Archive pour novembre, 2013

BENEDETTO XVI : ANGELUS – L’ULTIMO ANGELUS (24 FEBBRAIO 2013)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/angelus/2013/documents/hf_ben-xvi_ang_20130224_it.html

BENEDETTO XVI

ANGELUS – L’ULTIMO ANGELUS

PIAZZA SAN PIETRO

DOMENICA, 24 FEBBRAIO 2013

CARI FRATELLI E SORELLE!

Grazie per il vostro affetto!

Oggi, seconda domenica di Quaresima, abbiamo un Vangelo particolarmente bello, quello della Trasfigurazione del Signore. L’evangelista Luca pone in particolare risalto il fatto che Gesù si trasfigurò mentre pregava: la sua è un’esperienza profonda di rapporto con il Padre durante una sorta di ritiro spirituale che Gesù vive su un alto monte in compagnia di Pietro, Giacomo e Giovanni, i tre discepoli sempre presenti nei momenti della manifestazione divina del Maestro (Lc 5,10; 8,51; 9,28). Il Signore, che poco prima aveva preannunciato la sua morte e risurrezione (9,22), offre ai discepoli un anticipo della sua gloria. E anche nella Trasfigurazione, come nel battesimo, risuona la voce del Padre celeste: «Questi è il figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!» (9,35). La presenza poi di Mosè ed Elia, che rappresentano la Legge e i Profeti dell’antica Alleanza, è quanto mai significativa: tutta la storia dell’Alleanza è orientata a Lui, il Cristo, che compie un nuovo «esodo» (9,31), non verso la terra promessa come al tempo di Mosè, ma verso il Cielo. L’intervento di Pietro: «Maestro, è bello per noi essere qui» (9,33) rappresenta il tentativo impossibile di fermare tale esperienza mistica. Commenta sant’Agostino: «[Pietro]…sul monte…aveva Cristo come cibo dell’anima. Perché avrebbe dovuto scendere per tornare alle fatiche e ai dolori, mentre lassù era pieno di sentimenti di santo amore verso Dio e che gli ispiravano perciò una santa condotta?» (Discorso 78,3: PL 38,491).

Meditando questo brano del Vangelo, possiamo trarne un insegnamento molto importante. Innanzitutto, il primato della preghiera, senza la quale tutto l’impegno dell’apostolato e della carità si riduce ad attivismo. Nella Quaresima impariamo a dare il giusto tempo alla preghiera, personale e comunitaria, che dà respiro alla nostra vita spirituale. Inoltre, la preghiera non è un isolarsi dal mondo e dalle sue contraddizioni, come sul Tabor avrebbe voluto fare Pietro, ma l’orazione riconduce al cammino, all’azione. «L’esistenza cristiana – ho scritto nel Messaggio per questa Quaresima – consiste in un continuo salire il monte dell’incontro con Dio, per poi ridiscendere portando l’amore e la forza che ne derivano, in modo da servire i nostri fratelli e sorelle con lo stesso amore di Dio» (n. 3).

Cari fratelli e sorelle, questa Parola di Dio la sento in modo particolare rivolta a me, in questo momento della mia vita. Grazie! Il Signore mi chiama a “salire sul monte”, a dedicarmi ancora di più alla preghiera e alla meditazione. Ma questo non significa abbandonare la Chiesa, anzi, se Dio mi chiede questo è proprio perché io possa continuare a servirla con la stessa dedizione e lo stesso amore con cui ho cercato di farlo fino ad ora, ma in un modo più adatto alla mia età e alle mie forze. Invochiamo l’intercessione della Vergine Maria: lei ci aiuti tutti a seguire sempre il Signore Gesù, nella preghiera e nella carità operosa.

Publié dans:Angelus Domini, Papa Benedetto XVI |on 19 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

FRAMMENTI DI CIELO: DETTI SULLA PREGHIERA DEI PADRI DELLA CHIESA, DEI DOTTORI DELLA CHIESA E DEI PADRI DEL DESERTO

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FRAMMENTI DI CIELO: DETTI SULLA PREGHIERA DEI PADRI DELLA CHIESA, DEI DOTTORI DELLA CHIESA E DEI PADRI DEL DESERTO

S.  Agostino ha detto:
« Nutri la tua anima con la lettura biblica: essa ti preparerà un banchetto spirituale ».
« La preghiera muore, quando il desiderio si raffredda ».

S. Tommaso d’Aquino ha detto:
« La preghiera non viene presentata a Dio per fargli conoscere qualcosa che Egli non sa, ma per spingere verso Dio l’animo di chi prega. »

S. Girolamo ha detto:
« Chi è assiduo nella lettura della Parola di Dio, quando legge si affatica, ma in seguito è felice perché gli amari semi della lettura producono in lui i dolci frutti.
« Studiamo ora che siamo sulla terra quella Realtà la cui conoscenza resterà anche quando saremo in cielo ».
« Preghi? Sei tu che parli allo Sposo. Leggi? E’ lo Sposo che parla a te ».

S. Ignazio di Loyola ha detto:
« Pregare è seguire Cristo che va tra gli uomini, quasi accompagnandolo ».

S. Caterina da Bologna ha detto:
 La preghiera è l’estatica contemplazione dell’ Altissimo, nella sua infinita bellezza e bontà: uno sguardo semplice e amoroso su Dio ».

S. Giovanni Crisostomo ha detto:
« L’uomo che prega ha le mani sul timone della storia ».

S. Giovanni Damasceno ha detto:
« La preghiera è un’elevazione della mente a Dio ».

S. Ignazio d’Antiochia ha detto:
Procurate di riunirvi più frequentemente per il rendimento di grazie e per la lode a Dio. Quando vi radunate spesso le forze di satana sono annientate ed il male da lui prodotto viene distrutto nella concordia della vostra fede. 

S. Bernardo di Chiaravalle ha detto:
  »I tuoi desideri gridino a Dio. la preghiera è una pia tensione del cuore verso Dio. »

Tertulliano ha detto: 
L’unico compito della preghiera è richiamare le anime dei defunti dallo stesso cammino della morte, sostenere i deboli, curare i malati, liberare gli indemoniati, aprire le porte del carcere, sciogliere le catene degli innocenti. Essa lava i peccati, respinge le tentazioni, spegne le persecuzioni, conforta i pusillanimi, incoraggia i generosi, guida i pellegrini, calma le tempeste, arresta i malfattori, sostenta i poveri, ammorbidisce il cuore dei ricchi, rialza i caduti, sostiene i deboli, sorregge i forti. (L’orazione, cap. 29)

Charles de Focauld ha detto:
« Bisogna lodare Dio. Lodare è esprimere la propria ammirazione e nello stesso tempo il proprio amore, perchè l’amore è inseparabilmente unito ad un’ammirazione senza riserve.
Dunque, lodare significa struggersi ai suoi piedi in parole di ammirazione e d’amore. Significa ripe-tergli che Egli è infinitamente perfetto, infinitamente amabile, infinitamente amato.
Significa dirgli che Egli è buono e che l’amiamo ».

Maestro Eckhart ha detto:
« Perchè preghiamo?.. Perchè Dio nasca nell’anima e l’anima rinasca in Dio…Un essere tutto intimo, tutto raccolto ed uno in Dio: questa è la Grazia, questo significa « Iddio con te ».

