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The Meeting of the Lord, Coptic icons

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IL VOLTO DI GESU’ NEL CONFLITTO DELLE INTERPRETAZIONI

http://www.jesus1.it/Pages/it_gesu_riflessioni.aspx?arg=110&rec=1333

IL VOLTO DI GESU’ NEL CONFLITTO DELLE INTERPRETAZIONI

Monza, 2 ottobre 2007

Mons. Franco Giulio Brambilla, Vescovo, Vicario per la cultura della Diocesi di Milano

Alla ricerca del volto di Gesù. Il volto è ad un tempo l’identità di una persona e il varco aperto sul suo segreto. Nel volto la persona ti guarda e chiede di essere riconosciuta. Il volto è il luogo dove la persona comunica quando vuole aprirsi e rendersi accessibile, il volto è il cristallo trasparente dove brilla l’inte­riorità della vita o diventa uno schermo quando la persona vuole nascondersi e sottrarsi ad uno sguardo invadente e indagatore. “Ricerca” e “volto”, allora vedete, vanno insieme: un volto va cercato, un volto non può essere posseduto, o meglio può essere posseduto solo nella forma dell’affidamento. È consegnandomi ai suoi segni, alle sue indicazioni, alla sua mimica, che entro nel mistero dell’altro. E’ solo perché lo lascio essere, che l’altro mi viene incontro, e l’altro ha bisogno che il suo volto sia ri-conosciuto (sempre da capo) da uno che lo lascia essere, che entra in un legame di fiducia, che apre lo spazio di una relazione di fede e di fedeltà. Attenzione: non è questa una realtà che ha scoperto l’antropologia. E’ una realtà che è iscritta nella nostra carne: il bimbo si scopre nello specchio del volto della madre, mentre la prima volta che si riflette nello specchio di casa si spaventa, teme di vedersi per così dire raddoppiato. Il proprio volto, la propria identità scaturisce dallo sguardo di un altro, della madre che ti offre lo sguardo così come ti dona la sua vita. Non ci è mai concesso di vedere – neppure da grandi – il nostro volto, lo vediamo solo riflesso nello specchio, possiamo vederlo soltanto lasciandoci guardare, possiamo identificarlo solo lasciandoci riconoscere. E lasciandoci chiamare… Il volto è insieme allora il luogo del legame all’altro e della propria identità. Già solo da questo breve accenno si vede che “volto” – “ricerca” – “fede” vanno insieme. Ma, diciamolo subito sin dall’inizio, il volto sfocia in un appello, lo sguardo invita a un legame, la fede richiede fedeltà. Per questo il tema della “ricerca del volto di Gesù” implica subito anche che si sia disposti a mettere in gioco i nostri legami (con gli altri, con se stessi e con il proprio destino) e a mettere in moto la nostra identità. Dentro una storia e un racconto.
Partiamo da un dato sconcertante e sorprendente. Nella storia della coscienza di fede della Chiesa è facile notare un contrasto paradossale: da una parte, i quattro vangeli e tutta la testimonianza del NT non hanno indugiato sulla nostra naturale curiosità di conoscere i tratti del volto di Gesù, dall’altro, la storia della fede è costellata nell’iconografia e nell’arte musiva, nella pittura e nella scultura, ma anche nella liturgia e nella teologia, nelle immagini della letteratura, filosofia e filmografia da una galleria impressionante di volti e figure del Cristo. Potremmo dire che alla prudenza, starei per dire alla reticenza, del NT nel disegnare i tratti somatici e fisionomici di Cristo corrisponde l’affanno e, a tratti, la concitazione con cui la vicenda storica ha riflesso come in un’infinita galleria di specchi la luce abbagliante e inaccessibile dell’Unico che è l’“Immagine” del Dio invisibile. Sarebbe bello fare una visita ideale alla storia delle immagini e delle figure di Gesù, forse la visita più affascinante che possiamo pensare per conoscere la storia degli uomini e dei loro desideri, ma anche la nostalgia di Dio, o di qualcosa che si avvicini a Lui. Questo paradosso però contiene già le traiettorie della nostra ricerca.

