Archive pour novembre, 2013

L’ARTE SACRA AUTENTICA : RAPPRESENTA LA REALTÀ CREATA…

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L’ARTE SACRA AUTENTICA

RAPPRESENTA LA REALTÀ CREATA E ATTRAVERSO ESSA E IN ESSA QUELL’ »OLTRE » CHE LA SPIEGA, LA FONDA, LA REDIME

ROMA, 22 NOVEMBRE 2010 (ZENIT.ORG) RODOLFO PAPA

L’arte sacra ha il compito di servire con la bellezza la sacra liturgia. Nella Sacrosanctum Concilium è scritto: “La Chiesa non ha mai avuto come proprio un particolare stile artistico, ma, secondo l’indole e le condizioni dei popoli e le esigenze dei vari Riti, ha ammesso le forme artistiche di ogni epoca, creando così, nel corso dei secoli, un tesoro artistico da conservarsi con ogni cura” (n. 123).
La Chiesa, dunque, non sceglie uno stile; ciò vuol dire che non privilegia il barocco o il neoclassico o il gotico, ma tutti gli stili capaci di servire il rito. Questo non significa, evidentemente, che ogni forma d’arte possa o debba essere accettata acriticamente, infatti nel medesimo documento, viene affermato con chiarezza: « la Chiesa si è sempre ritenuta, a buon diritto, come arbitra, scegliendo tra le opere degli artisti quelle che rispondevano alla fede, alla pietà e alle norme religiosamente tramandate, e risultavano adatte all’uso sacro» (n. 122). Risulta utile, allora, domandarsi “quale” forma artistica possa meglio rispondere alle necessità di una arte sacra cattolica, ovvero “come” l’arte possa servire al meglio “con la dovuta reverenza e il dovuto onore alle esigenze degli edifici sacri e dei sacri riti”.
I documenti conciliari non sprecano parole e tuttavia danno direttive precise: l’arte sacra autentica deve cercare “nobile bellezza” e non “mera sontuosità”, non deve contrariare la fede, i costumi, la pietà cristiana, o offendere il “genuino senso religioso”. Quest’ultimo punto viene esplicitato in due direzioni: le opere d’arte sacra possono offendere il senso religioso genuino o “perché depravate nelle forme”, dunque formalmente inopportune, o perché “mancanti, mediocri o false nell’espressione artistica”(n. 124). Si richiede all’arte sacra la proprietà di una forma bella, “non depravata”, e la capacità di esprimere propriamente e sublimemente il messaggio. Una chiara esemplificazione è presente anche nella Mediator Dei dove Pio XII chiede un’arte che eviti «l’eccessivo realismo da una parte e l’esagerato simbolismo dall’altra» (n. 190).
Queste due espressioni si riferiscono a concrete espressioni storiche. Troviamo infatti “eccessivo realismo” nella complessa corrente culturale del Realismo, nato come reazione al sentimentalismo tardoromantico della pittura alla moda, e che possiamo rintracciare poi nella nuova funzione sociale assegnata al ruolo dell’artista, con peculiare riferimento a temi direttamente tratti dalla realtà contemporanea, e poi ancora la possiamo collegare alla concezione propriamente marxista dell’arte, che condurranno alle riflessioni estetiche della II Internazionale fino alle teorie esposte da G. Lukacs. Inoltre, c’è’ “eccessivo realismo” anche in talune posizioni propriamente interne alla questione dell’arte sacra, ovvero nella corrente estetica che tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento propose dipinti che trattano temi sacri senza affrontarne correttamente la questione, con eccessivo verismo, come per esempio una Crocifissione dipinta da Max Klinger che è stata definita una composizione «mista di elementi di un verismo brutale e di principi puramente idealisti» (C. Costantini, Il Crocifisso nell’arte, Firenze 1911, p. 164).
Troviamo invece “esagerato simbolismo” in un’altra corrente artistica che si contrappone a quella realista. Tra i precursori del pensiero simbolista si possono annoverare G. Moureau, Puvis de Chavannes, O. Redon, e più tardi aderiranno a questa corrente artisti come F. Rops, F. Khnopff, M. J. Whistler. In quegli stessi anni il critico C. Morice elaborò una vera e propria teoria simbolista, definendola sintesi tra spirito e sensi. Fin poi a giungere, dopo il 1890, ad una vera e propria dottrina portata avanti dal gruppo dei Nabís, con P. Sérusier, che ne fu il teorico, dal gruppo dei Rosa-Croce che univa tendenze mistiche e teosofiche e infine dal movimento del convento benedettino di Beuron.
La questione diviene più chiara, dunque, se inquadrata immediatamente nei giusti termini storico-artistici; nell’arte sacra occorre evitare gli eccessi dell’immanentismo da una parte e dell’esoterismo dall’altra. Occorre intraprendere la strada di un “realismo moderato” affiancato da un motivato simbolismo, capaci di cogliere lo slancio metafisico, e di realizzare, come afferma Giovanni Paolo II nella Lettera agli Artisti, un medio metaforico carico di senso. Non dunque un iperrealismo ossessionato da un sempre sfuggente particolare, ma un sano realismo che nel corpo delle cose e nel volto degli uomini sa leggere e alludere, e riconoscere la presenza di Dio.
Nel messaggio agli artisti è detto: “Voi [gli artisti] l’avete aiutata [la Chiesa] a tradurre il suo divino messaggio nel linguaggio delle forme e delle figure, a rendere avvertibile il mondo invisibile”. Mi sembra che in questo passaggio si tocchi il cuore dell’arte sacra. Se l’arte, ogni arte, informa la materia, esprime l’universale mediante il particolare, l’arte sacra, l’arte al servizio della Chiesa, compie anche la sublime mediazione tra l’invisibile e il visibile, tra il divino messaggio e il linguaggio artistico. All’artista è chiesto di dare forma a una materia ri–creando addirittura quel mondo invisibile ma reale che è la suprema speranza dell’uomo.
Tutto ciò mi sembra conduca verso una affermazione dell’arte figurativa —ovvero un’arte che si impegna a “figurare” la realtà— quale massimo strumento di servizio, quale migliore possibilità di un’arte sacra. L’arte realistica figurativa, infatti, riesce a servire adeguatamente il culto cattolico, perché si fonda sulla realtà creata e redenta, e, proprio confrontandosi con la realtà, riesce a evitare gli opposti scogli degli eccessi. Proprio per questo si può affermare che il più proprio dell’arte cristiana di tutti i tempi è un orizzonte di “realismo moderato” o se volgiamo di “realismo antropologico”, all’interno del quale si sono sviluppati, nel tempo, tutti gli stili propri dell’arte cristiana (data la complessità dell’argomento si rimanda ad altri articoli).
L’artista che voglia servire Dio nella Chiesa, non può che misurarsi con l’“immagine” la quale rende avvertibile il mondo invisibile. All’artista cristiano è, dunque, chiesto un particolare impegno: quello di rappresentare la realtà creata e attraverso essa e in essa quell’“oltre” che la spiega, la fonda, la redime. L’arte figurativa non deve neanche temere come inattuale la “narrazione”, l’arte è sempre narrativa, tanto più quando si pone al servizio di una storia avvenuta, in un tempo e in uno spazio. Per la particolarità del compito, all’artista è chiesto anche di sapere “cosa narrare”: conoscenza evangelica, competenza teologica, preparazione storico-artistica e ampia conoscenza di tutta la tradizione iconografica della Chiesa. D’altra parte, la teologia stessa tende a farsi sempre più narrativa.
L’opera d’arte sacra, dunque, costituisce uno strumento di catechesi, di meditazione, di preghiera, essendo destinata “al culto cattolico, all’edificazione, alla pietà e all’istruzione religiosa dei fedeli”; gli artisti, come ricorda il più volte citato messaggio della Chiesa agli artisti, hanno “edificato e decorato i suoi templi, celebrato i suoi dogmi, arricchito la sua liturgia” e devono continuare a farlo.
Così anche noi oggi siamo chiamati a realizzare nel nostro tempo opere e capolavori atti a edificare l’uomo e a rendere Gloria a Dio, come recita ancora la Sacrosanctum Concilium: «Anche l’arte del nostro tempo di tutti i popoli e paesi abbia nella Chiesa libertà di espressione, purché serva con la dovuta reverenza e il dovuto onore alle esigenze degli edifici sacri e dei sacri riti. In tal modo potrà aggiungere la propria voce al mirabile concerto di gloria che uomini eccelsi innalzarono nei secoli passati alla fede cattolica» (n. 123).

