. Ci si dimentica della pagina di Matteo sul giudizio universale: ciò che il giudice chiede non è se, attraverso il pane, l’acqua, il vestito, la visita al carcerato si è puntato più in là, all’anima, ma se è stato dato pane, acqua, ecc. Punto e basta. Io non sono responsabile della salvezza dell’anima dell’altro; lo sono della salvezza della mia anima, che opero salvando il corpo del povero, cioè l’insieme dei suoi bisogni terreni, quelli che io posso soddisfare.
Il limite che ha intaccato la volontà di promozione del povero, anche da parte delle coscienze più pure della Chiesa, è dunque in questo non prendere sul serio l’assolutezza dell’atto del dare il pane.
Una seconda riserva è di tipo ideologico, confessionale, ecclesiastico: la vita del povero è importante, ma più importante sono gli interessi, i diritti della Chiesa. Quando ci si trova in situazioni in cui un intervento deciso per i diritti dell’uomo scatena qualcosa che mette a repentaglio la vita della Chiesa, ecco la remora: poveri sì, ma il marxismo è ateo. La paura del comunismo, dell’ideologia marxista atea frena l’azione anche là dove il bisogno del povero è lampante.
Questa seconda riserva è legata e derivata dalla prima, c’è sempre stato un filo diretto tra escatologismo e ecclesiocentrismo: se ciò che unicamente conta è la salvezza dell’anima, sulla terra ciò che è più importante è preservare quei personaggi che sono gli strumenti scelti della salvezza dell’anima.
Una terza riserva è quella della theologia gloriae e riguarda la chiesa come gerarchia. Durante l’incoronazione del nuovo papa, un cardinale lo incensava dicendo: « Sic transit gloria mundi ». Questa frase sta a significare che il papato è persino incoronazione, ma al tempo stesso l’individuo che diventa papa deve ricordare che la gloria mundi passa, deve restarne distaccato. È giusto che il papato sia espressione di gloria, di regalità, perché il papa è il Cristo in terra, è incarnazione della gloria di Dio e di Cristo risorto; ma l’individuo come tale è l’umile servo. C’è una separazione tra il ruolo, che sta nell’ordine della gloria e l’individuo, che è chiamato ad essere discepolo di Gesù. Secondo la Theologia gloriae, il positivo di Dio, entrando nella storia, assume e trova espressione nel positivo della storia (gloria, onore, prestigio, autorità). In questo senso, il papa è degno di questa gloria più di ogni altro. Ma l’incarnazione di Gesù non è stato questo: la Parola si è fatta carne, la gloria di Dio si è fatta schiavitù, la ricchezza si è fatta povertà. Solo il negativo dentro la storia può esprimere il positivo di Dio. Questo è il principio della Theologia crucis, Il papato, proprio perché è incarnazione della gloria di Dio nel mondo, deve essere sub contraria specie: non gloria, ma piccolezza, povertà, perché la legge dell’incarnazione è che la gloria di Dio può entrare nella storia solo svuotandosi o spogliandosi. Ecco, dunque, nella Theologia gloriae una riserva ad assumere la povertà fino in fondo.
considerazione teologica
Nel convegno « Evangelizzazione e promozione umana » si intese affrontare un nodo teorico: la Chiesa si definisce come organo di evangelizzazione o di promozione umana? C’è un primato di un momento sull’altro? Si tratta di due fini uguali?
