Archive pour novembre, 2013

San Martino di Tours

San Martino di Tours dans immagini sacre

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Publié dans:immagini sacre |on 11 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

LA SMANIA DI POSSESSO CI RENDE SCHIAVI – A CURA DI MONS. GIANFRANCO RAVASI

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BIBBIA: LE DOMANDE SCOMODE

A CURA DI MONS. GIANFRANCO RAVASI

LA SMANIA DI POSSESSO CI RENDE SCHIAVI
Il periodo pasquale è contrassegnato dal pun­to di vista del lezionario liturgico da un uso abbondante della seconda opera di Luca, gli Atti degli Apostoli. Essa, infatti, rappresenta in modo incisivo la comunità del Risorto, animata dalla Parola e dallo Spirito Santo, sostenuta da una forte comunione fraterna, ma non priva di difficoltà e persino di tensioni che riflettono il realismo dell’incarnazione anche per la stessa Chiesa. E proprio in quest’ultima linea di fatica e di lacerazione che vogliamo isolare nello scritto lucano, fitto di personaggi, due figure di im­pronta negativa, Anania e Saffira, la cui vicen­da è narrata nel cap. 5 degli Atti. La lettura di questa pagina non può non gene­rare una reazione di sorpresa: i due cristiani citati, infatti, cadono stecchiti dopo una fiera re­primenda dell’apostolo Pietro. Qualche studioso ha fatto notare un’incongruenza a prima vista sconcertante: come fa la “buona novella” cristiana a presentarsi alla ribalta nei suoi primi passi con un miracolo di morte, procedendo in senso contrario rispetto all’agire di Cristo che faceva risorgere i morti?
È indubbio che — almeno a livello di narrazio­ne — Luca, autore degli Atti degli Apostoli, voglia allusivamente evocare qualche scena antico-testamentaria, ad esempio, quella della rivolta di Core, Datan e Abiram, destinata a sfociare in un esito macabro in seguito alla maledizione di Mosè: «Il suolo si sprofondò sotto i loro piedi, la terra spalancò la bocca e li inghiottì [...]; scesero vivi agli inferi essi e quanto a loro apparteneva e la terra li ricoprì» (Num 16,32-33; si legga tutto il cap. 16). Ma torniamo alla nostra coppia di giudeo-cristiani gerosolimitani, Anania — nome ebraico comune portato da almeno dieci personaggi biblici (il cui significato “Il Si­gnore mi ha concesso la sua grazia” suona quasi ironico nel nostro racconto) — e Saffira, un nome che rimanda allo zaffiro o al lapislazzulo. Che cosa avevano fatto di tanto infame da meritare una simile fine tragica? Per capire la gravità della loro colpa, descritta nel capitolo 5 degli Atti degli Apostoli, bisogna ricostruire il fondale della vita della prima comunità cristiana di Gerusalemme. Poche righe prima, infatti, si legge che «la moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune [...]. Nessuno tra loro era bisognoso perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a cia­scuno secondo il bisogno» (4,32-35). Era quella che lo stesso Luca chiama in greco la koinonia, “la comunione fraterna” dei beni, la condivisione che cancella ogni proprietà privata e personale.
Ora, i nostri due sposi avevano venduto un loro podere e avevano tenuto per sé una parte del ricavato, mentre il resto era stato consegnato da Anania a Pietro per la comunità. L’apostolo s’accorge dell’inganno e reagisce con veemenza: «Anania, perché mai Satana si è così impos­sessato del tuo cuore che tu hai mentito allo Spirito Santo e ti sei trattenuto parte del prezzo del terreno?» (5,3). E a quel punto scatta la condan­na terrificante, sul modello appunto di certi giudizi divini anticotestamentari: «Anania cadde a terra e spirò» (5,5). La stessa vicenda si ripete anche per la moglie Saffira che, ignara, dell’accaduto, si presenta tre ore dopo, ribadendo la medesima versione data dal marito e ricevendo un’identica condanna da parte di Pietro che la lascia morta sul terreno (cf 5,7-10). Di per sé la scena può avere un suo nucleo di verità storica: forse Luca ha narrato, interpretandolo in senso religioso, il dramma della morte improvvisa, avvenuta a di­stanza ravvicinata, di due coniugi cristiani “chiacchierati” per un loro comportamento egoistico. Tuttavia, se stiamo allo stile biblico e all’uso delle particolari modalità espressive tipiche dei racconti scritturistici, dobbiamo sottolineare che Luca vuole soprattutto esaltare il significato profondo e simbolico di quella vicenda. Chi viola, per smania di possesso e per egoismo, il precetto della carità operosa nei confronti del prossimo, è uno “scomunicato”, è come se fosse morto per la comunità, si è posto fuori del cer­chio vitale della comunione ecclesiale e della grazia divina. Qualcosa del genere dichiarerà anche san Paolo condannando un incestuoso della comunità di Corinto (cf 1Corinzi 5,1-5). E, dunque, un racconto esemplare di giudizio sul male che, però, non cancella la costante cer­tezza della Bibbia riguardo alla conversione-rinascita e al perdono-risurrezione.
Gianfranco Ravasi, La smania di possesso ci rende schiavi in Vita Pastorale, periodici S. Paolo n. 5 2006 p. 56.
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B John Duns Scoto e le ragioni dell’Immacolata Concezione di Maria

B John Duns Scoto e le ragioni dell'Immacolata Concezione di Maria dans immagini sacre P.-Frenguelli-B.-Giovanni-Duns-Scoto-1912-Nola-NA-riproduzione-cinese%5B1%5D
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Publié dans:immagini sacre |on 7 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI: GIOVANNI DUNS SCOTO – 8 NOVEMBRE

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20100707_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

AULA PAOLO VI

MERCOLEDÌ, 7 LUGLIO 2010

GIOVANNI DUNS SCOTO – 8 NOVEMBRE

Cari fratelli e sorelle,

questa mattina voglio presentarvi un’altra figura importante nella storia della teologia: si tratta del beato Giovanni Duns Scoto, vissuto alla fine del secolo XIII. Un’antica iscrizione sulla sua tomba riassume le coordinate geografiche della sua biografia: “l’Inghilterra lo accolse; la Francia lo istruì; Colonia, in Germania, ne conserva i resti; in Scozia egli nacque”. Non possiamo trascurare queste informazioni, anche perché possediamo ben poche notizie sulla vita di Duns Scoto. Egli nacque probabilmente nel 1266 in un villaggio, che si chiamava proprio Duns, nei pressi di Edimburgo. Attratto dal carisma di san Francesco d’Assisi, entrò nella Famiglia dei Frati minori, e nel 1291, fu ordinato sacerdote. Dotato di un’intelligenza brillante e portata alla speculazione – quell’intelligenza che gli meritò dalla tradizione il titolo di Doctor subtilis, “Dottore sottile”- Duns Scoto fu indirizzato agli studi di filosofia e di teologia presso le celebri  Università di Oxford e di Parigi. Conclusa con successo la formazione, intraprese l’insegnamento della teologia nelle Università di Oxford e di Cambridge, e poi di Parigi, iniziando a commentare, come tutti i Maestri del tempo, le Sentenze di Pietro Lombardo. Le opere principali di Duns Scoto rappresentano appunto il frutto maturo di queste lezioni, e prendono il titolo dai luoghi in cui egli insegnò: Ordinatio (in passato denominata Opus Oxoniense – Oxford), Reportatio Cantabrigiensis (Cambridge), Reportata Parisiensia (Parigi). A queste sono da aggiungere almeno i Quodlibeta (o Quaestiones quodlibetales), opera assai importante formata da 21 questioni su vari temi teologici. Da Parigi si allontanò quando, scoppiato un grave conflitto tra il re Filippo IV il Bello e il Papa Bonifacio VIII, Duns Scoto preferì l’esilio volontario, piuttosto che firmare un documento ostile al Sommo Pontefice, come il re aveva imposto a tutti i religiosi. Così – per amore alla Sede di Pietro –, insieme ai Frati francescani, abbandonò il Paese.
Cari fratelli e sorelle, questo fatto ci invita a ricordare quante volte, nella storia della Chiesa, i credenti hanno incontrato ostilità e subito perfino persecuzioni a causa della loro fedeltà e della loro devozione a Cristo, alla Chiesa e al Papa. Noi tutti guardiamo con ammirazione a questi cristiani, che ci insegnano a custodire come un bene prezioso la fede in Cristo e la comunione con il Successore di Pietro e con la Chiesa universale.
Tuttavia, i rapporti fra il re di Francia e il successore di Bonifacio VIII ritornarono ben presto amichevoli, e nel 1305 Duns Scoto poté rientrare a Parigi per insegnarvi la teologia con il titolo di Magister regens. Successivamente, i Superiori lo inviarono a Colonia come professore dello Studio teologico francescano, ma egli morì l’8 novembre del 1308, a soli 43 anni di età, lasciando, comunque, un numero rilevante di opere.
A motivo della fama di santità di cui godeva, il suo culto si diffuse ben presto nell’Ordine francescano e il Venerabile Giovanni Paolo II volle confermarlo solennemente beato il 20 Marzo 1993, definendolo “cantore del Verbo incarnato e difensore dell’Immacolata Concezione”. In tale espressione è sintetizzato il grande contributo che Duns Scoto ha offerto alla storia della teologia.
Anzitutto, egli ha meditato sul Mistero dell’Incarnazione e, a differenza di molti pensatori cristiani del tempo, ha sostenuto che il Figlio di Dio si sarebbe fatto uomo anche se l’umanità non avesse peccato. “Pensare che Dio avrebbe rinunciato a tale opera se Adamo non avesse peccato, – scrive Duns Scoto – sarebbe del tutto irragionevole! Dico dunque che la caduta non è stata la causa della predestinazione di Cristo, e che – anche se nessuno fosse caduto, né l’angelo né l’uomo – in questa ipotesi Cristo sarebbe stato ancora predestinato nella stessa maniera” (Reportata Parisiensia, in III Sent., d. 7, 4). Questo pensiero nasce perché per Duns Scoto l’Incarnazione del Figlio di Dio, progettata sin dall’eternità da parte di Dio Padre nel suo piano di amore, è il compimento della creazione, e rende possibile ad ogni creatura, in Cristo e per mezzo di Lui, di essere colmata di grazia, e dare lode e gloria a Dio nell’eternità. Duns Scoto, pur consapevole che, in realtà, a causa del peccato originale, Cristo ci ha redenti con la sua Passione, Morte e Risurrezione, ribadisce che l’Incarnazione è l’opera più grande e più bella di tutta la storia della salvezza, e che essa non è condizionata da nessun fatto contingente.
Fedele discepolo di san Francesco, Duns Scoto amava contemplare e predicare il Mistero della Passione salvifica di Cristo, espressione della volontà di amore, dell’amore immenso di Dio, il Quale comunica con grandissima generosità al di fuori di sé i raggi della Sua bontà e del suo amore (cfr Tractatus de primo principio, c. 4). Questo amore non si rivela solo sul Calvario, ma anche nella Santissima Eucaristia, della quale Duns Scoto era devotissimo e che vedeva come il Sacramento della presenza reale di Gesù e come il Sacramento dell’unità e della comunione che induce ad amarci gli uni gli altri e ad amare Dio come il Sommo Bene comune (cfr Reportata Parisiensia, in IV Sent., d. 8, q. 1, n. 3). “E come quest’amore, questa carità – scrivevo nella Lettera in occasione del Congresso Internazionale a Colonia per il VII Centenario della morte del beato Duns Scoto, riportando il pensiero del nostro autore – fu all’inizio di tutto, così anche nell’amore e nella carità soltanto sarà la nostra beatitudine: «il volere oppure la volontà amorevole è semplicemente la vita eterna, beata e perfetta»” (AAS 101 [2009], 5).
Cari fratelli e sorelle, questa visione teologica, fortemente “cristocentrica”, ci apre alla contemplazione, allo stupore e alla gratitudine: Cristo è il centro della storia e del cosmo, è Colui che dà senso, dignità e valore alla nostra vita! Come a Manila il Papa Paolo VI, anch’io oggi vorrei gridare al mondo: “[Cristo] è il rivelatore di Dio invisibile, è il primogenito di ogni creatura, è il fondamento di ogni cosa; Egli è il Maestro dell’umanità, è il Redentore; Egli è nato, è morto, è risorto per noi; Egli è il centro della storia e del mondo; Egli è Colui che ci conosce e che ci ama; Egli è il compagno e l’amico della nostra vita… Io non finirei più di parlare di Lui” (Omelia, 29 novembre 1970).

