Archive pour le 1 novembre, 2013

Icona Russa per Tutti i Santi

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BENEDETTO XVI: 2 NOVEMBRE 2011 – LA COMMEMORAZIONE DI TUTTI I FEDELI DEFUNTI

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20111102_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

AULA PAOLO VI

MERCOLEDÌ, 2 NOVEMBRE 2011 – LA COMMEMORAZIONE DI TUTTI I FEDELI DEFUNTI

Cari fratelli e sorelle!

Dopo avere celebrato la Solennità di Tutti i Santi, la Chiesa ci invita oggi a commemorare tutti i fedeli defunti, a volgere il nostro sguardo a tanti volti che ci hanno preceduto e che hanno concluso il cammino terreno. Nell’Udienza di questo giorno, allora, vorrei proporvi alcuni semplici pensieri sulla realtà della morte, che per noi cristiani è illuminata dalla Risurrezione di Cristo, e per rinnovare la nostra fede nella vita eterna.
Come già dicevo ieri all’Angelus, in questi giorni ci si reca al cimitero per pregare per le persone care che ci hanno lasciato, quasi un andare a visitarle per esprimere loro, ancora una volta, il nostro affetto, per sentirle ancora vicine, ricordando anche, in questo modo, un articolo del Credo: nella comunione dei santi c’è uno stretto legame tra noi che camminiamo ancora su questa terra e tanti fratelli e sorelle che hanno già raggiunto l’eternità.
Da sempre l’uomo si è preoccupato dei suoi morti e ha cercato di dare loro una sorta di seconda vita attraverso l’attenzione, la cura, l’affetto. In un certo modo si vuole conservare la loro esperienza di vita; e, paradossalmente, come essi hanno vissuto, che cosa hanno amato, che cosa hanno temuto, che cosa hanno sperato e che cosa hanno detestato, noi lo sco­priamo proprio dalle tombe, davanti alle quali si affollano ricordi. Esse sono quasi uno specchio del loro mondo.
Perché è così? Perché, nonostante la morte sia spesso un tema quasi proibito nella nostra società, e vi sia il tentativo continuo di levare dalla nostra mente il solo pensiero della morte, essa riguarda ciascuno di noi, riguarda l’uomo di ogni tempo e di ogni spazio. E davanti a questo mistero tutti, anche inconsciamente, cerchiamo qualcosa che ci inviti a sperare, un segnale che ci dia consolazione, che si apra qualche orizzonte, che offra ancora un futuro. La strada della morte, in realtà, è una via della speranza e percorrere i nostri cimiteri, come pure leggere le scritte sulle tombe è compiere un cammino segnato dalla speranza di eternità.
Ma ci chiediamo: perché proviamo timore davanti alla morte? Perché l’umanità, in una sua larga parte, mai si è rassegnata a credere che al di là di essa non vi sia semplicemente il nulla? Direi che le risposte sono molteplici: abbiamo timore davanti alla morte perché abbiamo paura del nulla, di questo partire verso qualcosa che non conosciamo, che ci è igno­to. E allora c’è in noi un senso di rifiuto perché non possiamo accettare che tutto ciò che di bello e di grande è stato realizzato durante un’intera esistenza, venga improvvisamente cancellato, cada nell’abisso del nulla. Soprattutto noi sentiamo che l’amore richiama e chiede eternità e non è possibile accettare che esso venga distrutto dalla morte in un solo momento.
Ancora, abbiamo timore davanti alla morte perché, quando ci troviamo verso la fine dell’esistenza, c’è la percezione che vi sia un giudizio sulle nostre azioni, su come abbiamo condotto la nostra vita, soprattutto su quei punti d’ombra che, con abilità, sappiamo spesso rimuovere o tentiamo di rimuovere dalla nostra coscienza. Direi che proprio la questione del giudizio è spesso sottesa alla cura dell’uomo di tutti i tempi per i defunti, all’attenzione verso le persone che sono state significative per lui e che non gli sono più accanto nel cammino della vita terrena. In un certo senso i gesti di affetto, di amore che circondano il defunto, sono un modo per proteggerlo nella convinzione che essi non rimangano senza effetto sul giudizio. Questo lo possiamo cogliere nella maggior parte delle culture che caratterizzano la storia dell’uomo.
Oggi il mondo è diventato, almeno apparentemente, molto più razionale, o meglio, si è diffusa la tendenza a pensare che ogni realtà debba essere affrontata con i criteri della scienza sperimentale, e che anche alla grande questione della morte si debba rispondere non tanto con la fede, ma partendo da conoscenze sperimentabili, empiriche. Non ci si rende sufficientemente conto, però, che proprio in questo modo si è finiti per cadere in forme di spiritismo, nel tentativo di avere un qualche contatto con il mondo al di là della morte, quasi immaginando che vi sia una realtà che, alla fine, è sarebbe una copia di quella presente.
Cari amici, la solennità di tutti i Santi e la Commemorazione di tutti i fedeli defunti ci dicono che solamente chi può riconoscere una grande speranza nella morte, può an­che vivere una vita a partire dalla speranza. Se noi riduciamo l’uomo esclusivamente alla sua dimensione orizzontale, a ciò che si può percepire empiricamente, la stessa vita perde il suo senso profondo. L’uomo ha bisogno di eternità ed ogni altra speranza per lui è troppo breve, è troppo limitata. L’uomo è spiegabile solamente se c’è un Amore che superi ogni isolamento, anche quello della morte, in una totalità che trascenda anche lo spazio e il tempo. L’uomo è spiegabile, trova il suo senso più profondo, solamente se c’è Dio. E noi sappiamo che Dio è uscito dalla sua lontananza e si è fatto vicino, è entrato nella nostra vita e ci dice: «Io so­no la risurrezione e la vita; chi crede in me anche se muore vivrà; chiunque vive e crede in me non morirà in eterno» (Gv 11,25-26).
Pensiamo un momento alla scena del Calvario e riascoltiamo le parole che Gesù, dall’alto della Croce, rivolge al malfattore crocifisso alla sua destra: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23,43). Pensiamo ai due discepoli sulla strada di Emmaus, quando, dopo aver percorso un tratto di strada con Gesù Risorto, lo riconoscono e partono senza indugio verso Gerusalemme per annunciare la Risurrezione del Signore (cfr Lc 24,13-35). Alla mente ritornano con rinnovata chiarezza le parole del Maestro: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no non vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”?» (Gv 14,1-2). Dio si è veramente mostrato, è diventato accessibile, ha tanto amato il mondo «da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16), e nel supremo atto di amore della Croce, immergendosi nell’abisso della morte, l’ha vinta, è risorto ed ha aperto anche a noi le porte dell’eternità. Cristo ci sostiene attraverso la notte della morte che Egli stesso ha at­traversato; è il Buon Pastore, alla cui guida ci si può affidare sen­za alcuna paura, poiché Egli conosce bene la strada, anche attra­verso l’oscurità.
Ogni domenica, recitando il Credo, noi riaffermiamo questa verità. E nel recarci ai cimiteri a pregare con affetto e con amore per i nostri defunti, siamo invitati, ancora una volta, a rinnovare con coraggio e con forza la nostra fede nella vita eterna, anzi a vivere con questa grande speranza e testimoniarla al mondo: dietro il presente non c’è il nulla. E proprio la fede nella vita eterna dà al cristiano il coraggio di amare ancora più intensamente questa nostra terra e di lavorare per costruirle un futuro, per darle una vera e sicura speranza. Grazie.