Il bisogno fondamentale, elementare dell’uomo è il bisogno di pane: ad esso soddisfa la promozione umana, che fa sì che l’uomo, nell’insieme dei suoi bisogni, venga colmato, diventi uomo adempiuto. Ma c’è nell’uomo anche un bisogno di senso, di sapere che la sua vita è inserita in un quadro superiore, trascendente: ad esso soddisfa l’evangelizzazione, l’annuncio della alvezza, la buona novella che alla tua vita è dato o è restituito il suo senso proprio. Queste due esigenze possono saldarsi, convergere e diventare una nella prassi evangelica.
La cellula del dono del pane (cioè della promozione dell’uomo) è la volontà di promozione, è quell’atto in cui, assieme al pane che dò, c’è la mia volontà di bene per l’altro al quale dò. In questo atto c’è l’annuncio, la comunicazione, la testimonianza di fronte a lui che c’è la volontà, l’amore, quella realtà che fa sentire all’altro che la sua vita è circondata di senso. All’origine della promozione umana c’è un’evangelizzazione che non è predicazione del vangelo con parole; c’è la bontà, c’è l’amore e lo si vede nel gesto di colui che dà il pane. Quell’atto che, nel momento stesso in cui dona un bene particolare, lascia trasparire la sorgente di quel bene (la volontà di bene), non è solo atto, ma anche annuncio: è l’annuncio per eccellenza. C’è un atto originario che salda la concretezza del dono e la testimonianza della sorgente del dono: è l’incontro interpersonale.
La prassi evangelica in quanto prassi, produce, in quanto gesto significa, esprime la fonte di ciò che produce, cioè illumina sul senso. L’atto del dare il pane (atto-gesto, segno-efficacia) è atto sacramentale.
La prassi evangelica è la ragione d’essere della Chiesa nel mondo. Lo specifico della chiesa è sollecitare quegli atti in cui insieme al promuovere si annuncia, si promuove un’altra volta, in un gesto di significazione della totalità di senso.
considerazione pratica
Come la chiesa d’occidente oggi può farsi luogo di prassi evangelica.
Stiamo passando da una società il cui tempo è assorbito dalla lotta per sopravvivere ad una società che ha la possibilità di lottare per vivere, per la qualità. Il nuovo fronte di lotta è questo: siamo liberi da, ma siamo liberi per che cosa? Per i beni gratuiti, per i beni in sé. All’interno di questo regno del gratuito che si sta delineando, la comunità ecclesiale ha una sua specificità: sviluppare quella parte del gratuito che è la gratuità del dono. Nei beni gratuiti c’è anche quel bene che è l’esercizio della gratuità, della solidarietà inventiva, l’invenzione e la produzione di chi non ha davanti un codice scritto, ma ha occhi capaci di leggere codici.
Non bisogna mai dimenticare di tornare alla fonte di ogni creatività e solidarietà, all’atto – gesto dell’incontro interpersonale, pena la perdita della memoria della fonte e lo scadere della solidarietà a semplice organizzazione. Non bisogna però neppure fare di questo l’unicum, dire: ciò che conta è l’incontro personale: lo si trasformerebbe in narcisismo. Se dico: « conta di più l’amore del pane che do », ho già infettato il rapporto amore – pane. Il gesto mantiene la sua verità solo in quanto guarda tutto l’atto; se si gira a guardare se stesso e dice: conta di più l’amore, diventa narcisismo.
Non bisogna rifiutare, da narcisisti del gesto personalistico, di calarsi dentro le mediazioni, dentro la sfera della solidarietà mediata dalle organizzazioni. Forse è bene informarsi un po’ su cosa sia l’informatica, questa mediazione oggi così rilevante. Il problema è non lasciarsi informatizzare, cioè di sapere usare l’informatica.