Lo sguardo di Gesù
 Il paradosso ricordato non comporta che il NT sia silente sul volto di Gesù. C’è un aspetto del volto che il racconto evangelico predilige ed è il suo sguardo, lo sguardo di Gesù. Potremmo dire che se il NT non ci dice nulla sul colore dei suoi occhi, sulla forma dei suoi capelli, sulla configurazione del volto, sull’inflessione della voce, sulla mimica del suo viso, come avrebbe fatto ogni buon biografo e narratore appena all’altezza del suo compito, è stato invece sorprendentemente fulminante nel descrivere lo sguardo di Gesù. Lo sguardo è forse la parte più interiore del volto di Gesù, ma si potrebbe dire è anche l’aspetto più estroverso della sua persona, il più mobile, il tratto che muta continuamente, che indica ad un tempo il segreto degli affetti, dei pensieri e dei desideri e l’invito suadente, l’approccio tenerissimo o la presa di distanza tagliente nei confronti dell’interlocutore. Lo sguardo s’accompagna alla voce, e anche la voce di Gesù, si coniuga con la tonalità variegatissima della parole pronunciate da Gesù. Gli evangeli non hanno un’attenzione per così dire psicologica alla differenza di tonalità e di parola, ma ognun s’avvede che non può dire tutte le parole di Gesù con lo stesso tono: alcune sono solenni, altre persuasive, alcune sono durissime, altre suadenti; qualche volta egli usa il linguaggio tagliente dei profeti e dei riformatori, qualche altra volta la lingua trasognata dei poeti e dei mistici. La voce di Gesù fa corpo con la sua parola, è proprio il caso di dirlo: è la sua parola che si fa carne nella voce dalle infinite sfumature. Come per il suo sguardo. Lasciamoci guardare dallo sguardo di Gesù. La nostra ricerca del Volto parte da questo sguardo, si colloca dentro l’irradiazione della sua luce. Così mi piace iniziare il nostro cammino. Così desidero anche per voi. E per far questo vi offro brevemente tre immagini: lo sguardo di Gesù che chiama e perdona, lo sguardo di Gesù sulla realtà, lo sguardo di Gesù sul Padre.
Lo sguardo di Gesù che chiama e perdona è quello che più s’è impresso nel­l’esistenza delle persone. Come non ricordare lo sguardo fisso che ama il giovane ricco: «Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”». (Mc 10,21). Credo che la vicenda spirituale di molti credenti, da Antonio in avanti, non avrebbero seguito l’invito pressante di Gesù se non fosse accompagnato, in ogni stagione della vita e in ogni epoca della storia, da quello sguardo penetrante e struggente. Eppure nessuno fa mai notare il paradosso di questo testo: lo sguardo di Gesù che è andato incontro all’insuc­cesso è stato il paradigma di un’ininterrotta storie di chiamate, che hanno voluto quasi sostituirsi nel luogo di quello sguardo senza risposta. Molti credenti hanno seguitato a leggere il brano sentendo che l’invito era rivolto a loro. Pochi versetti dopo leggiamo: «Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: “Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio!”». Per sentire concludere l’evangelista: «Ma Gesù, guardandoli, disse: “Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio! Perché tutto è possibile presso Dio”» (Mc 10,23.27). La chiamata può essere ascoltata solo dentro uno sguardo, o meglio nasce da un lasciarsi guardare e amare. E come non sentire lo sguardo di Gesù che perdona, quando incontra Pietro nel cortile del sommo sacerdote: «Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: “Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte”» (Lc 22,61). Il Signore va diritto per la sua strada verso la croce, ma prima si volta verso Pietro, perché si ricordi che nessuno, anche quando la paura o il compromesso ci fa nascondere prima a noi stessi che a Lui, resta escluso dallo sguardo di Gesù. Solo così si può avere il coraggio di passare a vita nuova.