Non solo il ruolo di Cristo nella storia della salvezza, ma anche quello di Maria è oggetto della riflessione del Doctor subtilis. Ai tempi di Duns Scoto la maggior parte dei teologi opponeva un’obiezione, che sembrava insormontabile, alla dottrina secondo cui Maria Santissima fu esente dal peccato originale sin dal primo istante del suo concepimento: di fatto, l’universalità della Redenzione operata da Cristo – evento assolutamente centrale nella storia della salvezza – a prima vista poteva apparire compromessa da una simile affermazione. Duns Scoto espose allora un argomento, che verrà poi adottato anche dal beato Papa Pio IX nel 1854, quando definì solennemente il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria. Questo argomento è quello della “Redenzione preventiva”, secondo cui l’Immacolata Concezione rappresenta il capolavoro della Redenzione operata da Cristo, perché proprio la potenza del suo amore e della sua mediazione ha ottenuto che la Madre fosse preservata dal peccato originale. I Francescani accolsero e diffusero con entusiasmo questa dottrina, e altri teologi – spesso con solenne giuramento – si impegnarono a difenderla e a perfezionarla.
A questo riguardo, vorrei mettere in evidenza un dato, che mi pare importante. Teologi di valore, come Duns Scoto circa la dottrina sull’Immacolata Concezione, hanno arricchito con il loro specifico contributo di pensiero ciò che il popolo di Dio credeva già spontaneamente sulla Beata Vergine, e manifestava negli atti di pietà, nelle espressioni dell’arte e, in genere, nel vissuto cristiano. Tutto questo grazie a quel soprannaturale sensus fidei, cioè a quella capacità infusa dallo Spirito Santo, che abilita ad abbracciare le realtà della fede, con l’umiltà del cuore e della mente. Possano sempre i teologi mettersi in ascolto di questa sorgente e conservare l’umiltà e la semplicità dei piccoli! Lo ricordavo qualche mese fa: “Ci sono grandi dotti, grandi specialisti, grandi teologi, maestri della fede, che ci hanno insegnato molte cose. Sono penetrati nei dettagli della Sacra Scrittura, della storia della salvezza, ma non hanno potuto vedere il mistero stesso, il vero nucleo… L’essenziale è rimasto nascosto! Invece, ci sono anche nel nostro tempo i piccoli che hanno conosciuto tale mistero. Pensiamo a santa Bernardette Soubirous; a santa Teresa di Lisieux, con la sua nuova lettura della Bibbia ‘non scientifica’, ma che entra nel cuore della Sacra Scrittura” (Omelia. S. Messa con i membri della Commissione Teologica Internazionale, 1 dicembre 2009).
Infine, Duns Scoto ha sviluppato un punto a cui la modernità è molto sensibile. Si tratta del tema della libertà e del suo rapporto con la volontà e con l’intelletto. Il nostro autore sottolinea la libertà come qualità fondamentale della volontà, iniziando una impostazione che valorizza maggiormente quest’ultima. Purtroppo, in autori successivi al nostro, tale linea di pensiero si sviluppò in un volontarismo in contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista. Per san Tommaso d’Aquino la libertà non può considerarsi una qualità innata della volontà, ma il frutto della collaborazione della volontà e dell’intelletto. Un’idea della libertà innata e assoluta – come si evolse, appunto, successivamente a Duns Scoto – collocata nella volontà che precede l’intelletto, sia in Dio che nell’uomo, rischia, infatti, di condurre all’idea di un Dio che non è legato neppure alla verità e al bene. Il desiderio di salvare l’assoluta trascendenza e diversità di Dio con un’accentuazione così radicale e impenetrabile della sua volontà, non tiene conto che il Dio che si è rivelato in Cristo è il Dio “logos”, che ha agito e agisce pieno di amore verso di noi. Certamente l’amore supera la conoscenza ed è capace di percepire sempre di più del pensiero, ma è sempre l’amore del Dio “logos” (cfr Benedetto XVI, Discorso a Regensburg, Insegnamenti di Benedetto XVI, II [2006], p. 261). Anche nell’uomo l’idea di libertà assoluta, collocata nella volontà, dimenticando il nesso con la verità, ignora che la stessa libertà deve essere liberata dei limiti che le vengono dal peccato. Comunque, la visione scotista non cade in questi estremismi: per Duns Scoto un atto libero risulta dal concorso di intelletto e volontà e se egli parla di un “primato” della volontà, lo argomenta proprio perché la volontà segue sempre l’intelletto.
Parlando ai seminaristi romani, ricordavo che “la libertà in tutti i tempi è stata il grande sogno dell’umanità, sin dagli inizi, ma particolarmente nell’epoca moderna” (Discorso al Pontificio Seminario Romano Maggiore, 20 febbraio 2009). Però, proprio la storia moderna, oltre alla nostra esperienza quotidiana, ci insegna che la libertà è autentica, e aiuta alla costruzione di una civiltà veramente umana, solo quando è riconciliata con la verità. Se è sganciata dalla verità, la libertà diventa tragicamente principio di distruzione dell’armonia interiore della persona umana, fonte di prevaricazione dei più forti e dei violenti, e causa di sofferenze e di lutti. La libertà, come tutte le facoltà di cui l’uomo è dotato, cresce e si perfeziona, afferma Duns Scoto, quando l’uomo si apre a Dio, valorizzando la disposizione all’ascolto della Sua voce: quando noi ci mettiamo in ascolto della Rivelazione divina, della Parola di Dio, per accoglierla, allora siamo raggiunti da un messaggio che riempie di luce e di speranza la nostra vita e siamo veramente liberi.
Cari fratelli e sorelle, il beato Duns Scoto ci insegna che nella nostra vita l’essenziale è credere che Dio ci è vicino e ci ama in Cristo Gesù, e coltivare, quindi, un profondo amore a Lui e alla sua Chiesa. Di questo amore noi siamo i testimoni su questa terra. Maria Santissima ci aiuti a ricevere questo infinito amore di Dio di cui godremo pienamente in eterno nel Cielo, quando finalmente la nostra anima sarà unita per sempre a Dio, nella comunione dei santi.

LA MISTICA DI DUNS SCOTO

http://www.centrodunsscoto.it/la_mistica-il_metodo.htm

LA MISTICA DI DUNS SCOTO

IL METODO

(Giovanni Lauriola ofm)

I- IL SILENZIO
Senza entrare in merito alle delicatissime analisi del mistero di Dio, Uno e Trino, che si rivela nella Parola uscita dall’eterno silenzio, il Verbo incarnato, piace meditare su alcune conseguenze di questa meravigliosa intuizione storico-teologica, che va sotto il nome di Cristocentrismo, fondamento e apice della dottrina spirituale di Duns Scoto. Per il Maestro francescano, Cristo è la prima conoscenza della fede rivelata, è il cuore della rivelazione di Dio, è il massimo dell’epifania di Dio. In quanto vera immagine del Padre invisibile, Cristo rivela il Padre per chi crede e lo nasconde per chi non crede. Cristo è la Via per vedere e andare al Padre. Il credente raggiunge il Rivelato, attraverso il Rivelante, e grazie a lui e per mezzo di lui s’incammina verso il silenzio arcano del Padre.
Nella visione spirituale di Duns Scoto, la persona di Cristo spicca nella sua posizione singolare e unica tra Dio e l’uomo, come principio di tutte le cose, come fonte e giustificazione di ogni esistenza, come causa efficiente e finale di tutta la creazione, e come sovrano assoluto dell’intero regno dell’essere. Con potenza speculativa ardita e inaudita a un tempo, Duns Scoto osa umilmente penetrare con la suo potente speculazione amorosa direttamente nel cuore dell’agire divino e, sempre con umiltà del saggio, balbetta l’ordine logico e ontologico intravisto nel silenzio sublime di Dio. E’ la più grande conquista mistica della storia. Scrive:
Dio in primo luogo ama se stesso. (E` il silenzio di Dio, Uno e Trino!).
Dio in secondo luogo ama se stesso negli altri ( E` il silenzio di Dio che intende rivelarsi fuori di sé!).
Dio in terzo luogo vuole essere amato da un altro che può amarlo in modo sommo. (E` il silenzio di Dio che si rivela nella Parola del Cristo!).
Dio in quarto luogo prevede e vuole l’unione ipostatica di Cristo, indipendentemente dal peccato. (E` il silenzio di Dio che si attualizza nella Parola espressa del Cristo!).
Da questa chiave ermeneutica della mistica di Duns Scoto, piace offrire qualche riflessione sul valore e sul significato del silenzio esistenziale come condizione indispensabile per ascoltare Cristo attraverso le creature e salire a Dio.

1- Che cosa è il silenzio?
Il silenzio non è certamente un fenomeno semplice, anzi è un fenomeno molto complesso e difficile da definirsi. La sua complessità dipende dal fatto che può assumere molteplici significati. Come la parola, anche il silenzio deve essere sottoposto a un lavoro ermeneutico.
Senza entrare nel ginepraio delle distinzioni date al termine silenzio, limito la sua semantica solo a quella di natura filosofica, cioè a quel significato che da un lato delimita i poteri dell’uomo verso la trascendenza e dall’altro lo apre alla sua possibilità. Il silenzio ontologico diventa così anche condizione di comunicazione essenziale. Di questo significato del silenzio è maestro Duns Scoto, benché non ne abbia parlato direttamente.
Si può descrivere il silenzio filosofico come il comportamento umano indispensabile per ascoltare la Parola di Cristo. E come tale, il silenzio non riguarda un aspetto particolare dell’atteggiamento umano, ma impegna tutta intera la persona, nella sua complessa e indecifrabile personalità. Come ognuno è la sua personalità, così ognuno ha il suo silenzio. Il silenzio è personale. Fare silenzio non è mai qualcosa di comune, ma sempre di personalizzato: il “mio” silenzio è diverso dal “tuo”, dal “suo”… perché diverse sono le personalità che lo vivono.
Questo tentativo di comunicare, per es., il “mio” silenzio, fatto parola, nasconde sempre qualcosa di rischioso; il rischio che la parola resti imcompresa o rifiutata, dal momento che tra chi parla e chi ascolta non c’è conoscenza abbastanza per comprendersi. Così, attraverso l’esperienza mistica scotiana, tentarò di lanciare il ”mio” silenzio dentro il “tuo” spazio interiore, cioè far trapassare la parola-silenzio dal mio raccoglimento al tuo raccoglimento, secondo la dialettica della comunicazione.
In questo scambio di comprensione e di interiorizzazione, la “parola” diventa l’occasione di un “fecondarsi parlando”: il seme della parola cade nella profondità interiore e vi germoglia, e ritorna fecondato per fecondarmi ancora. E’ la mistica gestazione bilaterale dell’amore del silenzio. E’ la fecondità del silenzio amoroso e amorevole, che costituisce il sentimento fondamentale dell’esperienza di Duns Scoto.
Da questo intreccio amore-silenzio-amore si possono ricavare alcuni concetti basilari o chiave della vita spirituale e mistica:

- senza amore non c’è silenzio,
- senza amore non c’è parola,
- senza amore non c’è comunicazione,
- dove non c’è amore, c’è sterile mutismo.

Il senso di queste caratteristiche del silenzio cristico vuole si accetti la manchevolezza e la povertà della parola che viene comunicata, perché non può essere comunicata interamente. Quel che conta in questo scambio di parola-silenzio è la rettitudine, la sincerità, la semplicità nel donare, e l’impegno sincero puro e generoso a voler ascoltare, come l’amante l’amato.
Il rischio della comunicazione, perciò, può essere alleviato unicamente con e nell’amore. L’amore è silenzio. L’amore è silenzio del tempo e dello spazio. L’amore è silenzio della mente e della volontà. L’amore comunica con il silenzio. Il silenzio è la parola dell’amore. L’esperienza è maestra dell’amore. L’amore non è insegnabile. L’amore è personale. L’amore s’impara amando.
L’amore, però, non è solo silenzio. L’amore è anche parola. Caratteristica essenziale dell’amore è la diffusività: Dio ama se stesso e vuole essere amato da altri coamanti, dice Duns Scoto. L’esperienza del silenzio cristologico di Duns Scoto poggia proprio su questa caratteristica ontologica dell’amore. Nasce così la speranza che essa possa divenire seme di parola-silenzio per la vita degli altri che ascoltano.