* Rodolfo Papa è storico dell’arte, docente di storia delle teorie estetiche presso la Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Urbaniana, Roma; presidente della Accademia Urbana delle Arti. Pittore, membro ordinario della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon. Autore di cicli pittorici di arte sacra in diverse basiliche e cattedrali. Si interessa di questioni iconologiche relative all’arte rinascimentale e barocca, su cui ha scritto monografie e saggi; specialista di Leonardo e Caravaggio, collabora con numerose riviste; tiene dal 2000 una rubrica settimanale di storia dell’arte cristiana alla Radio Vaticana

G.B. Crespi detto il Cerano, Miracolo di San Carlo, 1610 circa Duomo, Milano

G.B. Crespi detto il Cerano, Miracolo di San Carlo, 1610 circa Duomo, Milano dans immagini sacre

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4 NOVEMBRE: SAN CARLO BORROMEO VESCOVO

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SAN CARLO BORROMEO VESCOVO

4 NOVEMBRE

ARONA, NOVARA, 1538 – MILANO, 3 NOVEMBRE 1584

Nato nel 1538 nella Rocca dei Borromeo, sul Lago Maggiore, era il secondo figlio del Conte Giberto e quindi, secondo l’uso delle famiglie nobiliari, fu tonsurato a 12 anni. Studente brillante a Pavia, venne poi chiamato a Roma, dove venne creato cardinale a 22 anni. Fondò a Roma un’Accademia secondo l’uso del tempo, detta delle «Notti Vaticane». Inviato al Concilio di Trento, nel 1563 fu consacrato vescovo e inviato sulla Cattedra di sant’Ambrogio di Milano, una diocesi vastissima che si estendeva su terre lombarde, venete, genovesi e svizzere. Un territorio che il giovane vescovo visitò in ogni angolo, preoccupato della formazione del clero e delle condizioni dei fedeli. Fondò seminari, edificò ospedali e ospizi. Utilizzò le ricchezze di famiglia in favore dei poveri. Impose ordine all’interno delle strutture ecclesiastiche, difendendole dalle ingerenze dei potenti locali. Un’opera per la quale fu obiettivo di un fallito attentanto. Durante la peste del 1576 assistette personalmente i malati. Appoggiò la nascita di istituti e fondazioni e si dedicò con tutte le forze al ministero episcopale guidato dal suo motto: «Humilitas». Morì a 46 anni, consumato dalla malattia il 3 novembre 1584. (Avvenire)

Patronato: Catechisti, Vescovi
Etimologia: Carlo = forte, virile, oppure uomo libero, dal tedesco arcaico
Emblema: Bastone pastorale

Martirologio Romano: Memoria di san Carlo Borromeo, vescovo, che, fatto cardinale da suo zio il papa Pio IV ed eletto vescovo di Milano, fu in questa sede vero pastore attento alle necessità della Chiesa del suo tempo: indisse sinodi e istituì seminari per provvedere alla formazione del clero, visitò più volte tutto il suo gregge per incoraggiare la crescita della vita cristiana ed emanò molti decreti in ordine alla salvezza delle anime. Passò alla patria celeste il giorno precedente a questo.
(3 novembre: A Milano, anniversario della morte di san Carlo Borromeo, vescovo, la cui memoria si celebra domani).

Quella che oggi ci giunge dalla pagina del Calendario, è la voce di uno dei più grandi Vescovi nella storia della Chiesa: grande nella carità, grande nella dottrina, grande nell’apostolato, ma grande soprattutto nella pietà e nella devozione.
« Le anime – dice questa voce, la voce di San Carlo Borromeo – si conquistano con le ginocchia « . Si conquistano cioè con la preghiera, e preghiera umile. San Carlo Borromeo fu uno dei maggiori conquistatori di anime di tutti i tempi.
Era nato nel 1538 nella Rocca dei Borromeo, padroni e signori del Lago Maggiore e delle terre rivierasche. Era il secondo figlio del Conte Giberto e quindi, secondo l’uso delle famiglie nobiliari, fu tonsurato a 12 anni. Il giovane prese la cosa sul serio: studente a Pavia, dette subito prova delle sue doti intellettuali. Chiamato a Roma, venne creato Cardinale a soli 22 anni. Gli onori e le prebende piovvero abbondanti sul suo cappello cardinalizio, poiché il Papa Pio IV era suo zio. Amante dello studio, fondò a Roma un’Accademia secondo l’uso del tempo, detta delle  » Notti Vaticane « . Inviato al Concilio di Trento vi fu, secondo la relazione di un ambasciatore,  » più esecutore di ordini che consigliere « . Ma si rivelò anche un lavoratore formidabile, un vero forzato della penna e della carta.
Nel 1562, morto il fratello maggiore, avrebbe potuto chiedere la secolarizzazione, per mettersi a capo della famiglia. Restò invece nello stato ecclesiastico, e fu consacrato Vescovo nel 1563, a 25 anni.
Entrò trionfalmente a Milano, destinata ad essere il campo della sua attività apostolica. La sua arcidiocesi era vasta come un regno, stendendosi su terre lombarde, venete, genovesi e svizzere. Il giovane Vescovo la visitò in ogni angolo, preoccupato della formazione del clero e delle condizioni dei fedeli. Fondò seminari, edificò ospedali e ospizi. Profuse, inoltre, a piene mani, le ricchezze di famiglia in favore dei poveri.
Nello stesso tempo, difese i diritti della Chiesa contro i signorotti e i potenti. Riportò l’ordine e la disciplina nei conventi, con un tal rigore da buscarsi un colpo d’archibugio, sparato da un frate indegno, mentre pregava nella sua cappella. La palla non lo colpì, e il foro sulla cappamagna cardinalizia fu la più bella decorazione dell’Arcivescovo di Milano.
Durante la terribile peste del 1576 quella stessa cappa divenne coperta dei miti, assistiti personalmente dal Cardinale Arcivescovo. La sua attività apparve prodigiosa, come organizzatore e ispiratore di confraternite religiose, di opere pie, di istituti benefici.
Milano, durante il suo episcopato, rifulse su tutte le altre città italiane. Da Roma, i Santi della riforma cattolica guardavano ammirati e consolati al Borromeo, modello di tutti i Vescovi.
Ma per quanto robusta, la sua fibra era sottoposta a una fatica troppo grave. Bruciato dalla febbre, continuò le sue visite pastorali, senza mangiare, senza dormire, pregando e insegnando.
Fino all’ultimo, continuò a seguire personalmente tutte le sue fondazioni, contrassegnate dal suo motto, formato da una sola parola: Humilitas.
Il 3 novembre dei 1584, il titanico Vescovo di Milano crollò sotto il peso della sua insostenibile fatica. Aveva soltanto 46 anni, e lasciava ai Milanesi il ricordo di una santità seconda soltanto a quella di un altro grande Vescovo milanese, Sant’Ambrogio.