SAPIENZA 11,22-12,2 (prima lettura di domenica 31ma T.O.)

http://www.nicodemo.net/NN/ms_pop_vedi1.asp?ID_festa=252

SAPIENZA 11,22-12,2

22 Signore, tutto il mondo davanti a te, è come polvere sulla bilancia,
come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra.

23 Hai compassione di tutti, perché tutto tu puoi,
non guardi ai peccati degli uomini, in vista del pentimento.

24 Poiché tu ami tutte le cose esistenti
e nulla disprezzi di quanto hai creato;
se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure creata.
25 Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi?
O conservarsi se tu non l’avessi chiamata all’esistenza?

26 Tu risparmi tutte le cose,
perché tutte son tue, Signore, amante della vita,
12,1poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose.

2 Per questo tu castighi poco alla volta i colpevoli
e li ammonisci ricordando loro i propri peccati,
perché, rinnegata la malvagità, credano in te, Signore.

COMMENTO
Sapienza 11,23 – 12,2

La misericordia di Dio
Il libro alessandrino della Sapienza si divide in tre parti. Nella prima si presenta la sapienza come speranza del giusto (1,1-6,25); nella seconda si descrive la natura della sapienza (7,1-10,21); infine nella terza si racconta l’opera della sapienza nella storia della salvezza (11,1–19,22). Quest’ultima parte è una riflessione (midrash) sulle vicende riguardanti l’uscita degli israeliti dall’Egitto, così come sono narrate nel libro dell’Esodo. Dopo un’introduzione (11,1-3) nella quale si indica il tema dell’assistenza prestata dalla sapienza agli israeliti «per mezzo di un santo profeta», Mosè, l’autore elabora sette dittici, in cui contrappone il comportamento di Dio nei confronti degli israeliti a quello da lui riservato agli egiziani. Nel primo dittico (11,4-14), dopo aver enunciato il principio generale secondo il quale Dio punisce i malvagi servendosi degli stessi elementi con cui viene in aiuto ai giusti, la sua attenzione si focalizza sul primo tema, quello dell’acqua che, trasformata in sangue per punire gli egiziani, è fatta scaturire dalla roccia per dissetare gli israeliti. A questo punto si inseriscono due digressioni riguardanti rispettivamente il modo di agire di Dio nella storia (11,15 – 12,27) e l’assurdità dell’idolatria (13,1 – 15,19). Infine l’autore riprende la serie dei dittici riguardanti i fatti dell’esodo (16,1-19,9). Il midrash termina alcune riflessioni conclusive (19,10-21).
Nella prima digressione successiva al primo dittico l’autore mette in luce la moderazione di Dio nei confronti degli egiziani (11,15 – 12,2) e dei cananei (12,3-18). Alla fine dal comportamento divino si ricava una lezione di vita per Israele (12,19-27). Il testo liturgico riporta gli ultimi versetti riguardanti la moderazione di Dio verso gli egiziani. In essi l’autore esprime il suo pensiero rivolgendosi direttamente a Dio in forma di preghiera. Si noti che la liturgia segue la numerazione latina, che è superiore di un numero a quella greca.
Nei versetti precedenti (11,18-22) l’autore aveva sottolineato come, in forza della sua onnipotenza, Dio avrebbe potuto colpire a suo piacimento i peccatori. Il potere divino che si estende a tutte le cose, viene da lui sintetizzato nella prima frase del testo liturgico: «Tutto il mondo infatti davanti a te è come polvere sulla bilancia, come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra» (11,23). Ma in contrasto con tutto ciò, egli afferma che Dio agisce, sì, ma con misericordia: «Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento» (11,24). Dio compatisce tutti (cfr. Sir 18,13) proprio perché è onnipotente (cfr. Sap 12,16). L’amore di Dio verso la creazione, si manifesta soprattutto nei confronti degli esseri umani. Egli infatti chiude gli occhi sui loro peccati, cioè li perdona: solo chi detiene il potere può esercitare la grazia del perdono. Lo scopo di tale amore è quello di portare l’uomo peccatore alla conversione (cfr. Ez 33,11; 2Pt 3,9; Rm 2,4).
Dopo aver affermato in via di principio la compassione divina, l’autore ne spiega il motivo: «Tu infatti ami tutte le cose che esistono e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure formata» (11,25). L’unico movente della creazione è stato la bontà di Dio: il suo amore perciò si esercita verso tutti gli esseri così come essi sono, escludendo qualsiasi tipo di odio, avversione, disprezzo e indifferenza. E questo fin da prima della creazione, poiché se Dio avesse avuto avversione per qualcosa non l’avrebbe neppure creata.