S.Teresa di Gesù ha detto:
 L’orazione mentale non è altro, per me, che un intimo rapporto di amicizia, un frequente tratteni-mento, da solo a solo, con Colui da cui sappiamo d’essere amati. (Vita 8,5)
… la porta per cui mi vennero tante grazie fu soltanto l’orazione. Se Dio vuole entrare in un’anima per prendervi le sue delizie e ricolmarla di beni, non ha altra via che questa, perché Egli la vuole sola, pura e desiderosa di riceverlo. (Vita 8,9)
Certo bisogna imparare a pregare. E a pregare si impara pregando, come si impara a camminare camminando.
…nel cominciare il cammino dell’orazione si deve prendere una risoluzione ferma e decisa di non fermarsi mai, né mai abbandonarla. Avvenga quel che vuole avvenire, succeda quel che vuole succede-re, mormori chi vuole mormorare, si fatichi quanto bisogna faticare, ma piuttosto di morire a mezza strada, scoraggiati per i molti ostacoli che si presen-tano, si tenda sempre alla méta, ne vada il mondo intero. (Cammino di perfezione 21,4)
Pensate di trovarvi innanzi a Gesù Cristo, conversate con Lui e cercate di innamorarvi di Lui, tenendolo sempre presente. (Vita 12,2)
La continua conversazione con Cristo aumenta l’amore e la fiducia. (Vita 37,5)
Buon mezzo per mantenersi alla presenza di Dio è di procurarvi una sua immagine o pittura che vi faccia devozione, non già per portarla sul petto senza mai guardarla, ma per servirsene ad intrattenervi spesso con Lui ed Egli vi suggerirà quello che gli dovete dire.
Se parlando con le creature le parole non vi mancano mai, perché vi devono esse mancare parlando con il Creatore? Non temetene: io almeno non lo credo! (Cammino di perfezione 26,9)
Non siate così semplici da non domandargli nulla! (Cammino di perfezione 28,3)
Chiedetegli aiuto nel bisogno, sfogatevi con Lui e non lo dimenticate quando siete nella gioia, parlandogli non con formule complicate ma con spontaneità e secondo il bisogno. (Vita 12,2)
Cercate di comprendere quali siano le risposte di Dio alle vostre domande.Credete forse che Egli non parli perché non ne udiamo la voce? Quando è il cuore che prega, Egli risponde. (Cammino di perfezione 24,5)
 A chi batte il cammino della preghiera giova molto un buon libro.
Per me bastava anche la vista dei campi, dell’acqua, dei fiori: cose che mi ricordavano il Creatore, mi scuotevano, mi raccoglievano, mi servivano da libri. (Vita 9,5)
Per molti anni, a meno che non fosse dopo la Comunione, io non osavo cominciare a pregare senza libro. (Vita 4,9)
 E’ troppo bella la compagnia del buon Gesù per dovercene separare! E’ altrettanto si dica di quella della sua Santissima Madre. (Seste Mansioni 7,13)
 … fate il possibile di stargli sempre accanto. Se vi abituerete a tenervelo vicino ed Egli vedrà che lo fate con amore e che cercate ogni mezzo per contentarlo, non solo non vi mancherà mai, ma, come suol dirsi, non ve lo potrete togliere d’attorno.
L’avrete con voi dappertutto e vi aiuterà in ogni vostro travaglio. Credete forse che sia poca cosa aver sempre vicino un così buon amico? (Cammino di perfezione 26,1)
 Poiché Gesù vi ha dato un Padre così buono, procurate di essere tali da gettarvi fra le sue braccia e godere della sua compagnia.
E chi non farebbe di tutto per non perdere un tal Padre? Quanti motivi di consolazione! Li lascio alla vostra intuizione! In effetti, se la vostra mente si mantiene sempre tra il Padre e il Figlio, interverrà lo Spirito Santo ad innamorare la vostra volontà col suo ardentissimo amore. (Cammino di perfezione 27, 6-7)
Quelli che sanno rinchiudersi nel piccolo cielo della loro anima, ove abita Colui che la creò e che creò pure tutto il mondo, e si abituano a togliere lo sguardo e a fuggire da quanto distrae i loro sensi, vanno per buona strada e non mancheranno di arrivare all’acqua della fonte.
Essendo vicinissimi al focolare, basta un minimo soffio dell’intelletto perché si infiammino d’amore, già disposti come sono a ciò, trovandosi soli con il Signore, lontani da ogni oggetto esteriore. (Cammino di perfezione 28,5.8)
 Per cominciare a raccogliersi e perseverare nel raccoglimento, si deve agire non a forza di braccia ma con dolcezza. Quando il raccoglimento è sincero, l’anima sembra che d’improvviso s’innalzi sopra tutto e se ne vada, simile a colui che per sottrarsi ai colpi di un nemico, si rifugia in una fortezza.
Dovete saper che questo raccoglimento non è una cosa soprannaturale, ma un fatto dipendente dalla nostra volontà e che noi possiamo realizzare con l’aiuto di Dio. (Cammino di perfezione 28,6; 29,4)
Sapevo benissimo di avere un’anima, ma non ne capivo il valore, né chi l’abitava, perché le vanità della vita mi avevano bendati gli occhi per non lasciarmi vedere.
Se avessi inteso, come ora, che nel piccolo albergo dell’anima mia abita un Re così grande, mi sembra che non l’avrei lasciato tanto solo…e sarei stata più diligente per conservami senza macchia. (Cammino di perfezione 28,11)
Non si creda che nuoccia al raccoglimento il disbrigo delle occupazioni necessarie.
Dobbiamo ritirarci in noi stessi, anche in mezzo al nostro lavoro, e ricordarci di tanto in tanto, sia pure di sfuggita, dell’Ospite che abbiamo in noi, per-suadendoci che per parlare con Lui non occorre alzare la voce. (Cammino di perfezione 29,5)
 Il Signore ci conceda di non perdere mai di vista la sua divina presenza! (Cammino di perfezione 29,8)
 Quando un’anima… non esce dall’orazione fermamente decisa a sopportare ogni cosa, tema che la sua orazione non venga da Dio. (Cammino di perfezione 36,11)
 Quando un’anima si unisce così intimamente alla stessa misericordia, alla cui luce si riconosce il suo nulla e vede quanto ne sia stata perdonata, non posso credere che non sappia anch’essa perdonare a chi l’ha offesa.
Siccome le grazie ed i favori di cui si vede inon-data le appariscono come pegni dell’amore di Dio per lei, è felicissima di avere almeno qualche cosa per testimoniare l’amore che anch’ella nutre per lui. (Cammino di perfezione 36,12)
 La preghiera non è qualcosa di statico, è un’amicizia che implica uno sviluppo e spinge a una trasformazione, a una somiglianza sempre più forte con l’amico. (da L’amicizia con Cristo, cap VII)

DETTI DEI PADRI DEL DESERTO:

L’importanza della preghiera del mattino
Non appena ti levi dopo il sonno, subito, in primo luogo, la tua bocca renda gloria a Dio e intoni cantici e salmi, poiché la prima preoccupazione, alla quale lo Spirito si apprende fin dall’aurora, esso continua a macinarla, come una mola, per tutto il giorno, sia grano sia zizzania. Perciò sii sempre il primo a gettar grano, prima che il nemico getti la zizzania.
Pregare prima di ogni cosa
Un anziano diceva: « Non far nulla senza pregare e non avrai rimpianti »

Detti di S. Isidoro
« Chi vuole essere sempre unito a Dio, deve pregare spesso e leggere spesso, perché nella preghiera siamo noi che parliamo a Dio, ma nella lettura della Bibbia è Dio che parla a noi ».
« Tutto il progresso spirituale si basa sulla lettura e sulla meditazione: ciò che ignoriamo, lo impariamo con la lettura; ciò che abbiamo imparato, lo conser-viamo con la meditazione. »
« La lettura della Bibbia ci procura un duplice vantaggio: istruisce la nostra intelligenza e ci introdu-ce all’amore per Iddio distogliendoci dalle cose vane. »
« Nessuno può capire il senso della Bibbia, se non acquista consuetudine e familiarità con essa mediante la lettura ».

 Detti di S. Pacomio
Mettiamo freno all’effervescenza dei pensieri che ci angosciano e che salgono dal nostro cuore come acqua in ebollizione, leggendo le Scritture e ruminandole incessantemente…e ne sarete liberati .

Detti di Arisitide l’Apologeta
« E’ per la preghiera dei cristiani che il mondo sta in piedi ». 

Detti di Evagrio Pontico
« La preghiera è sorgente di gioia e di grazia ».
« Quando, dedicandoti alla preghiera, sei giunto al di sopra di ogni altra gioia, allora veramente hai trovato la preghiera.

Detti di Giovanni Climaco 
« La preghiera è sostegno del mondo, riconciliazione con Dio, misura del progresso spirituale, giudizio del Signore prima del futuro giudizio ».

Publié dans:Padri del deserto, preghiere |on 19 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

Sant’ Alberto Magno

alberto magno

Publié dans:immagini sacre |on 14 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

SANT’ ALBERTO MAGNO – 15 NOVEMBRE

http://liturgia.silvestrini.org/santo/122.html

SANT’ ALBERTO MAGNO – 15 NOVEMBRE

VESCOVO E DOTTORE DELLA CHIESA

BIOGRAFIA
Quando al nome del Santo troviamo l’attributo « Magno », siamo sempre indotti a pensare che si tratti di un grande; Sant’Alberto sicuramente lo è e per diverse ragioni: era nato nella Svevia verso il 1206 da una famiglia della piccola nobiltà. Studiò a Padova dove conobbe l’Ordine dei Frati Predicatori (i Domenicani), aderì a quella famiglia religiosa e perfezionò i suoi studi. Divenne così un uomo veramente enciclopedico. Eletto Vescovo nel 1260, predicava, insegnava, governava la sua diocesi; si occupava di tutto e di tutti e, pur in mazzo a tante occupazione e preoccupazioni, trovava il tempo di farsi Santo. Salì sulle cattedre delle più celebri università della Germania e successivamente in quella celeberrima di Parigi. Gli studenti raggiungevano in anticipo la sede universitaria per ascoltare le sue dotte e brillanti lezioni. I suoi superiori lo inviarono poi, in veste di fondatore, a Colonia per iniziare in quella città una nuova sede universitaria. Ivi incontrò uno studente del tutto speciale e dello stesso suo ordine, si strattava di Tommaso d’Aquino, il quale continuerà l’opera del maestro con eguale zelo e ricchissima cultura. E’ propio vero che i santi generano i Santi!

MARTIROLOGIO
Sant’Alberto, detto Magno, vescovo e dottore della Chiesa, che, entrato nell’Ordine dei Predicatori, insegnò a Parigi con la parola e con gli scritti filosofia e teologia. Maestro di san Tommaso d’Aquino, riuscì ad unire in mirabile sintesi la sapienza dei santi con il sapere umano e la scienza della natura. Ricevette suo malgrado la sede di Ratisbona, dove si adoperò assiduamente per rafforzare la pace tra i popoli, ma dopo un anno preferì la povertà dell’Ordine a ogni onore e a Colonia in Germania si addormentò piamente nel Signore.