Fonte: Archivio Parrocchia

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INIZIO DELLA SAPIENZA… – MONASTERO ORTODOSSO DI SAN SERAFINO DI SAROV

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MONASTERO ORTODOSSO DI SAN SERAFINO DI SAROV

INIZIO DELLA SAPIENZA…

« Inizio della sapienza è il timore del Signore », così il salmista ammonisce, ed al frequentatore contemporaneo della pagine (solo delle « pagine ») della Scrittura questo suona come un anacronistico richiamo alla minaccia di punizioni temporali (da una disgrazia personale o familiare fino al Diluvio) o alla terribile visione dei tormenti eterni dell’Inferno, magari usciti da una Divina Commedia illustrata dal Dorè. Niente di più falso: il « timor di Dio » di cui parlano le Sacre Pagine, è, come » la legge fatta di prescrizioni e di decreti », il salutare rimedio posto dall’economia del piano salvifico di Dio all’immaturità dei suoi figli che – finché restano nella minorità spirituale - » in nulla differiscon dallo schiavo » come ricorda Paolo ai Galati; e siccome noi non siamo – probabilmente – ancora pervenuti alla statura dell’amore che « caccia via il timore, perché chi teme non è perfetto nell’amore » (prima epistola di San Giovanni, 4) – cominciamo la nostra riflessione sapienziale dal timor di Dio. Scopriremo che, lontano dal rivelare un volto terribile di Dio, dimostra la premura paterna di liberarci da uno dei più terribili inganni che ci sovrastano; spesso noi pensiamo che « esser liberi » equivalga a « fare ciò che vogliamo » non avvedendoci che « ciò che vogliamo  » è invece ciò che esige la necessità – deterministica direi – della nostra natura fisica. L’equazione esprime cioè l’inganno della falsa libertà.
L’istinto naturale infatti -quello che abbiamo in comune con gli animali – è la più pesante catena, il più terribile giogo che ci portiamo appresso, fino a quell’istinto di morte che Freud (Al di là del principio del piacere) vide giustamente iscritto in ogni organismo vivente, uomo non escluso; così l’asservimento alla nostra natura fisica equivale, filosoficamente parlando, al nostro « essere per la morte » caro ad alcuni pensatori esistenzialisti; « chi – dunque – ci libererà da questo corpo di morte ? » – « inizio della sapienza è il timore del Signore », esso si oppone alla necessità naturale e ci addita la legge come massimamente liberatoria.
Dice l’istinto: « mangia! se vuoi vivere, paga al ventre il tuo tributo! » La legge al contrario prescrive il digiuno ascetico come via per affrancarci dalla servitù all’istinto, perchè l’uomo « vive di ogni parola che esce dalla bocca di Dio »; pensate a certi santi asceti che hanno vissuto di niente: poco pane qualche goccia d’acqua fino a ridurre il nutrimento alla sola Comunione Eucaristica; agiografie d’oriente e d’occidente son pronte a fornirci, fino ai giorni nostri, esempi numerosi: uomini e donne spiritualizzati, fatti lievi, lontani da ogni pesantezza carnale e terrena, già deiformi, pronti – come aquile dall’alto volo- a raggiungere le vette del Tabor spirituale, del Sinai mistico di San Gregorio di Nissa, del Carmelo dei contemplativi spagnoli del XVI secolo; corpi da icona, con le labbra piccole per la consumazione del frammento eucaristico solo, cui fanno riscontro i grandi occhi, dilatati fino all’estremo per l’incontro interpersonale con Dio e con i fratelli, occhi contemplanti già da quaggiù la visione della Luce Increata; « occhi chiaroveggenti » per dirla con Dovstoevskij.
Dice l’istinto naturale: « fa’ sesso! quando ne senti il bisogno, ché « l’astuzia della ragione » (della ragione immanente di hegeliana memoria), lo userà per riprodurre la specie, per chiamare alla vita altri « destinati alla morte » . Al contrario la legge: non fornicare! – ossia, in una interpretazione amplia, sii tu dominatore e non dominato del tuo appetito sessuale, incornicialo in un rapporto interpersonale in cui l’incontrarsi dei volti – ricorda i grandi occhi delle icone – sia più pregnante di senso che non l’incontro genitale dei corpi; oppure mettilo al servizio dell’eros trasfigurato della vita monastica che guarda lontano, verso orizzonti escatologici, là dove « non si prende né moglie né marito ma si è come gli angeli del cielo ».
Dice l’istinto « aggredisci », « per non esser sopraffatto,segui l’istinto: homo homini lupus  » (Hobbes) . E la legge di rimando: « tu non ucciderai! »,  » vi dico: non resistete al malvagio, se uno ti percuote su una guancia, porgigli anche l’altra »; « beati i mansueti: loro erediteranno la terra »; sì, la terra nuova ed cieli nuovi del Regno. Così, e solo così, l’uomo può avviare il suo processo di trasfigurazione, di redenzione dalla morte, di deificazione, a cui il Risorto ha dato irreversibile inizio ed a cui noi siamo chiamati a rispondere in maniera sinergica, attiva, personale; in questo modo la legge diviene legge di libertà, dell’unica vera libertà; ed il timore si schiude sull’amore sponsale dell’amante Cristo che ci vuol partecipi, nei talami celesti, alla sua vita senza fine.

Un Monaco

Publié dans:meditazioni, Ortodossia |on 4 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

SE LA MORTE SI ECLISSA NEL CIELO DELLA VITA – EDITORIALE DI MONS. BRUNO FORTE

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SE LA MORTE SI ECLISSA NEL CIELO DELLA VITA

EDITORIALE DI MONS. BRUNO FORTE

 su « Il Sole 24 Ore » di domenica 3 novembre

Roma, 04 Novembre 2013 (Zenit.org) Bruno Forte

Riprendiamo il testo dell’editoriale firmato da mons. Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, pubblicato sul quotidiano “Il Sole 24 Ore” di domenica 3 di novembre 2013, pp. 1 e 16.