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IL PERDONO E IL SUO VALORE EDUCATIVO

http://www.collevalenza.it/Riviste/2003/Riv0303/Riv0303_03.htm

(tutta la Tesi tra gennaio e ottobre 2002, sito: 

http://www.collevalenza.it/elenco_riviste_mensili_2003.htm )

IL PERDONO E IL SUO VALORE EDUCATIVO

Estratto dalla Tesi di Laurea presso la UNIVERSITA’ PONTIFICIA SALESIANA

Facoltà di Teologia – Dipartimento di Pastorale Giovanile e Catechetica

Roma 2002

1.3 Il perdono e le dimensioni dell’uomo

Abbiamo visto come il perdono sia l’atto libero di una persona matura, perché coinvolge tutte le sue facoltà. In questo paragrafo cercheremo di focalizzare quali dimensioni-facoltà della persona siano coinvolte nel processo del perdono.

1.3.1 La dimensione cognitiva e razionale del perdono
Prima di perdonare, la persona che è stata offesa, cerca di comprendere la natura di ciò che lo ha colpito, il perché dell’offesa subita: le sue origini prossime o lontane e le sue conseguenze.
È un dato di fatto che tutti coloro che si trovano in una situazione di offesi si scontrano con una prima difficoltà: l’enigma dell’offesa subita(1).
L’offesa che interviene in una relazione fra due persone, cambia la natura di una storia comune. Introduce quelle due persone nella realtà di una nuova esperienza: sorpresa, delusione, collera, tristezza isoleranno l’offeso privato di un bene stabile; rimorsi, dispiacere, imbarazzo per la colpa commessa, timore delle reazioni, chiuderanno l’offensore in quel momento passato in cui ha mancato. Prevista o imprevista, volontaria o involontaria, l’offesa che ferisce o uccide lo fa in innumerevoli modi. Entrambi però, offensore e offeso, hanno l’impressione che se riuscissero a comprendere ciò che è accaduto potrebbero perdonare. È bene dissipare l’identificazione tra perdonabile e comprensibile. L’intelligenza comunque conserva sempre la capacità di ricostruire la concatenazione dei fatti, delle ragioni e delle motivazioni, ma è incapace con la sua sola luce di penetrare le motivazioni profonde della volontà dell’offensore. Supponendo comunque che abbia questa capacità di penetrazione e di elencazione delle ragioni del perdonare, le mancherà sempre quella forza che non dipende più da essa ma dalla volontà di perdonare.
L’intelligenza può poi stabilire una gradazione e parlare di offesa leggera, grave, gravissima, indicibile, inimmaginabile. L’intelligenza può pronunciare la parola imperdonabile e sopprimere così, assieme alla possibilità di perdono l’oggetto che si propone di comprendere?

1.3.2 La dimensione emozionale e relazionale del perdono
Qualsiasi offesa, colpisce direttamente o indirettamente la nostra affettività. Il più delle volte colpisce nell’altro ciò che non si è voluto colpire. Talvolta colpisce i bisogni profondi dell’uomo: il bisogno di essere rispettato, il bisogno di essere accolto, il bisogno di essere rassicurato(2), talvolta si percepisce che l’offesa può derivare da sentimenti ostili chiaramente espressi (antipatia, aggressività); molte volte il soggetto si sente contrariato nel dinamismo della sua affettività: cattiva intesa, insuccessi sentimentali, amicizie deluse…(3). Tali offese lasciano un segno sulla nostra memoria affettiva(4): spesso si prova un senso di shock, di repressione, di rifiuto, tale rifiuto può degenerare in un senso di intorpidimento emotivo o di fluttuazione sentimentale(5), tutto questo arriva a essere determinante nell’atto del perdonare. Spesso l’offesa ritorna alla mente con un carico di emozione e di sofferenza, forse di domande e dubbi, con le riletture delle sofferenze mille volte rivisitate. In particolare, la presenza di immagini, che rinnovano psicologicamente l’oltraggio, trasforma il fatto del ricordo in una nuova esperienza dell’offesa. Il processo del perdono quindi ha a che fare necessariamente con questa memoria affettiva: il passato dimenticato o ricreato ha bisogno di un’integrazione veritiera.

1.3.3 La dimensione volitiva o comportamentale del perdono
La persona che si accinge a perdonare è una persona ferita dall’offesa. Ciò significa che la scelta che sta per fare si presenta ad essa attraverso una precisa esperienza di sofferenza, di qui la difficoltà di attribuire la scelta del perdono alla libera determinazione di una libertà e alla immediata soddisfazione di una necessità di porre fine a ciò che fa soffrire. Si ammetterà quindi che è molto difficile distinguere, nell’esperienza dolorosa in cui si presentano, il desiderio e la volontà di perdonare. In realtà, spesso il discernimento dei criteri di ogni decisione morale comporta questo genere di difficoltà. L’elemento tipico dell’esperienza del perdono è quello che la scelta di perdonare avviene sempre nel contesto particolare della sofferenza(6). Il fatto che il perdono è un atto di volontà, esige da un lato la piena coscienza dell’atto e la chiarezza dell’idea che gli corrisponde e dall’altro il sentimento che l’atto è voluto. In altre parole è importante tener presenti i sentimenti e le motivazioni del perdono. L’esistenza di un sentimento nel perdono non impedisce che solo le motivazioni facciano dell’atto del perdono un movimento deliberato. Inoltre, un sentimento riconosciuto, poi accettato e voluto, può trasformarsi in una motivazione valida. La dimensione volitiva del perdono quindi implica una volontà che riesca a immobilizzare giudizi-motivazioni e sentimenti interni alla persona che perdona, ma al tempo stesso la presenza di abiti morali come disposizioni interne, stabili ed efficaci per rispondere alle situazioni in forma moralmente buona(7), cioè delle virtù.
Per la prospettiva eminentemente educativa che ci siamo dati nel nostro elaborato, ci sembra che tra le virtù necessarie nel processo del perdonare, spicca la prudenza. La virtù della prudenza è una virtù intellettiva e morale al tempo stesso. In quanto virtù intellettiva essa aiuta l’intelligenza a identificare il bene da compiere, in quanto virtù morale perfeziona e guida la condotta umana (intelletto pratico) verso beni essenzialmente pratici, in altre parole è intesa come capacità di calcolare, nella situazione di fatto e tenendo conto dei condizionamenti presenti, quali strade operative sono possibili(8). È la prudenza che permette al perdono di donarsi nella complessità delle esperienze concrete e di superare, nella concretezza del perdono l’antinomia tra giustizia, (l’offesa fatta deve essere punita) e la misericordia (l’uomo comunque deve essere compreso sostenuto ed aiutato).