DAGLI SCRITTI…
Dal «Commento sul vangelo di Luca» di sant’Alberto Magno, vescovo
Pastore e maestro per l’edificazione del corpo di Cristo

«Fate questo in memoria di me» (Lc 22, 19). Qui sono da sottolineare due cose. La prima é il comando di usare di questo sacramento, quando dice: «Fate questo». La seconda poi é che esso sia il memoriale del Signore che va alla morte per noi. Dice dunque: «Fate questo». Non si poteva infatti comandare nulla di più, nulla di più dolce, nulla di più salutare, nulla di più amabile, nulla di più somigliante alla vita eterna. Cerchiamo di considerare una per una tutte queste qualità. Anzitutto l’Eucaristia é utile per la remissione dei peccati per chi é spiritualmente morto, utilissima poi all’aumento della grazia per chi é spiritualmente vivo. Il salvatore delle nostre anime ci istruisce su ciò che é utile per ricevere la sua santificazione.
Ora la sua santificazione consiste nel suo sacrificio, in quanto nell’oblazione sacramentale si offre per noi al Padre, e si offre a noi in comunione. «Per loro io consacro me stesso» (Gv 17, 19). Cristo, che per mezzo dello Spirito Santo offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente (cfr. Eb 9, 14). Niente noi possiamo fare di più dolce. Che cosa infatti vi potrebbe essere di più delizioso del sacramento che contiene tutte le delizie divine? «Dal cielo hai offerto loro un pane pronto senza fatica, pieno di ogni delizia e gradito a ogni gusto. Questo tuo alimento manifestava la tua dolcezza verso i tuoi figli; si adattava al guisto di chi ne mangiava, si trasformava in ciò che ognuno desiderava» (Sap 16, 20-21). Niente poteva essere comandato di più salutare. Questo sacramento infatti é il frutto del legno della vita. Se qualcuno lo riceve con devozione e fede sincera, non gusterà la morte in eterno. «E’ un albero di vita per chi ad essa di attiene, e chi ad essa si stringe é beato» (Pro 3, 18); «Colui che mangia di me, vivrà per me» (Gv 6, 57). Niente ci poté essere comandato di più amabile. Questo infatti é il sacramento che crea l’amore e l’unione. E’ segno del massimo amore dare se stesso in cibo. «Non diceva forse la gente della mia tenda: A chi non ha dato delle sue carni per saziarsi?» (Gb 31, 31); quasi avesse detto: tanto ho amato loro ed essi me, che io volevo trovarmi dentro di loro ed essi ricevermi in sé, di modo che, incorporati a me, diventassero mie membra. Non potevano infatti unirsi più intimamente e più naturalmente a me, né io a loro.
Niente infine ci poteva essere comandato di più connaturale alla vita eterna. Infatti la vita eterna esiste e dura perché Dio si comunica con tutta la sua felicità ai santi che vivono nella condizione di beati.(22, 19; Opera omnia, Parigi 1890-1899, 23, 672-674)

Dal Trattato « La remissione » di san Fulgenzio di Ruspe, vescovo.
« In un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba; suonerà infatti la tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati » (1 Cor 15, 52). Quando dice « noi » Paolo mostra che con lui conquisteremo il dono della futura trasformazione coloro che insieme a lui e ai suoi compagni vivono nella comunione ecclesiale e nella vita santa. Spiega poi la qualità di tale trasformazione dicendo: « E’ necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e che questo corpo mortale si vesta di immortalità » (1 Cor 5, 53). In costoro allora seguirà la trasformazione dovuta come giusta ricompensa a una precedente rigenerazione compiuta con atto spontaneo e generoso del fedele. Perciò si promette il premio della rinascita futura a coloro che durante la vita presente sono passati dal male al bene.
La grazia prima opera, come dono divino, il rinnovamento di una risurrezione spirituale mediante la giustificazione interiore. Verrà poi la risurrezione corporale che perfezionerà la condizione dei giustificati. L’ultima trasformazione sarà costituita dalla gloria. Ma questa mutazione sarà definitiva ed eterna. Proprio per questo i fedeli passano attraverso le successive trasformazioni della giustificazione, della risurrezione e della glorificazione, perché questa resti immutabile per l’eternità. La prima metamorfosi avviene quaggiù mediante l’illuminazione e la conversione, cioé col passaggio dalla morte alla vita, dal peccato alla giustizia, dalla infedeltà alla fede, dalle cattive azioni ad una santa condotta. Coloro che risuscitano con questa risurrezione non subiscono la seconda morte. Di questi nell’Apocalisse é detto: « Beati e santi coloro che prendon parte alla prima risurrezione Su di loro non ha potere la seconda morte » (Ap 20, 6). Nel medesimo libro si dice anche: « Il vincitore non sarà colpito dalla seconda morte » (Ap 2, 11). Dunque, come la prima risurrezione consiste nella conversione del cuore, così la seconda morte sta nel supplizio eterno. Pertanto chi non vuol essere condannato con la punizione eterna della seconda morte s’affretti quaggiù a diventare partecipe della prima risurrezione. Se qualcuno infatti durante la vita presente, trasformato dal timore di Dio, si converte da una vita cattiva a una vita buona, passa dalla morte alla vita e in seguito sarà anche trasformato dal disonore alla gloria. (Lib. 2, 11, 2 – 12, 1. 3-4; CCL 91 A, 693-695).

Publié dans:Padri della Chiesa e Dottori, Santi |on 14 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

PAPA: LA MADONNA « NON È UN CAPOUFFICIO DELLA POSTA, PER INVIARE MESSAGGI TUTTI I GIORNI ».

http://www.asianews.it/notizie-it/Papa:-la-Madonna-non-%C3%A8-un-capoufficio-della-Posta,-per-inviare-messaggi-tutti-i-giorni.-29539.html

14/11/2013 – VATICANO
  
PAPA: LA MADONNA « NON È UN CAPOUFFICIO DELLA POSTA, PER INVIARE MESSAGGI TUTTI I GIORNI ».

Francesco durante la messa a Casa santa Marta parla dello spirito di curiosità « quando noi vogliamo impadronirci dei progetti di Dio, del futuro, delle cose; conoscere tutto, prendere in mano tutto… ». E’ uno spirito che genera confusione e ci allontana dallo Spirito della sapienza « che ci aiuta a giudicare, a prendere decisioni secondo il cuore di Dio. E questo spirito ci dà pace, sempre! ».
   
Città del Vaticano (AsiaNews) – La Madonna è madre e ama tutti, « ma non è un capoufficio della Posta, per inviare messaggi tutti i giorni ». Papa Francesco commenta  così lo « spirito di curiosità », il volersi « impadronire dei progetti di Dio » invece di « camminare » nella sapienza dello Spirito Santo e che ci spinge a voler sentire che il Signore è qua oppure è là; o ci fa dire: « Ma io conosco un veggente, una veggente, che riceve lettere della Madonna, messaggi dalla Madonna ».
Dello spirito di curiosità che genera confusione e ci allontana dallo Spirito della sapienza il Papa ha parlato questa mattina commentando durante la messa celebrata a Casa santa Marta il passo del Libro della Sapienza, dove si descrive « lo stato d’animo dell’uomo e della donna spirituale », del vero cristiano e della vera cristiana che vivono « nella sapienza dello Spirito Santo. E questa sapienza li porta avanti con questo spirito intelligente, santo, unico, molteplice, sottile ». Come riferisce la Radio Vaticana, Francesco ha detto che « questo è camminare nella vita con questo spirito: lo spirito di Dio, che ci aiuta a giudicare, a prendere decisioni secondo il cuore di Dio. E questo spirito ci dà pace, sempre! E’ lo spirito di pace, lo spirito d’amore, lo spirito di fraternità. E la santità è proprio questo. Quello che Dio chiede ad Abramo – ‘Cammina nella mia presenza e sii irreprensibile’ – è questo: questa pace. Andare sotto la mozione dello Spirito di Dio e di questa saggezza. E quell’uomo e quella donna che camminano così, si può dire che sono un uomo e una donna saggia. Un uomo saggio e una donna saggia, perché si muovono sotto la mozione della pazienza di Dio ».
Ma nel Vangelo « ci troviamo davanti ad un altro spirito, contrario a questo della sapienza di Dio: lo spirito di curiosità ». « E’ quando noi vogliamo impadronirci dei progetti di Dio, del futuro, delle cose; conoscere tutto, prendere in mano tutto… I farisei domandarono a Gesù: ‘Quando verrà il Regno di Dio?’. Curiosi! Volevano conoscere la data, il giorno… Lo spirito di curiosità ci allontana dallo Spirito della sapienza, perché soltanto interessano i dettagli, le notizie, le piccole notizie di ogni giorno. O come si farà questo? E’ il come: è lo spirito del come! E lo spirito di curiosità non è un buono spirito: è lo spirito di dispersione, di allontanarsi da Dio, lo spirito di parlare troppo. E Gesù anche va a dirci una cosa interessante: questo spirito di curiosità, che è mondano, ci porta alla confusione ».
La curiosità ci spinge a voler sentire che il Signore è qua oppure è là; o ci fa dire: « Ma io conosco un veggente, una veggente, che riceve lettere della Madonna, messaggi dalla Madonna ». E il Papa commenta: « Ma, guardi, la Madonna è Madre, eh! E ci ama a tutti noi. Ma non è un capoufficio della Posta, per inviare messaggi tutti i giorni ». « Queste novità allontanano dal Vangelo, allontanano dallo Spirito Santo, allontanano dalla pace e dalla sapienza, dalla gloria di Dio, dalla bellezza di Dio ». Perché « Gesù dice che il Regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione: viene nella saggezza ». « Il Regno di Dio è in mezzo a voi! », dice Gesù: è « questa azione dello Spirito Santo, che ci dà la saggezza, che ci dà la pace. Il Regno di Dio non viene nella confusione, come Dio non parlò al profeta Elia nel vento, nella tormenta » ma « parlò nella soave brezza, la brezza della sapienza »:
« Così Santa Teresina – Santa Teresa di Gesù Bambino – diceva che lei doveva fermarsi sempre davanti allo spirito di curiosità. Quando parlava con un’altra suora e questa suora raccontava una storia, qualcosa della famiglia, della gente, alcune volte passava ad un altro argomento e lei aveva voglia di conoscere la fine di questa storia. Ma sentiva che quello non era lo spirito di Dio, perché era uno spirito di dispersione, di curiosità. Il Regno di Dio è in mezzo a noi: non cercare cose strane, non cercare novità con questa curiosità mondana. Lasciamo che lo Spirito ci porti avanti, con quella saggezza che è una soave brezza. Questo è lo Spirito del Regno di Dio, di cui parla Gesù. Così sia ».