***
Questi giorni d’inizio Novembre, specialmente dedicati alla memoria di chi non è più fra noi, ci hanno inevitabilmente ricordato un tratto costitutivo della nostra condizione umana, la sua caducità. Martin Heidegger ne parlava come del nostro essere “gettati verso la morte”, e rifletteva: “La morte non è affatto un mancare ultimo… essa è, prima di tutto, un’imminenza che sovrasta”. Con la morte tutti dobbiamo fare i conti, anche se volessimo illuderci che non c’è! È per questo che la vita risulta tanto spesso impastata di malinconia e la sottile striscia di terra, su cui poggiano i nostri piedi, appare fasciata dall’abisso del nulla. Da questa vertigine scaturiscono tanto la situa­zione emotiva dell’an­goscia, così diffusamente umana, quanto quella ripulsa del nulla che suscita, come per contraccolpo, la forza del domandare. È così che il pensiero nasce dalla morte: “Dalla morte, dal timore della morte – afferma Franz Rosenzweig – prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto”. Eppure, nella modernità occidentale e in larga parte fino ai nostri giorni la morte sembra aver conosciuto un oblio. L’ottimismo della ragione adulta, dall’Illuminismo in poi, aveva esorcizzato la morte, relegandola a semplice momento di passaggio nel processo totale dello Spirito. Per l’uomo emancipato della modernità tutto ciò che è notte deve cedere il posto alla luce della ragione. Il mito moderno del progresso svuotava la morte della sua tragicità, perché ne faceva una tappa marginale della storia dell’individuo totalmente assimilato alla causa, sacrificato al trionfo dell’idea. Quest’“eclissi della morte” è culminata nella figura della “morte rovesciata”, espulsa dallo svolgersi della vita, che sembra non sopportare le interruzioni e i silenzi. La morte, quando non può esser taciuta, viene trasformata in spettacolo, in modo che ne sia esorcizzato il pungolo doloroso. È il trionfo della maschera a scapito della verità: scompaiono i segni del lutto; la rassicurazione evasiva e consolatoria sembra averla vinta su tutti i fronti rispetto alla serietà tragica dell’interruzione senza riparo. Eppure, nelle inquietudini del nostro presente, pare profilarsi una “nostalgia di perfetta e consumata giustizia” (Max Horkheimer), una sorta di ricerca del senso perduto, ultimo e più forte della morte. Non si tratta di un’operazione soltanto emotiva, ma di uno sforzo di ritrovare il senso al di là del naufragio: “restituer la mort” (Ghislain Lafont) diventa un compito, che ci sfida tutti.
In questa ripresa della domanda sulla morte, trova nuovo spazio anche l’interrogativo sulla vita e il suo oltre: la morte è il “vallo estremo” o è la sentinella del futuro assoluto, decisivo per le scelte del vivere, anche se non deducibile dal nostro presente? L’interrogativo compendia l’enigma della condizione umana. La fede cristiana, che ha plasmato le culture dell’Occidente e non solo esse, pone dinanzi a quest’enigma un annuncio paradossale: Dio ha fatto sua la morte per dare a noi la vita. C’è una morte, in cui si è consumata la morte della morte: è il morire del Figlio di Dio nella tenebra del Venerdì Santo e nella luce del Suo risorgere alla vita. Nell’evento della morte in Dio avvenuta sulla Croce è rivelato agli occhi della fede il senso ultimo del vivere e del morire umano. Ad esso si volge la ricerca di una via, che faccia non solo della vita il cammino responsabile dell’imparare a morire, ma anche della morte il “dies natalis”, la porta misteriosa del nascere al di là della vita. Un pensatore del calibro di Hans Georg Gadamer ha potuto perciò affermare: “Che Dio abbia fatto sua la morte è quanto di più grande la mente umana abbia mai concepito, e questo le è stato donato”. L’uscita di Dio da sé, l’“exitus a Deo” del Figlio venuto nella carne, culmina nell’evento della Sua morte, rivelata nella sua profondità abissale dall’altra “trasgressione” divina, la resurrezione, il “reditus ad Deum”, in cui la morte è stata ingoiata per la vittoria (cf. 1 Cor 15,54). Fra queste due soglie, che spezzano il cerchio della vita chiusa nel silenzio del nulla, la morte del Figlio si presenta come l’evento al tempo stesso di un supremo abbandono e di una comunione suprema: nel supremo abbandono l’Eterno ha fatto sua l’esperienza della caducità dell’esistere e l’ha assunta in una comunione più grande, quella per la quale il Dio Crocifisso si abbandona a Colui che l’abbandona. La Croce rivela così la possibilità di vivere la lontananza più alta come profondissima vicinanza: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito” (Lc 23,46). Morire in Dio diventa l’evento per il quale la persona, consegnata al supremo abbandono, accetta con Cristo e per Lui di vivere la morte come offerta totale di sé, in un atto di povertà e di obbedienza pura: morire è “abbandonarsi” nel seno di Dio, lasciando che tutto si trasfiguri in Colui che ci accoglie. Lo esprime con rara efficacia la parola poetica: “Portami via per mano ad occhi chiusi / senza un addio che mi trattenga ancora / tra quanti amai, tra le piccole cose / che mi fecero vivo. / Non credevo, Signore, tanto profondo fosse / questo sfiorarsi d’ombre, questo lieve / alitarsi la vita nello specchio / fragile di uno sguardo, / né pensavo che il mondo / divenisse, abbuiando, così acceso / di impensate bellezze” (Renzo Barsacchi, Le notti di Nicodemo). L’audacia divina rende possibile la suprema trasgressione dell’uomo: la vittoria sulla morte. Una vittoria che, certo, resta immersa nel silenzio e nell’oscurità della fede, e che tuttavia apre all’esperienza di un possibile, impossibile amore, fondato sul rapporto con il Trascendente, sul Suo eterno e fedele venire a ciascuno, chiamandolo a sua volta ad andare verso di Lui nella vita, come nella morte. Affacciarsi su quest’ultima sponda equivale a poter trasgredire la soglia in Dio e con Lui. Una soglia che diventa misura di opere e giorni, in cui la morte sia vinta grazie a sempre nuove scelte d’amore. Una sfida per tutti. Una possibile promessa, su cui vale la pena di riflettere insieme, credenti e non credenti, per cogliere in tutta la sua radicalità la dignità della vita personale, senza pregiudizi e senza alibi, liberi dalla paura.

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Icona Russa per Tutti i Santi

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Publié dans:immagini sacre |on 1 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI: 2 NOVEMBRE 2011 – LA COMMEMORAZIONE DI TUTTI I FEDELI DEFUNTI

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20111102_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

AULA PAOLO VI

MERCOLEDÌ, 2 NOVEMBRE 2011 – LA COMMEMORAZIONE DI TUTTI I FEDELI DEFUNTI

Cari fratelli e sorelle!