L’argomentazione procede poi con due domande retoriche: «Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non l’avessi voluta? Potrebbe conservarsi ciò che da te non fu chiamato all’esistenza?» (11,26). Naturalmente la risposta è negativa. Gli esseri di questo mondo non esisterebbero se Dio non li avesse creati e non potrebbero sussistere se Dio non avesse cura di loro. L’amore di Dio per le sue creature non è dunque un amore statico, che si è manifestato una sola volta, nel passato, o che si ferma unicamente alla contemplazione della sua opera; al contrario, l’amore di Dio è attuale, in quanto si rivela in una creazione continua. Il fatto che le creature permangano nell’esistenza, e che si conservino nella loro molteplicità in modo attivo e misterioso, è la prova più tangibile dell’amore continuo di Dio. Ciò dimostra la radicale e continua dipendenza delle creature dal loro Creatore; la sua sovranità e il suo influsso non annullano proprietà e leggi della natura, né le rendono divine nel senso panteistico, bensì le fanno essere ciò che sono.
Lo stesso principio dell’amore di Dio per le sue creature è ripetuto subito dopo con espressioni diverse: «Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita (11,27). Torna qui il tema della clemenza (cfr. 11,24); questa volta, però, oggetto della bontà, della cura o del perdono divino sono tutte le cose, proprietà di Dio. Il fondamento di questa affermazione è stato dato nei versetti precedenti: Dio è creatore di tutto, è il Signore. Egli si qualifica perciò come «amico della vita»: nel linguaggio comune questa espressione si riferisce a colui che ama la propria vita, in senso piuttosto peggiorativo, in quanto implica la paura di morire. Applicato a Dio, ha qui il senso di amore per la vita degli altri, cioè di tutti gli esseri viventi.
Un’altra ragione dell’amore di Dio per tutte le creature è indicata nel versetto seguente: «Poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose» (12,1). Lo spirito o soffio divino, incorruttibile e imperituro come Dio stesso, è presente in tutti e in tutte le cose. L’autore aveva già affermato l’idea della presenza vivificante di Dio in tutte le cose per mezzo del suo spirito, identificato con la sapienza (cfr. Sap 1,7; 7,22.24 e 8,1). Il principio della vita, il soffio vitale, viene da Dio; il suo spirito anima ogni vivente: se Dio lo ritira, tutto perisce (cfr. Gn 2,7; 6,3; Gb 27,3; 33,4; 34,14-15; Qo 12,7). Il salmista estende l’azione dello spirito a tutte le cose (cfr. Sal 104,29-30). Nell’ambiente alessandrino questo modo di pensare non poteva destare meraviglia, poiché era nota la concezione stoica di Dio come anima del mondo, come spirito che tutto penetra. L’autore sa cogliere l’aspetto positivo delle dottrine contemporanee, liberandolo dalla loro connotazione panteistica e servendosene per arricchire il pensiero biblico.
La riflessione giunge a termine con una considerazione sulla pedagogia divina nei confronti dei peccatori: «Per questo tu correggi a poco a poco quelli che sbagliano e li ammonisci ricordando loro in che cosa hanno peccato, perché, messa da parte ogni malizia, credano in te, Signore» (12,2). Certamente Dio punisce coloro che sbagliano, li ammonisce con prove e sofferenze, ma non lo fa tutto d’un colpo, bensì a poco a poco, in modo da dare loro la possibilità di rendersi conto dei loro sbagli e di cambiare vita; il tema è quello della pazienza divina che sa attendere e da tempo al peccatore perché possa giungere alla conversione. In Dio quindi il castigo è sempre medicinale, tende alla salvezza e non alla preservazione dell’ordine costituito e tanto meno alla vendetta. Nella sua pedagogia, Dio vuole staccare il peccatore dalla sua malvagità, conquistarne nuovamente la fiducia, e portarlo alla dedizione totale e assoluta verso di sé, cioè alla fede. La pericope termina con il vocativo «Signore», invocazione rispettosa e fiduciosa nei confronti di colui che è creatore e che tutto può, ma che è anche misericordioso.

