SAPIENZA 11,22-12,2 (prima lettura di domenica 31ma T.O.)
http://www.nicodemo.net/NN/ms_pop_vedi1.asp?ID_festa=252
SAPIENZA 11,22-12,2
22 Signore, tutto il mondo davanti a te, è come polvere sulla bilancia,
come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra.
23 Hai compassione di tutti, perché tutto tu puoi,
non guardi ai peccati degli uomini, in vista del pentimento.
24 Poiché tu ami tutte le cose esistenti
e nulla disprezzi di quanto hai creato;
se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure creata.
25 Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi?
O conservarsi se tu non l’avessi chiamata all’esistenza?
26 Tu risparmi tutte le cose,
perché tutte son tue, Signore, amante della vita,
12,1poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose.
2 Per questo tu castighi poco alla volta i colpevoli
e li ammonisci ricordando loro i propri peccati,
perché, rinnegata la malvagità, credano in te, Signore.
COMMENTO
Sapienza 11,23 – 12,2
La misericordia di Dio
Il libro alessandrino della Sapienza si divide in tre parti. Nella prima si presenta la sapienza come speranza del giusto (1,1-6,25); nella seconda si descrive la natura della sapienza (7,1-10,21); infine nella terza si racconta l’opera della sapienza nella storia della salvezza (11,1–19,22). Quest’ultima parte è una riflessione (midrash) sulle vicende riguardanti l’uscita degli israeliti dall’Egitto, così come sono narrate nel libro dell’Esodo. Dopo un’introduzione (11,1-3) nella quale si indica il tema dell’assistenza prestata dalla sapienza agli israeliti «per mezzo di un santo profeta», Mosè, l’autore elabora sette dittici, in cui contrappone il comportamento di Dio nei confronti degli israeliti a quello da lui riservato agli egiziani. Nel primo dittico (11,4-14), dopo aver enunciato il principio generale secondo il quale Dio punisce i malvagi servendosi degli stessi elementi con cui viene in aiuto ai giusti, la sua attenzione si focalizza sul primo tema, quello dell’acqua che, trasformata in sangue per punire gli egiziani, è fatta scaturire dalla roccia per dissetare gli israeliti. A questo punto si inseriscono due digressioni riguardanti rispettivamente il modo di agire di Dio nella storia (11,15 – 12,27) e l’assurdità dell’idolatria (13,1 – 15,19). Infine l’autore riprende la serie dei dittici riguardanti i fatti dell’esodo (16,1-19,9). Il midrash termina alcune riflessioni conclusive (19,10-21).
Nella prima digressione successiva al primo dittico l’autore mette in luce la moderazione di Dio nei confronti degli egiziani (11,15 – 12,2) e dei cananei (12,3-18). Alla fine dal comportamento divino si ricava una lezione di vita per Israele (12,19-27). Il testo liturgico riporta gli ultimi versetti riguardanti la moderazione di Dio verso gli egiziani. In essi l’autore esprime il suo pensiero rivolgendosi direttamente a Dio in forma di preghiera. Si noti che la liturgia segue la numerazione latina, che è superiore di un numero a quella greca.
Nei versetti precedenti (11,18-22) l’autore aveva sottolineato come, in forza della sua onnipotenza, Dio avrebbe potuto colpire a suo piacimento i peccatori. Il potere divino che si estende a tutte le cose, viene da lui sintetizzato nella prima frase del testo liturgico: «Tutto il mondo infatti davanti a te è come polvere sulla bilancia, come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra» (11,23). Ma in contrasto con tutto ciò, egli afferma che Dio agisce, sì, ma con misericordia: «Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento» (11,24). Dio compatisce tutti (cfr. Sir 18,13) proprio perché è onnipotente (cfr. Sap 12,16). L’amore di Dio verso la creazione, si manifesta soprattutto nei confronti degli esseri umani. Egli infatti chiude gli occhi sui loro peccati, cioè li perdona: solo chi detiene il potere può esercitare la grazia del perdono. Lo scopo di tale amore è quello di portare l’uomo peccatore alla conversione (cfr. Ez 33,11; 2Pt 3,9; Rm 2,4).
Dopo aver affermato in via di principio la compassione divina, l’autore ne spiega il motivo: «Tu infatti ami tutte le cose che esistono e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure formata» (11,25). L’unico movente della creazione è stato la bontà di Dio: il suo amore perciò si esercita verso tutti gli esseri così come essi sono, escludendo qualsiasi tipo di odio, avversione, disprezzo e indifferenza. E questo fin da prima della creazione, poiché se Dio avesse avuto avversione per qualcosa non l’avrebbe neppure creata.
L’argomentazione procede poi con due domande retoriche: «Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non l’avessi voluta? Potrebbe conservarsi ciò che da te non fu chiamato all’esistenza?» (11,26). Naturalmente la risposta è negativa. Gli esseri di questo mondo non esisterebbero se Dio non li avesse creati e non potrebbero sussistere se Dio non avesse cura di loro. L’amore di Dio per le sue creature non è dunque un amore statico, che si è manifestato una sola volta, nel passato, o che si ferma unicamente alla contemplazione della sua opera; al contrario, l’amore di Dio è attuale, in quanto si rivela in una creazione continua. Il fatto che le creature permangano nell’esistenza, e che si conservino nella loro molteplicità in modo attivo e misterioso, è la prova più tangibile dell’amore continuo di Dio. Ciò dimostra la radicale e continua dipendenza delle creature dal loro Creatore; la sua sovranità e il suo influsso non annullano proprietà e leggi della natura, né le rendono divine nel senso panteistico, bensì le fanno essere ciò che sono.