2- Divisione del silenzio
Secondo l’antropologia di Duns Scoto, il silenzio può considerarsi su due piani principali e distinti, quello esterno e quello interno. Il silenzio esterno è necessario per giungere al dominio e alla quiete della persona umana nei suoi movimenti esterni; il silenzio interno, invece, è necessario per acquistare il pieno possesso delle facoltà interiori, ossia il proprio autodominio. Pur non essendo legati da rapporti causali, i due tipi di silenzio si completano per favorire l’apertura della relazione con Dio.
Il silenzio esterno è necessario come il raccoglimento e la solitudine, ma non sempre tuttavia è sufficiente per il pieno sviluppo della maturità spirituale. Si può suddividere in silenzio esterno della parola e in silenzio esterno nel lavoro.
Il “silenzio esterno della parola” significa, ovviamente parlare poco con le creature e delle creature e tentare di parlare con e di Dio. La parola, infatti, esteriorizza pensieri e sentimenti, svuotando l’anima di ciò che possiede di più intimo e di più personale. Le molte parole, specialmente quelle vuote e senza senso, la rendono superficiale e indeboliscono le sue capacità interiori di perfezionamento. In proposito, è conveniente sorvegliare il tono della voce e di servirsi con calma della parola. Bisagna tentare di essere molto delicati e molto discreti. Si può consigliare: parlare poco e fare molto silenzio; impegnarsi a fare il « proprio » silenzio, per assicurare emulazione e comunicazione in comunità.
Il “silenzio esterno nel lavoro” implica l’esercizio di attività non molto rumorose e rifiuta ogni forma di attivismo esagerato, perché turbano la pace dell’anima, nel senso che l’anima perde la sensibilità nel contatto con Dio, rendendosi incapace di ascoltare la voce di Dio, sia quella diretta che quella indiretta.
Una precisazione.
Non bisogna confondere il silenzio esterno con il “mutismo”, che è una falsa forma di silenzio. Il mutismo, infatti, può essere uno pseudo-silenzio di risentimento, di rancore, di odio, di durezza di cuore, di egoismo… Tutte queste forme di falso silenzio sono, invece, altrettante forme di mancanza di carità, e possono portare a una forma pericolosa di isolamento, non solo esteriore ma soprattutto spirituale.
Il silenzio interiore, che fondamentalmente è non desiderare qualcosa, non volere qualcosa, si può suddividere in tre forme principali: dell’immaginazione, del cuore e della mente.
Silenzio dell’immaginazione e della memoria. Poiché l’incontro con Dio esige mancanza di distrazioni e di dissipazioni, necessita un controllo effettivo sulla stessa attività interiore, che si realizza unicamente con il così detto “silenzio dell’ immaginazione” e “silenzio della memoria”. La pratica del silenzio dell’immaginazione crea il vuoto nelle potenze interiori, assicurando così la possibikità del raccoglimento attivo, come condizione per ascoltare la voce di Dio. Fare il vuoto-silenzio dentro di sé, controllando immaginazione e memoria, significa scavare il “pozzo” interiore, idoneo a essere riempito dallo zampillo dello spirito.
Silenzio del cuore. Il sicuro controllo di ogni affetto naturale che si manifesta in pensieri, conversazioni interiori, desideri audaci… costituisce il silenzio del cuore, che orienta l’anima verso Dio mediante un movimento di fede e di amore. Bisogna controllare i desideri di soddisfazioni contrarie alla volontà di Dio, come ad es., piaceri di soddisfazione, preferenze nei rapporti con gli altri, simpatie particolari… Sul piano spirituale, invece, occorre saper controllare, moderare e mortificare la devozione troppo ardente, come ad es., moltiplicazione di preghiere e di penitenze…; e saper accettare le purificazioni interiori dei sensi, mediante un auto-controllo sereno e responsabile delle proprie manifestazioni esterne. Desiderare la perfezione, l’ideale, la verità, la giustizia, la pace, la serenità, la tranquillità ecc. valori tutti positivi che aprono maggiormente il cuore verso Dio e verso gli altri. Desiderare il bene, la bellezza, la sapienza, la saggezza… Desiderare in una parola Dio stesso.
Silenzio della mente. Il silenzio della mente consiste nel liberare l’intelletto da ogni ragionamento e da ogni giudizio, da ogni ricerca intellettuale e da ogni intenzione estranea a Dio. Può riassumersi in un solo atto: liberarsi da sé per aprirsi all’ascolto di Dio, cioè a ricevere l’irradiazione della luce di Dio ed abbandonarsi dolcemente e sicuramente in Dio stesso.
Con il silenzio della mente si è in piena contemplazione. Si controlla la molla della vita. Si proietta nel mistero della sua causa . La vita contemplativa è la vita dell’intelletto non più ripiegato su se stesso, ma orientato e proteso verso la sua stessa origine. E’ la contemplazione di Dio stesso. E’ l’abbandono in Dio.
È il silenzio di sé di fronte al Silenzio-Parola di Dio.

3- I frutti del silenzio
Tra i frutti più belli e significativi del silenzio scotistico piace richiamare l’attenzione sul “raccoglimento”, sulla “riflessione”, sulla “contemplazione” e sulla « preghiera ».
Il raccoglimento. Una volta creato il silenzio attorno e dentro di sé, lo spirito è “raccolto” in sé, ossia sente pensa vuole agisce sempre in presenza di se stesso, delle essenzialità delle cose, degli altri e di Cristo: muove dalla sua interiorità e vi permane per tutta la vita interiore. Il “raccoglimento” riguarda il cuore e la mente. Si “raccolgono” i propri affetti, i propri desideri, i propri sentimenti, e si “ordinano” secondo la gerarchia dell’essere, affinché non siano dissipati e non si sciupino nella dissipazione, e non sviino i pensieri e gli impegni. È saper rimaner solo con se stesso
La natura del raccoglimento è spirituale, cioè è apertura ontologica all’altro: raccogliendosi, ci si orienta verso se stesso, verso gli altri e verso Dio. Il raccoglimento diventa così la prova sperimentale della propria esistenza e del proprio amore. E’ la così detta “prova d’amore”: amare tutto e tutti senza disperdersi, e nello stesso tempo senza sacrificare niente dell’essenzialità delle cose, ossia amare ordinatamente gli enti secondo il loro gardo di essere. Il raccoglimento è la prova della concretezza e dell’integralità dell’amore. In questo modo, il raccoglimento diventa “purificazione” del cuore e della mente: non dissipa gli affetti ma li ordina, non disperde i pensieri ma li raccoglie; è anche « purificazione » della volontà, che diventa sempre più se stessa, più pura e più libera, secondo la beatitudine evangelica dei « Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio ».
Il raccoglimento è anche opera di “semplificazione” dell’esistenza, perché non è solo ordine e chiarezza dei sentimenti, dei desideri e dei pensieri, ma anche “approfondimento”. La persona “raccolta” accoglie tutto nel suo raccoglimento di ordine e chiarezza, nel senso che sa rinunciare al “rumore” del caos e della confusione, per il “suono” dell’ordinato silenzio, che è la profondità di tutte le parole e di tutte le cose..
La persona raccolta coglie il frutto del suo impegno specialmente nel fare tutto con amore e semplicità, senza uscire fuori del suo raccoglimento, in quanto non viene disturbata dal fare, dal vedere, dal toccare… La persona raccolta non è distratta, perché, non concentrata in una sola cosa e libera da un impegno esclusivo, può impegnarsi con calma tranquillità e diligenza in ogni cosa o occupazione…
La persona raccolta è presente a tutto, perché è presente a se stesso, agli altri e a Cristo. Vivere nel raccoglimento è vivere nel presente, ascoltare tutte le voci che chiamano, tutte le parole che suonano, tutte le cose che parlano con il loro silenzio muto, tutti gli avvenimenti che ci interpellano con la loro forza e prepotenza ecc. Nessuno, quindi, è più presente a se stesso, al mondo e a Cristo della persona che vive raccolta. Il raccoglimento non allontana dal mondo, ma invita a distendersi nel mondo, a occuparsi del mondo, in base alla propria maturità interiore e alla specifica propria professionalità, che sono poggiate su Dio, il sempre Presente in ogni presenza, perché Egli È. Così si realizza l’evangelico « stare nel mondo, senza essere del mondo ».
La riflessione. Un secondo frutto del silenzio-amore cristico è la “riflessione”. A suo fondamento c’è l’attenzione, ossia quella disposizione spirituale a voler conoscere qualcosa, quel disporsi a interpretare un linguaggio e a trascriverlo nel proprio linguaggio. L’attenzione è la fase del “cercare leggendo”. Alla ricerca subentra la riflessione che, come atto dello spirito su se stesso mediante la “cosa” ricercata leggendo, esercita l’atto della riflessione o ripiegamento spirituale di se stesso su se stesso.
Poiché con la riflessione si può conoscere qualcosa, senza conoscere tutto, si può anche credere di aver conosciuto ed essere nell’errore. Questo vuol dire che la riflessione non è solo certezza, ma anche dubbio, anzi procede dubitando. La riflessione, in altre parole è critica: serve per risolvere i dubbi, nella continua ricerca senza esaurirla mai, una volta per sempre.
La meditazione. L’approfondimento della riflessione produce il meraviglioso frutto della “meditazione”, ossia di quell’attività dello spirito che pone di fronte a una scoperta essenziale, a una verità decisiva, che impegna il senso e l’essere stesso dell’esistenza e della personalità. Con la meditazione si trovano verità che già sono presenti nello spirito, senza esserne posseduti interamente. La verità possiede, ma non è posseduta. La verità è più data che conquistata. La verià è all’inizio e non al termine della ricerca. Come a dire: la verità-mistero è meno oggetto di riflessione che di meditazione, più di fede che di ragione.
Di fronte alle verità importanti ed essenziali, scoperte e vissute nell’intensità della meditazione, il pensiero umano dichiara la sua insufficienza a “contenerle”, cioè a capirle, anzi vi si trova “contenuto”. Meditare allora significa trovare e meditare ancora su quel che si è trovato. La meditazione sulle verità essenziali è perpetua e si trasforma in invocazione e in preghiera della verità trovata. La verità è la « perla » preziosa del Vangelo…
La preghiera. Lo sforzo del meditare si allenta; la mente si nasconde umilmente nel suo niente, rientra in se stessa e si abbandona pregando alla sua verità; la mente si dischiude e si distende: il momento meditativo sta cedendo il passo all’invocazione e alla preghiera. E’ il momento della preghiera semplice (o speciale); è il momento della contemplazione, ossia è il momento della mente che solleva lo sguardo da se stessa; è il momento dell’esistenza pura e integrale; è il momento in cui la verità apre le sue porte e si rivela personalmente allo spirito. E’, in altre parole, il momento della relazione personale con Dio, in Cristo.
Il momento della conteplazione è il momento della maturità spirituale: solo chi sa contemplare le verità essenziali, sa meditare sulla verità, sa conoscere le verità parziali e apprezzare anche le più piccole cose, tutte degne di riflessione, di meditazione e di contemplazione amorosa, perché tutte le vede procedere da Dio come creazione continua in Cristo, e tutte le contempla presenti in Cristo e per Cristo.
Chi contempla Dio, in Cristo, signoreggia il mondo intero, perché tutto obbedisce a chi si assoggetta a Dio. L’esempio di Francesco e di Chiara lievita tutta la meditazione sul silenzio esistenziale interpretato scotianamente, in cui pensare e pregare, pregare e pensare convolano a unità: ora et cogita, cogita et ora.