Linee interpretative
In questo brano si sviluppa il secondo polo del binomio onnipotenza-misericordia di Dio. L’autore parla con Dio, in stile dialogico, dei motivi della sua benignità che si manifesta nel suo modo di agire verso tutti gli uomini. Egli vuole mostrare come la benevolenza di Dio non è effetto di debolezza, ma si basa sulla sua stessa onnipotenza. Un potente di questo mondo è ingiusto perché ambisce maggior potere, teme di perderlo, è dominato dall’avidità, dal timore; è rigido perché non ama il colpevole, teme che gli sfugga. Soprattutto la giustizia umana tende alla conservazione dell’ordine stabilito, colpendo con una pena vendicativa colui che lo trasgredisce.
Dio invece ha il potere supremo non teme nulla, non deve render conto a nessuno, ama i colpevoli, ha tempo, non sbaglia mai. Questi versetti sono un libero commentario alla professione liturgica: «Dio è clemente e compassionevole, paziente e misericordioso» (Es 34,6; Sal 86,15; 103,8; Nm 14,18). Da questo brano emerge dunque un insegnamento positivo e ottimistico. I giudizi storici hanno già reso testimonianza alla volontà salvifica di Dio, che solo in ultima istanza dà luogo al castigo finale. Ciò che l’autore afferma per l’umanità del suo tempo vale anche per quella di oggi: nella sua misericordia Dio vuole la salvezza di tutti e dà a tutti la possibilità di salvarsi. L’elezione di Israele e della Chiesa deve quindi essere vista sempre nel contesto di una salvezza messa a disposizione di tutti, senza eccezioni.