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Confession of the sin

Confession of the sin dans immagini sacre The_confession
http://en.wikipedia.org/wiki/Confession_(religion)

 

Publié dans:immagini sacre |on 13 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

LA VITA NUOVA NASCE DA UNO SGUARDO CHE SALVA-GUARDA – INVITO ALLA LETTURA DI « UN DIO UMANO »

http://www.zenit.org/it/articles/la-vita-nuova-nasce-da-uno-sguardo-che-salva-guarda

LA VITA NUOVA NASCE DA UNO SGUARDO CHE SALVA-GUARDA

INVITO ALLA LETTURA DI « UN DIO UMANO »

Roma, 13 Novembre 2013 (Zenit.org)

«Una delle verità capitali del cristianesimo, oggi particolarmente misconosciuta da tutti, sta nel fatto che è lo sguardo a salvare», quest’affermazione della filosofa ebrea Simone Weil che capta una dimensione essenziale del cristianesimo costituisce anche uno dei leitmotiv della riflessione del nostro collega a Zenit Robert Cheaib nel suo nuovo libro Un Dio umano. Primi passi nella fede cristiana. Il principio-amore che costituisce l’essenza del cristianesimo si traduce in uno sguardo che non condanna ma che salva-guarda e la salvezza è anche l’esperienza di un’anima che riesce a sollevare lo sguardo a risorgere verso la dignità dei figli di Dio. Nelle parole di Simone Weil: «Lo sforzo attraverso il quale l’anima si salva somiglia a quello per mezzo del quale si guarda, per mezzo del quale si ascolta, per mezzo del quale una fidanzata dice di sì. È un atto di attenzione e di consenso». Di seguito un piccolo assaggio del libro.

* * *
Nella vita quotidiana ci sfioriamo con gli sguardi. Ci fissiamo per prepotenza, manteniamo lo sguardo per cortesia o ci perdiamo negli occhi dell’altro per amore. Lo sguardo è una meraviglia misteriosa. Quando guardi chi ti guarda, ti rendi conto che non dovresti trattare l’altro come un oggetto. L’altro è una presenza, è un «tu». Lo sguardo, però, può essere indiscreto, un giudizio ancor più spietato delle parole.
Ciò che vale per le persone si applica anche alla nostra percezione dello sguardo di Dio. Jean-Paul Sartre, un filosofo esistenzialista ateo, racconta che, una volta, nella sua infanzia, mentre stava giocando con i fiammiferi ha bruciato un piccolo tappeto. In quell’istante, mentre cercava di nascondere le tracce del delitto, ha sentito «lo sguardo di Dio all’interno della sua testa e sulle sue mani». Era «orribilmente visibile» agli occhi di quel Dio. Sartre si è infuriato contro tale «indiscrezione» e ha bestemmiato e da allora, racconta: «Dio non m’ha più guardato». Non c’è da meravigliarsi se quell’uomo è diventato ateo! Uno sguardo onnipresente di questa aggressività è insostenibile, è diabolico! Non è affatto questo lo sguardo di Dio nei vangeli.
Nella pericope di Gv 1,35-51 c’è una grande intensità di sguardi: il Battista «fissa lo sguardo su Gesù» e i due discepoli sono chiamati a venire e vedere. Ma lo sguardo che conta e che non solo guarda ma salva-guarda è quello di Gesù. È lo sguardo luminoso che illumina i vari incontri. Il climax di questo gioco di sguardi è l’incontro con Natanaele.
Filippo – uomo semplice ed entusiasta – annuncia all’amico Natanaele: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i Profeti: Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nazaret!». Natanaele, l’intellettuale, coglie la palla al balzo per mostrarsi saccente: «Da Nazaret può venire qualcosa di buono?». «Vieni e vedi!». Natanaele viene a vedere Gesù, non per curiosità, né per convinzione, ma per sfida, come se dicesse a Filippo: «Vengo, vedo e vinco il tuo abbaglio». Gesù, intanto, vede Natanaele ed elogia la sua integrità. Ma questi, diffidente, replica: «Come mi conosci?». Gesù risponde: «Prima che Filippo ti chiamasse, ti ho visto sotto l’albero di fichi».
La risposta suscita in Natanaele una reazione a prima vista esagerata. Lo scettico saccente, infatti, confessa la divinità di Gesù: «Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re di Israele!». Cosa è successo?
È difficile compenetrare fino in fondo il valore di quest’esperienza; è certo però che la frase di Gesù non è stata una localizzazione spazio-temporale. Gesù ha visto Natanaele nella sua essenza, nella sua dimora spirituale, come persona assetata della verità, come uomo in cammino (homo viator), un cuore giovane che cerca il volto di Dio.
Il midrash Rabbah racconta che a volte i rabbini insegnavano e studiavano sotto un albero di fichi. Natanaele stava forse gustando la parola di Dio, stava cercando lo sguardo di Dio, la sua visuale, la sua visione. Ed ecco che si scopre cercato prima di essere cercatore, visto con amore prima di vedere.
Gesù coglie e accoglie questo desiderio, questa passione divina in Natanaele. Da qui possiamo immaginare lo sguardo di Gesù. Non uno sguardo scrutatore di fredda curiosità, o di giudizio e condanna, ma lo sguardo che salva-guarda. Il salmista ci insegna che Dio ci guarda, scruta e conosce, ci vede con amore mentre ancora siamo informi, trasformandoci in una meraviglia stupenda (cf. Sal 139). Quello sguardo divino, Natanaele l’ha visto negli occhi di Gesù.
Quando qualcuno ci avvolge con uno sguardo caldo, la nostra vita è visitata, siamo improvvisamente strappati dall’anonimato e dalla solitudine esistenziale. Agli occhi di Gesù si applica in modo eccellente ciò che dice il filosofo francese Jean-Louis Chrétien: «L’ascolto è più congeniale allo sguardo dell’udito». Gesù ascolta, accoglie e ama con i suoi occhi. Lo sguardo di Gesù trasmette, guarda dentro e ama; così nell’episodio del giovane ricco: «Gesù lo guardò dentro e lo amò» (emblepsas auto egapesen auton) (Mc 10,21).
Giacomo Biffi osserva che l’esistenza di Pietro è segnata da due sguardi trasformanti. Il primo risale al primo incontro con Gesù, il quale, «fissando lo sguardo su di lui, disse: “Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa che significa Pietro”» (Gv 1,42). Il secondo sguardo è dopo il triplice rinnegamento di essere discepolo di Gesù e il canto del gallo, quando «il Signore si voltò e fissò lo sguardo su Pietro, e Pietro… uscito fuori, pianse amaramente» (Lc 22,61-62).
Non è facile sostenere lo sguardo, soprattutto quello di Dio. Abbiamo troppi pregiudizi inculcati dagli ammonimenti dell’infanzia e dalla voce del serpente che sussurra nel giardino di ogni cuore parole di diffidenza nei confronti di Dio: l’abbiamo visto in Sartre che afferma che lo sguardo dell’altro ferisce, è pericoloso, uccide.
Il vangelo, però, è la «buona notizia» sullo sguardo misericordioso di Dio. Thérèse di Lisieux, che ha colto lo sguardo di Dio nella sua verità, ebbe a dire in un suo poema intitolato Mon Ciel à moi: «Lo sguardo del mio Dio, il suo splendido sorriso. Ecco il mio Cielo!». Da qui si capisce quel che Balthasar scrive: «La santità consiste nel tollerare lo sguardo di Dio».
Non è facile lasciarsi guardare, lasciarsi amare soprattutto laddove noi stessi non riusciamo a guardarci e amarci. A volte ci capita di essere elogiati da qualcuno per qualità che non vediamo in noi stessi. In quei momenti, siamo attraversati da due sentimenti contrastanti: siamo contenti di essere amati e apprezzati, ma, al contempo, serpeggia dentro di noi un senso di tristezza che ci spiffera cinicamente: «Se ti conoscesse veramente, non penserebbe questo di te».
Gesù conosce nel profondo Natanaele, conosce ognuno di noi, ci guarda come quel giovane del vangelo e ci ama. Lui è fatto così: non ci ama perché siamo degni, ma ci rende degni perché ci ama.
A Gesù si applicano in modo pieno le parole sull’amore di Jean Vanier, il fondatore della comunità L’arche che si occupa dei disabili mentali: «Amare qualcuno è rivelargli la sua bellezza».
Gesù guarda l’uomo e il suo sguardo creatore effonde in lui la bellezza originaria e originale di Dio. Lo sguardo di Gesù restaura l’immagine ferita di Dio.
Se il cuore è pronto, basta solo uno sguardo d’amore per risorgere.