II- LA POVERTA’ DI SPIRITO
Tra il silenzio esistenziale e la povertà di spirito c’è, secondo Duns Scoto, una profonda identità ontologica. Entrambi sono condizioni essenziali per ascoltare la voce di Cristo. Egli stabilisce l’equazione: dove c’è silenzio, c’è povertà; e dove c’è povertà, c’è silenzio. Intuizione che aiuta con più profondità a conoscere le vie o mezzi per amare con più sicurezza il Signore.
Nel contesto dell’analisi sul « settenario » delle virtù, Duns Scoto afferma che i “consigli evengelici”, pur essendo d’origine divina, non sono virtù infuse, ma acquisite o scelte dall’uomo. In quanto consigli, appartengono all’ambito della fede, nel senso che nessuno è necessariamente obbligato a viverli, e neppure a disprezzarli.
Il tema della povertà costituisce certamente il fiore francescano più bello, più suggestivo, più mistico, più sublime che impressiona e affascina continuamente. La povertà-per-amore-di Cristo povero e nudo costituisce la via cheFrancesco e Chiara hanno percorso per andare al Padre. Francesco « sposa » madonna Povertà! Chiara « sposa » addirittura il Cristo crocifisso, nudo e povero! Due espressioni di povertà-per-amore scotianamente detti « cristiformi ». Al di fuori di questa cornice opzionale cristica non si può comprendere la forma di vita esistenziale né di Chiara né di Francesco.
Chiara afferma che la povertà non si identifica solo nella mancanza di beni materiali, cioè con la povertà-di, ma soprattutto nel “godere” tale mancanza per amore di Cristo, ovvero con la povertà-per. Nasce il senso della letizia francescano-clariano, che libera alla radice il cuore dell’uomo per offrirlo nudo a Cristo in un atto di fede nuda e di amore generoso. Sarebbe un grave errore ermeneutico, guardare la povertà clariana solo nella dimensione del « di », isolandola dalla dimensione del « per » o dalla realtà vissuta con affetto amorevole e amoroso da Chiara, cioè Cristo e Cristo crocifisso. Senza Cristo non si spiega né Francesco né Chiara, né i loro ideali, né le loro forme di vita povere e liete.
La povertà clariana, proprio perché nasce da un atto di amore-per Cristo povero e nudo, svolge una duplice azione: da un lato svuota il cuore di Chiara da tutto ciò che può contrastare o turbare il suo amore a Cristo, ossia fa silenzio in sé e fuori di sé; e dall’altro lo riempie dell’amore di Cristo, spalancandolo inebriato di gioia sul mondo intero. È l’amore per Cristo e di Cristo che riempie di soave letizia il cuore e l’intera persona di Chiara. Senza la presenza totalizzante di Cristo non si può comprendere né la vita di Chiara né il suo privilegio paupertatis, che ancora incanta e affascina l’uomo d’oggi.
Il privilegio della povertà di Chiara non deve esssere visto come un semplice documento giuridico, che non avrebbe senso, ma unicamente come elemento indispensabile per poter realizzare la sua scelta esistenziale di amore-per Cristo povero. La motivazione: Cristo ha scelto di vivere una vita povera. L’insistenza di Chiara sul privilegio della povertà è una riprova del suo amore amorevole verso Cristo, cioè il suo sviscerato desiderio di condividere fino in fondo le condizioni del suo Amore, povero e nudo.
Solo con il carisma dell’autorità della Chiesa, Chiara si sente definitivemente sicura di aver adempiuto al suo impegno d’amore-per Cristo crocifisso. È come se avesse ricevuto dalla Sposa di Cristo il crisma del Crocifisso al suo ideale di fede e di amore. Il privilegio della povertà esprime anche al massimo grado il silenzio radicale di Chiara, che così si sente idonea a essere riempita dall’amore del suo Amore crocifisso.
Enigmatico è anche l’episodio biografico della sua morte solo due giorni dopo aver avuto il tanto desiderato « privilegio ». Tutta la sua vita è stata una lunga attesa fiduciosa di poter coronare il suo sogno d’amore. E dato che gli ultimi ventinove anni, Chiara li ha vissuti nel disagio della grave malattia, è possibile pensare che la sua vita sia stata sostenuta dal forte desiderio di ricevere l’autorizzazione della Chiesa a vivere ufficialmente nella massima conformità al suo Sposo crocifisso, povero e nudo.
Che cosa chiedeva Chiara con il privilegio della povertà?
Di vivere semplicemente senza privilegi e senza garanzie, come il suo Sposo, Cristo, che non aveva neppure una pietra per posare il capo!
I tanti temporeggiamenti da parte del cardinale Ugolino e del papa Gregorio IX non valsero a colmare il desiderio amoroso di Chiara, che, fedele a Francesco, anelava direttamente a possedere il Cristo crocifisso. Finalmente il 9 agosto 1253, papa Innocenzo IV concede il tanto privilegio, che segna la nascita definitiva dell’Ordine delle Povere Dame di S. Damiano, o Secondo Ordine francescano.
Su questi brevissimi riferimenti clariani sull’amore alla povertà cristica, piace offrire una meditazione sulla povertà, intesa meno come mancanza di beni materiali che come silenzio esistenziale. L’importanza della sua attualità non sfugge a nessuno, dal momento che oggi sembra perduto il riferimento alle autentiche radici di fede e di amore della povertà. Senza la sua origine di fede si perde il suo valore spirituale, è come se venisse snaturata e sradicata dalle sue autentiche radici cristiche. La povertà in se stessa non ha alcun valore, anzi è un disvalore. Francesco e Chiara ne sono una testimonianza vivente, che in Duns Scoto riceve la conferma dottrinale.

1). La povertà di fronte a Dio
L’analisi del “silenzio cristico” come condizione indispensabile per ascoltare la voce di Cristo, ha portato alla considerazione che esso s’identifica con il concetto di “povertà di spirito”, che Gesù, all’inizio del discorso della montagna, pone come condizione indispensabile per entrare nel regno dei cieli: “Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli”. Con questa prima beatitudine, viene stigmatizzato il “vero” povero: povero di spirito, povero di desiderio, povero di sé, povero per amore, aperto agli altri e aperto a Dio.
Il povero della prima beatitudine evangelica è colui che è convinto profondamente di essere nulla davanti a Dio e vive di conseguenza: attende tutto dal Tutto, come un mendicante. Per lui Dio è tutto e fa tutto. Il povero si considera una liberalità di Dio, una elemosina di Dio, un dono di Dio: è fortemente persuaso che Dio si degna di operare in lui, con lui e per mezzo di lui.
In questo senso originario e ontologico, l’uomo per sua natura è il povero di Dio, che attende da Dio il suo essere e il suo agire, è il mendicante di Dio. Il vero uomo, che coincide con il vero povero ontologico, quindi, è profondamente convinto di essere e di vivere in Dio, di muoversi in Dio e di appartenere a Dio. L’uomo povero possiede quel che possiede -esistenza, attività, ragion d’essere, scopo della vita…- unicamente da Dio, per Cristo e in Cristo.
A che serve questa pennellata ontologica e scotiana sull’essere dell’uomo?
A rinfrescare la mente dell’uomo sulla sua vera e autentica origine. Certo, tutti sappiamo di essere dipendenti almeno nell’essere fontale da Dio, ma non tutti vi pensiamo seriamente da influenzare la propria vita pratica o di progettarla in tale prospettiva.
Duns Scoto paragona l’uomo a un albero. E’ radicato alla terra mediante le radici e con la testa sospesa nel vuoto, nel cielo. Vive come se fosse certo di essere padrone di se stesso. Effettivamente si sente padrone: vive, agisce, si muove, si agita, va e viene, pensa e parla liberamente, vuole e disvuole, ama e odia… La sua autonomia non è una illusione, ma una realtà.
Tuttavia, tale spiccata autonomia è un dono di Cristo. Pur donando l’uomo a se stesso, Cristo non può alienare il suo diritto sull’uomo. Non perché non lo possa fare, ma unicamente per incapacità da parte dell’uomo di poter sopportare tutto il peso del proprio essere su se stesso. Se Cristo alienasse il suo diritto, cioè la sua presenza, l’uomo ricadrebbe nel nulla donde è stato chiamato liberamente da Dio stesso, in Cristo. In altre parole, è soltanto per Cristo e in Cristo, e in forza della sua immanenza, della sua continua e attiva presenza come causa dell’esistenza e dell’attività, che l’uomo è vive agisce ecc. E’ la continuità del dono di Cristo che fa esistere vivere ed essere l’uomo. Dono che si personifica nel concetto di imago Christi; Cristo è il vero e autentico dono di Dio, è il suo Capolavoro. La concretezza dell’uomo diventa realtà solo in rapporto a Cristo, vero Uomo, da cui tutti gli altri ricevono l’imago.
A tutto questo dono-mistero, l’uomo non pensa abbastanza o non pensa seriamente. Non riflette che, in effetti, la sua dipendenza ontologica costituisce contemporaneamente la « radice » e la « chioma » della sua esistenza. Oggi, invece, l’uomo tende di respingere tale originaria dipendenza e tende di proclamare la sua assoluta libertà, con tutte le nefaste conseguenze che la storia quotidiana registra.
L’uomo, che comprende la sua radice ontologica e l’accetta con gioia, eleva il titolo onorifico più alto e più bello di se stesso e a se stesso: si apre all’ascolto della voce di Cristo, fa vivere Cristo in se stesso e per mezzo di sé. L’uomo autentico, quindi, è l’uomo povero che sa sprofondarsi nell’abisso silente di Dio con tutta la sua fede, con tutto il suo amore. Egli ha la coscienza di partecipare in Cristo all’essere di Dio, alla natura di Dio e all’attività di Dio. E in questo modo, l’uomo, autentico-povero, diventa la storica testimonianza dell’opera dello Spirito Santo in lui.
L’uomo autentico non solo scopre e riconosce la sua dipendenza radicale, ma accetta con gioia la propria nullità e proclama la propria povertà. In questa profonda e genuina consapevolezza scopre anche e riconosce la fraternità universale non solo con i propri simili, ma con le creature tutte, perché, come lui, ricevono continuamente esistenza vita ed energia da Dio. L’uomo autentico, o l’uomo povero, si autoscopre, perciò, una elemosina di Dio, un dono di Dio in Cristo.
Tra gli esempi più classici di poveri davanti a Dio, piace semplicemente indicare, senza analizzarli, quelli di Cristo, di Maria, di Francesco e di Chiara. La povertà di Cristo è divina: da Dio si fece anche Uomo. Non solo. Da Uomo, si spoglia di ogni dignità e di ogni immunità, e sceglie di morire nudo sulla nuda croce per la salvezza dell’uomo. La povertà di Cristo è un modello di come si arricchisce davanti a Dio.
Facile è il riferimento alla povertà di Maria, che da Betlemme al Golgota, vive della povertà del Figlio e riceve da Lui l’ultimo sigillo dalla Croce… In quanto Madre del Povero, diviene anche Madre dei poveri e degli umili, come documenta tutta la sua esistenza, sintetizzata nell’inno del Magnificat.
Meraviglioso appare la povertà di Francesco d’Assisi. Personalizzando la Povertà, la sceglie come sposa. Quale significato attribuire a tale sposalizio simbolico? Quando Francesco si riebbe dall’estasi che gli aveva rivelato il senso autentico di una verità a tutti nota ma verso cui si resta indifferenti, egli ebbe chiara la coscienza della sua essenziale e assoluta dipendenza da Dio, e della propria assoluta ed essenziale indigenza o povertà. Aveva intuito Francesco che Dio è tutto e lui nulla. Francesco si è scoperto un mendicante di Dio, una elemosina di Dio. Onde la sua preghiera semplice e significativa: mio Dio e mio Tutto.
Francesco si è autoconsiderato povero davanti a Dio. E’ la dimensione onto-teologica della povertà come condizione per ascoltare la voce di Dio direttamente e indirettamente. In quanto povero in spirito e povero di desiderio, Francesco, ricco d’amore e di fede, ha camminato verso Dio.
Chiara, seguendo le orme di Francesco, si sposa direttamente con lo Sposo povero e nudo, Cristo crocifisso, e vive insieme alla Madre della povertà, Maria Vergine. Tutta la sua vita gravita intorno alla povertà come atto di fede radicale e di amore puro verso il suo Amore. Arriva a pensare di farne il mezzo più sublime per restare unita a Cristo, chiedendo alla Chiesa la conferma del suo ideale, come di un privilegio: scegliere di vivere la povertà personificata dal suo Sposo, Cristo nudo.