Dopo avere celebrato la Solennità di Tutti i Santi, la Chiesa ci invita oggi a commemorare tutti i fedeli defunti, a volgere il nostro sguardo a tanti volti che ci hanno preceduto e che hanno concluso il cammino terreno. Nell’Udienza di questo giorno, allora, vorrei proporvi alcuni semplici pensieri sulla realtà della morte, che per noi cristiani è illuminata dalla Risurrezione di Cristo, e per rinnovare la nostra fede nella vita eterna.
Come già dicevo ieri all’Angelus, in questi giorni ci si reca al cimitero per pregare per le persone care che ci hanno lasciato, quasi un andare a visitarle per esprimere loro, ancora una volta, il nostro affetto, per sentirle ancora vicine, ricordando anche, in questo modo, un articolo del Credo: nella comunione dei santi c’è uno stretto legame tra noi che camminiamo ancora su questa terra e tanti fratelli e sorelle che hanno già raggiunto l’eternità.
Da sempre l’uomo si è preoccupato dei suoi morti e ha cercato di dare loro una sorta di seconda vita attraverso l’attenzione, la cura, l’affetto. In un certo modo si vuole conservare la loro esperienza di vita; e, paradossalmente, come essi hanno vissuto, che cosa hanno amato, che cosa hanno temuto, che cosa hanno sperato e che cosa hanno detestato, noi lo sco­priamo proprio dalle tombe, davanti alle quali si affollano ricordi. Esse sono quasi uno specchio del loro mondo.
Perché è così? Perché, nonostante la morte sia spesso un tema quasi proibito nella nostra società, e vi sia il tentativo continuo di levare dalla nostra mente il solo pensiero della morte, essa riguarda ciascuno di noi, riguarda l’uomo di ogni tempo e di ogni spazio. E davanti a questo mistero tutti, anche inconsciamente, cerchiamo qualcosa che ci inviti a sperare, un segnale che ci dia consolazione, che si apra qualche orizzonte, che offra ancora un futuro. La strada della morte, in realtà, è una via della speranza e percorrere i nostri cimiteri, come pure leggere le scritte sulle tombe è compiere un cammino segnato dalla speranza di eternità.
Ma ci chiediamo: perché proviamo timore davanti alla morte? Perché l’umanità, in una sua larga parte, mai si è rassegnata a credere che al di là di essa non vi sia semplicemente il nulla? Direi che le risposte sono molteplici: abbiamo timore davanti alla morte perché abbiamo paura del nulla, di questo partire verso qualcosa che non conosciamo, che ci è igno­to. E allora c’è in noi un senso di rifiuto perché non possiamo accettare che tutto ciò che di bello e di grande è stato realizzato durante un’intera esistenza, venga improvvisamente cancellato, cada nell’abisso del nulla. Soprattutto noi sentiamo che l’amore richiama e chiede eternità e non è possibile accettare che esso venga distrutto dalla morte in un solo momento.
Ancora, abbiamo timore davanti alla morte perché, quando ci troviamo verso la fine dell’esistenza, c’è la percezione che vi sia un giudizio sulle nostre azioni, su come abbiamo condotto la nostra vita, soprattutto su quei punti d’ombra che, con abilità, sappiamo spesso rimuovere o tentiamo di rimuovere dalla nostra coscienza. Direi che proprio la questione del giudizio è spesso sottesa alla cura dell’uomo di tutti i tempi per i defunti, all’attenzione verso le persone che sono state significative per lui e che non gli sono più accanto nel cammino della vita terrena. In un certo senso i gesti di affetto, di amore che circondano il defunto, sono un modo per proteggerlo nella convinzione che essi non rimangano senza effetto sul giudizio. Questo lo possiamo cogliere nella maggior parte delle culture che caratterizzano la storia dell’uomo.
Oggi il mondo è diventato, almeno apparentemente, molto più razionale, o meglio, si è diffusa la tendenza a pensare che ogni realtà debba essere affrontata con i criteri della scienza sperimentale, e che anche alla grande questione della morte si debba rispondere non tanto con la fede, ma partendo da conoscenze sperimentabili, empiriche. Non ci si rende sufficientemente conto, però, che proprio in questo modo si è finiti per cadere in forme di spiritismo, nel tentativo di avere un qualche contatto con il mondo al di là della morte, quasi immaginando che vi sia una realtà che, alla fine, è sarebbe una copia di quella presente.
Cari amici, la solennità di tutti i Santi e la Commemorazione di tutti i fedeli defunti ci dicono che solamente chi può riconoscere una grande speranza nella morte, può an­che vivere una vita a partire dalla speranza. Se noi riduciamo l’uomo esclusivamente alla sua dimensione orizzontale, a ciò che si può percepire empiricamente, la stessa vita perde il suo senso profondo. L’uomo ha bisogno di eternità ed ogni altra speranza per lui è troppo breve, è troppo limitata. L’uomo è spiegabile solamente se c’è un Amore che superi ogni isolamento, anche quello della morte, in una totalità che trascenda anche lo spazio e il tempo. L’uomo è spiegabile, trova il suo senso più profondo, solamente se c’è Dio. E noi sappiamo che Dio è uscito dalla sua lontananza e si è fatto vicino, è entrato nella nostra vita e ci dice: «Io so­no la risurrezione e la vita; chi crede in me anche se muore vivrà; chiunque vive e crede in me non morirà in eterno» (Gv 11,25-26).
Pensiamo un momento alla scena del Calvario e riascoltiamo le parole che Gesù, dall’alto della Croce, rivolge al malfattore crocifisso alla sua destra: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23,43). Pensiamo ai due discepoli sulla strada di Emmaus, quando, dopo aver percorso un tratto di strada con Gesù Risorto, lo riconoscono e partono senza indugio verso Gerusalemme per annunciare la Risurrezione del Signore (cfr Lc 24,13-35). Alla mente ritornano con rinnovata chiarezza le parole del Maestro: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no non vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”?» (Gv 14,1-2). Dio si è veramente mostrato, è diventato accessibile, ha tanto amato il mondo «da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16), e nel supremo atto di amore della Croce, immergendosi nell’abisso della morte, l’ha vinta, è risorto ed ha aperto anche a noi le porte dell’eternità. Cristo ci sostiene attraverso la notte della morte che Egli stesso ha at­traversato; è il Buon Pastore, alla cui guida ci si può affidare sen­za alcuna paura, poiché Egli conosce bene la strada, anche attra­verso l’oscurità.
Ogni domenica, recitando il Credo, noi riaffermiamo questa verità. E nel recarci ai cimiteri a pregare con affetto e con amore per i nostri defunti, siamo invitati, ancora una volta, a rinnovare con coraggio e con forza la nostra fede nella vita eterna, anzi a vivere con questa grande speranza e testimoniarla al mondo: dietro il presente non c’è il nulla. E proprio la fede nella vita eterna dà al cristiano il coraggio di amare ancora più intensamente questa nostra terra e di lavorare per costruirle un futuro, per darle una vera e sicura speranza. Grazie.

SAPIENZA 11,22-12,2 (prima lettura di domenica 31ma T.O.)

http://www.nicodemo.net/NN/ms_pop_vedi1.asp?ID_festa=252

SAPIENZA 11,22-12,2

22 Signore, tutto il mondo davanti a te, è come polvere sulla bilancia,
come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra.

23 Hai compassione di tutti, perché tutto tu puoi,
non guardi ai peccati degli uomini, in vista del pentimento.

24 Poiché tu ami tutte le cose esistenti
e nulla disprezzi di quanto hai creato;
se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure creata.
25 Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi?
O conservarsi se tu non l’avessi chiamata all’esistenza?

26 Tu risparmi tutte le cose,
perché tutte son tue, Signore, amante della vita,
12,1poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose.

2 Per questo tu castighi poco alla volta i colpevoli
e li ammonisci ricordando loro i propri peccati,
perché, rinnegata la malvagità, credano in te, Signore.