Lo sguardo di Gesù sulla realtà e sul mondo è ancora più sconvolgente. Dopo anni in cui liquidavo il testo di Matteo sui gigli del campo e sugli uccelli del cielo (Mt 6,25-34 // Lc 12,22-30) come un brano di troppo facile poesia, a un certo punto mi ha colpito la profondità di questo brano evangelico. Mi è brillato davanti agli occhi lo sguardo di Gesù, che m’invitava ad uno sguardo nuovo sul mondo: «Guardate gli uccelli del cielo… Osservate come crescono i gigli del campo… » (vv. 26.28). Gesù guarda la realtà e spinge ad osservarla con i suoi stessi occhi. Gesù riprende lo sguardo di Dio di Genesi («E Dio vide che ogni cosa era buona») e ci incalza a guardare/osservare. Ora il suo invito è rivolto agli ascoltatori (discepoli/folla): essi possono “vedere” la creazione mediante il “suo” sguardo. Lo sguardo di Gesù rivela il mondo non come gettato-là, ma come donato. L’incanto di queste parole affascinanti di Gesù chiede di accendere uno sguardo nuovo e insieme antico sul mondo, ricuperando la meraviglia originaria (il thaumázein degli antichi). Lo sguardo di Gesù ci fa procedere oltre: «eppure il Padre vostro celeste li nutre!» (v. 26), «Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro!» (v. 29). Il mondo rivela una cura amorevole e lo splendore di una gloria che fa porre la domanda sulle sue origini. E’ solo ripartendo dallo stupore e dall’esclamazione, dal debito impensato da cui sorge il nostro essere-nel-mondo, che è possibile far sorgere l’inter­rogativo: perché c’è qualcosa? Anzi Gesù precisa questa domanda: essa non riguarda la questione del “perché c’è qualcosa piuttosto che il nulla” (Leibniz-Heidegger). Questa è una formula che ha inaridito lo stupore iniziale, anche se resta la domanda delle domande! Gesù ci dice che bisogna portare alla parola lo splendore che “veste” il mondo e la cura amorevole del Padre vostro che lo “nutre”. Non è un caso che i due verbi siano quelli della “nutrizione” e del “vestire”, in cui bisogna riconoscere “di più” del cibo e del vestito materiale, ma la cura e lo splendore del “Padre” nostro («eppure il Padre vostro!), che “Gesù” ci comunica in modo definitivo(eppure io vi dico!»). L’appello di Gesù al Padre nostro che nutre gli uccelli del cielo, e ancor di più il “ma io vi dico” di Gesù che “Dio veste così i gigli e l’erba del campo” con uno splendore e una sapienza maggiore a quella di Salomone accendono anche uno sguardo nuovo sul mondo come “creazione”. Se lo “sguardo” di Gesù ci fa risalire allo splendore della cura del Padre per il mondo, ancora di più alla fine del brano matteano la parola di Gesù rappresenta il verticedella “visione” di Gesù: «Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,32-33). La maniera con cui i pagani si occupano del mondo così, sottoponendolo ad essere la riserva di uno sfruttamento indiscriminato che assoggetta l’uomo al suo lavoro, è contrapposta da Gesù alla cura preveniente di Dio: «il Padre vostro celeste sa che ne avete bisogno…». Tuttavia questo atteggiamento non rende l’uomo passivo, quasi un fannullone in attesa di un intervento provvidenzialista. Il fatto che Dio “sa che ne avete bisogno…” libera il cuore e la mano dell’uomo per la “ricerca del Regno e della sua giustizia”, nella cui luce il mondo (“tutte queste cose”) ci viene dato in aggiunta, vale a dire donato in sovrabbondanza. Gesù porta alla Parola – è Gesù che rivela il senso radicale del suo “sguardo” – il criterio con cui il mondo perviene al dono che fin dall’inizio porta con sé come promessa. Occorre “cercare il Regno e la sua giustizia”, cioè bisogna affidarsi al senso del mondo che è quello di condurci a scoprirne il Donatore, e ad abitare la relazione con Lui. Anche lo sguardo di Gesù sulla realtà ci dice l’impor­tanza della nostra ricerca del volto di Gesù. Vedremo che il brano parallelo di Luca (Lc 12,22-32) sarà al centro del nostro cammino.
Infine, lo sguardo di Gesù sul Padre. Non abbiamo comprensibilmente molti squarci su questo aspetto, ma tutti sono decisivi. Mi piace immaginare Gesù che alzando gli occhi al cielo (Matteo ha un incipit generico; Luca: «In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo») proclami il suo inno di giubilo: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Mt 11,25-27). La piena rivelazione del mistero del Figlio e del Padre è cresciuta lungamente dentro lo sguardo della preghiera, che gli evangelisti ricordano moltissime volte. Giovanni lo afferma esplicitamente con la sua espressione caratteristica:«Gesù, alzati gli occhi al cielo, disse: “Padre, è giunta l’ora, glorifica il tuo Figlio» (Gv 17,1, ma anche 11,41). Lo sguardo sul mistero del Padre è la sorgente segreta a cui si alimenta lo sguardo di Gesù che chiama e perdona, lo sguardo di Gesù sulle cose, sui gesti e sul cuore degli uomini (cf l’episodio dell’obolo della vedova: Lc 21,1-4: …vide alcuni ricchi, …vide anche una vedova povera).