1.4 Chi è che perdono? (l’oggetto del perdono)
Fin ora abbiamo considerato la persona che si sente offesa, ora ci sembra opportuno analizzare colui che compie l’offesa, o meglio colui che è percepito come offensore, in altre parole: chi perdoniamo quando perdoniamo?
Pensiamo di tralasciare, in questa sede, una ulteriore specificazione dell’offensore, in una close relationship, vogliamo invece mettere l’accento su casi particolari di offensore.

1.4.1 Perdonare chi è invisibile
Alcune persone entrano nella nostra esistenza per un momento, poi si spostano dove non possiamo più vederle. Sono invisibili, ma spesso molto reali come chi ci sta di fronte, è solo difficile raggiungerle per toccarle e perdonarle. Una persona diventa invisibile quando muore prima che possiamo perdonarla o quando si nasconde dietro la maschera di un’azienda… Perdonare i genitori che sono morti, anche se non hanno fatto niente di così grave può risultare molto difficile. Non vogliamo doverli perdonare perché se li perdoniamo significa che abbiamo trovato in loro dei difetti e che, forse, li abbiamo odiati. Quando dobbiamo perdonare un genitore morto, dobbiamo affrontare la possibilità reale che nostro padre e nostra madre ci abbiano fatto realmente un torto. È importante ammettere i sentimenti, essere consapevoli che perdonare un genitore morto significa perdonare una parte di noi stessi. Da ultimo implica anche che non ci può mai essere riavvicinamento, riconciliazione, questa va oltre il rapporto umano e può necessitare un lungo tempo. Come pure diventa difficile perdonare un’azienda che ha licenziato un operaio. È importante dare un nome, cercare la persona che può esserne stata la causa. Il perdono chiede sempre un volto da perdonare.

1.4.2 Perdonare qualcuno a cui non importa
E’ il caso più tipico in cui si vuole perdonare ma dalla parte dell’offensore non c’è nessun segno tangibile di pentimento. Forse è bene chiarire che cosa significa pentirsi. Non significa certamente chiedere scusa: spesso quando scopriamo di essere colpevoli ci scusiamo. Le scuse lubrificano la vita quando la capacità di sopportazione comincia ad esaurirsi. Fatte al momento giusto e con sincerità sono un omaggio all’educazione, un inchino discreto per mantenere le controversie entro limiti tollerabili(9) ma il pentimento è ben altro. “Il pentimento è una montagna a quattro livelli e per raggiungere la cima bisogna oltrepassarli tutti(10). Bisogna cercare di vedere le nostre azioni con gli occhi dell’altro, percependo che i sentimenti, per ciò che gli abbiamo fatto sono veri. Bisogna poi passare dalla percezione alla sofferenza, condividendo il male che gli abbiamo fatto. In un terzo momento chi è veramente pentito è chiamato a confessare la propria colpa. Che non significa solamente ammettere la propria colpa, ma diciamo, a chi sta soffrendo, che soffriamo anche noi per la ferita che gli abbiamo inferto(11). Infine il pentimento implica la promessa, l’impegno a non fare più il male. Nel caso in cui non ci siano questi quattro passaggi è ancora possibile perdonare?
Richiamiamo a questo punto il presupposto da cui siamo partiti nella nostra riflessione: il perdono può avvenire solamente in una relazione tra due persone. È chiaro che se uno dei due esce da questa relazione non vi è possibile il perdono completo, un perdono cioè che giunga alla riconciliazione dei due. D’altro canto ci si chiede se non sia giusto, per chi perdona, liberarsi dalla sofferenza provocata dall’offesa. Non possiamo certo costringere le persone a pentirsi. Ma perché dovremmo consentire loro di impedirci di guarire noi stessi? Dobbiamo quindi perdonare le persone alle quali non importa, anche solo per non essere travolti dalla sofferenza, ma per liberarci da essa.