COMMENTO
Sapienza 11,23 – 12,2

La misericordia di Dio
Il libro alessandrino della Sapienza si divide in tre parti. Nella prima si presenta la sapienza come speranza del giusto (1,1-6,25); nella seconda si descrive la natura della sapienza (7,1-10,21); infine nella terza si racconta l’opera della sapienza nella storia della salvezza (11,1–19,22). Quest’ultima parte è una riflessione (midrash) sulle vicende riguardanti l’uscita degli israeliti dall’Egitto, così come sono narrate nel libro dell’Esodo. Dopo un’introduzione (11,1-3) nella quale si indica il tema dell’assistenza prestata dalla sapienza agli israeliti «per mezzo di un santo profeta», Mosè, l’autore elabora sette dittici, in cui contrappone il comportamento di Dio nei confronti degli israeliti a quello da lui riservato agli egiziani. Nel primo dittico (11,4-14), dopo aver enunciato il principio generale secondo il quale Dio punisce i malvagi servendosi degli stessi elementi con cui viene in aiuto ai giusti, la sua attenzione si focalizza sul primo tema, quello dell’acqua che, trasformata in sangue per punire gli egiziani, è fatta scaturire dalla roccia per dissetare gli israeliti. A questo punto si inseriscono due digressioni riguardanti rispettivamente il modo di agire di Dio nella storia (11,15 – 12,27) e l’assurdità dell’idolatria (13,1 – 15,19). Infine l’autore riprende la serie dei dittici riguardanti i fatti dell’esodo (16,1-19,9). Il midrash termina alcune riflessioni conclusive (19,10-21).
Nella prima digressione successiva al primo dittico l’autore mette in luce la moderazione di Dio nei confronti degli egiziani (11,15 – 12,2) e dei cananei (12,3-18). Alla fine dal comportamento divino si ricava una lezione di vita per Israele (12,19-27). Il testo liturgico riporta gli ultimi versetti riguardanti la moderazione di Dio verso gli egiziani. In essi l’autore esprime il suo pensiero rivolgendosi direttamente a Dio in forma di preghiera. Si noti che la liturgia segue la numerazione latina, che è superiore di un numero a quella greca.
Nei versetti precedenti (11,18-22) l’autore aveva sottolineato come, in forza della sua onnipotenza, Dio avrebbe potuto colpire a suo piacimento i peccatori. Il potere divino che si estende a tutte le cose, viene da lui sintetizzato nella prima frase del testo liturgico: «Tutto il mondo infatti davanti a te è come polvere sulla bilancia, come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra» (11,23). Ma in contrasto con tutto ciò, egli afferma che Dio agisce, sì, ma con misericordia: «Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento» (11,24). Dio compatisce tutti (cfr. Sir 18,13) proprio perché è onnipotente (cfr. Sap 12,16). L’amore di Dio verso la creazione, si manifesta soprattutto nei confronti degli esseri umani. Egli infatti chiude gli occhi sui loro peccati, cioè li perdona: solo chi detiene il potere può esercitare la grazia del perdono. Lo scopo di tale amore è quello di portare l’uomo peccatore alla conversione (cfr. Ez 33,11; 2Pt 3,9; Rm 2,4).
Dopo aver affermato in via di principio la compassione divina, l’autore ne spiega il motivo: «Tu infatti ami tutte le cose che esistono e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure formata» (11,25). L’unico movente della creazione è stato la bontà di Dio: il suo amore perciò si esercita verso tutti gli esseri così come essi sono, escludendo qualsiasi tipo di odio, avversione, disprezzo e indifferenza. E questo fin da prima della creazione, poiché se Dio avesse avuto avversione per qualcosa non l’avrebbe neppure creata.
L’argomentazione procede poi con due domande retoriche: «Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non l’avessi voluta? Potrebbe conservarsi ciò che da te non fu chiamato all’esistenza?» (11,26). Naturalmente la risposta è negativa. Gli esseri di questo mondo non esisterebbero se Dio non li avesse creati e non potrebbero sussistere se Dio non avesse cura di loro. L’amore di Dio per le sue creature non è dunque un amore statico, che si è manifestato una sola volta, nel passato, o che si ferma unicamente alla contemplazione della sua opera; al contrario, l’amore di Dio è attuale, in quanto si rivela in una creazione continua. Il fatto che le creature permangano nell’esistenza, e che si conservino nella loro molteplicità in modo attivo e misterioso, è la prova più tangibile dell’amore continuo di Dio. Ciò dimostra la radicale e continua dipendenza delle creature dal loro Creatore; la sua sovranità e il suo influsso non annullano proprietà e leggi della natura, né le rendono divine nel senso panteistico, bensì le fanno essere ciò che sono.
Lo stesso principio dell’amore di Dio per le sue creature è ripetuto subito dopo con espressioni diverse: «Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita (11,27). Torna qui il tema della clemenza (cfr. 11,24); questa volta, però, oggetto della bontà, della cura o del perdono divino sono tutte le cose, proprietà di Dio. Il fondamento di questa affermazione è stato dato nei versetti precedenti: Dio è creatore di tutto, è il Signore. Egli si qualifica perciò come «amico della vita»: nel linguaggio comune questa espressione si riferisce a colui che ama la propria vita, in senso piuttosto peggiorativo, in quanto implica la paura di morire. Applicato a Dio, ha qui il senso di amore per la vita degli altri, cioè di tutti gli esseri viventi.
Un’altra ragione dell’amore di Dio per tutte le creature è indicata nel versetto seguente: «Poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose» (12,1). Lo spirito o soffio divino, incorruttibile e imperituro come Dio stesso, è presente in tutti e in tutte le cose. L’autore aveva già affermato l’idea della presenza vivificante di Dio in tutte le cose per mezzo del suo spirito, identificato con la sapienza (cfr. Sap 1,7; 7,22.24 e 8,1). Il principio della vita, il soffio vitale, viene da Dio; il suo spirito anima ogni vivente: se Dio lo ritira, tutto perisce (cfr. Gn 2,7; 6,3; Gb 27,3; 33,4; 34,14-15; Qo 12,7). Il salmista estende l’azione dello spirito a tutte le cose (cfr. Sal 104,29-30). Nell’ambiente alessandrino questo modo di pensare non poteva destare meraviglia, poiché era nota la concezione stoica di Dio come anima del mondo, come spirito che tutto penetra. L’autore sa cogliere l’aspetto positivo delle dottrine contemporanee, liberandolo dalla loro connotazione panteistica e servendosene per arricchire il pensiero biblico.
La riflessione giunge a termine con una considerazione sulla pedagogia divina nei confronti dei peccatori: «Per questo tu correggi a poco a poco quelli che sbagliano e li ammonisci ricordando loro in che cosa hanno peccato, perché, messa da parte ogni malizia, credano in te, Signore» (12,2). Certamente Dio punisce coloro che sbagliano, li ammonisce con prove e sofferenze, ma non lo fa tutto d’un colpo, bensì a poco a poco, in modo da dare loro la possibilità di rendersi conto dei loro sbagli e di cambiare vita; il tema è quello della pazienza divina che sa attendere e da tempo al peccatore perché possa giungere alla conversione. In Dio quindi il castigo è sempre medicinale, tende alla salvezza e non alla preservazione dell’ordine costituito e tanto meno alla vendetta. Nella sua pedagogia, Dio vuole staccare il peccatore dalla sua malvagità, conquistarne nuovamente la fiducia, e portarlo alla dedizione totale e assoluta verso di sé, cioè alla fede. La pericope termina con il vocativo «Signore», invocazione rispettosa e fiduciosa nei confronti di colui che è creatore e che tutto può, ma che è anche misericordioso.

Linee interpretative
In questo brano si sviluppa il secondo polo del binomio onnipotenza-misericordia di Dio. L’autore parla con Dio, in stile dialogico, dei motivi della sua benignità che si manifesta nel suo modo di agire verso tutti gli uomini. Egli vuole mostrare come la benevolenza di Dio non è effetto di debolezza, ma si basa sulla sua stessa onnipotenza. Un potente di questo mondo è ingiusto perché ambisce maggior potere, teme di perderlo, è dominato dall’avidità, dal timore; è rigido perché non ama il colpevole, teme che gli sfugga. Soprattutto la giustizia umana tende alla conservazione dell’ordine stabilito, colpendo con una pena vendicativa colui che lo trasgredisce.
Dio invece ha il potere supremo non teme nulla, non deve render conto a nessuno, ama i colpevoli, ha tempo, non sbaglia mai. Questi versetti sono un libero commentario alla professione liturgica: «Dio è clemente e compassionevole, paziente e misericordioso» (Es 34,6; Sal 86,15; 103,8; Nm 14,18). Da questo brano emerge dunque un insegnamento positivo e ottimistico. I giudizi storici hanno già reso testimonianza alla volontà salvifica di Dio, che solo in ultima istanza dà luogo al castigo finale. Ciò che l’autore afferma per l’umanità del suo tempo vale anche per quella di oggi: nella sua misericordia Dio vuole la salvezza di tutti e dà a tutti la possibilità di salvarsi. L’elezione di Israele e della Chiesa deve quindi essere vista sempre nel contesto di una salvezza messa a disposizione di tutti, senza eccezioni.