L’unico volto e le molte immagini
Lo sguardo di Gesù è dunque il primo luogo di accesso al suo volto. Eppure dicevano del paradosso tra la mancanza di un volto certo di Gesù e del proliferare dei molti volti lungo la storia della fede e della cultura. Bisogna che sostiamo un po’ su questo paradosso. Le immagini con cui si è rappresentato il Cristo sono praticamente incalcolabili: la sua effigie ha preso il volto dell’umano ideale di ogni tempo. La proiezione su Gesù di esperienze, idee e persino di filosofie, tipiche di un epoca, colpisce in modo sorprendente. Basti ricordare, da un lato, il Cristo glorioso degli orientali, rivestito con gli abiti dell’imperatore; e, dall’altro, il Cristo scarnificato e trucidato delle acqueforti di Rouault, con il volto sfigurato. Si pensi all’intensità del Cristo di Giotto, alla trasparenza di quello del Beato Angelico, alla vivacità di quello di Masaccio, all’impassibile bellezza dei cristi di Raffaello (niente meno dell’im­magine di un signore del Rinascimento), all’umano morente nella serena Pietà romana di Michelangelo o al sublime non finito della Pietà Rondinini. O, infine, alla potenza espressiva del Cristo giudice, ancora con le piaghe del Crocifisso, della cappella Sistina. E poi si scorra la letteratura: Dante, Petrarca su su fino a Dostoievskj, Pasternack, per giungere ai nostri Caproni, Pomilio, Luzi, ecc. Mille immagini, mille figure, in cui si esprime insieme la proiezione del desiderio umano e la ricerca del volto autentico di Cristo. Le stesse teologie sottendono immagini diverse di Cristo. E’ una esperienza affascinante anche solo una scorsa ai ritratti più importanti di questa galleria storica. Ireneo, Origene, Agostino, Leone, Tommaso, Francesco. E poi ancora Cusano, Erasmo, Lutero, Pascal, Barth, Bonhoeffer, Guardini, Rahner, von Balthasar. Bisognerebbe anche ricordare il contrasto tra il fascino che Cristo ha prodotto negli ultimi secoli e il risultato ottenuto, spesso così arbitrario e sognante. Tutti i nomi più noti del pensiero fanno passerella: Spinoza, Rousseau, Lessing, Kant, Hegel, Schleiermacher, Feuerbach, Marx, Kierkegaard, Proudhon, Strauss, Renan, Nietzsche. E poi nel Novecento gli accostamenti tormentati e i silenzi espressivi di Heidegger, Bergson, Blondel, Sartre, Jaspers, Weil, Marcel, Bloch e la lunga teoria dei marxisti incontro a Cristo.[1]
            Questo ci può sconcertare: l’assenza del volto di Cristo ha portato la storia quasi a farlo scomporre in una miriade di figure. Appare chiaramente che la figura di Cristo si dà nel prisma delle attese umane. È evidente come esperienza, tradizione, arte e pensiero rappresentino come un enorme gioco di proiezione sul Cristo dei desideri, delle attese e dei progetti di ogni uomo, gruppo o epoca storica. La proiezione non è subito un fatto sconveniente, perché non si può esprimere l’oggetto della esperienza e conoscenza che a partire dal proprio mondo di immagini, valori e idee. L’esperienza cristiana, con tutto il suo complesso di devozione, arte, pensiero, ha mantenuto vivo il ricordo promettente di e su Gesù. Il nostro stesso linguaggio e l’immaginario attuale sarebbero impensabili senza col­locarli nel grande fiume di questa tradizione. Si scopre qui un aspetto inevitabile del nostro rapporto con Cristo: ogni generazione si appropria in forme sempre nuove del ricordo di Cristo, come qualcosa di vitale, di irrinunciabile, di decisivo per la propria vicenda e per la storia degli uomini. E perciò lo esprime in immagini!