2). Povero di fronte a se stesso
La difficoltà più grande che si incontra nella pratica della povertà è la povertà di fronte a se stesso, che costituisce la condizione sine qua non della storia della salvezza. L’essere povero-di-sé dinanzi a se stesso è l’affermazione più paradossale dell’insegnamento di Cristo.
L’essere povero-di-sé dinanzi-a-se-stesso non significa tanto avere consapevolezza di essere un nulla, ma proprio in forza di tale consapevolezza avere la volontà di vivere e agire come se si è qualcuno e si è qualcosa. Qui, il dilemma: essere nulla e pensare di essere qualcuno. E’ un dilemma che si risolve nel vivere e nell’agire non più per se stessi, ma accettare di vivere e agire per opera di Cristo e unicamente per Cristo, secondo la logica dell’amore paolino: non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me. Con la povertà-di-sé, si vive e si agisce per docilità di spirito, per amorosa corrispondenza d’amore, per collaborazione di colui dal quale si sa di avere tutto, esistenza energia e vita.
Per meglio cogliere questo senso profondo e autentico della povertà-di-sé, bisogna meditare l’espressione di Paolo “Se qualcuno crede di essere qualcosa, mentre è un nulla, seduce se stesso” (Gal 6, 3). La dimensione della povertà-di-sé non appartiene a questa o a quella religione, ma appartiene strutturalmente al singolo uomo in quanto uomo-creatura. Ha ricordato Paolo: se « un uomo » crede di essere qualcosa, inganna se stesso e si illude, poiché in verità è un nulla. Ciò che l’uomo ha ed è, è dono gratuito di Cristo, cui dovrà renderne conto nell’avvento finale. La povertà-di-sé è il rovescio della povertà-verso-Dio, cioè la dimensione ontologica dell’essere umano nei confronti di Dio in Cristo.
Questa della nullità ontologico-strutturale o povertà-di-sé è la condizione dell’esistenza, eppure è la meno conosciuta, la meno presente allo spirito, la meno familiare all’attività quotidiana, la meno utilizzata nelle devozioni… Invece: la povertà-di-sé è alla sorgente dell’esistenza autentica e della vera attività umana e spirituale.
Lo sforzo più difficile che Dio richiede dall’uomo in generale e dal religioso in particolare è la povertà di se stesso. Difatti: essere povero di sé dinanzi a Dio è già molto; essere povero di sé dinanzi al prossimo, con la dolcezza, la benignità, la mitezza… è ugualmente grande cosa; essere povero di sé di fronte alle cose, usandole come se non le si usasse, usarle unicamente per la gloria di Dio e per il benessere del prossimo… è quanto mai raro; ma essere povero di sé di fronte a se stesso è la cosa più ardua e difficile, perché si va alla radice stessa dell’essere: alla volontà, ossia volere di non volere. Si può essere, perciò, povero dinanzi a Dio, povero dinanzi agli uomini, povero dinanzi all’universo, senza essere povero di sé dinanzi a se stesso, cioè senza rinunciare veramente a se stessi; di conseguenza si può apparire povero quanto vuoi, ma restare terribilmente ricchi e proprietari di sé…
Come esemplificazione si tenga presente l’inno alla carità di Paolo (1Cor 13, 1-13) che calza molto bene. Perciò, abbandonare i beni materiali, a volte non richiede grande sforzo o sacrificio all’uomo; ma abbandonare se stesso esige uno sforzo continuo di fede che solo con la vera carità si può sopportarne il peso, che, in verità, diventa leggero e soave nel viverlo.
Nella logica del discorso della montagna è facile identificare “beati i poveri di spirito” con “beati i puri di cuore”. Il puro di cuore è colui che volontariamente si distacca da sé e si spoglia di sé. Unica condizione per vedere Dio non solo in cielo ma anche in terra, cioè in sé, negli altri e in ogni cosa.
Una domanda provocatoria: è sufficiente sapere tutto questo per essere povero?
Sarebbe troppo facile. Alla purezza dell’occhio interiore, ossia dello spirito, bisogna aggiungere la purezza di cuore. Fondamentalmente si ottiene la purezza di cuore mettendo in pratica ciò che si è conosciuto. Qui entra in causa la meravigliosa intuizione di Duns Scoto intorno alla praxis, che, puntando sulla unitarietà del sapere e del credere, chiama l’uomo alla coerenza: vivere l’oggetto della propria fede, secondo il credo ut condiligam.
E’ tutto un programma. Francesco e Chiara l’hanno realizzato! Duns Scoto l’ha vissuto sistemato e giustificato anche dottrinalmente.

3). I frutti della povertà
Tra i frutti più saporosi della povertà-silenzio cristico piace indicare soltanto la libertà, la letizia e la semplicità che tra loro sono interscambiabili e complementari.
La libertà. Il privilegio del povero, la ricompensa della povertà-silenzio per amore di Cristo e per amare Cristo, si possono trovare nelle parole di Paolo “Tutto posso in Colui che mi dà forza” (Fil 4, 13), che, tradotto in termini esistenziali, potrebbe significare: saper rimanere uguali in qualunque situazione di spirito e di corpo, di abbondanza e di penuria; sapersi accontentare di quanto si ha e di ciò che si è… L’uomo povero per amore è libero-da ed è disponibile alla libertà-per. La libertà, secondo la promessa di Gesù, coincide con la conquista della povertà di spirito su questa terra, per godere la beatitudine nei cieli. La beatitudine della povertà di spirito si identifica con la sovranità di essere liberi. Il povero-di-sé è libero, perché poggia la sua vita su Cristo. E, forte della sua potenza, diviene padrone di sé, del mondo, di Dio: è veramente libero.
Il povero, dunque, è libero. E’ libero, perché nulla più lo lega, lo vincola, lo trattiene. Nulla lo ritarda, nulla lo inquieta, nulla lo spaventa. Nulla lo appesantisce, nulla lo opprime, nulla lo domina, nulla lo polarizza. Il povero ha imparato ad accontentarsi di quello che ha: se si trova nell’abbondanza, non se ne lascia sopraffare; se si trova nell’indigenza, può vivere ugualmente; se ricade nella povertà, non si angustia; se si sazia, ne ringrazia Colui che gli concede la possibilità di nutrirsi; se affamato, sa sopportare… Il povero è convito che non di solo pane vive l’uomo, ma della parola creatrice di Dio che ne sostiene l’esistenza. E, secondo l’autorità di Paolo (1Tim 6,10), il povero di spirito possiede anche una rosa di virtù. Le principali: giustizia pietà fede carità pazienza mitezza…
La letizia. La povertà-di-spirito non è una croce che si accetta con rassegnazione, ma uno stile di vita che si ricerca con ardente desiderio, tanto da produrre quel delicato sentimento di gioia che va sotto il nome di letizia. La letizia è una virtù stabilizzatrice della serenità interiore in tutte le circostanze o situazioni della vita, come espressione di profonda libertà interiore. Solo chi non ha nulla, di effettivo e di affettivo, può essere lieto, in quanto non ha nulla da temere o da perdere, ma tutto da guadagnare. Chi non ha nulla di beni terreni possiede l’Autore stesso dei Beni. Francesco e Chiara ne sono un’espressione molto significativa.
La letizia sa ben coniugare povertà estrema e ricchezza sconfinata, svuotamento di sé e pienezza di Cristo, rinuncia e possesso, dolore e gioia, morte e slancio vitale. E questo perché la letizia è il punto di fusione di tutti i contrasti in Cristo. Chi è lieto riesce a vedere il mondo come il volto di Cristo, cioè ad ascoltare la voce di Dio attraverso qualsiasi creatura. Non ci sono specifiche caratteristiche o forme di letizia. Essa si irradia in molteplici aspetti, a seconda della personalità di ognuno. La letizia rende l’animo semplice e puro, atto cioè a vedere e ad ascoltare la voce di Cristo, perché fa amare tutto e tutti in Dio.
Ciò che è contrario alla letizia è certamente quel sentimento di protesta, di mormorazione, di lamentazione, di malcontento, di scatti non controllati quando ci tocca qualche privazione… e tutto ciò che è contrario alla povertà-di-spirito. La letizia, allora, coincide con la libertà. Solo chi è e si sente libero può ed è lieto.
Altro frutto della povertà-silenzio cristico è la semplicità. In senso filosofico, la semplicità coincide con la conclusione di una ricerca costante ed esclusiva di Dio, considerato all’inizio e al vertice della scala dell’essere e di ogni bene. La semplicità comporta una ricerca illuminata e guidata dall’amore. Sua caratteristica fondamentale: tradurre nella pratica l’oggetto di tale ricerca, ossia Dio. Chi agisce con semplicità non solo orienta a Dio la sua azione, ma la compie con rettitudine davanti ai suoi occhi. All’origine della semplicità si trova sempre una “scelta radicale” di Dio, che fa non-volere tutto ciò che non appartiene a Dio o a Cristo, secondo la gerarchia dell’essere.
La semplicità tende a liberare sempre più l’uomo dai pesi e dagli impacci che bloccano o rallentano l’ascesa verso Dio, nel senso che conduce l’uomo al “cuore” di ogni cosa o realtà, e lascia fuori o in secondo ordine tutto il resto. Manifestando una profonda unità interiore, la persona semplice vede tutte le cose alla luce di Dio e, quindi, esse appaiono nella loro originaria semplicità e bellezza. Caratteristiche che solo l’animo artistico poetico e metafisico sanno cogliere. Come a dire: che la persona semplice è nello stesso tempo artista poeta e metafisico; ovvero: saggio e sapiente, puro e semplice di cuore. Francesco e Chiara sono semplici e puri di cuore.
La semplicità, infatti, esprime quella caratteristica evangelica dell’infanzia spirituale: “Se non cambiate e non diventate come bambini, non entrerete nel regno di Dio” (Mt 18, 3). Con la semplicità, l’uomo si viene a trovare nelle condizioni ideali per imitare e seguire in modo integrale e incondizionato Cristo, attraverso l’assimilazione dei comportamenti profondi ed essenziali del suo insegnamento. In tale condizione di animo semplice, l’uomo porta continuamente davanti a sé l’immagine del Cristo, dal quale si lascia trasformare completamente e totalmente come lui vuole e come a lui piace: è il gioco della libertà e dell’amore.
La semplicità si coniuga mirabilmente con la sapienza, cioè con quella profonda convinzione di essere e di sentirsi amati da Dio e, quindi, di piacere a Dio pur essendo senza tecnica di umana cultura, ma pieni della sapienza celeste o essenziale, alimentata continuamente dall’azione dello Spirito Santo.
Una delle manifestazioni più caratteristiche della semplicità è certamente la “coerenza in ogni settore della vita”, che esclude ogni possibile discrepanza di atteggiamento, tra interiore ed esteriore, tra credere e agire, tra dire e fare, tra speculazione e pratica… La persona semplice si presenta con quella trasparenza cristallina che permette di vedere chiaramente dal di fuori ciò che avviene nell’intimo del cuore, dove solo Dio ha pieno accesso.
Oltre che frutto della povertà-di-spirito, la semplicità investe tutti i settori della vita, e costituisce la radice stessa di ogni agire e pensare. Più che una virtù o caratteristica acquisibile con umano sforzo, essa sembra meglio un dono, che Dio elargisce a coloro che sanno fare silenzio e vogliono essere poveri, per arricchirsi di Lui e per ascoltare la sua voce in ogni creatura, comunque espressa nella storia.
Il cuore e la mente della persona semplice sono, secondo Duns Scoto, sempre orientati verso Dio, per accogliere con prontezza ed entusiasmo ogni suo impulso o grazia, così da creare una disposizione generale di passività attivissima che sta alla radice della preghiera mistica o della contemplazione, mèta di ogni credente autentico.
In breve, secondo Duns Scoto, chi contempla Dio, in Cristo, signoreggia il mondo intero, perché tutto obbedisce a chi si assoggetta a Dio. L’esempio di Francesco e di Chiara lievita tutta la meditazione della mistica scotianamente, in cui pensare e pregare, pregare e pensare convolano a unità: ora et cogita, cogita et ora.
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Publié dans:MISTICA, San John Duns Scoto, Santi |on 7 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

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IL VOLTO DI GESU’ NEL CONFLITTO DELLE INTERPRETAZIONI

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IL VOLTO DI GESU’ NEL CONFLITTO DELLE INTERPRETAZIONI

Monza, 2 ottobre 2007

Mons. Franco Giulio Brambilla, Vescovo, Vicario per la cultura della Diocesi di Milano