3 NOVEMBRE 2013 | 31A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C: LECTIO DIVINA SU: LC 19,1-10

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/03-annoC/annoC/12-13/05-Ordinario/Omelie/31-Domenica-2013_C/31-Domenica-2013_C-JB.html

3 NOVEMBRE 2013  | 31A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C  |  PROPOSTA DI LECTIO DIVINA

LECTIO DIVINA SU: LC 19,1-10

Frequentemente, durante il suo ministero pubblico, si poteva vedere Gesù, accompagnato da persone di dubbia reputazione. Era tanto normale che frequentasse cattive compagnie che questo metteva a disagio i suoi discepoli, perplessi dinanzi a simile comportamento, e dava motivi per una dura critica da parte dei suoi avversari, che non potevano capire che un uomo buono potesse convivere con dei malviventi. E se era già abbastanza imbarazzante che Gesù si lasciasse accompagnare da persone non molto buone, risultava ancora peggio che le cercasse appositamente. Oggi il vangelo ci ricorda questo comportamento scioccante di Gesù, che entra in una importante città e sceglie come ospite un noto peccatore. Faremmo male a considerare questo episodio come un semplice aneddoto storico, come se narrasse solo l’incontro casuale di Gesù con un capo dei pubblicani. In realtà, per quanti desideriamo incontrarci un giorno con Gesù, e trovare in lui la nostra salvezza, il racconto ci offre un grande avvertimento e ci parla, nello stesso tempo, di una grande opportunità. E di come approfittarne.

In quel tempo, 1Gesù entrò a Gerico, e attraversava la città.
2Un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, 3cercava di distinguere chi era Gesù, ma le persone glielo impedivano perché era piccolo di statura. 4Corse più avanti e salì su un sicomoro per vederlo, perché doveva passare da lì.
5 Gesù, arrivato in quel luogo, alzò gli occhi e disse: « Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua ».
6 Scese, lo seguì e lo accolse con gioia. 7Al veder questo, tutti mormoravano, dicendo: « È andato ospite di un peccatore ».
8 Ma Zaccheo, in piedi, disse al Signore: « Guarda, la metà dei miei beni, Signore, la do ai poveri; e se ho approfittato di qualcuno, restituisco quattro volte tanto ».
9 Gesù gli rispose: – « Oggi la salvezza è entrata in questa casa; anche costui è un figlio di Abramo.
10 Perché il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto ».
 1. LEGGERE: capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice

Avvicinandosi a Gerusalemme (Lc 19,28) e vicino già alla morte, destino finale del suo camminare, Gesù passa da Gerico, suscitando aspettative tra i suoi abitanti. Luca si sofferma a narrare su uno di loro, personaggio importante, anche se non molto popolare tra i suoi concittadini. Prima narra, non senza ironia, l’interesse e l’ingegno che spingono Zaccheo per poter vedere Gesù; essendo piccolo di statura e poco stimato, non era facile trovare un buon posto; e non disdegna il ridicolo di salire su un albero, perché è « da lì che deve passare » Gesù (Lc 19,4). A Gesù non passa inosservata tanta curiosità; « alzando gli occhi » vede Zaccheo e, fermatosi, si fa invitare da lui (Lc 19,5). Zaccheo aveva fatto di tutto per veder passare Gesù e…fu Gesù che lo vide arrampicato sul fico! Zaccheo cercava di scorgere chi era Gesù e Gesù lo scorse facendosi suo ospite. Durante tutto l’episodio, il protagonista non è Zaccheo, ma Gesù: è Gesù che passa per Gerico e che sceglie dove farsi ospitare. E’ lui che alza gli occhi e vede chi tanto si era sforzato di vederlo; e sarà Gesù che alla fine giustifica la sua decisione di alloggiare nella casa di Zaccheo: la sua presenza porta con sé la salvezza a questa casa. Per questo, malgrado le mormorazioni, è venuto lì.
Benché alla fine del racconto, Luca sveli così il proposito ultimo di Gesù nel suo passaggio per Gerico (Lc 19,10: cercare e salvare ciò che era perduto), non si deve far passare inosservato questo particolare: affinché Gesù scelga di essere nostro ospite, bisogna mettersi lì dove passerà. Il Gesù incontrato è quello che prima è stato cercato con ansia. Chi ha Gesù in casa, ha il cuore pieno di gioia. Zaccheo, capo degli esattori delle tasse in una città importante è un uomo molto conosciuto e poco apprezzato. La decisione di Gesù di essere suo ospite non è compresa da « tutti »: non è facile comprendere che un illustre visitatore scelga un riconosciuto peccatore come anfitrione. Però né Gesù né Zaccheo, sembrano preoccuparsi del malessere dei cittadini; o non gliene importa. Oltre la gioia di averlo in casa, Zaccheo sente che deve dare una gioia ai poveri e a coloro che lui aveva maltrattato. Il dono della metà dei beni e la restituzione, quadruplicata, di ciò che aveva rubato è, contante e suonante, la misura della sua conversione (Lc 19,8). L’inattesa e inspiegabile presenza di Gesù in casa di Zaccheo gli riempì innanzitutto il cuore di gioia e poi di generosità verso i derelitti. Gesù, se ospite cercato, porta con sé la salvezza. E la salvezza che lui porta, oltre a beneficiare colui che la riceve, si estende ai più bisognosi. In realtà per questo, solo per questo, solo per chi lo voleva vedere, è passato per Gerico ed è entrato in casa di Zaccheo.