Publié dans:meditazioni, ZENITH.ORG - ARTICOLI |on 13 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

L’EBRAISMO E I DIRITTI CULTURALI (*)

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L’EBRAISMO E I DIRITTI CULTURALI (*)

MARCO MORSELLI

Stiamo per entrare nell’anno giubilare della scomparsa di Raïssa Oumançoff Maritain. Esattamente 49 anni fa, il 4 novembre 1960, Raïssa lasciava questo mondo: «J’ai reçu la grâce d’avoir auprès de moi, toute ma vie, et pour se sacrifier à mon pauvre travail, deux saintes filles d’Israël, Raïssa et sa soeur [Vera], dont les ancêtres étaient des hassidim et qui ont aimé Jésus de tout leur coeur; et c’est à elles que je dois tout».(1) Sia il loro ricordo in benedizione.
1. Per poter parlare dell’ebraismo dobbiamo innanzi tutto, brevemente, parlare della Torah. Che cos’è la Torah? Il termine significa insegnamento, e designa in primo luogo cinque libri, il Pentateuco: Bereshìt/In principio, Shemòt/Nomi, Wayiqrà/Chiamò, Bamidbàr/Nel deserto, Devarìm/Parole. A questi libri vanno aggiunti i Neviim, ossia gli scritti dei Profeti, e i Ketuvim, gli Agiografi. Se eliminiamo la divisione in libri, capitoli e versetti, abbiamo 304.805 lettere\numeri che possono essere studiati anche da un punto di vista strettamente matematico.
 ccorre inoltre tenere presente che non vi è solo la Torah scritta, vi è anche la Torah orale, che precede e accompagna la Torah scritta. In una situazione di estremo pericolo per l’esistenza stessa del popolo ebraico(2) la Torah orale venne messa per iscritto, e abbiamo così la Mishnàh. I commenti alla Mishnah costituiscono il Talmùd. Abbiamo poi ancora il Midràsh e la Qabbalàh.
Elie Wiesel ha definito il Talmud «un oceano vasto, turbolento eppure confortante, che suggerisce l’infinita dimensione dell’esistenza e l’amore per la vita, oltre che il mistero della morte e dell’istante che la precede». Il Talmud fa parte della storia degli ebrei da millenni, se consideriamo la sua storia dalle tradizioni orali alla Mishnah, alla discussione della Mishnah, al Talmud orale, al Talmud manoscritto, poi stampato, poi su Internet. Al suo interno, il qui e l’ora sono intimamente connessi con altri tempi e altri luoghi, i Maestri del I secolo discutono con i Maestri del XX secolo, i Rabbini babilonesi con quelli francesi. Più che un libro, è un approccio all’esistenza, nel quale la ricerca e la discussione collegano le realtà di questo mondo alle realtà del mondo a venire.(3)
Quello che il Talmud è per la Mishnah, il Midrash è per la Torah. Il termine deriva da darash, ricercare. Vi sono moltissimi punti oscuri nella Bibbia, incomprensibili senza il riferimento a una tradizione esegetica che precede, accompagna e segue il testo./4)
La Qabbalah è la mistica ebraica. La realtà è un’unità in cui il visibile e l’invisibile, la materia e lo spirito si compenetrano. Il progressivo disvelamento della Qabbalah ha valenze escatologiche. Vi sono dei momenti privilegiati del passaggio dei segreti dalla sfera esoterica a quella essoterica. Nell’anno 1240, corrispondente all’anno 5000 nella datazione ebraica, ha avuto inizio il sesto millennio, e ha fatto la sua comparsa lo Zohar, il principale testo cabbalistico. Altra data importante è il 1840, corrispondente al 5600. Siamo ora nell’anno 5770, in un’epoca in cui la preparazione messianica si intensifica.(5)
2. Il fondamento biblico dei diritti umani si trova in Gn 1,26: «Wa-yomer Eloqim: “Naaseh adam be-salmenu ki-demutenu”» e nel v. 27 si precisa che imago D. non è il maschio, ma la coppia maschile-femminile: «Wa-yivra Eloqim et ha-adam be-salmo be-selem Eloqim bara oto zakhar (maschio) u-neqewah (femmina)». Se ho un testo che dice: «Dio crea Adamo» mi trovo davanti a un testo maschilista, perché non ho invece: «Dea crea Adamà»? Ma nell’originale abbiamo uno dei due Nomi di D., che è un plurale e, a Sua immagine e somiglianza, Adam, che è maschio-femmina. Se osserviamo l’albero delle Sefirot, vediamo forze maschili e femminili, abbiamo un Abba\Padre e una Imma\Madre, un Ben\Figlio e una Bat\Figlia.
Dalla coppia Adam-Hawah nasce tutta l’umanità futura, e questo rende ogni razzismo privo di fondamento biblico. Anche Shem, Ham e Yafet, che sono stati in seguito trasformati nei capostipiti delle tre “razze” umane, sono in realtà fratelli, figli di Noah\Noè (Gn 5,32).
«Ha-shomer ahi anokhi? Sono forse il custode di mio fratello?» risponde Qain ad Ha-Shem subito dopo aver ucciso Hevel (Gn 4,9). Sì, siamo responsabili dei nostri fratelli.
E lo straniero? «Come un nato tra di voi sarà ha-ger ha-gar, colui che risiede presso di voi, we-ahavta lo kamokha e lo amerai come te stesso» (Lv 19,34).
Come si vede da questi pochi ma significativi esempi, che potrebbero essere moltiplicati, l’accento è posto molto più sui doveri che sui diritti e a questo proposito viene in mente il Mahatma Gandhi quando scriveva: «Tutti i diritti da meritare e da preservare derivano da un dovere ben fatto».(6)
3. Quali insegnamenti etici contiene la Torah per gli esseri umani? Per millenni l’ebraismo è stato accusato di essere una religione particolaristica. Rav Elia Benamozegh (Livorno 1823-1900) è tra coloro che più si sono adoperati per dimostrare l’infondatezza di tale accusa. Come sarebbe mai stato possibile che da tale particolarismo scaturissero due religioni universali (o meglio: aspiranti all’universalità) come il cristianesimo e l’islamismo? Vi è nell’ebraismo una duplice struttura, articolata in noachismo e mosaismo. L’alleanza con Noè non è in nulla inferiore all’alleanza con Mosè. Colui che si convertiva doveva presentarsi davanti a tre rabbini e dichiarare di voler appartenere alla religione noachide. E’ probabile che la conversione fosse accompagnata dal battesimo, ossia dall’immersione nelle acque vive del miqweh. Il noachide si impegna a rispettare sette precetti: 1) istituzione di tribunali (= ogni società umana ha bisogno di giustizia); 2) divieto di blasfemia; 3) divieto di idolatria; 4) divieto di adulterio; 5) divieto di omicidio; 6) divieto di furto; 7) divieto di mangiare una parte di un animale vivo (= divieto di crudeltà nei confronti degli animali). Rispettando tali comandamenti il noachide entrerà nel mondo a venire, ossia avrà parte alla vita eterna.(7)
Ad alcuni questi sette precetti sembrano troppo poco per condurre una vita di alta spiritualità. Non è di questo parere Emmanuel Levinas, il quale scrive: «La Legge di Dio è Rivelazione poiché in essa si enuncia: “non uccidere”. Tutto il resto è forse un tentativo di pensare questo – una “messa in scena” certamente necessaria, una “cultura” in cui ciò “si può capire”. E’ per lo meno così che cerco di dirlo a me stesso. Beninteso, “non uccidere” significa: “fa di tutto affinché l’altro viva”».(8) «Non uccidere», il resto è commento.
La Torah è dunque un libro da fare: 613 miswot per gli ebrei e per chi voglia entrare nell’alleanza di Mosè, 7 miswot per chi voglia entrare nell’alleanza di Noè, con la libertà di osservare, volendo, anche un certo numero delle restanti.(9) Il Santo, benedetto Egli sia, nella sua trascendenza è assolutamente inconoscibile. Di Lui possiamo conoscere ciò che Lui ha voluto rivelarci: la sua volontà. Aderendo alla sua volontà noi ci avviciniamo a Lui. Come Lui è santo, così noi cerchiamo di santificarci, anche nelle minute attività della nostra vita quotidiana. Ciò che la Torah ci indica, più che una ortodossia, è una ortoprassi. Il primato dell’etica non è un rifiuto della Rivelazione, ma proprio il contenuto della Rivelazione.
Abbiamo impostato il discorso in modo da evitare una contrapposizione tra etica “veterotestamentaria” ed etica “neotestamentaria”. Ci auguriamo che l’epoca della controversistica ebraico-cristiana si sia conclusa. Un’unica Torah, due Alleanze, quella di Noè (con i suoi 7 precetti) e quella di Mosè (con i suoi 613 precetti): questo è l’insegnamento della Tradizione ebraica, questo è anche l’insegnamento di Yeshùa e del cristianesimo delle origini.(10) Le miswot degli uni e degli altri illuminano la nostra vita terrestre, ma anche preparano le nostre anime alle vite future, tessono le vesti di luce indispensabili per godere delle beatitudini celesti.
Le anime procedono dalla seconda Sefirah, Hokhmah (il pensiero divino) ma compiendo le miswot accedono alla prima Sefirah, Keter (la volontà divina). Il valore numerico di Keter è 620 (613+7): «Questo numero designa i 620 comandamenti dell’ebraismo, e la Qabbalah parla delle 620 colonne di luce che uniscono il mondo dell’Alto al mondo del Basso».(11)
Non vi è una Nuova Alleanza che si contrapponga a una Vecchia Alleanza, non vi è neppure un’unica Alleanza Vecchio-Nuova che costringerebbe gli ebrei a farsi cristiani o i cristiani a farsi ebrei. Vi è un’unica Torah eterna che contiene molte Alleanze, i molti modi in cui il Santo, benedetto Egli sia, rivela il suo amore per gli uomini e indica le vie per giungere all’incontro con Lui.
Poiché l’alleanza noachide non prescrive nessuna cultura, nessuna religione, nessun mito, nessun rito, è compatibile con tutte le culture e con tutti i diversi modi di essere umani: in questo senso è cattolica, ossia universale.(12) Scrive Rav Jonathan Sacks: «L’unità in cielo crea diversità sulla terra. Lo stesso vale per le civiltà. Il messaggio fondamentale della Bibbia ebraica è che l’universalità – il patto con Noè – è solo il contesto e il preludio dell’irriducibile molteplicità delle culture, quei sistemi di significato tramite i quali gli esseri umani hanno cercato di comprendere il rapporto che li lega, il mondo e la sorgente dell’essere. L’affermazione platonica dell’universalità della verità è valida quando la si applica alla scienza e alla descrizione di ciò che è. Non lo è se la si applica all’etica, alla spiritualità e al nostro senso di ciò che dovrebbe essere. Vi è una differenza tra physis e nomos, descrizione e prescrizione, natura e cultura. Le culture sono come le lingue. Il mondo che descrivono è lo stesso, ma i modi in cui lo fanno sono quasi infinitamente variabili».(13)
4. «Come ha così bene detto un grande biologo francese, Jean Hamburger, niente è più falso dell’affermazione secondo cui i diritti umani sono “diritti naturali”, ossia coessenziali alla natura umana, connaturati all’uomo. In realtà, egli ha notato, l’uomo come essere biologico è portato ad aggredire e soverchiare l’altro, a prevaricare per sopravvivere, e niente è più lontano da lui dell’altruismo e dell’amore per l’altro […] i diritti umani sono una vittoria dell’io sociale su quello biologico […] il concetto di diritti dell’uomo non è ispirato alla legge naturale della vita, è al contrario ribellione contro la legge naturale».(14)
L’idea che i diritti umani siano culturali e non naturali è particolarmente congeniale all’ebraismo, dal momento che nella Torah il termine “natura” neppure compare: «Se si ricercano nell’ebraico biblico dei termini che corrispondano alla physis greca, intesa come natura creatrice, è possibile constatare come questo concetto è praticamente introvabile».(15) Dopo aver esaminato sei radici ebraiche, Rav Di Segni conclude: «Molto spesso, invece di indicare ‘la natura’, l’ebraico biblico ricorre alla elencazione dei vari elementi naturali (cfr. Ps 98), o usa delle frasi come ‘la terra e ciò che la riempie’ (Jes 34:1), oppure dei termini più generali, come ‘olàm, il mondo, l’universo» (p. 24).
Abbiamo ascoltato da Gabriela Häbich che i diritti culturali non sono un’appendice dei diritti umani, ma sono la condizione della loro applicabilità e del loro sviluppo: la loro promozione costituisce la condizione per la realizzazione di tutti gli altri diritti.
Nell’art. 3 della Dichiarazione di Friburgo (2007) si afferma che ogni persona ha diritto «di scegliere e veder rispettata la propria identità culturale nella diversità dei suoi modi di espressione» (comma a) e «di conoscere e veder rispettata la propria cultura» (comma b). Non so se questo fosse nelle intenzioni degli estensori della Dichiarazione, ma mi chiedo se tale principio non possa essere applicato anche al passato.
Siegfried Kracauer (1889-1966) ha scritto un importante libro intitolato History. The Last Things Before the Last(16) in cui assegna alla storia un’area intermedia tra scienza e metafisica, nella quale si tratta di ricercare «una conoscenza provvisoria delle ultime cose che vengono prima delle ultime». Si tratta cioè di riabilitare «finalità e modi di essere ancora privi di nome e per questo trascurati e fraintesi», di riscoprire «possibilità senza nome nascoste negli interstizi delle dottrine e dei movimenti dominanti». Secondo una leggenda ebraica, esistono in ogni generazione trentasei saddiqim, giusti, che sostengono il mondo: «Senza la loro presenza il mondo sarebbe distrutto e perirebbe. Tuttavia nessuno li conosce; e neppure essi sanno che si deve alla loro presenza se il mondo è salvato dalla rovina. L’impossibile ricerca di questi giusti nascosti (sono veramente trentasei in ogni generazione?) mi sembra una delle più eccitanti avventure nelle quali la storia si possa imbarcare» (p. 15).
E’ una delle più eccitanti avventure nelle quali la storia si possa imbarcare perché è il tentativo, e la speranza, di ridare giustizia a tutti coloro ai quali i diritti umani e culturali nel corso dei secoli non sono stati riconosciuti. Una folla enorme di persone ignote, di cui non è rimasta traccia, ma per ognuno di loro bisogna intraprendere il lavoro impossibile di ricercare il nome, perché ognuno di loro era forse uno dei trentasei giusti senza il quale il mondo non può esistere.
5. Uno dei titoli più citati e dei libri meno letti degli ultimi anni è sicuramente The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order di Samuel Huntington (1927-2008).(17) In questo libro l’autore sostiene che nel nuovo mondo del Dopo-guerra fredda i conflitti più profondi, laceranti e pericolosi saranno quelli tra gruppi appartenenti ad entità culturali diverse. Tali civiltà vengono così identificate da Huntington:

1. Occidentale
2. Latino-americana
3 Africana
4. Islamica
5. Cinese
6. Induista
7. Ortodossa
8. Buddhista
9. Giapponese

Tale classificazione suscita molte perplessità: in alcuni casi ci si trova di fronte a un indicatore etnico, in altri casi religioso, in altri ancora geografico. Ma ciò che è ancor più degno di nota è che si parla di civiltà islamica, induista, buddhista, ma non si parla invece di civiltà cristiana (c’è solo un riferimento a una sua componente, quella ortodossa) e ancor meno di civiltà ebraico-cristiana. Si parla invece di una civiltà “occidentale”, ossia caratterizzata solo da un riferimento geografico.        
Il libro di Huntington è da criticare non in quanto si faccia promotore di uno scontro delle civiltà (non è così, anzi il libro termina con un generico invito alla comunanza delle civiltà) ma perché manca una giustificazione della sua classificazione delle civiltà e delle loro caratteristiche. E questo vale in particolare per quella che viene definita la civiltà occidentale.                                                                                           
Se si mettono a confronto le due espressioni «civiltà ebraico-cristiana» e «civiltà arabo-islamica» ci si rende subito conto che non sono equivalenti. A ben vedere, una civiltà ebraico-cristiana non è mai esistita: la teologia della sostituzione, l’insegnamento del disprezzo e la conseguente passi discriminatoria ed escludente dovrebbero semmai far parlare di una civiltà ebraico-cristiana, dove una X è posta sul primo termine, allo stesso modo in cui Heidegger poneva una X sul Sein cancellato dalla dimenticanza della differenza ontologica.
Niente di simile è avvenuto nella civiltà arabo-islamica, dove gli islamici non hanno certo accusato per secoli gli arabi di deicidio, né hanno dichiarato decaduta la loro elezione sostituendosi all’Arabia come Nuova Arabia, come è invece avvenuto nella Cristianità, dove la Chiesa si è per secoli autodefinita come Nuovo Israele o vero Israele.
La civiltà ebraico-cristiana è una utopia da realizzare, non una realtà del passato da difendere. Non si tratta di privilegiare arbitrariamente, sia pure in nome di un’identità storicamente determinata, e anche in parte gloriosa, due religioni a scapito delle altre. Si tratta di una formula della universalità in cui vale il principio del terzo incluso. Tra a e non a non vi può essere un terzo escluso, perché il terzo, il quarto e così via all’infinito, sono già inclusi. Per questo preferiamo parlare di una civiltà messianica come luogo di incontro delle civiltà.
6. Il dialogo ebraico-cristiano era giunto negli ultimi mesi a un punto di crisi che sembrava insormontabile, intorno alla questione della conversione degli ebrei. In un recente incontro tra Autorità rabbiniche e Autorità episcopali italiane si è chiarito che non vi è nessuna intenzione da parte della Chiesa Cattolica di operare attivamente per la conversione degli ebrei e che di conversione si parla solo in una prospettiva escatologica.
Una delle tesi de I passi del Messia(18) è che la prospettiva escatologica preveda non già la conversione\apostasia d’Israele, ma la conversione\teshuvah dei cristiani.
«I cristiani non possono non pregare per la conversione del mondo intero, e in particolare per Israele». Lasciando per il momento da parte la questione della conversione del mondo intero, per quanto riguarda Israele non è così. Altro è che i cristiani desiderino che il Messia sia riconosciuto da Israele, altro è che sperino e preghino per la conversione d’Israele, ossia per la sua apostasia.
Quando Yeshua predicava: «Shùvu!» (Mt 4,17) (stessa radice di teshuvah) voleva dire: «Ritornate a Ha-Shem Eloqim!» e non: «Cambiate religione!», «Smettete di essere ebrei!», «Ripudiate la perfidia giudaica!», «Non osservate più la Torah e le miswot!» come da secoli e in parte tuttora i cristiani ex gentibus credono.
Altro è che i cristiani siano testimoni della messianicità di Gesù, anche e innanzi tutto nei confronti d’Israele (e si tratta di vedere quali caratteristiche tale testimonianza debba avere) altro è che facciano coincidere la loro testimonianza con la speranza nella apostasia d’Israele.
A chi afferma che il cristianesimo è per sua natura missionario occorre ricordare che la missione è partita da Gerusalemme, dagli ebrei della Ecclesia ex circumcisione, e che era rivolta alle genti, non viceversa. E’ avvenuto un vero e proprio ribaltamento.
Sulla scorta di Cornelius a Lapide (1567-1637) Maritain era arrivato al convincimento che la riconciliazione finale «ne doit pas être appelé la conversion d’Israël mais bien sa plénitude».(19)
Rav Elia Benamozegh in un’opera postuma pubblicata a Parigi nel 1914 scriveva: «La riconciliazione sognata dai primi cristiani come una delle condizioni della Parusia, o avvento finale di Gesù, il ritorno degli ebrei nel seno della Chiesa, senza di cui le diverse confessioni cristiane sono concordi nel riconoscere che l’opera della redenzione rimane incompleta, questo ritorno si effettuerà non come lo si è atteso, ma nel solo modo serio, logico e durevole, e soprattutto nel solo modo proficuo al genere umano. Sarà la riunione dell’ebraismo e delle religioni che ne sono derivate, e, secondo la parola dell’ultimo dei profeti, il sigillo dei veggenti, come i dottori chiamano Malachia, “il ritorno del cuore dei figli ai loro padri”» (Ml 3,24).(20)
«Sono persuaso che lo scopo supremo della storia sia questa riconciliazione definitiva tra il popolo eletto e la cristianità che san Paolo descrive come una risurrezione dei morti e come la gloria del vecchio tronco d’Israele sul quale, allora, la Chiesa di Cristo apparirà a tutti come innestata. Allora tutto sarà compiuto. Ma comprendiamo anche che nel tempo questo non è ciò che precederà, bensì ciò che completerà la realizzazione della nostra speranza.
Nel frattempo, quello che si esige con assoluta necessità è lo sviluppo, per tutto il tempo che sta davanti, di un’amicizia sempre più stretta. Non dico amicizia vera, ma veramente fraterna, e veramente efficace, e veramente dono di sé, tra i figli della Casa d’Israele e i figli della Chiesa di Cristo».(21)