Alla ricerca del volto di Gesù. Il volto è ad un tempo l’identità di una persona e il varco aperto sul suo segreto. Nel volto la persona ti guarda e chiede di essere riconosciuta. Il volto è il luogo dove la persona comunica quando vuole aprirsi e rendersi accessibile, il volto è il cristallo trasparente dove brilla l’inte­riorità della vita o diventa uno schermo quando la persona vuole nascondersi e sottrarsi ad uno sguardo invadente e indagatore. “Ricerca” e “volto”, allora vedete, vanno insieme: un volto va cercato, un volto non può essere posseduto, o meglio può essere posseduto solo nella forma dell’affidamento. È consegnandomi ai suoi segni, alle sue indicazioni, alla sua mimica, che entro nel mistero dell’altro. E’ solo perché lo lascio essere, che l’altro mi viene incontro, e l’altro ha bisogno che il suo volto sia ri-conosciuto (sempre da capo) da uno che lo lascia essere, che entra in un legame di fiducia, che apre lo spazio di una relazione di fede e di fedeltà. Attenzione: non è questa una realtà che ha scoperto l’antropologia. E’ una realtà che è iscritta nella nostra carne: il bimbo si scopre nello specchio del volto della madre, mentre la prima volta che si riflette nello specchio di casa si spaventa, teme di vedersi per così dire raddoppiato. Il proprio volto, la propria identità scaturisce dallo sguardo di un altro, della madre che ti offre lo sguardo così come ti dona la sua vita. Non ci è mai concesso di vedere – neppure da grandi – il nostro volto, lo vediamo solo riflesso nello specchio, possiamo vederlo soltanto lasciandoci guardare, possiamo identificarlo solo lasciandoci riconoscere. E lasciandoci chiamare… Il volto è insieme allora il luogo del legame all’altro e della propria identità. Già solo da questo breve accenno si vede che “volto” – “ricerca” – “fede” vanno insieme. Ma, diciamolo subito sin dall’inizio, il volto sfocia in un appello, lo sguardo invita a un legame, la fede richiede fedeltà. Per questo il tema della “ricerca del volto di Gesù” implica subito anche che si sia disposti a mettere in gioco i nostri legami (con gli altri, con se stessi e con il proprio destino) e a mettere in moto la nostra identità. Dentro una storia e un racconto.
Partiamo da un dato sconcertante e sorprendente. Nella storia della coscienza di fede della Chiesa è facile notare un contrasto paradossale: da una parte, i quattro vangeli e tutta la testimonianza del NT non hanno indugiato sulla nostra naturale curiosità di conoscere i tratti del volto di Gesù, dall’altro, la storia della fede è costellata nell’iconografia e nell’arte musiva, nella pittura e nella scultura, ma anche nella liturgia e nella teologia, nelle immagini della letteratura, filosofia e filmografia da una galleria impressionante di volti e figure del Cristo. Potremmo dire che alla prudenza, starei per dire alla reticenza, del NT nel disegnare i tratti somatici e fisionomici di Cristo corrisponde l’affanno e, a tratti, la concitazione con cui la vicenda storica ha riflesso come in un’infinita galleria di specchi la luce abbagliante e inaccessibile dell’Unico che è l’“Immagine” del Dio invisibile. Sarebbe bello fare una visita ideale alla storia delle immagini e delle figure di Gesù, forse la visita più affascinante che possiamo pensare per conoscere la storia degli uomini e dei loro desideri, ma anche la nostalgia di Dio, o di qualcosa che si avvicini a Lui. Questo paradosso però contiene già le traiettorie della nostra ricerca.

Lo sguardo di Gesù
 Il paradosso ricordato non comporta che il NT sia silente sul volto di Gesù. C’è un aspetto del volto che il racconto evangelico predilige ed è il suo sguardo, lo sguardo di Gesù. Potremmo dire che se il NT non ci dice nulla sul colore dei suoi occhi, sulla forma dei suoi capelli, sulla configurazione del volto, sull’inflessione della voce, sulla mimica del suo viso, come avrebbe fatto ogni buon biografo e narratore appena all’altezza del suo compito, è stato invece sorprendentemente fulminante nel descrivere lo sguardo di Gesù. Lo sguardo è forse la parte più interiore del volto di Gesù, ma si potrebbe dire è anche l’aspetto più estroverso della sua persona, il più mobile, il tratto che muta continuamente, che indica ad un tempo il segreto degli affetti, dei pensieri e dei desideri e l’invito suadente, l’approccio tenerissimo o la presa di distanza tagliente nei confronti dell’interlocutore. Lo sguardo s’accompagna alla voce, e anche la voce di Gesù, si coniuga con la tonalità variegatissima della parole pronunciate da Gesù. Gli evangeli non hanno un’attenzione per così dire psicologica alla differenza di tonalità e di parola, ma ognun s’avvede che non può dire tutte le parole di Gesù con lo stesso tono: alcune sono solenni, altre persuasive, alcune sono durissime, altre suadenti; qualche volta egli usa il linguaggio tagliente dei profeti e dei riformatori, qualche altra volta la lingua trasognata dei poeti e dei mistici. La voce di Gesù fa corpo con la sua parola, è proprio il caso di dirlo: è la sua parola che si fa carne nella voce dalle infinite sfumature. Come per il suo sguardo. Lasciamoci guardare dallo sguardo di Gesù. La nostra ricerca del Volto parte da questo sguardo, si colloca dentro l’irradiazione della sua luce. Così mi piace iniziare il nostro cammino. Così desidero anche per voi. E per far questo vi offro brevemente tre immagini: lo sguardo di Gesù che chiama e perdona, lo sguardo di Gesù sulla realtà, lo sguardo di Gesù sul Padre.
Lo sguardo di Gesù che chiama e perdona è quello che più s’è impresso nel­l’esistenza delle persone. Come non ricordare lo sguardo fisso che ama il giovane ricco: «Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”». (Mc 10,21). Credo che la vicenda spirituale di molti credenti, da Antonio in avanti, non avrebbero seguito l’invito pressante di Gesù se non fosse accompagnato, in ogni stagione della vita e in ogni epoca della storia, da quello sguardo penetrante e struggente. Eppure nessuno fa mai notare il paradosso di questo testo: lo sguardo di Gesù che è andato incontro all’insuc­cesso è stato il paradigma di un’ininterrotta storie di chiamate, che hanno voluto quasi sostituirsi nel luogo di quello sguardo senza risposta. Molti credenti hanno seguitato a leggere il brano sentendo che l’invito era rivolto a loro. Pochi versetti dopo leggiamo: «Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: “Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio!”». Per sentire concludere l’evangelista: «Ma Gesù, guardandoli, disse: “Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio! Perché tutto è possibile presso Dio”» (Mc 10,23.27). La chiamata può essere ascoltata solo dentro uno sguardo, o meglio nasce da un lasciarsi guardare e amare. E come non sentire lo sguardo di Gesù che perdona, quando incontra Pietro nel cortile del sommo sacerdote: «Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: “Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte”» (Lc 22,61). Il Signore va diritto per la sua strada verso la croce, ma prima si volta verso Pietro, perché si ricordi che nessuno, anche quando la paura o il compromesso ci fa nascondere prima a noi stessi che a Lui, resta escluso dallo sguardo di Gesù. Solo così si può avere il coraggio di passare a vita nuova.
Lo sguardo di Gesù sulla realtà e sul mondo è ancora più sconvolgente. Dopo anni in cui liquidavo il testo di Matteo sui gigli del campo e sugli uccelli del cielo (Mt 6,25-34 // Lc 12,22-30) come un brano di troppo facile poesia, a un certo punto mi ha colpito la profondità di questo brano evangelico. Mi è brillato davanti agli occhi lo sguardo di Gesù, che m’invitava ad uno sguardo nuovo sul mondo: «Guardate gli uccelli del cielo… Osservate come crescono i gigli del campo… » (vv. 26.28). Gesù guarda la realtà e spinge ad osservarla con i suoi stessi occhi. Gesù riprende lo sguardo di Dio di Genesi («E Dio vide che ogni cosa era buona») e ci incalza a guardare/osservare. Ora il suo invito è rivolto agli ascoltatori (discepoli/folla): essi possono “vedere” la creazione mediante il “suo” sguardo. Lo sguardo di Gesù rivela il mondo non come gettato-là, ma come donato. L’incanto di queste parole affascinanti di Gesù chiede di accendere uno sguardo nuovo e insieme antico sul mondo, ricuperando la meraviglia originaria (il thaumázein degli antichi). Lo sguardo di Gesù ci fa procedere oltre: «eppure il Padre vostro celeste li nutre!» (v. 26), «Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro!» (v. 29). Il mondo rivela una cura amorevole e lo splendore di una gloria che fa porre la domanda sulle sue origini. E’ solo ripartendo dallo stupore e dall’esclamazione, dal debito impensato da cui sorge il nostro essere-nel-mondo, che è possibile far sorgere l’inter­rogativo: perché c’è qualcosa? Anzi Gesù precisa questa domanda: essa non riguarda la questione del “perché c’è qualcosa piuttosto che il nulla” (Leibniz-Heidegger). Questa è una formula che ha inaridito lo stupore iniziale, anche se resta la domanda delle domande! Gesù ci dice che bisogna portare alla parola lo splendore che “veste” il mondo e la cura amorevole del Padre vostro che lo “nutre”. Non è un caso che i due verbi siano quelli della “nutrizione” e del “vestire”, in cui bisogna riconoscere “di più” del cibo e del vestito materiale, ma la cura e lo splendore del “Padre” nostro («eppure il Padre vostro!), che “Gesù” ci comunica in modo definitivo(eppure io vi dico!»). L’appello di Gesù al Padre nostro che nutre gli uccelli del cielo, e ancor di più il “ma io vi dico” di Gesù che “Dio veste così i gigli e l’erba del campo” con uno splendore e una sapienza maggiore a quella di Salomone accendono anche uno sguardo nuovo sul mondo come “creazione”. Se lo “sguardo” di Gesù ci fa risalire allo splendore della cura del Padre per il mondo, ancora di più alla fine del brano matteano la parola di Gesù rappresenta il verticedella “visione” di Gesù: «Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,32-33). La maniera con cui i pagani si occupano del mondo così, sottoponendolo ad essere la riserva di uno sfruttamento indiscriminato che assoggetta l’uomo al suo lavoro, è contrapposta da Gesù alla cura preveniente di Dio: «il Padre vostro celeste sa che ne avete bisogno…». Tuttavia questo atteggiamento non rende l’uomo passivo, quasi un fannullone in attesa di un intervento provvidenzialista. Il fatto che Dio “sa che ne avete bisogno…” libera il cuore e la mano dell’uomo per la “ricerca del Regno e della sua giustizia”, nella cui luce il mondo (“tutte queste cose”) ci viene dato in aggiunta, vale a dire donato in sovrabbondanza. Gesù porta alla Parola – è Gesù che rivela il senso radicale del suo “sguardo” – il criterio con cui il mondo perviene al dono che fin dall’inizio porta con sé come promessa. Occorre “cercare il Regno e la sua giustizia”, cioè bisogna affidarsi al senso del mondo che è quello di condurci a scoprirne il Donatore, e ad abitare la relazione con Lui. Anche lo sguardo di Gesù sulla realtà ci dice l’impor­tanza della nostra ricerca del volto di Gesù. Vedremo che il brano parallelo di Luca (Lc 12,22-32) sarà al centro del nostro cammino.
Infine, lo sguardo di Gesù sul Padre. Non abbiamo comprensibilmente molti squarci su questo aspetto, ma tutti sono decisivi. Mi piace immaginare Gesù che alzando gli occhi al cielo (Matteo ha un incipit generico; Luca: «In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo») proclami il suo inno di giubilo: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Mt 11,25-27). La piena rivelazione del mistero del Figlio e del Padre è cresciuta lungamente dentro lo sguardo della preghiera, che gli evangelisti ricordano moltissime volte. Giovanni lo afferma esplicitamente con la sua espressione caratteristica:«Gesù, alzati gli occhi al cielo, disse: “Padre, è giunta l’ora, glorifica il tuo Figlio» (Gv 17,1, ma anche 11,41). Lo sguardo sul mistero del Padre è la sorgente segreta a cui si alimenta lo sguardo di Gesù che chiama e perdona, lo sguardo di Gesù sulle cose, sui gesti e sul cuore degli uomini (cf l’episodio dell’obolo della vedova: Lc 21,1-4: …vide alcuni ricchi, …vide anche una vedova povera).