3 NOVEMBRE 2013 | 31A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C: LECTIO DIVINA SU: LC 19,1-10

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3 NOVEMBRE 2013  | 31A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C  |  PROPOSTA DI LECTIO DIVINA

LECTIO DIVINA SU: LC 19,1-10

Frequentemente, durante il suo ministero pubblico, si poteva vedere Gesù, accompagnato da persone di dubbia reputazione. Era tanto normale che frequentasse cattive compagnie che questo metteva a disagio i suoi discepoli, perplessi dinanzi a simile comportamento, e dava motivi per una dura critica da parte dei suoi avversari, che non potevano capire che un uomo buono potesse convivere con dei malviventi. E se era già abbastanza imbarazzante che Gesù si lasciasse accompagnare da persone non molto buone, risultava ancora peggio che le cercasse appositamente. Oggi il vangelo ci ricorda questo comportamento scioccante di Gesù, che entra in una importante città e sceglie come ospite un noto peccatore. Faremmo male a considerare questo episodio come un semplice aneddoto storico, come se narrasse solo l’incontro casuale di Gesù con un capo dei pubblicani. In realtà, per quanti desideriamo incontrarci un giorno con Gesù, e trovare in lui la nostra salvezza, il racconto ci offre un grande avvertimento e ci parla, nello stesso tempo, di una grande opportunità. E di come approfittarne.

In quel tempo, 1Gesù entrò a Gerico, e attraversava la città.
2Un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, 3cercava di distinguere chi era Gesù, ma le persone glielo impedivano perché era piccolo di statura. 4Corse più avanti e salì su un sicomoro per vederlo, perché doveva passare da lì.
5 Gesù, arrivato in quel luogo, alzò gli occhi e disse: « Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua ».
6 Scese, lo seguì e lo accolse con gioia. 7Al veder questo, tutti mormoravano, dicendo: « È andato ospite di un peccatore ».
8 Ma Zaccheo, in piedi, disse al Signore: « Guarda, la metà dei miei beni, Signore, la do ai poveri; e se ho approfittato di qualcuno, restituisco quattro volte tanto ».
9 Gesù gli rispose: – « Oggi la salvezza è entrata in questa casa; anche costui è un figlio di Abramo.
10 Perché il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto ».
 1. LEGGERE: capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice

Avvicinandosi a Gerusalemme (Lc 19,28) e vicino già alla morte, destino finale del suo camminare, Gesù passa da Gerico, suscitando aspettative tra i suoi abitanti. Luca si sofferma a narrare su uno di loro, personaggio importante, anche se non molto popolare tra i suoi concittadini. Prima narra, non senza ironia, l’interesse e l’ingegno che spingono Zaccheo per poter vedere Gesù; essendo piccolo di statura e poco stimato, non era facile trovare un buon posto; e non disdegna il ridicolo di salire su un albero, perché è « da lì che deve passare » Gesù (Lc 19,4). A Gesù non passa inosservata tanta curiosità; « alzando gli occhi » vede Zaccheo e, fermatosi, si fa invitare da lui (Lc 19,5). Zaccheo aveva fatto di tutto per veder passare Gesù e…fu Gesù che lo vide arrampicato sul fico! Zaccheo cercava di scorgere chi era Gesù e Gesù lo scorse facendosi suo ospite. Durante tutto l’episodio, il protagonista non è Zaccheo, ma Gesù: è Gesù che passa per Gerico e che sceglie dove farsi ospitare. E’ lui che alza gli occhi e vede chi tanto si era sforzato di vederlo; e sarà Gesù che alla fine giustifica la sua decisione di alloggiare nella casa di Zaccheo: la sua presenza porta con sé la salvezza a questa casa. Per questo, malgrado le mormorazioni, è venuto lì.
Benché alla fine del racconto, Luca sveli così il proposito ultimo di Gesù nel suo passaggio per Gerico (Lc 19,10: cercare e salvare ciò che era perduto), non si deve far passare inosservato questo particolare: affinché Gesù scelga di essere nostro ospite, bisogna mettersi lì dove passerà. Il Gesù incontrato è quello che prima è stato cercato con ansia. Chi ha Gesù in casa, ha il cuore pieno di gioia. Zaccheo, capo degli esattori delle tasse in una città importante è un uomo molto conosciuto e poco apprezzato. La decisione di Gesù di essere suo ospite non è compresa da « tutti »: non è facile comprendere che un illustre visitatore scelga un riconosciuto peccatore come anfitrione. Però né Gesù né Zaccheo, sembrano preoccuparsi del malessere dei cittadini; o non gliene importa. Oltre la gioia di averlo in casa, Zaccheo sente che deve dare una gioia ai poveri e a coloro che lui aveva maltrattato. Il dono della metà dei beni e la restituzione, quadruplicata, di ciò che aveva rubato è, contante e suonante, la misura della sua conversione (Lc 19,8). L’inattesa e inspiegabile presenza di Gesù in casa di Zaccheo gli riempì innanzitutto il cuore di gioia e poi di generosità verso i derelitti. Gesù, se ospite cercato, porta con sé la salvezza. E la salvezza che lui porta, oltre a beneficiare colui che la riceve, si estende ai più bisognosi. In realtà per questo, solo per questo, solo per chi lo voleva vedere, è passato per Gerico ed è entrato in casa di Zaccheo.