Il volto autentico e il vangelo quadriforme
 Il gioco incrociato delle proiezioni sembra porci una domanda pressante: «qual è l’immagine autentica di Gesù?». Occorre dire con chiarezza che è un’illusione pensare di poter saltare tutta la tradizione per andare a distillare, come in provetta, il Gesù autentico. La questione dell’immagine autentica di Gesù è una questione delicata: qui voglio solo evitare l’ingenuità di chi pensa che prendendo in mano il vangelo si possa sfilare quasi in filigrana una sorta di quintessenza del Cristo “autentico”, con la stessa facilità con cui la bimbe sfilano le loro bambole dal vestito. Tutta la ricerca sul Gesù storico, giustamente necessaria per dire che questi quattro libretti ci parlano di una storia e non di un idea o di un simbolo, ci mostra anche la sua radicale insufficienza.[2] La verità di Gesù (il suo volto!) non ci è accessibile – come vedremo anche nel Vangelo di Luca – che attraverso il prisma della risposta credente, di quei credenti della prima ora, Marco, Luca, Matteo, Giovanni, e poi di quelli che sono seguiti, tra cui svetta Paolo. Il documento incontestabile di questo fatto è che Gesù di Nazaret ci è dato in un vangelo quadriforme. Quello che viene ritenuto uno svantaggio, per le differenze e talvolta le incoerenze che vi sono tra i testi, mi sembra che sia anzitutto un “caso singolare” della letteratura mondiale: dell’unica storia, della stessa vicenda si danno ben quattro attestazioni, convergenti sui tratti essenziali. Ormai oltre duecento anni di critica storica hanno certificato la solidità di questa conclusione, non – come si dice – nonostante le differenze dei testi, ma proprio attraverso di esse.
            Tutto ciò però ci lascia ancora con la nostra domanda sul volto “autentico” di Gesù. Trovo, allora, quasi un segno nel fatto che nessun vangelo ce ne descriva l’aspetto esteriore, perché nessuno, né oggi né domani, possa afferrarlo come sua proprietà. Allora, preferisco farmi accompagnare dagli amici di Gesù. Dietro questa decisione, c’è una scelta teorica che spiego brevemente. Essi non hanno avuto paura di raccontare ciascuno “secondo” il suo racconto (di Marco, di Luca, di Matteo e di Giovanni) l’unico volto del Signore. Dopo la prima stesura (che di solito si fa risalire a Marco), gli altri avrebbero potuto solo proporre delle aggiunte, dei materiali nuovi, dei racconti inediti. Nulla di tutto ciò. E anche in presenza di una racconto già concluso (Matteo e Luca conoscevano almeno una stesura del vangelo di Marco), essi hanno incominciato da capo un racconto completo, con la coscienza che ciascuno (cf Lc 1,3: «così ho deciso anch’io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre Teofilo») dovesse narrare di nuovo l’unico volto di Gesù. Perché tutto questo? Qual è la sapienza teologale che vi si nasconde? La risposta più semplice è gia stata anticipata sopra. L’identità di un volto si dà dentro molti legami. L’identità di Gesù avviene nella risposta credente dei suoi discepoli. Come Gesù non ha lasciato nulla di scritto se non i labili segni sulla sabbia davanti alla donna peccatrice, perché ciò che egli ha detto è stato scritto dalla penna di coloro che lo hanno conosciuto e lo hanno seguito, così non ha lasciato tracce del suo volto, né di quello esteriore, né di quello interiore (anche quello della Sindone ne è un…negativo), se non attraverso l’atte­stazione quadruplice degli evangelisti. Se, come abbiamo detto, c’è una stretta connessione tra “volto”, “ricerca” e “fede”, questo non è solo la “realtà” che cerchiamo, ma anche il “modo ” con cui la raggiungiamo. O, meglio, con cui anche oggi possiamo affidarci a Lui. Trovo sorprendente – forse la forma di credibilità più alta – che questo “cammino” (questo “metodo”) sia anche il principio generatore del vangelo: la ricerca di Gesù non è solo un tema del Vangelo, ma ne è anche il suo motore segreto. Come il vangelo è nato, così è stato scritto e così va anche letto, perché ogni lettore futuro possa viverlo come la ricerca del volto di Gesù!