L’unico volto e le molte immagini
Lo sguardo di Gesù è dunque il primo luogo di accesso al suo volto. Eppure dicevano del paradosso tra la mancanza di un volto certo di Gesù e del proliferare dei molti volti lungo la storia della fede e della cultura. Bisogna che sostiamo un po’ su questo paradosso. Le immagini con cui si è rappresentato il Cristo sono praticamente incalcolabili: la sua effigie ha preso il volto dell’umano ideale di ogni tempo. La proiezione su Gesù di esperienze, idee e persino di filosofie, tipiche di un epoca, colpisce in modo sorprendente. Basti ricordare, da un lato, il Cristo glorioso degli orientali, rivestito con gli abiti dell’imperatore; e, dall’altro, il Cristo scarnificato e trucidato delle acqueforti di Rouault, con il volto sfigurato. Si pensi all’intensità del Cristo di Giotto, alla trasparenza di quello del Beato Angelico, alla vivacità di quello di Masaccio, all’impassibile bellezza dei cristi di Raffaello (niente meno dell’im­magine di un signore del Rinascimento), all’umano morente nella serena Pietà romana di Michelangelo o al sublime non finito della Pietà Rondinini. O, infine, alla potenza espressiva del Cristo giudice, ancora con le piaghe del Crocifisso, della cappella Sistina. E poi si scorra la letteratura: Dante, Petrarca su su fino a Dostoievskj, Pasternack, per giungere ai nostri Caproni, Pomilio, Luzi, ecc. Mille immagini, mille figure, in cui si esprime insieme la proiezione del desiderio umano e la ricerca del volto autentico di Cristo. Le stesse teologie sottendono immagini diverse di Cristo. E’ una esperienza affascinante anche solo una scorsa ai ritratti più importanti di questa galleria storica. Ireneo, Origene, Agostino, Leone, Tommaso, Francesco. E poi ancora Cusano, Erasmo, Lutero, Pascal, Barth, Bonhoeffer, Guardini, Rahner, von Balthasar. Bisognerebbe anche ricordare il contrasto tra il fascino che Cristo ha prodotto negli ultimi secoli e il risultato ottenuto, spesso così arbitrario e sognante. Tutti i nomi più noti del pensiero fanno passerella: Spinoza, Rousseau, Lessing, Kant, Hegel, Schleiermacher, Feuerbach, Marx, Kierkegaard, Proudhon, Strauss, Renan, Nietzsche. E poi nel Novecento gli accostamenti tormentati e i silenzi espressivi di Heidegger, Bergson, Blondel, Sartre, Jaspers, Weil, Marcel, Bloch e la lunga teoria dei marxisti incontro a Cristo.[1]
            Questo ci può sconcertare: l’assenza del volto di Cristo ha portato la storia quasi a farlo scomporre in una miriade di figure. Appare chiaramente che la figura di Cristo si dà nel prisma delle attese umane. È evidente come esperienza, tradizione, arte e pensiero rappresentino come un enorme gioco di proiezione sul Cristo dei desideri, delle attese e dei progetti di ogni uomo, gruppo o epoca storica. La proiezione non è subito un fatto sconveniente, perché non si può esprimere l’oggetto della esperienza e conoscenza che a partire dal proprio mondo di immagini, valori e idee. L’esperienza cristiana, con tutto il suo complesso di devozione, arte, pensiero, ha mantenuto vivo il ricordo promettente di e su Gesù. Il nostro stesso linguaggio e l’immaginario attuale sarebbero impensabili senza col­locarli nel grande fiume di questa tradizione. Si scopre qui un aspetto inevitabile del nostro rapporto con Cristo: ogni generazione si appropria in forme sempre nuove del ricordo di Cristo, come qualcosa di vitale, di irrinunciabile, di decisivo per la propria vicenda e per la storia degli uomini. E perciò lo esprime in immagini!

Il volto autentico e il vangelo quadriforme
 Il gioco incrociato delle proiezioni sembra porci una domanda pressante: «qual è l’immagine autentica di Gesù?». Occorre dire con chiarezza che è un’illusione pensare di poter saltare tutta la tradizione per andare a distillare, come in provetta, il Gesù autentico. La questione dell’immagine autentica di Gesù è una questione delicata: qui voglio solo evitare l’ingenuità di chi pensa che prendendo in mano il vangelo si possa sfilare quasi in filigrana una sorta di quintessenza del Cristo “autentico”, con la stessa facilità con cui la bimbe sfilano le loro bambole dal vestito. Tutta la ricerca sul Gesù storico, giustamente necessaria per dire che questi quattro libretti ci parlano di una storia e non di un idea o di un simbolo, ci mostra anche la sua radicale insufficienza.[2] La verità di Gesù (il suo volto!) non ci è accessibile – come vedremo anche nel Vangelo di Luca – che attraverso il prisma della risposta credente, di quei credenti della prima ora, Marco, Luca, Matteo, Giovanni, e poi di quelli che sono seguiti, tra cui svetta Paolo. Il documento incontestabile di questo fatto è che Gesù di Nazaret ci è dato in un vangelo quadriforme. Quello che viene ritenuto uno svantaggio, per le differenze e talvolta le incoerenze che vi sono tra i testi, mi sembra che sia anzitutto un “caso singolare” della letteratura mondiale: dell’unica storia, della stessa vicenda si danno ben quattro attestazioni, convergenti sui tratti essenziali. Ormai oltre duecento anni di critica storica hanno certificato la solidità di questa conclusione, non – come si dice – nonostante le differenze dei testi, ma proprio attraverso di esse.
            Tutto ciò però ci lascia ancora con la nostra domanda sul volto “autentico” di Gesù. Trovo, allora, quasi un segno nel fatto che nessun vangelo ce ne descriva l’aspetto esteriore, perché nessuno, né oggi né domani, possa afferrarlo come sua proprietà. Allora, preferisco farmi accompagnare dagli amici di Gesù. Dietro questa decisione, c’è una scelta teorica che spiego brevemente. Essi non hanno avuto paura di raccontare ciascuno “secondo” il suo racconto (di Marco, di Luca, di Matteo e di Giovanni) l’unico volto del Signore. Dopo la prima stesura (che di solito si fa risalire a Marco), gli altri avrebbero potuto solo proporre delle aggiunte, dei materiali nuovi, dei racconti inediti. Nulla di tutto ciò. E anche in presenza di una racconto già concluso (Matteo e Luca conoscevano almeno una stesura del vangelo di Marco), essi hanno incominciato da capo un racconto completo, con la coscienza che ciascuno (cf Lc 1,3: «così ho deciso anch’io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre Teofilo») dovesse narrare di nuovo l’unico volto di Gesù. Perché tutto questo? Qual è la sapienza teologale che vi si nasconde? La risposta più semplice è gia stata anticipata sopra. L’identità di un volto si dà dentro molti legami. L’identità di Gesù avviene nella risposta credente dei suoi discepoli. Come Gesù non ha lasciato nulla di scritto se non i labili segni sulla sabbia davanti alla donna peccatrice, perché ciò che egli ha detto è stato scritto dalla penna di coloro che lo hanno conosciuto e lo hanno seguito, così non ha lasciato tracce del suo volto, né di quello esteriore, né di quello interiore (anche quello della Sindone ne è un…negativo), se non attraverso l’atte­stazione quadruplice degli evangelisti. Se, come abbiamo detto, c’è una stretta connessione tra “volto”, “ricerca” e “fede”, questo non è solo la “realtà” che cerchiamo, ma anche il “modo ” con cui la raggiungiamo. O, meglio, con cui anche oggi possiamo affidarci a Lui. Trovo sorprendente – forse la forma di credibilità più alta – che questo “cammino” (questo “metodo”) sia anche il principio generatore del vangelo: la ricerca di Gesù non è solo un tema del Vangelo, ma ne è anche il suo motore segreto. Come il vangelo è nato, così è stato scritto e così va anche letto, perché ogni lettore futuro possa viverlo come la ricerca del volto di Gesù!

[1]              X. Tilliette, Filosofi davanti a Cristo [1989], Queriniana, Brescia 21991, pp. 544.
[2]              Anche l’ultimo decennio registra imponenti ricerche in questa direzione: G. Theissen – A. Merz, Der historischen Jesu, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 1996; tr. it., Il Gesù storico. Un manuale, Queriniana, Brescia 1999; J.P. Meier, Un Ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico (= BTC 117.120. 125), Queriniana, Brescia, 2001.20002.2003; G. Barbaglio, Gesù l’ebreo, Dehoniane, Bologna 2002.

Publié dans:biblica, meditazioni |on 6 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

IL PROTAGONISTA INAFFERRABILE

http://www.tempidifraternita.it/archivio/bodratoweb/bodrato5.htm

IL PROTAGONISTA INAFFERRABILE

Non c’è buon libro che non contenga una buona storia e non c’è buona storia che non abbia un protagonista, vale a dire che non ci racconti l’avventura di un eroe alla ricerca ed alla conquista di una meta che, alla fin fine, è quasi sempre il proprio sé, il senso e l’identità della propria vita. La Bibbia non sfugge a questa regola, anche se non la soddisfa nei modi consueti, anche se ci presenta il suo eroe nascondendocelo, anche se sembra sempre incerta tra la valorizzazione del ruolo del protagonista umano e quello del protagonista divino.
Rilke, il poeta, nelle deliziose Storie del buon Dio, favole per bambini raccontate agli adulti perché se ne facciano narratori e testimoni presso i figli o i piccoli amici, osserva che come donne e uomini di mondo noi sembriamo spesso parlare di questo o di quello, mentre dentro, nel segreto di chi parla e di chi ascolta, noi parliamo di Dio, e buon senso vuole che ce lo nascondiamo. Allo stesso modo, ci insegnano gli esegeti, i lettori della Bibbia accostano questo libro alla ricerca della verità su Dio e trovano insegnamenti sull’uomo. Ecco una sineddoche che non può essere sciolta, per la lingua dell’uomo e per la lingua di Dio: tanto l’una quanto l’altra dicendo uomo dicono anche Dio, dicendo Dio dicono anche uomo. L’anche non va dimenticato perchè le due parole e le due realtà stanno insieme, indivisibili, ma sono diverse; non si sovrappongono, si richiamano.
Ecco il nodo in cui si intreccia la questione del protagonista, dell’eroe della storia biblica. In quanto va dalla creazione alla Gerusalemme celeste, in quanto il suo sviluppo ingloba un inizio ed una fine che contengono e trascendono l’insieme della storia, essa non può che avere come protagonista Dio, vale a dire un personaggio che trascende, che sta sopra la storia e fuori di essa, che la contiene. In quanto di questo personaggio si può parlare solo come di Colui che inizia e pone termina a tale storia, come di Colui che in tale storia si rivela e fa presente, ecco che lo stesso ne diventa parte, un po’ come se il tutto potesse essere insieme se stesso e un suo pezzo. Il « tutto nel frammento »: diceva, appunto, un noto teologo.
Ma qui non è finita. Infatti la storia raccontata dalla Bibbia, quella storia che, abbiamo visto, non sta da nessuna altra parte se non nel cuore e nelle mani degli uomini, tanto che, in ultima analisi, dovremmo dire che altro non è che la storia della loro storia, passata, presente e futura, insomma l’interpretazione biblica della storia umana non può che avere come protagonista l’uomo. Il che è necessario ed impossibile ad un tempo, perché non c’è uomo che percorra l’intero arco della storia e non c’è vincolo di generazione che possa fare dell’infinita varietà dei singoli un’unità sovrastorica assoluta od anche solo narrativa. E questo in barba all’agostiniana concezione del peccato originale e all’hegeliana Fenomenologia dello Spirito.
La storia biblica ha, dunque, un protagonista divino che, mentre è dentro, è fuori e risulta di conseguenza inafferrabile ed ha un protagonista umano non meno difficile da individuare, visto la sua molteplicità, frammentarietà e volatilità esistenziale. L’eroe della Bibbia è, insieme alla storia, un problema biblico, vale a dire un problema infinito. Uno dei tanti problemi per cui la Bibbia è stata scritta e per cui viene incessantemente riletta. Uno dei problemi per cui si continuano a comporre libri, poesie e canzoni, per cui si continua a studiare e a lavorare, a vivere e a procreare.

Ad immagine e somiglianza
Che tutto ciò non sia una problematica nostra e da noi, eredi confusi e narcisisti dei secoli dei lumi e dei dubbi, sovrapposta ad un’ipoteticamente solare fede biblica, ce lo ricorda continuamente la Bibbia stessa, che a volte sembra anche un po’ prenderci in giro.
Cosa c’è di più esplicito del versetto 26 del primo capitolo di Genesi, quando recita: « Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza e domini » tutte le creature del mare, della terra e del cielo? Non è questo il protagonista, delegato da Dio a rappresentarlo nel prosieguo dell’avventura? Non ha costui la più chiara, regale e definitiva delle identità, quella di essere figura dell’Eterno? Simile a Lui negli attributi, anche se diverso nel grado e nella potenza?
Sarebbe così: se la ‘somiglianza’ fosse da subito senza problemi, se la distanza che essa segna da Dio, insieme alla vicinanza, non si trasformasse presto dal « Buono, molto buono », di Genesi 1, 31, all’ « è venuta per me la fine di ogni uomo, perché la terra per causa loro è piena di violenza » di Genesi 6, 13; se ‘l’immagine’, che quasi si spinge all’identità, fosse in qualche modo rappresentabile e non custodita dal più perentorio dei divieti sinaitici, da quella proibizione d’immagine che non riguarda solo Dio, ma ogni creatura, compreso l’uomo (Esodo 20,4).
All’esegesi e alla teologia biblica non resta che confessare l’insondabilità del mistero di Dio e del mistero dell’uomo, la paradossalità di questo versetto, che , mentre avvicina l’uomo alla fonte stessa della parola creatrice, anche lo ricaccia, insieme a tale fonte, nel più profondo dell’indicibilità, o meglio, di ciò che può essere detto sempre e solo per tentativi ed approssimazione. Il tutto senza che si possa confondere il « Dio nascosto » con « l’uomo nascosto », visto che il restare nascosto dell’uomo a se stesso si fonda sul restare nascosto di Dio anche nella sua rivelazione, che sempre custodisce la propria apertura a nuove possibilità e la difende da ogni pretesa dogmatica del già raggiunto e definito.