 2. MEDITARE: APPLICARE ALLA VITA QUELLO CHE DICE IL TESTO!
Non è la prima volta che Gesù non evita « le cattive compagnie », quando si tratta di avvicinare il Regno di Dio al cuore dell »uomo (Lc 5,27-32; 15,1-3). Questa volta Gesù si comporta in modo diverso: all’entrata di un paese, si fa invitare da una persona di cattiva reputazione; non è che non evita i cattivi, è che li cerca e vuole stare con loro. Malgrado lo scandalo che provoca, onora con la sua presenza la casa di un peccatore pubblico: Gesù non vuole scontri inutili con i buoni, vuole fare il bene a chi non è buono del tutto. Curioso questo Gesù che per fare il bene a un cattivo sopporta l’incomprensione di tutti e la maldicenza dei buoni! Osa provocare tutto il paese facendosi ospite nella casa del principale esattore delle tasse. Doveva avere una ragione molto buona per fare una scelta tanto discussa. E’ molto probabile che chi si sente già buono quando si avvicina a Gesù, non riesca ad averlo mai come ospite in casa. Zaccheo era capo di pubblicani, un esattore di tasse di un certo rango. Logicamente la sua professione non era molto popolare; ancor più, era considerata peccaminosa perché ingiusta. I pubblicani erano soliti arricchirsi con il denaro che esigevano agli altri. Ed è che il sistema di riscossione di quel tempo era tanto semplice come ingiusto: il re incaricava per la riscossione delle tasse un uomo ricco; così gli restava assicurata l’entrata di una certa quantità annuale; questo, a sua volta, affidava ad altri la concessione ricevuta per un prezzo maggiore di quello che doveva consegnare. La catena di intermediari si moltiplicava, moltiplicandosi anche i guadagni e l’ingiustizia: alla fine, il popolo pagava più del dovuto e doveva subire giornalmente l’affronto di vedere che la loro povertà alimentava la crescente ricchezza dei pubblicani. Se così stavano le cose, non c’era nulla di più logico che, quando hanno visto l’entrata di Gesù a Gerico, mormorassero per l’ardire di Gesù nel forzare l’invito del capo dei pubblicani della città. Se almeno fosse partita da Zaccheo l’iniziativa…, ma risultava inconcepibile che Gesù scegliesse, per ospitarsi, la casa di un uomo tanto disprezzato, non già per la sua ricchezza quanto per il modo in cui l’aveva accumulata. Senza negar loro la ragione che hanno, con la sua risposta Gesù dà ragione del suo comportamento: lui si deve dare a chi ne sente il bisogno, è venuto a cercare chi è smarrito, a salvare chi si sente perduto. E’ ovvio che Zaccheo non era un santo. Perfino lui lo sapeva. Proprio per questo Gesù ha preferito la sua casa e la sua ospitalità; la sua presenza gli permette di avere un’opportunità, la sua convivenza gli avvicinerà il Regno. E Zaccheo, che sapeva bene che l’origine delle sue ricchezze era l’origine della sua ingiustizia, approfittò di una visita di Gesù nella sua casa, una casuale visita che lui stesso non aveva previsto, per rinunciare alla metà dei suoi beni e restituire con gli interessi a coloro che aveva defraudato; avendo Gesù con sé, in casa, seppe mettere a disposizione dei poveri e di quanti aveva ingannato, i suoi beni, pur di stare bene con Dio. Per non avendo sprecato l’occasione che un invito di Gesù gli offriva, ricevendolo nella sua casa e ponendo a sua disposizione quanto possedeva, Zaccheo tornò ad essere il figlio di Abramo che Dio aveva creato e amato. Non lo intimorirono le maldicenze dei suoi paesani, gli bastò sentire il desiderio di Gesù di alloggiarsi a casa sua; gli importò di più il desiderio di Gesù che l’opinione dei suoi avversari. Ciò che era iniziata come semplice curiosità dinanzi a ciò che era sconosciuto, finì con la determinazione di saldare il suo debito di giustizia. Solo chi lo ha accolto di cuore, è uscito dal suo peccato. Coloro che, invece, si credevano sufficientemente buoni per poter criticare il comportamento di Gesù, dovettero sorprendersi nell’udirlo dire che, in Gerico, solo Zaccheo aveva ottenuto la salvezza di Dio. E il fatto è che, -qui risiede l’avvertimento che Gesù ci fa-, chi si crede buono solo perché può, anche se ha tutte le ragioni, disprezzare quanti non sanno nascondere la loro malizia, è sempre sul punto di perdere Dio; chi non riconosce che nessuno, nemmeno lui stesso, è degno di Dio, mai si incontrerà con lui; chi crede di meritare Gesù e la sua visita, mai lo accoglierà nella sua casa. Non è solito Gesù, e il vangelo di oggi ne è una prova, incontrarsi solo con coloro che se lo meritano; Dio non alloggia tra quelli che, per quanto buoni, non sentono il bisogno di lui; chi si è abituato a Dio tanto che il suo passaggio non gli provoca curiosità, chi non fa niente di straordinario per avvicinarsi a Dio e vederlo più da vicino, non sarà il prescelto quando Dio verrà; quanti