[1]              X. Tilliette, Filosofi davanti a Cristo [1989], Queriniana, Brescia 21991, pp. 544.
[2]              Anche l’ultimo decennio registra imponenti ricerche in questa direzione: G. Theissen – A. Merz, Der historischen Jesu, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 1996; tr. it., Il Gesù storico. Un manuale, Queriniana, Brescia 1999; J.P. Meier, Un Ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico (= BTC 117.120. 125), Queriniana, Brescia, 2001.20002.2003; G. Barbaglio, Gesù l’ebreo, Dehoniane, Bologna 2002.

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IL PROTAGONISTA INAFFERRABILE

http://www.tempidifraternita.it/archivio/bodratoweb/bodrato5.htm

IL PROTAGONISTA INAFFERRABILE

Non c’è buon libro che non contenga una buona storia e non c’è buona storia che non abbia un protagonista, vale a dire che non ci racconti l’avventura di un eroe alla ricerca ed alla conquista di una meta che, alla fin fine, è quasi sempre il proprio sé, il senso e l’identità della propria vita. La Bibbia non sfugge a questa regola, anche se non la soddisfa nei modi consueti, anche se ci presenta il suo eroe nascondendocelo, anche se sembra sempre incerta tra la valorizzazione del ruolo del protagonista umano e quello del protagonista divino.
Rilke, il poeta, nelle deliziose Storie del buon Dio, favole per bambini raccontate agli adulti perché se ne facciano narratori e testimoni presso i figli o i piccoli amici, osserva che come donne e uomini di mondo noi sembriamo spesso parlare di questo o di quello, mentre dentro, nel segreto di chi parla e di chi ascolta, noi parliamo di Dio, e buon senso vuole che ce lo nascondiamo. Allo stesso modo, ci insegnano gli esegeti, i lettori della Bibbia accostano questo libro alla ricerca della verità su Dio e trovano insegnamenti sull’uomo. Ecco una sineddoche che non può essere sciolta, per la lingua dell’uomo e per la lingua di Dio: tanto l’una quanto l’altra dicendo uomo dicono anche Dio, dicendo Dio dicono anche uomo. L’anche non va dimenticato perchè le due parole e le due realtà stanno insieme, indivisibili, ma sono diverse; non si sovrappongono, si richiamano.
Ecco il nodo in cui si intreccia la questione del protagonista, dell’eroe della storia biblica. In quanto va dalla creazione alla Gerusalemme celeste, in quanto il suo sviluppo ingloba un inizio ed una fine che contengono e trascendono l’insieme della storia, essa non può che avere come protagonista Dio, vale a dire un personaggio che trascende, che sta sopra la storia e fuori di essa, che la contiene. In quanto di questo personaggio si può parlare solo come di Colui che inizia e pone termina a tale storia, come di Colui che in tale storia si rivela e fa presente, ecco che lo stesso ne diventa parte, un po’ come se il tutto potesse essere insieme se stesso e un suo pezzo. Il « tutto nel frammento »: diceva, appunto, un noto teologo.