Dio e …compagni
E del resto non solo uomo e Dio si rivelano protagonisti problematici della loro storia, dal momento che non si possono presentare sulla sua scena col piglio hollywoodiano dell’eroe a tutto tondo, subito riconoscibile tra comprimari e comparse, perché la loro identità è in formazione e in larga parte ancora da rifinire, ma giocano spesso ruoli confusamente conflittuali, quando non addirittura anti-eroici, di chi cioè sembra ben più protagonista nel patire che nell’agire.
Quante volte nella Bibbia Dio rivendica a sé il carico di tutta la storia, la responsabilità decisiva dell’azione e rinfaccia all’uomo, oltre che i suoi errori, anche la sua falsa pretesa di sapere e volere ciò che nella sua storia gli accade?!. Basti per tutte il capitolo 48 di Isaia dove Dio, prima ricorda ad Israele di avere predetto le cose accadute, perché lui non vantasse: « L’idolo fatto con le mie mani me le ha procurate », poi gli presenta, già belle pronte, delle novità assolute, « create ora e non da tempo! », perché non vanti: « Già le conoscevo » (Is 48, 3-7).
Quante altre l’uomo rimprovera Dio di non essere pari alle sue responsabilità e alle sue promesse, di non essere presente agli eventi della storia, di trascurare i suoi doveri, con gli accenti che ritroviamo nell’incipit di Abacuc: « Quante volte, Signore, implorerò e non ascolti, a te griderò ‘violenza’ e non soccorri? ».Dove è Dio quando, colui che egli stesso ha proclamato « Il figlio suo prediletto » agonizza sulla croce, gridandogli il suo abbandono? Dovremo confessare con l’ebreo di Auschiwtz che Dio sta lì appeso alla forca, vittima con le vittime, ben più che eroe con gli eroi?
Il che potrebbe anche spingerci a confessare che non ci offre una vera immagine di Dio e quindi dell’uomo « quel teologo che cerca di comprendere i misteri di Dio per mezzo delle meraviglie del creato, ma quello che contempla faccia e dorso di Dio nel corpo e nel volto del Crocefisso » (Martin Lutero). Ma, affinché questa confessione non suoni mistica, pia od ossessivamente dolorista, forse è bene completarla col rimando al grande ruolo, che da questo punto di vista, hanno nella Bibbia quegli elenchi noiosissimi di padri e figli, per più versi illeggibili ed incommentabili, che abbondano agli inizi del Pentateuco (Gn 4, 17-24; 5,1-32; 10, 1-32; 11, 10-32) e, significativamente, ritornano nei vangeli dell’infanzia (Mt 1, 1-17; Lc 2, 23-38). Qui è l’uomo che, attraverso l’albero genealogico, cerca di darsi continuità oltre la morte per reggere in qualche modo il confronto con Dio come protatonista della storia. Ebbene, qui, per quanto a campioni, nessuno è escluso, né eroi né vittime, né buoni né cattivi, né uomini né donne, compresi ladri e prostitute, adulteri e guerrieri, assassini e uomini giusti, fino ed oltre il Crocefisso e i suoi pescatori, pubblicani e persecutori. Tutti diventati « Parola di Dio » e suoi compagni d’avventura.

DICE LA PAROLA

Dio e uomo,
compagni
nella storia,
Mai sapranno
chi sono
se incontrandosi
non si riconosceranno.
Io, con loro,
da sempre,
incompiuta,
sarò così
sulla bocca dei due
un triplice « Santo ».
« Santo Santo Santo.
Totalmente Altro
in te mi riconosco
e ti amo,
come e più che carne
della mia carne
e ossa. »
Staremo, allora,
tutti e tre sospesi
nel silenzio
del bacio.

Aldo Bodrato

Publié dans:BIBBIA, letteratura |on 6 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

S. Francesco d’Assisi, Icone Bizantine di Fra Tommaso Rignanese OFM

S. Francesco d'Assisi, Icone Bizantine di Fra Tommaso Rignanese OFM dans immagini sacre 00010
http://luirig.altervista.org/icone_bizantine/s__francesco_d_assisi.htm

Publié dans:immagini sacre |on 5 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

LO SPLENDORE DELLA PACE DI FRANCESCO (SAN FRANCESCO) – DEL CARDINALE JOSEPH RATZINGER

http://www.30giorni.it/articoli_id_375_l1.htm

LO SPLENDORE DELLA PACE DI FRANCESCO (SAN FRANCESCO)

«Da quest’uomo, da Francesco, che ha risposto pienamente alla chiamata di Cristo crocifisso, emana ancora oggi lo splendore di una pace che convinse il sultano e può abbattere veramente le mura». Un articolo per 30Giorni del prefetto della Congregazione per la dottrina della fede

DEL CARDINALE JOSEPH RATZINGER

Storie di san Francesco, Giotto, basilica superiore, Assisi
La preghiera di san Francesco nella chiesa di San Damiano, particolare, Storie di san Francesco, Giotto, basilica superiore, Assisi
Quando, giovedì 24 gennaio, sotto un cielo gravido di pioggia, si è mosso il treno che doveva condurre ad Assisi i rappresentanti di un gran numero di Chiese cristiane e comunità ecclesiali assieme ai rappresentanti di molte religioni mondiali per testimoniare e pregare per la pace, questo treno mi è apparso come un simbolo del nostro pellegrinaggio nella storia. Non siamo, infatti, forse tutti passeggeri di uno stesso treno? Il fatto che il treno abbia scelto come sua destinazione la pace e la giustizia, la riconciliazione dei popoli e delle religioni non è forse una grande ambizione e, al contempo, uno splendido segnale di speranza? Ovunque, passando nelle stazioni, è accorsa una gran folla per salutare i pellegrini della pace. Nelle strade di Assisi e nella grande tenda, il luogo della testimonianza comune, siamo stati nuovamente circondati dall’entusiasmo e dalla gioia piena di gratitudine, in particolare di un numeroso drappello di giovani. Il saluto della gente era diretto principalmente all’uomo anziano vestito di bianco che stava sul treno. Uomini e donne, che nella vita quotidiana troppo spesso si fronteggiano l’un l’altro con ostilità e sembrano divisi da barriere insormontabili, salutavano il Papa, che, con la forza della sua personalità, la profondità della sua fede, la passione che ne deriva per la pace e la riconciliazione, ha come tirato fuori l’impossibile dal carisma del suo ufficio: convocare insieme in un pellegrinaggio per la pace rappresentanti della cristianità divisa e rappresentanti di diverse religioni. Ma l’applauso, rivolto innanzitutto al Papa, esprimeva anche un consenso spontaneo per tutti coloro che con lui cercano la pace e la giustizia, ed era un segnale del desiderio profondo di pace che provano gli individui di fronte alle devastazioni che ci circondano provocate dall’odio e dalla violenza. Anche se talvolta l’odio appare invincibile e si moltiplica senza sosta nella spirale della violenza, qui, per un momento, si è percepita la presenza della forza di Dio, della forza della pace. Mi vengono alla mente le parole del salmo: «Con il mio Dio scavalcherò le mura» (Sal 18, 30). Dio non ci mette gli uni contro gli altri, bensì Egli che è Uno, che è il Padre di tutti, ci ha aiutato, almeno per un momento, a scavalcare le mura che ci separano, facendoci riconoscere che Egli è la pace e che non possiamo essere vicini a Dio se siamo lontani dalla pace.
Due immagini della Giornata di Assisi: in alto, il muftì della moschea di Roma mentre depone la lampada sul tripode posto davanti al palco; a destra, un gruppo di leader religiosi non cristiani
Due immagini della Giornata di Assisi: in alto, il muftì della moschea di Roma mentre depone la lampada sul tripode posto davanti al palco; a destra, un gruppo di leader religiosi non cristiani
Nel suo discorso il Papa ha citato un altro caposaldo della Bibbia, la frase della Lettera agli Efesini: «Cristo è la nostra pace. Egli ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia» (Ef 2, 14). Pace e giustizia sono nel Nuovo Testamento nomi di Cristo (per «Cristo, nostra giustizia» vedere ad esempio 1Cor 1, 30). Come cristiani non dobbiamo nascondere questa nostra convinzione: da parte del Papa e del Patriarca ecumenico la confessione di Cristo nostra pace è stata chiara e solenne. Ma proprio per questa ragione c’è qualcosa che ci unisce oltre le frontiere: il pellegrinaggio per la pace e la giustizia. Le parole che un cristiano deve dire a colui che si mette in cammino verso tali mete sono le stesse usate dal Signore nella risposta allo scriba che aveva riconosciuto nel duplice comandamento che esorta ad amare Dio e il prossimo la sintesi del messaggio veterotestamentario: «Non sei lontano dal regno di Dio» (Mc 12, 34).
Per una giusta comprensione dell’evento di Assisi, mi sembra importante considerare che non si è trattato di un’autorappresentazione di religioni che sarebbero intercambiabili tra di loro. Non si è trattato di affermare una uguaglianza delle religioni, che non esiste. Assisi è stata piuttosto l’espressione di un cammino, di una ricerca, del pellegrinaggio per la pace che è tale solo se unita alla giustizia. Infatti, là dove manca la giustizia, dove agli individui viene negato il loro diritto, l’assenza di guerra può essere solo un velo dietro al quale si nascondono ingiustizia e oppressione.
Con la loro testimonianza per la pace, con il loro impegno per la pace nella giustizia, i rappresentanti delle religioni hanno intrapreso, nel limite delle loro possibilità, un cammino che deve essere per tutti un cammino di purificazione. Ciò vale anche per noi cristiani. Siamo giunti veramente a Cristo solo se siamo arrivati alla sua pace e alla sua giustizia. Assisi, la città di san Francesco, può essere la migliore interprete di questo pensiero. Anche prima della sua conversione Francesco era cristiano, così come lo erano i suoi concittadini. E anche il vittorioso esercito di Perugia che lo gettò in carcere prigioniero e sconfitto era formato da cristiani. Fu solo allora, sconfitto, prigioniero, sofferente, che cominciò a pensare al cristianesimo in modo nuovo. E solo dopo questa esperienza gli è stato possibile udire e capire la voce del Crocifisso che gli parlò nella piccola chiesa in rovina di San Damiano la quale, perciò, divenne l’immagine stessa della Chiesa della sua epoca, profondamente guasta e in decadenza. Solo allora vide come la nudità del Crocifisso, la sua povertà e la sua umiliazione estreme fossero in contrasto con il lusso e la violenza che prima gli apparivano normali. E solo allora conobbe veramente Cristo e capì anche che le crociate non erano la via giusta per difendere i diritti dei cristiani in Terra Santa, bensì bisognava prendere alla lettera il messaggio dell’imitazione del Crocifisso.
Da quest’uomo, da Francesco, che ha risposto pienamente alla chiamata di Cristo crocifisso, emana ancora oggi lo splendore di una pace che convinse il sultano e può abbattere veramente le mura. Se noi come cristiani intraprendiamo il cammino verso la pace sull’esempio di san Francesco, non dobbiamo temere di perdere la nostra identità: è proprio allora che la troviamo. E se altri si uniscono a noi nella ricerca della pace e della giustizia, né loro né noi dobbiamo temere che la verità possa venir calpestata da belle frasi fatte. No, se noi ci dirigiamo seriamente verso la pace allora siamo sulla via giusta perché siamo sulla via del Dio della pace (Rm 15, 32) il cui volto si è fatto visibile a noi cristiani per la fede in Cristo.

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