1.4.3 Perdonare se stessi
Talvolta l’uomo si trova a dover perdonare se stesso e il suo senso di colpa. Ci sentiamo in colpa per ciò che abbiamo fatto agli altri. Aver provocato sofferenza e dispiacere diventa spesso un pensiero intollerabile che viene rimosso generando reazioni psicosomatiche inadeguate(12). Sensi di colpa e autoaccuse subentrano anche quando non si riesce a perdonare se stessi anche solo in qualcosa: l’aver ripetuto un errore, l’aver giocato con la salute, strapazzato inutilmente il corpo e la mente, l’essere stati troppo superficiali in situazioni serie… Per superare i sensi di colpa ci si dovrà perdonare. Le persone capaci di autoperdonarsi si sentono liberate dai sentimenti negativi, sensi di colpa e pensieri ossessivi, beneficiano di una maggiore pace interiore e la loro autostima migliora. Riescono ad accettare il proprio passato, sono pronte per un nuovo inizio e per attuare un cambiamento del proprio modo di essere. Per perdonare se stessi non si potrà ignorare l’accaduto, ma confrontarsi con esso. L’elaborazione del passato evita la rimozione, che è meccanismo di difesa estremamente pregiudicante la pace interiore(13). Le componenti che rendono difficile il processo di autoperdono sono l’entità della sofferenza e la gravità dell’accaduto, subiti o recati agli altri. Altri fattori che impediscono l’attuazione del processo di perdono sono la mancanza di autostima, la disarmonia, non aver mai perdonato o averlo fatto poche volte, beneficiando quindi in maniera blanda dei suoi effetti. Le persone invece che hanno fiducia e partono dal presupposto che possono cambiare le loro caratteristiche meno buone, hanno più capacità di perdonarsi.
Il perdono con se stesso parte quindi da un riconciliarsi con la propria storia personale. In qualsiasi periodo siamo nati avremmo preferito sottrarci a certe situazioni, certe ferite che nel corso della vita si sono aperte. Perdonare se stessi significa riconciliarsi con tutto ciò che abbiamo vissuto e sofferto. Concretamente questo comporta perdonare quanti mi hanno ferito(14), soltanto così è possibile liberarsi dalla tendenza a soffermarsi continuamente sulle mie ferite, soltanto così mi libero dall’influsso distruttivo di quanti mi hanno offeso e ferito.
Perdonare se stessi in altre parole implica anche dire di sì a ciò che sono diventato, dire di sì alle mie capacità e ai miei punti forti, ma anche ai miei difetti e ai miei punti deboli, alle mie minacce e ai miei punti sensibili, alle mie paure e alle mie tendenze depressive, alle mie incapacità di legarmi e alla mia modesta capacità di resistenza. Devo guardare con amore quello che non mi fa affatto piacere, quello che contraddice l’immagine che ho di me stesso, la mia impazienza, il mio timore, la mia poca stima. È un processo che dura una vita. Dire di sì a me stesso significa riconciliarmi con la mia ombra(15), accettarla, che significa non lasciare semplicemente che esista, ma confessarne innanzitutto l’esistenza. E questo è il primo passo per l’opera di trasformazione di cambiamento che innesca il perdono.

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Publié dans:meditazioni, Teologia |on 8 avril, 2014 |Pas de commentaires »

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