Ma qui non è finita. Infatti la storia raccontata dalla Bibbia, quella storia che, abbiamo visto, non sta da nessuna altra parte se non nel cuore e nelle mani degli uomini, tanto che, in ultima analisi, dovremmo dire che altro non è che la storia della loro storia, passata, presente e futura, insomma l’interpretazione biblica della storia umana non può che avere come protagonista l’uomo. Il che è necessario ed impossibile ad un tempo, perché non c’è uomo che percorra l’intero arco della storia e non c’è vincolo di generazione che possa fare dell’infinita varietà dei singoli un’unità sovrastorica assoluta od anche solo narrativa. E questo in barba all’agostiniana concezione del peccato originale e all’hegeliana Fenomenologia dello Spirito.
La storia biblica ha, dunque, un protagonista divino che, mentre è dentro, è fuori e risulta di conseguenza inafferrabile ed ha un protagonista umano non meno difficile da individuare, visto la sua molteplicità, frammentarietà e volatilità esistenziale. L’eroe della Bibbia è, insieme alla storia, un problema biblico, vale a dire un problema infinito. Uno dei tanti problemi per cui la Bibbia è stata scritta e per cui viene incessantemente riletta. Uno dei problemi per cui si continuano a comporre libri, poesie e canzoni, per cui si continua a studiare e a lavorare, a vivere e a procreare.

Ad immagine e somiglianza
Che tutto ciò non sia una problematica nostra e da noi, eredi confusi e narcisisti dei secoli dei lumi e dei dubbi, sovrapposta ad un’ipoteticamente solare fede biblica, ce lo ricorda continuamente la Bibbia stessa, che a volte sembra anche un po’ prenderci in giro.
Cosa c’è di più esplicito del versetto 26 del primo capitolo di Genesi, quando recita: « Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza e domini » tutte le creature del mare, della terra e del cielo? Non è questo il protagonista, delegato da Dio a rappresentarlo nel prosieguo dell’avventura? Non ha costui la più chiara, regale e definitiva delle identità, quella di essere figura dell’Eterno? Simile a Lui negli attributi, anche se diverso nel grado e nella potenza?
Sarebbe così: se la ‘somiglianza’ fosse da subito senza problemi, se la distanza che essa segna da Dio, insieme alla vicinanza, non si trasformasse presto dal « Buono, molto buono », di Genesi 1, 31, all’ « è venuta per me la fine di ogni uomo, perché la terra per causa loro è piena di violenza » di Genesi 6, 13; se ‘l’immagine’, che quasi si spinge all’identità, fosse in qualche modo rappresentabile e non custodita dal più perentorio dei divieti sinaitici, da quella proibizione d’immagine che non riguarda solo Dio, ma ogni creatura, compreso l’uomo (Esodo 20,4).
All’esegesi e alla teologia biblica non resta che confessare l’insondabilità del mistero di Dio e del mistero dell’uomo, la paradossalità di questo versetto, che , mentre avvicina l’uomo alla fonte stessa della parola creatrice, anche lo ricaccia, insieme a tale fonte, nel più profondo dell’indicibilità, o meglio, di ciò che può essere detto sempre e solo per tentativi ed approssimazione. Il tutto senza che si possa confondere il « Dio nascosto » con « l’uomo nascosto », visto che il restare nascosto dell’uomo a se stesso si fonda sul restare nascosto di Dio anche nella sua rivelazione, che sempre custodisce la propria apertura a nuove possibilità e la difende da ogni pretesa dogmatica del già raggiunto e definito.