Note

1. Lettre à André Neher del 21 agosto 1972, in J. Maritain, Le mystère d’Israël, Desclée de Brouwer, Paris 1990, p. 297 (ed. it. a c. di V. Possenti, Massimo, Milano 1992).
2. Mi riferisco a quelle che i Romani chiamarono la I e la II Guerra Giudaica. Durante la I venne distrutto il Tempio di Gerusalemme e, riferisce Flavio Giuseppe, non vi erano più alberi in Israele perché centinaia di migliaia di Ebrei erano stati crocifissi dalle truppe di occupazione romane: «Secondo i dati forniti indipendentemente da Giuseppe e da Tacito, oltre 600.000 Ebrei avrebbero trovato la morte nel corso delle operazioni militari, circa il 25% della popolazione, e molti altri vennero fatti prigionieri e venduti come schiavi. Con ciò sembra possibile che qualcosa come la metà della popolazione ebraica sia stata eliminata fisicamente» (J. A. Soggin, Storia d’Israele, Paideia, Brescia 1984, p. 485). Nel 135 i morti furono 850.000 (Soggin p. 492).
3. E. Wiesel, Sei riflessioni sul Talmud, Bompiani, Milano 2000; Id., Celebrazione talmudica, Lulav, Milano 2002; A. Steinsaltz, Cos’è il Talmud?, Giuntina, Firenze 2004.
4. G. Stemberger, Il Midrash, Dehoniane, Bologna 1992.
5. A. Safran, Saggezza della Cabbalà, Giuntina, Firenze 1998; Id., Tradizione esoterica ebraica, Giuntina, Firenze 1999; A. Steinsaltz, La rosa dai tredici petali, Giuntina, Firenze 2000; G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi, Torino 1993.
6. Citato in M. Flores, Storia dei diritti umani, Il Mulino, Bologna 2008, p. 222.
7. E. Benamozegh, Israele e l’umanità, a c. di M. Morselli, Marietti, Genova 1990; Id., Il noachismo, a c. di M. Morselli, Marietti, Genova-Milano 2006; A. Pallière, Il Santuario sconosciuto, a c. di M. Morselli, Marietti, Genova-Milano 2005.
8. E. Levinas, Trascendenza e intelligibilità, a c. di F. Camera, Marietti, Genova-Milano 2009, pp. 36-7.
9. Qui trova il suo fondamento il tema della libertà del cristiano, ma si tratta di libertà nella Legge e non dalla Legge.
10. Cfr. la Didachè. La Torah del Messia attraverso i Dodici Apostoli ai goyim, a c. di G. Maestri e M. Morselli, Marietti, Genova-Milano 2009.
11. J. Eisenberg e A. Steinsaltz, Le chandelier d’or, Verdier, Paris 1988, p. 356.
12. E’ Rav Benamozegh a parlare della «cattolicità d’Israele», nel già citato Israele e l’umanità.
13. J. Sacks, La dignità della differenza. Come evitare lo scontro delle civiltà, tr. di F. Paracchini, Garzanti, Milano 2004, p. 66.
14. A. Cassese, I diritti umani oggi, Laterza, Bari-Roma 2005, pp. 230-1.
15. R. Di Segni, Le unghie di Adamo. Studi di antropologia ebraica, Guida, Napoli 1981, p. 22.
16. S. Kracauer, History. The Last Things Before The Last, Oxford U.P., New York 1969 (tr. di S. Pennisi, Marietti 1985).
17. S. Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, Simon & Schuster, New York 1996 (tr. di S. Minucci, Garzanti 1997)
18. M. Morselli, I passi del Messia. Per una teologia ebraica del cristianesimo, Marietti, Genova-Milano 2007.
19. Maritain lo scrive sia nel 1943 che nel 1964 : cfr. J. Maritain, Le mystère d’Israël, cit., pp. 198 e 250. Nel 1941 scriveva invece ancora: «Les promesses de Dieu sont sans repentance, le peuple d’Israël se convertira» (p. 153).
20. E. Benamozegh, Israele e l’umanità, cit., p. 30.
21. Lettera di Maritain a Chouraqui del 5 ottobre 1971, in A. Chouraqui, Il destino d’Israele. Corrispondenza con Jules Isaac, Jacques Ellul, Jacques Maritain, Marc Chagall, tr. it. di P. Pellizzari, Paoline, Milano 2009, pp. 181-2.

(*) Per doverosa completezza. La curatrice di questo sito, cristiana cattolica, non condivide la conclusione dell’autore, che arriva alle estreme conseguenze di inglobare il cristianesimo nell’ebraismo. Piuttosto [vedi Benedetto XVI, Catechesi del 1° ottobre 2008 su "il Concilio di Gerusalemme e l'incidente di Antiochia"]. Il dialogo è occasione di conoscenza e rispetto reciproci, riconoscendo le differenti identità, senza nessun tipo di omologazione.

Publié dans:ebraismo |on 13 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

Hail Mary Full of Grace

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Publié dans:immagini sacre |on 12 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI: « DIO MIO, DIO MIO, PERCHÉ MI HAI ABBANDONATO? », SALMO 22 (21)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20110914_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

AULA PAOLO VI

MERCOLEDÌ, 14 SETTEMBRE 2011 

« DIO MIO, DIO MIO, PERCHÉ MI HAI ABBANDONATO? », SALMO 22 (21)

Cari fratelli e sorelle,
nella catechesi di oggi vorrei affrontare un Salmo dalle forti implicazioni cristologiche, che continuamente affiora nei racconti della passione di Gesù, con la sua duplice dimensione di umiliazione e di gloria, di morte e di vita. È il Salmo 22, secondo la tradizione ebraica, 21 secondo la tradizione greco-latina, una preghiera accorata e toccante, di una densità umana e una ricchezza teologica che ne fanno uno tra i Salmi più pregati e studiati di tutto il Salterio. Si tratta di una lunga composizione poetica, e noi ci soffermeremo in particolare sulla sua prima parte, incentrata sul lamento, per approfondire alcune dimensioni significative della preghiera di supplica a Dio.
Questo Salmo presenta la figura di un innocente perseguitato e circondato da avversari che ne vogliono la morte; ed egli ricorre a Dio in un lamento doloroso che, nella certezza della fede, si apre misteriosamente alla lode. Nella sua preghiera, la realtà angosciante del presente e la memoria consolante del passato si alternano, in una sofferta presa di coscienza della propria situazione disperata che però non vuole rinunciare alla speranza. Il suo grido iniziale è un appello rivolto a un Dio che appare lontano, che non risponde e sembra averlo abbandonato:

«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Lontane dalla mia salvezza le parole del mio grido.
Mio Dio, grido di giorno e non rispondi;
di notte, e non c’è tregua per me» (vv. 2-3).