Lo stesso principio dell’amore di Dio per le sue creature è ripetuto subito dopo con espressioni diverse: «Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita (11,27). Torna qui il tema della clemenza (cfr. 11,24); questa volta, però, oggetto della bontà, della cura o del perdono divino sono tutte le cose, proprietà di Dio. Il fondamento di questa affermazione è stato dato nei versetti precedenti: Dio è creatore di tutto, è il Signore. Egli si qualifica perciò come «amico della vita»: nel linguaggio comune questa espressione si riferisce a colui che ama la propria vita, in senso piuttosto peggiorativo, in quanto implica la paura di morire. Applicato a Dio, ha qui il senso di amore per la vita degli altri, cioè di tutti gli esseri viventi.
Un’altra ragione dell’amore di Dio per tutte le creature è indicata nel versetto seguente: «Poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose» (12,1). Lo spirito o soffio divino, incorruttibile e imperituro come Dio stesso, è presente in tutti e in tutte le cose. L’autore aveva già affermato l’idea della presenza vivificante di Dio in tutte le cose per mezzo del suo spirito, identificato con la sapienza (cfr. Sap 1,7; 7,22.24 e 8,1). Il principio della vita, il soffio vitale, viene da Dio; il suo spirito anima ogni vivente: se Dio lo ritira, tutto perisce (cfr. Gn 2,7; 6,3; Gb 27,3; 33,4; 34,14-15; Qo 12,7). Il salmista estende l’azione dello spirito a tutte le cose (cfr. Sal 104,29-30). Nell’ambiente alessandrino questo modo di pensare non poteva destare meraviglia, poiché era nota la concezione stoica di Dio come anima del mondo, come spirito che tutto penetra. L’autore sa cogliere l’aspetto positivo delle dottrine contemporanee, liberandolo dalla loro connotazione panteistica e servendosene per arricchire il pensiero biblico.
La riflessione giunge a termine con una considerazione sulla pedagogia divina nei confronti dei peccatori: «Per questo tu correggi a poco a poco quelli che sbagliano e li ammonisci ricordando loro in che cosa hanno peccato, perché, messa da parte ogni malizia, credano in te, Signore» (12,2). Certamente Dio punisce coloro che sbagliano, li ammonisce con prove e sofferenze, ma non lo fa tutto d’un colpo, bensì a poco a poco, in modo da dare loro la possibilità di rendersi conto dei loro sbagli e di cambiare vita; il tema è quello della pazienza divina che sa attendere e da tempo al peccatore perché possa giungere alla conversione. In Dio quindi il castigo è sempre medicinale, tende alla salvezza e non alla preservazione dell’ordine costituito e tanto meno alla vendetta. Nella sua pedagogia, Dio vuole staccare il peccatore dalla sua malvagità, conquistarne nuovamente la fiducia, e portarlo alla dedizione totale e assoluta verso di sé, cioè alla fede. La pericope termina con il vocativo «Signore», invocazione rispettosa e fiduciosa nei confronti di colui che è creatore e che tutto può, ma che è anche misericordioso.
Linee interpretative
In questo brano si sviluppa il secondo polo del binomio onnipotenza-misericordia di Dio. L’autore parla con Dio, in stile dialogico, dei motivi della sua benignità che si manifesta nel suo modo di agire verso tutti gli uomini. Egli vuole mostrare come la benevolenza di Dio non è effetto di debolezza, ma si basa sulla sua stessa onnipotenza. Un potente di questo mondo è ingiusto perché ambisce maggior potere, teme di perderlo, è dominato dall’avidità, dal timore; è rigido perché non ama il colpevole, teme che gli sfugga. Soprattutto la giustizia umana tende alla conservazione dell’ordine stabilito, colpendo con una pena vendicativa colui che lo trasgredisce.
Dio invece ha il potere supremo non teme nulla, non deve render conto a nessuno, ama i colpevoli, ha tempo, non sbaglia mai. Questi versetti sono un libero commentario alla professione liturgica: «Dio è clemente e compassionevole, paziente e misericordioso» (Es 34,6; Sal 86,15; 103,8; Nm 14,18). Da questo brano emerge dunque un insegnamento positivo e ottimistico. I giudizi storici hanno già reso testimonianza alla volontà salvifica di Dio, che solo in ultima istanza dà luogo al castigo finale. Ciò che l’autore afferma per l’umanità del suo tempo vale anche per quella di oggi: nella sua misericordia Dio vuole la salvezza di tutti e dà a tutti la possibilità di salvarsi. L’elezione di Israele e della Chiesa deve quindi essere vista sempre nel contesto di una salvezza messa a disposizione di tutti, senza eccezioni.

Vous pouvez laisser une réponse.
Laisser un commentaire
Vous devez être connecté pour rédiger un commentaire.