 2. MEDITARE: APPLICARE ALLA VITA QUELLO CHE DICE IL TESTO!
Non è la prima volta che Gesù non evita « le cattive compagnie », quando si tratta di avvicinare il Regno di Dio al cuore dell »uomo (Lc 5,27-32; 15,1-3). Questa volta Gesù si comporta in modo diverso: all’entrata di un paese, si fa invitare da una persona di cattiva reputazione; non è che non evita i cattivi, è che li cerca e vuole stare con loro. Malgrado lo scandalo che provoca, onora con la sua presenza la casa di un peccatore pubblico: Gesù non vuole scontri inutili con i buoni, vuole fare il bene a chi non è buono del tutto. Curioso questo Gesù che per fare il bene a un cattivo sopporta l’incomprensione di tutti e la maldicenza dei buoni! Osa provocare tutto il paese facendosi ospite nella casa del principale esattore delle tasse. Doveva avere una ragione molto buona per fare una scelta tanto discussa. E’ molto probabile che chi si sente già buono quando si avvicina a Gesù, non riesca ad averlo mai come ospite in casa. Zaccheo era capo di pubblicani, un esattore di tasse di un certo rango. Logicamente la sua professione non era molto popolare; ancor più, era considerata peccaminosa perché ingiusta. I pubblicani erano soliti arricchirsi con il denaro che esigevano agli altri. Ed è che il sistema di riscossione di quel tempo era tanto semplice come ingiusto: il re incaricava per la riscossione delle tasse un uomo ricco; così gli restava assicurata l’entrata di una certa quantità annuale; questo, a sua volta, affidava ad altri la concessione ricevuta per un prezzo maggiore di quello che doveva consegnare. La catena di intermediari si moltiplicava, moltiplicandosi anche i guadagni e l’ingiustizia: alla fine, il popolo pagava più del dovuto e doveva subire giornalmente l’affronto di vedere che la loro povertà alimentava la crescente ricchezza dei pubblicani. Se così stavano le cose, non c’era nulla di più logico che, quando hanno visto l’entrata di Gesù a Gerico, mormorassero per l’ardire di Gesù nel forzare l’invito del capo dei pubblicani della città. Se almeno fosse partita da Zaccheo l’iniziativa…, ma risultava inconcepibile che Gesù scegliesse, per ospitarsi, la casa di un uomo tanto disprezzato, non già per la sua ricchezza quanto per il modo in cui l’aveva accumulata. Senza negar loro la ragione che hanno, con la sua risposta Gesù dà ragione del suo comportamento: lui si deve dare a chi ne sente il bisogno, è venuto a cercare chi è smarrito, a salvare chi si sente perduto. E’ ovvio che Zaccheo non era un santo. Perfino lui lo sapeva. Proprio per questo Gesù ha preferito la sua casa e la sua ospitalità; la sua presenza gli permette di avere un’opportunità, la sua convivenza gli avvicinerà il Regno. E Zaccheo, che sapeva bene che l’origine delle sue ricchezze era l’origine della sua ingiustizia, approfittò di una visita di Gesù nella sua casa, una casuale visita che lui stesso non aveva previsto, per rinunciare alla metà dei suoi beni e restituire con gli interessi a coloro che aveva defraudato; avendo Gesù con sé, in casa, seppe mettere a disposizione dei poveri e di quanti aveva ingannato, i suoi beni, pur di stare bene con Dio. Per non avendo sprecato l’occasione che un invito di Gesù gli offriva, ricevendolo nella sua casa e ponendo a sua disposizione quanto possedeva, Zaccheo tornò ad essere il figlio di Abramo che Dio aveva creato e amato. Non lo intimorirono le maldicenze dei suoi paesani, gli bastò sentire il desiderio di Gesù di alloggiarsi a casa sua; gli importò di più il desiderio di Gesù che l’opinione dei suoi avversari. Ciò che era iniziata come semplice curiosità dinanzi a ciò che era sconosciuto, finì con la determinazione di saldare il suo debito di giustizia. Solo chi lo ha accolto di cuore, è uscito dal suo peccato. Coloro che, invece, si credevano sufficientemente buoni per poter criticare il comportamento di Gesù, dovettero sorprendersi nell’udirlo dire che, in Gerico, solo Zaccheo aveva ottenuto la salvezza di Dio. E il fatto è che, -qui risiede l’avvertimento che Gesù ci fa-, chi si crede buono solo perché può, anche se ha tutte le ragioni, disprezzare quanti non sanno nascondere la loro malizia, è sempre sul punto di perdere Dio; chi non riconosce che nessuno, nemmeno lui stesso, è degno di Dio, mai si incontrerà con lui; chi crede di meritare Gesù e la sua visita, mai lo accoglierà nella sua casa. Non è solito Gesù, e il vangelo di oggi ne è una prova, incontrarsi solo con coloro che se lo meritano; Dio non alloggia tra quelli che, per quanto buoni, non sentono il bisogno di lui; chi si è abituato a Dio tanto che il suo passaggio non gli provoca curiosità, chi non fa niente di straordinario per avvicinarsi a Dio e vederlo più da vicino, non sarà il prescelto quando Dio verrà; quanti sono sicuri dell’invito di Dio, di solito non saranno, con loro sorpresa, tra i prescelti. Perderemo Dio, non tanto perché, disgraziatamente, siamo cattivi, ma perché ci illudiamo di essere buoni. Non sarebbe male che finalmente imparassimo: perché il Signore ci visiti, non bisogna essere molto buoni, quanto piuttosto non ci si deve sentire migliori degli altri. Però se Gesù non si sofferma su quanto gli altri pensano di noi, se neanche è necessario essere previamente buoni, ce lo ha reso realmente facile. Ed è stata questa l’occasione di Zaccheo e la nostra, se ne sappiamo trarre profitto. Nessuno è troppo indegno di Dio, tranne quando si crede già degno; tutti possiamo farci l’illusione di sentire un giorno la richiesta di Gesù perché lo invitiamo ad entrare in casa; per noi non deve farsi penoso un incontro con Dio che si verificherà lì dove abitiamo, né è umiliante una conversione che inizia quando Dio è nostro ospite; lasciandosi servire non ha reso più facile il servizio che gli dobbiamo.
Non è temibile un perdono che ci viene concesso quando permettiamo che Dio alloggi insieme a noi: Gesù ci salva se ne sentiamo la nostalgia, se sentiamo che ci manca, se otteniamo che condivida la casa; quando può disporre dei nostri beni, lui sarà la ragione del nostro benessere. Come lo è stato per Zaccheo. Però Zaccheo fece qualcosa di più che accogliere Gesù in casa sua: con lui in casa, seppe privarsi di quanto possedeva, la metà dei suoi beni, e restituire ciò che secondo giustizia non gli apparteneva, il quadruplo di quanto aveva defraudato. La sua salvezza è stata autentica, perché lo salvò dai suoi mali, quei mali la cui prova evidente erano i suoi beni ingiusti. Ed è che, chi convive veramente con Gesù, anche se una sola volta, deve lasciare di convivere con tutto ciò che lo separa da lui. Non meritò la visita Zaccheo, però dovette pagare un prezzo per essa; non glielo ha imposto Gesù, lo scoprì avendolo vicino.
Non si sa se ammirare più il bisogno di salvezza di Zaccheo o il bisogno di Gesù di salvare. Però perché Abramo recuperi un figlio e Dio salvi un focolare, è necessario accogliere Gesù nella propria casa, in famiglia. E non tanto perché abbiamo bisogno di essere salvati (Zaccheo voleva solo conoscere da lontano Gesù, e nemmeno incontrarlo personalmente), quanto perché a Gesù lo spinge, lo motiva e lo « commuove », la nostra salvezza. Sentiamo oggi il suo invito ad ospitarlo in casa e la nostra casa conoscerà la salvezza. Anche se non bisognerà dimenticare che lo ospitò non chi volle, né chi era migliore, ma chi è stato scelto…, perché aveva bisogno di essere salvato. Questo è il « prezzo » che pagò, per primo, Zaccheo: sapersi indegno di avere Gesù tra i suoi. La ricompensa è stata la gioia che ha inondato il suo cuore e la salvezza della quale si è riempita la sua casa. Però non solo… La vicinanza di Gesù portò Zaccheo a scoprire l’ingiustizia con la quale aveva accumulato la sua fortuna. Gesù non gli parlò di questo; lo scoprì Zaccheo quando ebbe Gesù in casa. La vicinanza di Gesù fece sì che Zaccheo ricordasse il suo peccato e si avvicinasse al bisogno dei poveri. Ci priviamo di Gesù tutte le volte in cui non siamo disposti ad ammettere i nostri peccati o/e a ricordarci dei poveri. Abbiamo bisogno di Gesù per essere vicini a coloro che hanno bisogno di noi. Così si realizza l’autentica salvezza. Prima che Gesù Proclami la sua salvezza, Zaccheo ha riconosciuto il suo peccato e ha proclamato la sua volontà di distribuire i suoi beni.
Non perdiamo oggi l’opportunità che un giorno ebbe Zaccheo, il capo dei pubblicani di Gerico: invitiamo Gesù a rimanere con noi, ad entrare nelle nostre case; Gesù non impose a Zaccheo di convertirsi per essere ospite in casa sua; però facendosi ospite la rese possibile. In ogni peccatore confesso Gesù trova una ragione per venirci incontro; non è il peccato ciò che lo allontana da noi, ma la negazione dello stesso. Non sono stati i buoni a ricevere in casa Gesù, perché si credevano degni; sono stati i buoni che hanno perduto Gesù quando si sono scandalizzati del suo comportamento. Benché la sua vita lasciasse a desiderare, Zaccheo non lasciò che Gesù passasse alla larga. Con lui è arrivata la conversione e il Regno. Non è stata gratis la visita: Zaccheo pagò un alto prezzo, però se lo impose lui stesso. I buoni perdono Gesù, per credersi buoni; i cattivi perdono i loro beni, quando riconoscono il loro peccato. Però Dio, e il Regno, si è avvicinato solo a chi Gesù aveva visitato. Perché impegnarci a sentirci buoni o a passare per tali, anche oggi, anche noi, se questo ci produce il non avere Gesù in casa e perdere l’occasione di fare il bene ai più bisognosi?

JUAN JOSE BARTOLOME sdb,

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