Dio tace, e questo silenzio lacera l’animo dell’orante, che incessantemente chiama, ma senza trovare risposta. I giorni e le notti si succedono, in una ricerca instancabile di una parola, di un aiuto che non viene; Dio sembra così distante, così dimentico, così assente. La preghiera chiede ascolto e risposta, sollecita un contatto, cerca una relazione che possa donare conforto e salvezza. Ma se Dio non risponde, il grido di aiuto si perde nel vuoto e la solitudine diventa insostenibile. Eppure, l’orante del nostro Salmo per ben tre volte, nel suo grido, chiama il Signore “mio” Dio, in un estremo atto di fiducia e di fede. Nonostante ogni apparenza, il Salmista non può credere che il legame con il Signore si sia interrotto totalmente; e mentre chiede il perché di un presunto abbandono incomprensibile, afferma che il “suo” Dio non lo può abbandonare.
Come è noto, il grido iniziale del Salmo, «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», è riportato dai Vangeli di Matteo e di Marco come il grido lanciato da Gesù morente sulla croce (cfr Mt 27,46; Mc 15,34). Esso esprime tutta la desolazione del Messia, Figlio di Dio, che sta affrontando il dramma della morte, una realtà totalmente contrapposta al Signore della vita. Abbandonato da quasi tutti i suoi, tradito e rinnegato da discepoli, attorniato da chi lo insulta, Gesù è sotto il peso schiacciante di una missione che deve passare per l’umiliazione e l’annichilimento. Perciò grida al Padre, e la sua sofferenza assume le parole dolenti del Salmo. Ma il suo non è un grido disperato, come non lo era quello del Salmista, che nella sua supplica percorre un cammino tormentato sfociando però infine in una prospettiva di lode, nella fiducia della vittoria divina. E poiché nell’uso ebraico citare l’inizio di un Salmo implicava un riferimento all’intero poema, la preghiera straziante di Gesù, pur mantenendo la sua carica di indicibile sofferenza, si apre alla certezza della gloria. «Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?», dirà il Risorto ai discepoli di Emmaus (Lc 24,26). Nella sua passione, in obbedienza al Padre, il Signore Gesù attraversa l’abbandono e la morte per giungere alla vita e donarla a tutti i credenti.

A questo grido iniziale di supplica, nel nostro Salmo 22, fa seguito, in doloroso contrasto, il ricordo del passato:

«In te confidarono i nostri padri,
confidarono e tu li liberasti;
a te gridarono e furono salvati,
in te confidarono e non rimasero delusi» (vv. 5-6).

Quel Dio che oggi al Salmista appare così lontano, è però il Signore misericordioso che Israele ha sempre sperimentato nella sua storia. Il popolo a cui l’orante appartiene è stato oggetto dell’amore di Dio e può testimoniarne la sua fedeltà. A cominciare dai Patriarchi, e poi in Egitto e nel lungo peregrinare nel deserto, nella permanenza nella terra promessa a contatto con popolazioni aggressive e nemiche, fino al buio dell’esilio, tutta la storia biblica è stata una storia di grida di aiuto da parte del popolo e di risposte salvifiche da parte di Dio. E il Salmista fa riferimento all’incrollabile fede dei suoi padri, che “confidarono” – per tre volte questa parola viene ripetuta – senza mai rimanere delusi. Ora tuttavia, sembra che questa catena di invocazioni fiduciose e risposte divine si sia interrotta; la situazione del Salmista sembra smentire tutta la storia della salvezza, rendendo ancor più dolorosa la realtà presente.
Ma Dio non può smentirsi, ed ecco allora che la preghiera torna a descrivere la situazione penosa dell’orante, per indurre il Signore ad avere pietà e intervenire, come aveva sempre fatto in passato. Il Salmista si definisce «verme e non un uomo, rifiuto degli uomini, disprezzato dalla gente» (v. 7), viene schernito, dileggiato (cfr v. 8) e ferito proprio nella fede: «Si rivolga al Signore; lui lo liberi, lo porti in salvo, se davvero lo ama» (v. 9), dicono. Sotto i colpi beffardi dell’ironia e dello spregio, sembra quasi che il perseguitato perda i propri connotati umani, come il Servo sofferente tratteggiato nel Libro di Isaia (cfr Is 52,14; 53,2b-3). E come il giusto oppresso del Libro della Sapienza (cfr 2,12-20), come Gesù sul Calvario (cfr Mt 27,39-43), il Salmista vede messo in questione il suo rapporto con il suo Signore, nella sottolineatura crudele e sarcastica di ciò che lo sta facendo soffrire: il silenzio di Dio, la sua apparente assenza. Eppure Dio è stato presente nell’esistenza dell’orante con una vicinanza e una tenerezza incontestabili. Il Salmista lo ricorda al Signore: «Sei proprio tu che mi hai tratto dal grembo, mi hai affidato al seno di mia madre. Al mio nascere, a te fui consegnato» (vv. 10-11a). Il Signore è il Dio della vita, che fa nascere e accoglie il neonato e se ne prende cura con affetto di padre. E se prima si era fatta memoria della fedeltà di Dio nella storia del popolo, ora l’orante rievoca la propria storia personale di rapporto con il Signore, risalendo al momento particolarmente significativo dell’inizio della sua vita. E lì, nonostante la desolazione del presente, il Salmista riconosce una vicinanza e un amore divini così radicali da poter ora esclamare, in una confessione piena di fede e generatrice di speranza: «dal grembo di mia madre sei tu il mio Dio» (v. 11b).
Il lamento diventa ora supplica accorata: «Non stare lontano da me, perché l’angoscia è vicina e non c’è chi mi aiuti» (v. 12). L’unica vicinanza che il Salmista percepisce e che lo spaventa è quella dei nemici. E’ dunque necessario che Dio si faccia vicino e soccorra, perché i nemici circondano l’orante, lo accerchiano, e sono come tori poderosi, come leoni che spalancano le fauci per ruggire e sbranare (cfr vv. 13-14). L’angoscia altera la percezione del pericolo, ingrandendolo. Gli avversari appaiono invincibili, sono diventati animali feroci e pericolosissimi, mentre il Salmista è come un piccolo verme, impotente, senza difesa alcuna. Ma queste immagini usate nel Salmo servono anche a dire che quando l’uomo diventa brutale e aggredisce il fratello, qualcosa di animalesco prende il sopravvento in lui, sembra perdere ogni sembianza umana; la violenza ha sempre in sé qualcosa di bestiale e solo l’intervento salvifico di Dio può restituire l’uomo alla sua umanità. Ora, per il Salmista, oggetto di tanta feroce aggressione, sembra non esserci più scampo, e la morte inizia ad impossessarsi di lui: «Io sono come acqua versata, sono slogate tutte le mie ossa […] arido come un coccio è il mio vigore, la mia lingua si è incollata al palato […] si dividono le mie vesti, sulla mia tunica gettano la sorte» (vv. 15.16.19). Con immagini drammatiche, che ritroviamo nei racconti della passione di Cristo, si descrive il disfacimento del corpo del condannato, l’arsura insopportabile che tormenta il morente e che trova eco nella richiesta di Gesù «Ho sete» (cfr Gv 19,28), per giungere al gesto definitivo degli aguzzini che, come i soldati sotto la croce, si spartiscono le vesti della vittima, considerata già morta (cfr Mt 27,35; Mc 15,24; Lc 23,34; Gv 19,23-24).
Ecco allora, impellente, di nuovo la richiesta di soccorso: «Ma tu, Signore, non stare lontano, mia forza, vieni presto in mio aiuto […] Salvami» (vv. 20.22a). È questo un grido che dischiude i cieli, perché proclama una fede, una certezza che va al di là di ogni dubbio, di ogni buio e di ogni desolazione. E il lamento si trasforma, lascia il posto alla lode nell’accoglienza della salvezza: «Tu mi hai risposto. Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea» (vv. 22c-23). Così, il Salmo si apre al rendimento di grazie, al grande inno finale che coinvolge tutto il popolo, i fedeli del Signore, l’assemblea liturgica, le generazioni future (cfr vv. 24-32). Il Signore è accorso in aiuto, ha salvato il povero e gli ha mostrato il suo volto di misericordia. Morte e vita si sono incrociate in un mistero inseparabile, e la vita ha trionfato, il Dio della salvezza si è mostrato Signore incontrastato, che tutti i confini della terra celebreranno e davanti al quale tutte le famiglie dei popoli si prostreranno. È la vittoria della fede, che può trasformare la morte in dono della vita, l’abisso del dolore in fonte di speranza.
Fratelli e sorelle carissimi, questo Salmo ci ha portati sul Golgota, ai piedi della croce di Gesù, per rivivere la sua passione e condividere la gioia feconda della risurrezione. Lasciamoci dunque invadere dalla luce del mistero pasquale anche nell’apparente assenza di Dio, anche nel silenzio di Dio, e, come i discepoli di Emmaus, impariamo a discernere la vera realtà al di là delle apparenze, riconoscendo il cammino dell’esaltazione proprio nell’umiliazione, e il pieno manifestarsi della vita nella morte, nella croce. Così, riponendo tutta la nostra fiducia e la nostra speranza in Dio Padre, in ogni angoscia Lo potremo pregare anche noi con fede, e il nostro grido di aiuto si trasformerà in canto di lode. Grazie.

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