sono sicuri dell’invito di Dio, di solito non saranno, con loro sorpresa, tra i prescelti. Perderemo Dio, non tanto perché, disgraziatamente, siamo cattivi, ma perché ci illudiamo di essere buoni. Non sarebbe male che finalmente imparassimo: perché il Signore ci visiti, non bisogna essere molto buoni, quanto piuttosto non ci si deve sentire migliori degli altri. Però se Gesù non si sofferma su quanto gli altri pensano di noi, se neanche è necessario essere previamente buoni, ce lo ha reso realmente facile. Ed è stata questa l’occasione di Zaccheo e la nostra, se ne sappiamo trarre profitto. Nessuno è troppo indegno di Dio, tranne quando si crede già degno; tutti possiamo farci l’illusione di sentire un giorno la richiesta di Gesù perché lo invitiamo ad entrare in casa; per noi non deve farsi penoso un incontro con Dio che si verificherà lì dove abitiamo, né è umiliante una conversione che inizia quando Dio è nostro ospite; lasciandosi servire non ha reso più facile il servizio che gli dobbiamo.
Non è temibile un perdono che ci viene concesso quando permettiamo che Dio alloggi insieme a noi: Gesù ci salva se ne sentiamo la nostalgia, se sentiamo che ci manca, se otteniamo che condivida la casa; quando può disporre dei nostri beni, lui sarà la ragione del nostro benessere. Come lo è stato per Zaccheo. Però Zaccheo fece qualcosa di più che accogliere Gesù in casa sua: con lui in casa, seppe privarsi di quanto possedeva, la metà dei suoi beni, e restituire ciò che secondo giustizia non gli apparteneva, il quadruplo di quanto aveva defraudato. La sua salvezza è stata autentica, perché lo salvò dai suoi mali, quei mali la cui prova evidente erano i suoi beni ingiusti. Ed è che, chi convive veramente con Gesù, anche se una sola volta, deve lasciare di convivere con tutto ciò che lo separa da lui. Non meritò la visita Zaccheo, però dovette pagare un prezzo per essa; non glielo ha imposto Gesù, lo scoprì avendolo vicino.
Non si sa se ammirare più il bisogno di salvezza di Zaccheo o il bisogno di Gesù di salvare. Però perché Abramo recuperi un figlio e Dio salvi un focolare, è necessario accogliere Gesù nella propria casa, in famiglia. E non tanto perché abbiamo bisogno di essere salvati (Zaccheo voleva solo conoscere da lontano Gesù, e nemmeno incontrarlo personalmente), quanto perché a Gesù lo spinge, lo motiva e lo « commuove », la nostra salvezza. Sentiamo oggi il suo invito ad ospitarlo in casa e la nostra casa conoscerà la salvezza. Anche se non bisognerà dimenticare che lo ospitò non chi volle, né chi era migliore, ma chi è stato scelto…, perché aveva bisogno di essere salvato. Questo è il « prezzo » che pagò, per primo, Zaccheo: sapersi indegno di avere Gesù tra i suoi. La ricompensa è stata la gioia che ha inondato il suo cuore e la salvezza della quale si è riempita la sua casa. Però non solo… La vicinanza di Gesù portò Zaccheo a scoprire l’ingiustizia con la quale aveva accumulato la sua fortuna. Gesù non gli parlò di questo; lo scoprì Zaccheo quando ebbe Gesù in casa. La vicinanza di Gesù fece sì che Zaccheo ricordasse il suo peccato e si avvicinasse al bisogno dei poveri. Ci priviamo di Gesù tutte le volte in cui non siamo disposti ad ammettere i nostri peccati o/e a ricordarci dei poveri. Abbiamo bisogno di Gesù per essere vicini a coloro che hanno bisogno di noi. Così si realizza l’autentica salvezza. Prima che Gesù Proclami la sua salvezza, Zaccheo ha riconosciuto il suo peccato e ha proclamato la sua volontà di distribuire i suoi beni.
Non perdiamo oggi l’opportunità che un giorno ebbe Zaccheo, il capo dei pubblicani di Gerico: invitiamo Gesù a rimanere con noi, ad entrare nelle nostre case; Gesù non impose a Zaccheo di convertirsi per essere ospite in casa sua; però facendosi ospite la rese possibile. In ogni peccatore confesso Gesù trova una ragione per venirci incontro; non è il peccato ciò che lo allontana da noi, ma la negazione dello stesso. Non sono stati i buoni a ricevere in casa Gesù, perché si credevano degni; sono stati i buoni che hanno perduto Gesù quando si sono scandalizzati del suo comportamento. Benché la sua vita lasciasse a desiderare, Zaccheo non lasciò che Gesù passasse alla larga. Con lui è arrivata la conversione e il Regno. Non è stata gratis la visita: Zaccheo pagò un alto prezzo, però se lo impose lui stesso. I buoni perdono Gesù, per credersi buoni; i cattivi perdono i loro beni, quando riconoscono il loro peccato. Però Dio, e il Regno, si è avvicinato solo a chi Gesù aveva visitato. Perché impegnarci a sentirci buoni o a passare per tali, anche oggi, anche noi, se questo ci produce il non avere Gesù in casa e perdere l’occasione di fare il bene ai più bisognosi?

JUAN JOSE BARTOLOME sdb,

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