Dio e …compagni
E del resto non solo uomo e Dio si rivelano protagonisti problematici della loro storia, dal momento che non si possono presentare sulla sua scena col piglio hollywoodiano dell’eroe a tutto tondo, subito riconoscibile tra comprimari e comparse, perché la loro identità è in formazione e in larga parte ancora da rifinire, ma giocano spesso ruoli confusamente conflittuali, quando non addirittura anti-eroici, di chi cioè sembra ben più protagonista nel patire che nell’agire.
Quante volte nella Bibbia Dio rivendica a sé il carico di tutta la storia, la responsabilità decisiva dell’azione e rinfaccia all’uomo, oltre che i suoi errori, anche la sua falsa pretesa di sapere e volere ciò che nella sua storia gli accade?!. Basti per tutte il capitolo 48 di Isaia dove Dio, prima ricorda ad Israele di avere predetto le cose accadute, perché lui non vantasse: « L’idolo fatto con le mie mani me le ha procurate », poi gli presenta, già belle pronte, delle novità assolute, « create ora e non da tempo! », perché non vanti: « Già le conoscevo » (Is 48, 3-7).
Quante altre l’uomo rimprovera Dio di non essere pari alle sue responsabilità e alle sue promesse, di non essere presente agli eventi della storia, di trascurare i suoi doveri, con gli accenti che ritroviamo nell’incipit di Abacuc: « Quante volte, Signore, implorerò e non ascolti, a te griderò ‘violenza’ e non soccorri? ».Dove è Dio quando, colui che egli stesso ha proclamato « Il figlio suo prediletto » agonizza sulla croce, gridandogli il suo abbandono? Dovremo confessare con l’ebreo di Auschiwtz che Dio sta lì appeso alla forca, vittima con le vittime, ben più che eroe con gli eroi?
Il che potrebbe anche spingerci a confessare che non ci offre una vera immagine di Dio e quindi dell’uomo « quel teologo che cerca di comprendere i misteri di Dio per mezzo delle meraviglie del creato, ma quello che contempla faccia e dorso di Dio nel corpo e nel volto del Crocefisso » (Martin Lutero). Ma, affinché questa confessione non suoni mistica, pia od ossessivamente dolorista, forse è bene completarla col rimando al grande ruolo, che da questo punto di vista, hanno nella Bibbia quegli elenchi noiosissimi di padri e figli, per più versi illeggibili ed incommentabili, che abbondano agli inizi del Pentateuco (Gn 4, 17-24; 5,1-32; 10, 1-32; 11, 10-32) e, significativamente, ritornano nei vangeli dell’infanzia (Mt 1, 1-17; Lc 2, 23-38). Qui è l’uomo che, attraverso l’albero genealogico, cerca di darsi continuità oltre la morte per reggere in qualche modo il confronto con Dio come protatonista della storia. Ebbene, qui, per quanto a campioni, nessuno è escluso, né eroi né vittime, né buoni né cattivi, né uomini né donne, compresi ladri e prostitute, adulteri e guerrieri, assassini e uomini giusti, fino ed oltre il Crocefisso e i suoi pescatori, pubblicani e persecutori. Tutti diventati « Parola di Dio » e suoi compagni d’avventura.

DICE LA PAROLA

Dio e uomo,
compagni
nella storia,
Mai sapranno
chi sono
se incontrandosi
non si riconosceranno.
Io, con loro,
da sempre,
incompiuta,
sarò così
sulla bocca dei due
un triplice « Santo ».
« Santo Santo Santo.
Totalmente Altro
in te mi riconosco
e ti amo,
come e più che carne
della mia carne
e ossa. »
Staremo, allora,
tutti e tre sospesi
nel silenzio
del bacio.

Aldo Bodrato

Publié dans:BIBBIA, letteratura |on 6 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

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